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SULL'ARBITRATO PRIVATO |
Relazione svolta nel settembre 1996 nel congresso romano di Studi latino-americani, pubblicata in Rivista dellarbitrato VI.1, 1996 (tradotta in lingua spagnola e pubblicata in Roma e America. Diritto romano comune. Rivista di diritto dellintegrazione e unificazione del diritto in Europa e in America Latina, 5, 1998) |
1. L'uso dei privati di affidare la decisione delle
controversie ad arbitri, al di fuori del processo o dei processi controllati
dagli organi della collettività, fu certamente a Roma molto antico. Su ciò,
nonostante manchino dirette testimonianze, non è possibile nutrire dubbi.
Pure se ormai giustamente non riscuote più credito l'idea che le vetuste legis
actiones abbiano avuto le loro lontane radici in una prassi arbitrale
privata (1), bisogna credere tuttavia
che il pretore abbia modellato il processo formulare che andava sorgendo per
suo impulso su un tipo di arbitrato, che non conosciamo (2), ma che possiamo bene supporre, per
ragionevole congettura, essere stato un arbitrato privato praticato a Roma
tra Romani e stranieri, o anche tra cives in ordine a rapporti che non
avevano avuto riconoscimento nell'àmbito delle legis actiones, ed in
cui giocava un ruolo di primo piano la bona fides (3). 2. Giova ricordare, a questo punto, che il pretore in un
tempo compreso tra la media e l'ultima età repubblicana diede tutela
giudiziaria in via di azione a talune mere convezioni diffuse nella prassi -
compravendita, locazione, società, mandato -, che saranno poi recepite nel ius
civile e qualificate "contratti consensuali". Si trattava di
convenzioni nelle quali le parti si affidavano ai quei criteri obbiettivi di
lealtà e correttezza, qualificati di bona fides, che erano comunemente
seguiti tra gli uomini di affari. Ebbene il pretore - lo sappiamo - non solo
riconobbe quelle convenzioni ma ne conservò sostanzialmente il regime; tant'è
che, nelle formule relative, quale metro per la determinazione dei diritti e
doveri delle parti volle che si indicasse al giudice la bona fides. Ebbene, può apparire singolare che invece il pretore non diede alcuna tutela alla mera convenzione con cui due parti avessero extragiudizialmente concordato di affidare a persona determinata e di comune fiducia la decisione di una loro controversia. Eppure si trattava di un tipo di convenzione lecita e meritevole di considerazione e che, almeno prima della creazione del processo formulare, era certamente diffusa tra la gente di affari e per la cui esecuzione ciascuna parte si rimetteva - non poteva essere diversamente - a nient'altro che alla fides dell'altra. Una
spiegazione potrebbe essere questa: l'arbitrato privato che si è supposto
essere stato preso a modello dal pretore per il nuovo processo fu assai per
tempo assorbito in esso: evidentemente il processo formulare - dove le parti
avevano un ruolo determinante nella scelta del giudice e nella fissazione dei
termini della lite - dovette dapprima non fare sentire l'esigenza di fare
ricorso ad un arbitrato meramente privato. 3.
Al riguardo bisogna però al contempo pensare ad un comprensibile maggior
«favore» del pretore nei riguardi del «suo» processo sicché, quando non molto
tempo dopo si manifestò nuovamente il desiderio insistente di privati di
ricorrere ad un arbitrato anziché al processo ufficiale, il pretore continuò
a negare protezione giudiziaria alla mera convenzione arbitrale. Ed ecco che
allora la giurisprudenza escogitò un complesso espediente: suggerì alle parti
di dare luogo a reciproche stipulationes penali per cui ciascuna parte
prometteva all'altra il pagamento di una somma determinata di denaro, appunto
una poena, qualora il promittente non avesse mantenuto l'impegno che a
decidere la controversia fosse un arbitro dalle stesse parti concordemente e
liberamente scelto. Si parlò al riguardo di compromittere e compromissum. Ora
la stipulatio era un negozio iure civili riconosciuto e
tutelato, la convenzione arbitrale indiscutibilmente lecita. Il pretore
pertanto non avrebbe potuto negare l'actio ex stipulatu alla parte
favorita dalla decisione arbitrale contro l'avversario che avesse tenuto un
comportamento ad essa contrario. In tal modo non era garantita in via diretta
l'esecuzione della sentenza; la minaccia della poena contrattuale - il
cui importo le parti avrebbero avuto cura di stabilire in misura adeguata -
avrebbe tuttavia costituito un deterrente tale per cui è pensabile che,
almeno di solito, il soccombente si sarebbe adeguato al giudizio
dell'arbitro. Ebbene,
il fenomeno dovette ad un certo momento assumere consistenza non trascurabile
se è vero che il pretore, non oltre gli inizi del primo secolo a.C. (4), ritenne di non potere più ignorare nel suo
editto l'arbitrato privato per cui avesse avuto luogo compromissum:
mantenne per vero un atteggiamento di netto favore per il processo ufficiale
e pertanto - come si disse - persistette nel non dare riconoscimento e tutela
alla mera convenzione arbitrale; ma si preoccupò di intervenire per
assicurare quel che nessun espediente negoziale avrebbe potuto garantire.
Poteva accadere infatti che la persona concordemente designata dalle parti
come arbitro, dopo avere accettato (arbitrium recipere), tornasse
sulla sua determinazione e senza giustificato motivo rifiutasse di procedere
all'istruzione e alla decisione della controversia. Il pretore quindi, con l'edictum
c.d. de receptis, promise: "Qui arbitrium pecunia
compromissa receperit, eum sententiam dicere cogam" (5), promise cioè che avrebbe esercitato coercitio
contro colui che, avendo già le parti proceduto a reciproche stipulazioni
penali (pecunia compromissa), avesse accettato l'arbitrium. La coercitio
sarebbe stata vòlta ad indurre l'arbitro designato dalle parti a svolgere
il compito che si era assunto, e quindi, in definitiva, a pronunziare la
sentenza (sententiam dicere). Si sarebbe trattato naturalmente di
coercizione indiretta: ad es. mediante minaccia di irrogazione di una multa
(6). Questa
soltanto, e nessun'altra, fu sino a tutta l'età classica la "norma
autoritaria" riguardante l'arbitrato a Roma (7):
il resto - l'espediente delle reciproche stipulazioni penali, quanto ne
derivava e quanto ancora vedremo - fu tutta creazione dottrinale, «diritto
giurisprudenziale» («Juristenrecht»). 4.
Fu così che si andarono proponendo formulari diversi e diversamente
articolati del testo delle stipulazioni penali (prevedendo, ad es., un
termine per la pronunzia della sentenza (8);
oppure la menzione degli eredi in modo che, con la morte dell'una o
dell'altra parte, l'arbitrato potesse continuare nei confronti degli eredi
stessi (9)). Si escluse l'arbitrato
privato in materia di crimina e delitti infamanti (10), di azioni popolari, di questioni sullo status
di libero o schiavo, liberto o ingenuo (11).
Si stabilirono principî circa la capacità di fare da arbitri (escludendo
ovviamente gli schiavi (12), gli incapaci di agire -
pupilli, furiosi, sordi, muti, ed anche i minori di 25 anni (13), -, in certe circostanze taluni magistrati (14)). Si andarono fissando regole per lo
svolgimento del procedimento arbitrale (convocazione delle parti e necessità
della presenza loro in ogni udienza, compresa quella della pronunzia della
sentenza, luogo e giorni di udienza, etc.) (15). Ma
sopratutto si precisò che sarebbe stata esposta alla poena contrattuale
non solo la parte che avesse disatteso la sentenza arbitrale ma pure quella
che, regolarmente convocata, senza giustificabili motivi non fosse stata presente
anche ad una delle udienze istruttorie (16);
alla stessa poena sarebbe stata esposta la parte che, anche prima
della decisione arbitrale, avesse adito la giustizia ordinaria per fare
valere quella pretesa per cui era addivenuta al compromissum (17): sì, perché, secondo i principî, il compromissum,
sia che la sentenza arbitrale fosse stata emanata sia nel caso opposto, non
precludeva l'esercizio dell'azione del processo ordinario, salva
all'avversario - ripeto - la poena compromissa (18). Va
da sé che la decisione arbitrale sarebbe stata inappellabile (19). Si ritenne tuttavia che, nei casi più gravi
di sentenza ingiusta, la parte inadempiente potesse opporre l'exceptio
doli all'avversario che avesse agito con l'azione da stipulazione penale
(20). In tal modo, in
definitiva, la decisione arbitrale avrebbe potuto non avere esecuzione e la
controversia avrebbe potuto essere nuovamente decisa in un giudizio
ordinario. Opportuno correttivo, questo, all'impossibilità dell'appello della
sentenza dell'arbitro. S'è
avuto modo di ricordare più in alto che il pretore, verosimilmente per un
atteggiamento di favore per il processo formulare, non diede nessuna azione
per l'esecuzione in sé della convenzione arbitrale. Può essere interessante
notare a questo punto che i giuristi classici mantennero tutti la stessa
linea: un'actio per l'esecuzione della decisione dell'arbitro dalla
giurisprudenza non fu mai adombrata, neppure da parte di quei giureconsulti
che avevano affermato dovessero essere riconosciuti effetti obbligatori ad
ogni convenzione che avesse in sé una causa (21). V'è
di più: è notissimo che con l'editto de pactis il pretore aveva
tutelato, sia pure soltanto in via di eccezione, i nuda pacta. Ebbene,
alla mera convenzione arbitrale non si riconobbe neppure la consistenza di un
pactum tutelabile in via di eccezione (22). 5.
Queste ultime osservazioni mostrano che, con riguardo al lungo periodo che va
dagli ultimi tempi della repubblica a tutta l'età classica, non solo non è
possibile, in ordine all'arbitrato, parlare di un favor praetoris ma
neanche di un favor iurisprudentiae; ché la giurisprudenza - ripeto -,
pur avendo suggerito l'espediente del compromissum e su questo e sul
conciso edictum de receptis avendo edificato l'istituto dell'arbitrato
privato, mai si adoperò per il diretto riconoscimento, neppure in via di exceptio
(23), della mera convenzione
arbitrale. 6.
Altro problema è quello del favore incontrato a Roma nella pratica del
diritto dall'arbitrato privato durante il periodo sin qui considerato. Lo
Ziegler - il solo autore che a mia conoscenza negli ultimi decenni si è
occupato di questo aspetto del compromissum (24)
- ha pensato ad un ampio favore e, di conseguenza, ad una larga diffusione.
Si è fondato sui maggiori vantaggi che l'arbitrato privato avrebbe offerto
rispetto al processo statale (25)
e sulle testimonianze delle fonti. Quanto
ai maggiori vantaggi, bisogna distinguere il tempo che precede la nascita del
processo formulare e il periodo successivo. In merito al primo, se si pensa a
quell'arbitrato privato che secondo una ragionevole congettura sarebbe stato
preso a modello dal pretore per la creazione del processo formulare, non si
può non riconoscere che esso, pure in assenza di ogni garanzia per
l'esecuzione che non fosse la fides dell'avversario, offrisse
intuitivi innegabili vantaggi rispetto alle legis actiones; tant'è che
queste, per l'eccessivo formalismo, come ci dice Gaio in un passo notissimo
(4.31), da un certo momento in odium venerunt. Dico di più: se è vero
che la prassi del supposto arbitrato preformulare dipese soprattutto dal non
ancora avvenuto riconoscimento, a Roma, di tutela giudiziaria a rapporti che
non erano del ius civile vetus e a rapporti tra Romani e stranieri o
tra stranieri soltanto, ecco che esso non tanto offriva maggiori vantaggi,
quanto era addirittura inevitabile. Non si può quindi, anche se manca
qualsiasi testimonianza diretta, non supporre una sua larga diffusione. Ma
questo arbitrato preformulare - come si disse - fu assorbito nel processo
formulare. D'altronde, con la nascita del nuovo modus procedendi si
era data soddisfazione a quelle esigenze che erano state alla base della sua
diffusione. 7.
É solo dopo qualche tempo che vediamo risorgere a Roma l'arbitrato privato,
ma con l'espediente del compromissum. E sappiamo che il pretore
intervenne in materia, con l'editto de receptis, tra la fine del II
sec. e gli inizi del I sec. a. C. Certo,
ciò presuppone una diffusione rilevante del compromissum: rilevante,
però, non oltre quanto basta per spiegare che la giurisprudenza suggerì il
marchingegno delle reciproche stipulazioni penali e che il pretore non poté
ignorare il fenomeno. Può darsi che - prescindendo per ora dalle ragioni di
fondo che, come vedremo, sono alla base dell'arbitrato privato - può darsi,
dicevo, che la diffusione iniziale del compromissum, nella misura in
cui ai socii italici era estranea la tradizione giuridica romana, sia
legata alla concessione agli stessi della cittadinanza; ché, attraverso
l'arbitrato, i nuovi cives avrebbero potuto ottenere una decisione
conforme al diritto ad essi più familiare precedente la romanizzazione (26). 8.
Queste considerazioni, ad ogni modo, riguardano l'età repubblicana e aspetti
non tecnici del processo. Ma di maggiori vantaggi dell'arbitrato privato
mediante compromissum rispetto al processo ufficiale si è pure parlato
per l'aspetto tecnico, e il discorso è stato naturalmente riferito anche
all'età classica. Nulla quaestio per le legis actiones e le classiche cognitiones extra
ordinem: per esse, tutto sommato, è facile supporre un maggior favore per
l'arbitrato da parte di quei privati che preferissero godere di autonomia
nella gestione della lite: le ragioni sono ovvie, e non occorre specificarle.
Maggior senso ha la domanda per il processo formulare, che era quello
ordinario e, nell'epoca considerata, di assai maggiore diffusione. In
proposito non si può non riconoscere, anzitutto, che anche il processo
formulare era in larga misura gestito dalle parti. Queste subivano però
limitazioni circa il thema decidendum e i criteri da indicare al giudice per
la decisione: l'uno e gli altri dovevano rientrare nei «tipi» prefissati,
venivano riassunti nella formula e dovevano quindi, insieme con la formula,
essere approvati di volta in volta dal magistrato giusdicente. Del pari,
occorreva che fosse gradita al pretore la persona del giudice su cui le parti
avessero fatto cadere la propria scelta. Le parti del procedimento arbitrale,
invece, sceglievano più liberamente la persona dell'arbitro, e all'arbitro
avrebbero potuto, se del caso, chiedere di decidere sulla base di criteri che
non erano quelli del diritto ufficiale e su questioni che non rientravano nei
«tipi» edittali (27). A
fronte di ciò, però, la decisione dell'arbitro, a differenza della sentenza
di condanna del giudice formulare, non era esecutiva né dava luogo ad actio
iudicati né ad altra analoga (28):
la convenzione arbitrale - come s'è visto - era tutelata solo indirettamente
perché la parte inadempiente era esposta a nient'altro che all'azione nascente
dalla stipulazione penale. Il
fatto poi che nel processo formulare il giudice non potesse che assolvere o
condannare in una somma di denaro, e che quindi, in definitiva, la parte che
era prevalsa potesse ottenere la soddisfazione diretta della sua pretesa solo
se l'avversario vi si fosse adeguato, è, nella sostanza, un tratto comune
all'arbitrato convenuto mediante compromissum dove - ripetiamo - la
parte soccombente poteva disattendere la decisione arbitrale e andare
incontro alla poena compromissi (29). Come
si vede, quindi, non è facile stabilire se offrisse maggiori vantaggi il
processo formulare o l'arbitrato mediante compromissum. Evidentemente
decisive dovettero essere in proposito, come vedremo più avanti, ragioni
legate alla presenza, nella società romana, di aggregazioni sociali di un
certo tipo. 9.
Sta di fatto, ad ogni modo, che le testimonianze delle fonti non giuridiche
che in qualche modo presuppongono l'edictum de receptis e la tecnica
del compromissum, e quelle delle fonti, giuridiche e non, che fanno
riferimento ad applicazioni effettive dell'arbitrato mediante compromissum
sono, per il tempo che va dal I sec. a.C. al III d.C. (30), tali da fare pensare ad una buona
diffusione dell'arbitrato privato (largamente inferiore, comunque, a quella
del processo ordinario). Si
tratta anzitutto di alcuni brani ciceroniani: Cic. In Verrem II.2.27/66;
pro Roscio comoedo 4.10-13 e 5.15; epist. ad famil. 12.30.5 (31). - Pochi i documenti privati in lingua
latina che testimoniano il ricorso al compromissum: CIL 1268 fa
riferimento ad un regolamento di confini deciso dall'arbiter T. Flavio
Vespasiano; pure ad regolamento di confini si riferiva Tab. Hercol. 76-82,
del 68-69 d.C. (documento questo assai più ricco di dati significativi).
Nessun documento in lingua greca, eccetto un papiro mutilo della collezione
genovese PUG Inv. nr. 1126, per quanto qui interessa di scarso rilievo. -
Notevole, più che altro per l'aspetto sociale, l'episodio narrato da Tacitus hist.
1.24 e Sveton. Otho, 4.2 (il futuro imperatore Otone, designato come
arbitro da due suoi soldati per una lite di confini, acquistò il fondo di uno
dei litiganti e lo donò all'altro). - Sembra fare riferimento ad un arbitro
privato un brano dei gromatici, di Agennius Urbicus (che Lachmann
attribuiva a Frontino), a proposito della controversia del loco (32). - Non riguardano la nostra materia poche
altre testimonianze di fonti non giuridiche, che ad essa sono state pure
talvolta riferite (33). Discretamente
ampia è la casistica in materia arbitrale che è dato riscontrare nei testi
giurisprudenziali (ma solo nel titolo D.4.8 de receptis: qui arbitrium
receperint ut sententiam dicant) (34).
- Sei sono le costituzioni imperiali di età classica di cui abbiamo notizia:
tre nel titolo de receptis del Codex Justinianus (cc.1, 2 e 3
di C.2.55, l'ultima delle quali di Diocleziano), una nella Consultatio (9.17);
altre due, di Antonino Pio e di un imperator Antoninus, sono
richiamate in D.4.8.27.2 (Ulp. 13 ad ed.) e D.4.8.32.14 (Paul. 13 ad
ed.). Può
giovare ad ogni modo notare che l'arbitrato, nel periodo intanto considerato,
appare praticato a livelli sociali diversi (35):
tra membri della classe senatoria e tra appartenenti alla classe media dei
possessori fondiari, così come tra persone di più modesta condizione sociale;
riflesso quest'ultimo, assai verosimilmente, anche del fatto che all'arbitro
non si corrispondeva alcun compenso (neanche mascherato da «onorari» o
donativi). Quanto
al tipo di controversie (36), le testimonianze che ci
sono state conservate riguardano in maggior misura regolamento di confini (37); ma anche possesso di fondi e restituzione
di schiavi (38). Di una lite arbitrale
per la responsabilità del tutore si occupava già Labeone (39). Né è raro l'affidamento ad un arbitro
privato di tutte le liti pendenti tra le parti (40)
o anche di più liti (41). Spesso si fa
riferimento, come oggetto di arbitrato, a pagamento di denaro (42). 10.
In età postclassica il regime giuridico dell'arbitrato è soggetto a mutamenti.
Per intendere più pienamente il significato delle nuove regole si deve tener
conto del sistema di governo, dispotico ed assoluto, che si consolidò a Roma
e nell'Impero a partire dal IV sec., quando tutti i poteri si concentrarono
nella mani dell'imperatore, oltre tutto legislatore unico e unica fonte viva
del diritto. Ed ecco che nelle costituzioni imperiali di quest'epoca affiora
l'idea dell'unità della funzione giudicante, non importa se affidata ad
organi dello stato o a privati, e lentamente ma naturalmente prende avvio
l'orientamento per cui la risoluzione delle controversie di diritto privato
non possa e non debba svolgersi al di fuori di regole stabilite
autoritariamente da un legislatore. Non poteva non risentirne il regime
classico dell'arbitrato-compromissum, improntato ad una concezione
privatistica che - con la sola eccezione della regola edittale sul receptum
arbitrii - faceva dipendere l'arbitrato stesso pressoché interamente
dalla concorde volontà dei contendenti, anche se temperata dall'interpretazione
che di questa volontà i giuristi erano andati proponendo. Si profila
pertanto, a partire dal IV secolo, uno sviluppo del giudizio arbitrale
privato nel senso di una sua graduale regolamentazione secondo princìpi e
criteri in qualche misura analoghi a quelli propri della giurisdizione
ordinaria (43). Al
riguardo occorre anzitutto tener conto degli interventi legislativi imperiali
che, sin dai primordi dell'età postclassica, dettarono regole su procedimenti
e decisioni affidati ai capi delle comunità cristiane ed ebraiche - vescovi e
patriarchi - per la risoluzione di liti di diritto privato. É controversa la
portata di taluni di questi interventi (44).
A noi basti qui ricordare che nel 408 Arcadio, Onorio e Teodosio stabilirono
che avessero diretta efficacia esecutiva le decisioni per le quali fedeli
cristiani, anche senza l'espediente delle reciproche stipulazioni, si fossero
concordemente e liberamente affidati al loro vescovo (episcopalis
audientia) (45). Analogo provvedimento
era stato adottato dieci anni prima in ordine agli arbitrati per cui fedeli
di religione ebraica avessero fatto ricorso al giudizio dell'autorità spirituale
della comunità di appartenenza (solitamente, il patriarca) (46). Quanto
all'arbitrato privato «laico» - non affidato cioè vescovi e patriarchi qua
tales - è a dire che per esso rimasero fondamentalmente, ancora in età
postclassica, struttura e regime classici (reciproche stipulazioni penali,
nessuna coazione diretta all'osservanza della convenzione arbitrale, etc.):
il legislatore intervenne per aspetti affatto marginali. Fu Giustiniano a
legiferare, anche in materia di arbitrato, in maniera assai più incisiva. E
tuttavia, sin dagli ultimi decenni IV secolo si era andato manifestando,
anche per l'arbitrato «laico», quell'orientamento verso l'accostamento ai
processi ufficiali del quale s'è detto. Ne
è una prima timida manifestazione una costituzione del 386, di provenienza
occidentale, di Graziano, Valentiniano e Teodosio (47),
dove l'arbitrato privato è menzionato accanto alle forme del processo
ufficiale e, per un aspetto affatto marginale, ugualmente disciplinato: si
impone a tutti i giudici, compresi espressamente tra essi gli arbitri
privati, di rispettare nell'esercizio del loro compito il calendario festivo
cristiano. Notevole è qui, più che la norma in sé (48),
l'accostamento degli arbitri privati (arbitri sponte delecti) ai
giudici ordinari. In
analogo ordine di idee può essere valutata (49)
un'altra costituzione occidentale, di Arcadio ed Onorio, C. Th.15.14.9 del
395, dove, tra gli atti che conservano validità pure se compiuti tyrannicis
temporibus, sono elencate le decisioni degli arbitri privati (sententiae
iudicum privatorum... quos partium elegit adsensus et compromissi poena
constituit). Fu
tuttavia Giustiniano - si diceva - che intervenne assai più incisivamente in
materia. Anzitutto con C.2.55.4 del 529, per cui, se la convenzione arbitrale
fosse stata accompagnata dal giuramento solenne, debitamente documentato, dei
contendenti e dell'arbitro (50),
la decisione arbitrale sarebbe stata direttamente vincolante: alla parte che
era prevalsa si dava all'uopo, per l'esecuzione, un'actio in factum (51). Solo
che, dieci anni dopo, lo stesso Giustiniano, prendendo atto dei risultati
negativi della prassi, addirittura proibì l'arbitrato giurato (Nov. 82.11):
revocò quindi la sua precedente costituzione e, con essa, l'efficacia diretta
della decisione arbitrale. Il compromissum cum poena, in buona
sostanza con il regime quale era stato elaborato dai giuristi classici, tornò
ad essere la regola (52). Ancora: poiché la stipulatio
aveva subìto le trasformazioni che conosciamo (53),
ecco che la convenzione arbitrale, con o senza pena, divenne di norma una
convenzione scritta. Non è un caso pertanto che la legislazione di
Giustiniano in materia arbitrale presuppone solitamente l'esistenza di un
documento che faccia fede dei contenuti degli accordi tra le parti (54). Si
diceva più in alto dell'accostamento del giudizio arbitrale privato ai
giudizi ordinari. Ne sono significativa manifestazione, nella legislazione di
Giustiniano, la già richiamata regolamentazione dell'arbitrato con giuramento
delle parti e del giudice, e la conseguente actio in factum per
l'esecuzione della sententia arbitri, disposte da Giustiniano nel 529
(C.2.55.4) anche se dallo stesso imperatore abolite dieci anni dopo (nel 539,
con Nov. 82.11). Ne ho già fatto cenno. Nella stessa direzione ricordo adesso
l'interdizione alle donne di assumere il compito di arbitro (55); l'imposizione ai giudici, a tutti i giudici
compresi gli arbitri privati, e ai patroni delle parti, anche in sede
arbitrale, di prestare giuramento (56);
l'imposizione alle parti, anche nel giudizio arbitrale, di prestare il ius
iurandum calumniae (C.2.58.2.4, del 531); la conferma del divieto rivolto
agli arbitri di svolgere attività nei giorni festivi del calendario cristiano
(57); la facoltà concessa
alle parti di giovarsi nel giudizio ordinario delle prove testimoniali
raccolte nel procedimento arbitrale (C.2.55.5.4 e C.4.20.20, del 530);
l'effetto interruttivo della prescrizione attribuito al procedimento
arbitrale, alla stregua - è detto espressamente - della lis inchoata in
ordinario iudicio (C.2.55.5.3, del 530). 11.
Possiamo adesso chiederci se e quali vantaggi presentasse, nelle età
postclassica e giustinianea, l'arbitrato privato rispetto al processo
ordinario (58). Una cosa in proposito è
sicura: venuto meno il processo formulare, si affermò un tipo di processo
statale rigido e costoso in cui lo spazio lasciato all'autonomia e
all'iniziativa delle parti era ancora più ridotto che nelle classiche cognitiones
extra ordinem (59). Con Giustiniano il
processo ufficiale mantenne le stesse caratteristiche e, per di più, si
complicò in maniera intollerabile: si stabilirono, ad es., intricate
prescrizioni e lungaggini in materia probatoria; si diede possibilità alla
parte convenuta - dal momento della notificazione del libello a quello
dell'emanazione della sentenza - di bloccare o quanto meno ritardare il
procedimento con contestazioni di vario ordine; e così via (60). D'altro
canto, salvo eccezioni - la più significativa delle quali durata appena nove
anni -, la sentenza arbitrale non aveva effetti esecutivi; né, in via di
principio, era soggetta ad appello. Ma il procedimento relativo era gratuito
(l'arbitro continuò a non percepire alcun compenso); e, nonostante i tanti
interventi legislativi, il dibattimento arbitrale era assai più snello e
semplice rispetto al processo ordinario, e ampia rimase complessivamente
l'autonomia lasciata ai contendenti; ai quali, d'altronde, erano assicurate
adesso maggiori garanzie che in precedenza (ius iurandum calumniae,
giuramento dei patroni e dell'arbitro, etc.). A
ciò fa riscontro una buona diffusione, rivelata dall'interesse del
legislatore e confermata dalle fonti documentali (61).
Una diffusione certo notevole ma in nessun caso, si deve ritenere, superiore
a quella dei giudizi ordinari (62). 12.
Si è messo in luce ripetutamente come la concezione dell'arbitrato privato
sia cambiata a partire dal IV secolo. S'è rilevato pure come sia andato
mutando l'atteggiamento di «favore» delle fonti vive del diritto: al
«disfavore» del pretore e della giurisprudenza e al disinteresse del
legislatore classico corrisponde presso il legislatore postclassico una
inversione di tendenza. Tutto questo mentre il nuovo processo ordinario
postclassico e quello giustinianeo si andavano caratterizzando in modo tale
da fare apparire «appetibile», assai più che in precedenza, il ricorso
all'arbitrato privato. Allo
stato delle nostre conoscenze non si può dire però, in generale, che la
pratica dell'arbitrato si sia espansa in proporzione. La sua diffusione,
maggiore o minore a seconda dei periodi e dei tipi, appare comunque sempre
apprezzabile. Ebbene,
in proposito è possibile pensare che la diffusione dell'arbitrato, più che al
favore o disfavore del legislatore e dei minori o maggiori vantaggi rispetto
al processo ufficiale, sia dipesa a Roma dall'esistenza di formazioni sociali
libere e spontanee, in cui i membri si identificavano più che rispetto alla
compagine statale, ed erano tra loro spontaneamente solidali. Si tratta dello
stesso fenomeno, in fondo, per cui per lungo tempo il cittadino romano nel
compiere un affare credette di essere largamente garantito dalla fides riposta
nell'altro contraente, anch'egli, possiamo pensare, appartenente alla stessa
aggregazione del tipo di quelle cui ho fatto riferimento; lo stesso fenomeno,
dico ancora, per cui per lungo tempo fu relativamente agevole a creditori e
debitori trovare persone pronte a fare da garanti, sì che le garanzie
personali ebbero più fortuna di quelle reali. Ho parlato di formazioni sociali libere e spontanee in cui i membri fossero liberamente e spontaneamente tra loro solidali. Il concetto, in relazione a quanto voglio significare, deve essere inteso da un canto nel senso più ampio e dall'altro in relazione al rapporto che veniva in considerazione. Per il tempo precedente la nascita del processo formulare ho già fatto riferimento ad un arbitrato libero che doveva avere luogo nei rapporti tra Romani e stranieri: si deve pensare, evidentemente, ad uomini di affari, che gestivano i loro negozi sulla base di una prassi ben determinata, e naturalmente interessati all'osservanza di essa. Con riguardo agli anni che seguirono la guerra sociale e il conferimento della cittadinanza agli italici, ho fatto riferimento ai socii, già fruitori di un diritto almeno in parte diverso da quello di Roma, del quale invece, sotto l'aspetto formale, erano venuti ad essere necessariamente partecipi. Per epoche successive e sino all'editto di Caracalla del 212, si può comunque pensare ai nuovi cives, interessati all'applicazione del diritto loro di origine. Per la tarda età repubblicana e per il tempo del Principato possiamo ricordare quelle cerchie di «amici» qualificati tali perché legati allo stesso «clan» (63); ed anche alle grandi famiglie del tempo del Principato, in cui contava più il vincolo politico che quello di sangue, quest'ultimo, peraltro, spesso inesistente. Per ogni epoca o quasi del diritto romano possiamo riferirci alle aggregazioni di artigiani, a certi collegia o sodalitates, specie con riguardo al Basso Impero quando, come è fin troppo noto, le classi sociali subirono un inarrestabile processo di irrigidimento. Giocarono un ruolo di non poco momento in proposito anche motivi religiosi, per cui abbiamo visto, ad es., il diffondersi di arbitrati speciali tra cristiani e tra ebrei. Certo, per l'età preformulare e tra i nuovi cives il ricorso all'arbitrato, cui s'è fatto cenno, ebbe motivazioni per le quali rilevava il diritto da applicare, e con esso il tipo di giudizio cui ricorrere. Non dovette però in ogni caso essere assente una componente di tipo diverso, quella per cui parti ed arbitro sentivano di appartenere alla stessa formazione sociale nel senso indicato. Ma per tutte o quasi le altre «aggregazioni» alle quali ho fatto riferimento ritengo di poter affermare in termini generali che è alla loro stessa esistenza e al vincolo che spontaneamente univa gli appartenenti a ciascuna di esse che si deve, assai più che a certi vantaggi del compromissum rispetto al processo formulare e rispetto agli altri modi procedendi del tempo, quella discreta diffusione dell'arbitrato privato che s'è visto essere attestata per il periodo che va dal I sec. a.C. al III d.C. (64). Per
l'età postclassica e con riguardo all'espiscopalis audientia e
all'arbitrato affidato al capo spirituale ebraico, una spiegazione analoga è
intuitiva e immediata. E d'altra parte l'integrazione sempre maggiore della
nuova religione cristiana nel tessuto sociale dell'Impero romano può
ritenersi essere stata alla base del calo di interesse, già prima di
Giustiniano, per l'arbitrato affidato ai vescovi (65). Riprende allora quota l'arbitrato `laico' (66), per vero mai caduto in desuetudine, per la cui diffusione - ripeto - può forse essere sufficiente fare riferimento non tanto alle complicazioni, alle lungaggini e ai costi del processo privato statale, quanto a quell'irrigidimento della società in classi che è tra le più note caratteristiche peculiari del Basso Impero (67). Queste mie affermazioni - è doveroso dirlo - sono tributarie di quella moderna dottrina, affermata per l'arbitrato in sé e con lo sguardo diretto alla realtà di oggi (68), per cui il proprium dell'arbitrato sarebbe appunto il fatto di essere espressione di gruppi «amicali», o comunque «sociali» - intesi come faticosamente ho tentato di chiarire -, nei quali i componenti si identificano più che nella compagine statale, talché ritengano più sicuro, anzi affatto naturale, risolvere tra essi stessi le controversie privatistiche che reciprocamente li riguardano, affidandole quindi «ad uno dei loro» anziché ad un giudice integrato in una struttura - la struttura statale - da essi, in relazione all'affare di cui si tratta, vissuta come estranea. |
© Matteo Marrone |
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