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SULL'ARBITRATO PRIVATO
NELL'ESPERIENZA GIURIDICA ROMANA

di Matteo Marrone

Relazione svolta nel settembre 1996 nel congresso romano di Studi latino-americani, pubblicata in Rivista dell’arbitrato VI.1, 1996 (tradotta in lingua spagnola e pubblicata in Roma e America. Diritto romano comune. Rivista di diritto dell’integrazione e unificazione del diritto in Europa e in America Latina, 5, 1998)


1. Arbitrato privato e genesi del processo formulare. - 2. Il «disfavore» del pretore. - 3. L'espediente del compromissum e l'eventuale coazione pretorile nei confronti dell'arbitro designato dalle parti. - 4. L'interpretazione giurisprudenziale. - 5. L'atteggiamento della giurisprudenza in generale. - 6. Arbitrato privato e processo ufficiale in epoca preformulare. - 7. Arbitrato privato e socii italici - 8. Arbitrato e processo formulare: in sintesi, maggiori vantaggi dell'uno rispetto all'altro, e viceversa. - 9. Arbitrato e processo formulare nella realtà giuridica del tempo. - 10. Le nuove regole sull'arbitrato a partire dal IV secolo. - 11. Arbitrato e processo ufficiale in età postclassica e giustinianea. - 12. Sulle ragioni della diffusione dell'arbitrato privato nelle diverse epoche dello svolgimento giuridico romano.

1. L'uso dei privati di affidare la decisione delle controversie ad arbitri, al di fuori del processo o dei processi controllati dagli organi della collettività, fu certamente a Roma molto antico. Su ciò, nonostante manchino dirette testimonianze, non è possibile nutrire dubbi. Pure se ormai giustamente non riscuote più credito l'idea che le vetuste legis actiones abbiano avuto le loro lontane radici in una prassi arbitrale privata (1), bisogna credere tuttavia che il pretore abbia modellato il processo formulare che andava sorgendo per suo impulso su un tipo di arbitrato, che non conosciamo (2), ma che possiamo bene supporre, per ragionevole congettura, essere stato un arbitrato privato praticato a Roma tra Romani e stranieri, o anche tra cives in ordine a rapporti che non avevano avuto riconoscimento nell'àmbito delle legis actiones, ed in cui giocava un ruolo di primo piano la bona fides (3).

2. Giova ricordare, a questo punto, che il pretore in un tempo compreso tra la media e l'ultima età repubblicana diede tutela giudiziaria in via di azione a talune mere convezioni diffuse nella prassi - compravendita, locazione, società, mandato -, che saranno poi recepite nel ius civile e qualificate "contratti consensuali". Si trattava di convenzioni nelle quali le parti si affidavano ai quei criteri obbiettivi di lealtà e correttezza, qualificati di bona fides, che erano comunemente seguiti tra gli uomini di affari. Ebbene il pretore - lo sappiamo - non solo riconobbe quelle convenzioni ma ne conservò sostanzialmente il regime; tant'è che, nelle formule relative, quale metro per la determinazione dei diritti e doveri delle parti volle che si indicasse al giudice la bona fides.

Ebbene, può apparire singolare che invece il pretore non diede alcuna tutela alla mera convenzione con cui due parti avessero extragiudizialmente concordato di affidare a persona determinata e di comune fiducia la decisione di una loro controversia. Eppure si trattava di un tipo di convenzione lecita e meritevole di considerazione e che, almeno prima della creazione del processo formulare, era certamente diffusa tra la gente di affari e per la cui esecuzione ciascuna parte si rimetteva - non poteva essere diversamente - a nient'altro che alla fides dell'al­tra.

Una spiegazione potrebbe essere questa: l'arbitrato privato che si è supposto essere stato preso a modello dal pretore per il nuovo processo fu assai per tempo assorbito in esso: evidentemente il processo formulare - dove le parti avevano un ruolo determinante nella scelta del giudice e nella fissazione dei termini della lite - dovette dapprima non fare sentire l'esigenza di fare ricorso ad un arbitrato meramente privato.

3. Al riguardo bisogna però al contempo pensare ad un comprensibile maggior «favore» del pretore nei riguardi del «suo» processo sicché, quando non molto tempo dopo si manifestò nuovamente il desiderio insistente di privati di ricorrere ad un arbitrato anziché al processo ufficiale, il pretore continuò a negare protezione giudiziaria alla mera convenzione arbitrale. Ed ecco che allora la giurisprudenza escogitò un complesso espediente: suggerì alle parti di dare luogo a reciproche stipulationes penali per cui ciascuna parte prometteva all'altra il pagamento di una somma determinata di denaro, appunto una poena, qualora il promittente non avesse mantenuto l'impegno che a decidere la controversia fosse un arbitro dalle stesse parti concordemente e liberamente scelto. Si parlò al riguardo di compromittere e compromissum.

Ora la stipulatio era un negozio iure civili riconosciuto e tutelato, la convenzione arbitrale indiscutibilmente lecita. Il pretore pertanto non avrebbe potuto negare l'actio ex stipulatu alla parte favorita dalla decisione arbitrale contro l'avversario che avesse tenuto un comportamento ad essa contrario. In tal modo non era garantita in via diretta l'esecuzione della sentenza; la minaccia della poena contrattuale - il cui importo le parti avrebbero avuto cura di stabilire in misura adeguata - avrebbe tuttavia costituito un deterrente tale per cui è pensabile che, almeno di solito, il soccombente si sarebbe adeguato al giudizio dell'arbitro.

Ebbene, il fenomeno dovette ad un certo momento assumere consistenza non trascurabile se è vero che il pretore, non oltre gli inizi del primo secolo a.C. (4), ritenne di non potere più ignorare nel suo editto l'arbitrato privato per cui avesse avuto luogo compromissum: mantenne per vero un atteggiamento di netto favore per il processo ufficiale e pertanto - come si disse - persistette nel non dare riconoscimento e tutela alla mera convenzione arbitrale; ma si preoccupò di intervenire per assicurare quel che nessun espediente negoziale avrebbe potuto garantire. Poteva accadere infatti che la persona concordemente designata dalle parti come arbitro, dopo avere accettato (arbitrium recipere), tornasse sulla sua determinazione e senza giustificato motivo rifiutasse di procedere all'istruzione e alla decisione della controversia. Il pretore quindi, con l'edictum c.d. de receptis, promise: "Qui arbitrium pecunia compromissa receperit, eum sententiam dicere cogam" (5), promise cioè che avrebbe esercitato coercitio contro colui che, avendo già le parti proceduto a reciproche stipulazioni penali (pecunia compromissa), avesse accettato l'arbitrium. La coercitio sarebbe stata vòlta ad indurre l'arbitro designato dalle parti a svolgere il compito che si era assunto, e quindi, in definitiva, a pronunziare la sentenza (sententiam dicere). Si sarebbe trattato naturalmente di coercizione indiretta: ad es. mediante minaccia di irrogazione di una multa (6).

Questa soltanto, e nessun'altra, fu sino a tutta l'età classica la "norma autoritaria" riguardante l'arbitrato a Roma (7): il resto - l'espediente delle reciproche stipulazioni penali, quanto ne derivava e quanto ancora vedremo - fu tutta creazione dottrinale, «diritto giurisprudenziale» («Juristenrecht»).

4. Fu così che si andarono proponendo formulari diversi e diversamente articolati del testo delle stipulazioni penali (prevedendo, ad es., un termine per la pronunzia della sentenza (8); oppure la menzione degli eredi in modo che, con la morte dell'una o dell'altra parte, l'arbitrato potesse continuare nei confronti degli eredi stessi (9)). Si escluse l'arbitrato privato in materia di crimina e delitti infamanti (10), di azioni popolari, di questioni sullo status di libero o schiavo, liberto o ingenuo (11). Si stabilirono principî circa la capacità di fare da arbitri (esclude­ndo ovviamente gli schiavi (12), gli incapaci di agire - pupilli, furiosi, sordi, muti, ed anche i minori di 25 anni (13), -, in certe circostanze taluni magistrati (14)). Si andarono fissando regole per lo svolgimento del procedi­mento arbitrale (convocazione delle parti e necessità della presenza loro in ogni udienza, compresa quella della pronunzia della sentenza, luogo e giorni di udienza, etc.) (15).

Ma sopratutto si precisò che sarebbe stata esposta alla poena contrattuale non solo la parte che avesse disatteso la sentenza arbitrale ma pure quella che, regolarmente convocata, senza giustificabili motivi non fosse stata presente anche ad una delle udienze istruttorie (16); alla stessa poena sarebbe stata esposta la parte che, anche prima della decisione arbitrale, avesse adito la giustizia ordinaria per fare valere quella pretesa per cui era addivenuta al compromissum (17): sì, perché, secondo i principî, il compromissum, sia che la sentenza arbitrale fosse stata emanata sia nel caso opposto, non precludeva l'esercizio dell'azione del processo ordinario, salva all'avversario - ripeto - la poena compromissa (18).

Va da sé che la decisione arbitrale sarebbe stata inappellabile (19). Si ritenne tuttavia che, nei casi più gravi di sentenza ingiusta, la parte inadempiente potesse opporre l'exceptio doli all'avversario che avesse agito con l'azione da stipulaz­ione penale (20). In tal modo, in definitiva, la decisione arbitrale avrebbe potuto non avere esecuzione e la controversia avrebbe potuto essere nuovamente decisa in un giudizio ordinario. Opportuno correttivo, questo, all'impossibilità dell'appello della sentenza dell'arbitro.

S'è avuto modo di ricordare più in alto che il pretore, verosimilmente per un atteggiamento di favore per il processo formulare, non diede nessuna azione per l'esecuzione in sé della convenzione arbitrale. Può essere interessante notare a questo punto che i giuristi classici mantennero tutti la stessa linea: un'actio per l'esecuzione della decisione dell'arbitro dalla giurisprudenza non fu mai adombrata, neppure da parte di quei giureconsulti che avevano affermato dovessero essere riconosciuti effetti obbligatori ad ogni convenzione che avesse in sé una causa (21).

V'è di più: è notissimo che con l'editto de pactis il pretore aveva tutelato, sia pure soltanto in via di eccezione, i nuda pacta. Ebbene, alla mera convenzione arbitrale non si riconobbe neppure la consistenza di un pactum tutelabile in via di eccezione (22).

5. Queste ultime osservazioni mostrano che, con riguardo al lungo periodo che va dagli ultimi tempi della repubblica a tutta l'età classica, non solo non è possibile, in ordine all'arbitrato, parlare di un favor praetoris ma neanche di un favor iurisprudentiae; ché la giurisprudenza - ripeto -, pur avendo suggerito l'espediente del compromissum e su questo e sul conciso edictum de receptis avendo edificato l'istituto dell'arbitrato privato, mai si adoperò per il diretto riconoscimento, neppure in via di exceptio (23), della mera convenzione arbitrale.

6. Altro problema è quello del favore incontrato a Roma nella pratica del diritto dall'arbitrato privato durante il periodo sin qui considerato. Lo Ziegler - il solo autore che a mia conoscenza negli ultimi decenni si è occupato di questo aspetto del compromissum (24) - ha pensato ad un ampio favore e, di conseguenza, ad una larga diffusione. Si è fondato sui maggiori vantaggi che l'arbitrato privato avrebbe offerto rispetto al processo statale (25) e sulle testimonianze delle fonti.

Quanto ai maggiori vantaggi, bisogna distinguere il tempo che precede la nascita del processo formulare e il periodo successivo. In merito al primo, se si pensa a quell'arbitrato privato che secondo una ragionevole congettura sarebbe stato preso a modello dal pretore per la creazione del processo formulare, non si può non riconoscere che esso, pure in assenza di ogni garanzia per l'esecuzione che non fosse la fides dell'avversario, offrisse intuitivi innegabili vantaggi rispetto alle legis actiones; tant'è che queste, per l'eccessivo formalismo, come ci dice Gaio in un passo notissimo (4.31), da un certo momento in odium venerunt. Dico di più: se è vero che la prassi del supposto arbitrato preformulare dipese soprattutto dal non ancora avvenuto riconoscimento, a Roma, di tutela giudiziaria a rapporti che non erano del ius civile vetus e a rapporti tra Romani e stranieri o tra stranieri soltanto, ecco che esso non tanto offriva maggiori vantaggi, quanto era addirittura inevitabile. Non si può quindi, anche se manca qualsiasi testimonianza diretta, non supporre una sua larga diffusione.

Ma questo arbitrato preformulare - come si disse - fu assorbito nel processo formulare. D'altronde, con la nascita del nuovo modus procedendi si era data soddisfazione a quelle esigenze che erano state alla base della sua diffusione.

7. É solo dopo qualche tempo che vediamo risorgere a Roma l'arbitrato privato, ma con l'espediente del compromissum. E sappiamo che il pretore intervenne in materia, con l'editto de receptis, tra la fine del II sec. e gli inizi del I sec. a. C.

Certo, ciò presuppone una diffusione rilevante del compromissum: rilevante, però, non oltre quanto basta per spiegare che la giurisprudenza suggerì il marchingegno delle reciproche stipulazioni penali e che il pretore non poté ignorare il fenomeno. Può darsi che - prescindendo per ora dalle ragioni di fondo che, come vedremo, sono alla base dell'arbitrato privato - può darsi, dicevo, che la diffusione iniziale del compromissum, nella misura in cui ai socii italici era estranea la tradizione giuridica romana, sia legata alla concessione agli stessi della cittadinanza; ché, attraverso l'arbitrato, i nuovi cives avrebbero potuto ottenere una decisione conforme al diritto ad essi più familiare precedente la romanizzazione (26).

8. Queste considerazioni, ad ogni modo, riguardano l'età repubblicana e aspetti non tecnici del processo. Ma di maggiori vantaggi dell'arbitrato privato mediante compromissum rispetto al processo ufficiale si è pure parlato per l'aspetto tecnico, e il discorso è stato naturalmente riferito anche all'età classica.

Nulla quaestio per le legis actiones e le classiche cognitiones extra ordinem: per esse, tutto sommato, è facile supporre un maggior favore per l'arbitrato da parte di quei privati che preferissero godere di autonomia nella gestione della lite: le ragioni sono ovvie, e non occorre specificarle. Maggior senso ha la domanda per il processo formulare, che era quello ordinario e, nell'epoca considerata, di assai maggiore diffusione.

In proposito non si può non riconoscere, anzitutto, che anche il processo formulare era in larga misura gestito dalle parti. Queste subivano però limitazioni circa il thema decidendum e i criteri da indicare al giudice per la decisione: l'uno e gli altri dovevano rientrare nei «tipi» prefissati, venivano riassunti nella formula e dovevano quindi, insieme con la formula, essere approvati di volta in volta dal magistrato giusdicente. Del pari, occorreva che fosse gradita al pretore la persona del giudice su cui le parti avessero fatto cadere la propria scelta. Le parti del procedimento arbitrale, invece, sceglievano più liberamente la persona dell'arbitro, e all'arbitro avrebbero potuto, se del caso, chiedere di decidere sulla base di criteri che non erano quelli del diritto ufficiale e su questioni che non rientravano nei «tipi» edittali (27).

A fronte di ciò, però, la decisione dell'arbitro, a differenza della sentenza di condanna del giudice formulare, non era esecutiva né dava luogo ad actio iudicati né ad altra analoga (28): la convenzione arbitrale - come s'è visto - era tutelata solo indirettamente perché la parte inadempiente era esposta a nient'altro che all'azione nascente dalla stipulazione penale.

Il fatto poi che nel processo formulare il giudice non potesse che assolvere o condannare in una somma di denaro, e che quindi, in definitiva, la parte che era prevalsa potesse ottenere la soddisfazione diretta della sua pretesa solo se l'avversario vi si fosse adeguato, è, nella sostanza, un tratto comune all'arbitrato convenuto mediante compromissum dove - ripetiamo - la parte soccombente poteva disattendere la decisione arbitrale e andare incontro alla poena compromissi (29).

Come si vede, quindi, non è facile stabilire se offrisse maggiori vantaggi il processo formulare o l'arbitrato mediante compromissum. Evidentemente decisive dovettero essere in proposito, come vedremo più avanti, ragioni legate alla presenza, nella società romana, di aggregazioni sociali di un certo tipo.

9. Sta di fatto, ad ogni modo, che le testimonianze delle fonti non giuridiche che in qualche modo presuppongono l'edictum de receptis e la tecnica del compromissum, e quelle delle fonti, giuridiche e non, che fanno riferimento ad applicazioni effettive dell'arbitrato mediante compromissum sono, per il tempo che va dal I sec. a.C. al III d.C. (30), tali da fare pensare ad una buona diffusione dell'arbitrato privato (largamente inferiore, comunque, a quella del processo ordinario).

Si tratta anzitutto di alcuni brani ciceroniani: Cic. In Verrem II.2.27/66; pro Roscio comoedo 4.10-13 e 5.15; epist. ad famil. 12.30.5 (31). - Pochi i documenti privati in lingua latina che testimoniano il ricorso al compromissum: CIL 1268 fa riferimento ad un regolamento di confini deciso dall'arbiter T. Flavio Vespasiano; pure ad regolamento di confini si riferiva Tab. Hercol. 76-82, del 68-69 d.C. (documento questo assai più ricco di dati significativi). Nessun documento in lingua greca, eccetto un papiro mutilo della collezione genovese PUG Inv. nr. 1126, per quanto qui interessa di scarso rilievo. - Notevole, più che altro per l'aspetto sociale, l'episodio narrato da Tacitus hist. 1.24 e Sveton. Otho, 4.2 (il futuro imperatore Otone, designato come arbitro da due suoi soldati per una lite di confini, acquistò il fondo di uno dei litiganti e lo donò all'altro). - Sembra fare riferimento ad un arbitro privato un brano dei gromatici, di Agennius Urbicus (che Lachmann attribuiva a Frontino), a proposito della controversia del loco (32). - Non riguardano la nostra materia poche altre testimonianze di fonti non giuridiche, che ad essa sono state pure talvolta riferite (33).

Discretamente ampia è la casistica in materia arbitrale che è dato riscontrare nei testi giurisprudenziali (ma solo nel titolo D.4.8 de receptis: qui arbitrium receperint ut sententiam dicant) (34). - Sei sono le costituzioni imperiali di età classica di cui abbiamo notizia: tre nel titolo de receptis del Codex Justinianus (cc.1, 2 e 3 di C.2.55, l'ultima delle quali di Diocleziano), una nella Consultatio (9.17); altre due, di Antonino Pio e di un imperator Antoninus, sono richiamate in D.4.8.27.2 (Ulp. 13 ad ed.) e D.4.8.32.14 (Paul. 13 ad ed.).

Può giovare ad ogni modo notare che l'arbitrato, nel periodo intanto considerato, appare praticato a livelli sociali diversi (35): tra membri della classe senatoria e tra appartenenti alla classe media dei possessori fondiari, così come tra persone di più modesta condizione sociale; riflesso quest'ultimo, assai verosimilmente, anche del fatto che all'arbitro non si corrispondeva alcun compenso (neanche mascherato da «onorari» o donativi).

Quanto al tipo di controversie (36), le testimonianze che ci sono state conservate riguardano in maggior misura regolamento di confini (37); ma anche possesso di fondi e restituzione di schiavi (38). Di una lite arbitrale per la responsabilità del tutore si occupava già Labeone (39). Né è raro l'affidamento ad un arbitro privato di tutte le liti pendenti tra le parti (40) o anche di più liti (41). Spesso si fa riferimento, come oggetto di arbitrato, a pagamento di denaro (42).

10. In età postclassica il regime giuridico dell'arbitrato è soggetto a mutamenti. Per intendere più pienamente il significato delle nuove regole si deve tener conto del sistema di governo, dispotico ed assoluto, che si consolidò a Roma e nell'Impero a partire dal IV sec., quando tutti i poteri si concentrarono nella mani dell'imperatore, oltre tutto legislatore unico e unica fonte viva del diritto. Ed ecco che nelle costituzioni imperiali di quest'epoca affiora l'idea dell'unità della funzione giudicante, non importa se affidata ad organi dello stato o a privati, e lentamente ma naturalmente prende avvio l'orientamento per cui la risoluzione delle controversie di diritto privato non possa e non debba svolgersi al di fuori di regole stabilite autoritariamente da un legislatore. Non poteva non risentirne il regime classico dell'arbitrato-compromissum, improntato ad una concezione privatistica che - con la sola eccezione della regola edittale sul receptum arbitrii - faceva dipendere l'arbitrato stesso pressoché interamente dalla concorde volontà dei contendenti, anche se temperata dall'interpretazione che di questa volontà i giuristi erano andati proponendo. Si profila pertanto, a partire dal IV secolo, uno sviluppo del giudizio arbitrale privato nel senso di una sua graduale regolamentazione secondo princìpi e criteri in qualche misura analoghi a quelli propri della giurisdizione ordinaria (43).

Al riguardo occorre anzitutto tener conto degli interventi legislativi imperiali che, sin dai primordi dell'età postclassica, dettarono regole su procedimenti e decisioni affidati ai capi delle comunità cristiane ed ebraiche - vescovi e patriarchi - per la risoluzione di liti di diritto privato. É controversa la portata di taluni di questi interventi (44). A noi basti qui ricordare che nel 408 Arcadio, Onorio e Teodosio stabilirono che avessero diretta efficacia esecutiva le decisioni per le quali fedeli cristiani, anche senza l'espediente delle reciproche stipulazioni, si fossero concordemente e liberamente affidati al loro vescovo (episcopalis audientia) (45). Analogo provvedimento era stato adottato dieci anni prima in ordine agli arbitrati per cui fedeli di religione ebraica avessero fatto ricorso al giudizio dell'autorità spirituale della comunità di appartenenza (solitamente, il patriarca) (46).

Quanto all'arbitrato privato «laico» - non affidato cioè vescovi e patriarchi qua tales - è a dire che per esso rimasero fondamentalmente, ancora in età postclassica, struttura e regime classici (reciproche stipulazioni penali, nessuna coazione diretta all'osservanza della convenzione arbitrale, etc.): il legislatore intervenne per aspetti affatto marginali. Fu Giustiniano a legiferare, anche in materia di arbitrato, in maniera assai più incisiva. E tuttavia, sin dagli ultimi decenni IV secolo si era andato manifestando, anche per l'arbitrato «laico», quell'orientamento verso l'accostamento ai processi ufficiali del quale s'è detto.

Ne è una prima timida manifestazione una costituzione del 386, di provenienza occidentale, di Graziano, Valentiniano e Teodosio (47), dove l'arbitrato privato è menzionato accanto alle forme del processo ufficiale e, per un aspetto affatto marginale, ugualmente disciplinato: si impone a tutti i giudici, compresi espressamente tra essi gli arbitri privati, di rispettare nell'esercizio del loro compito il calendario festivo cristiano. Notevole è qui, più che la norma in sé (48), l'accostamento degli arbitri privati (arbitri sponte delecti) ai giudici ordinari.

In analogo ordine di idee può essere valutata (49) un'altra costituzione occidentale, di Arcadio ed Onorio, C. Th.15.14.9 del 395, dove, tra gli atti che conservano validità pure se compiuti tyrannicis temporibus, sono elencate le decisioni degli arbitri privati (sententiae iudicum privatorum... quos partium elegit adsensus et compromissi poena constituit).

Fu tuttavia Giustiniano - si diceva - che intervenne assai più incisivamente in materia. Anzitutto con C.2.55.4 del 529, per cui, se la convenzione arbitrale fosse stata accompagnata dal giuramento solenne, debitamente documentato, dei contendenti e dell'arbitro (50), la decisione arbitrale sarebbe stata direttamente vincolante: alla parte che era prevalsa si dava all'uopo, per l'esecuzione, un'actio in factum (51).

Solo che, dieci anni dopo, lo stesso Giustiniano, prendendo atto dei risultati negativi della prassi, addirittura proibì l'arbitrato giurato (Nov. 82.11): revocò quindi la sua precedente costituzione e, con essa, l'efficacia diretta della decisione arbitrale. Il compromissum cum poena, in buona sostanza con il regime quale era stato elaborato dai giuristi classici, tornò ad essere la regola (52). Ancora: poiché la stipulatio aveva subìto le trasformazioni che conosciamo (53), ecco che la convenzione arbitrale, con o senza pena, divenne di norma una convenzione scritta. Non è un caso pertanto che la legislazione di Giustiniano in materia arbitrale presuppone solitamente l'esistenza di un documento che faccia fede dei contenuti degli accordi tra le parti (54).

Si diceva più in alto dell'accostamento del giudizio arbitrale privato ai giudizi ordinari. Ne sono significativa manifestazione, nella legislazione di Giustiniano, la già richiamata regolamentazione dell'arbitrato con giuramento delle parti e del giudice, e la conseguente actio in factum per l'esecuzione della sententia arbitri, disposte da Giustiniano nel 529 (C.2.55.4) anche se dallo stesso imperatore abolite dieci anni dopo (nel 539, con Nov. 82.11). Ne ho già fatto cenno. Nella stessa direzione ricordo adesso l'interdizione alle donne di assumere il compito di arbitro (55); l'imposizione ai giudici, a tutti i giudici compresi gli arbitri privati, e ai patroni delle parti, anche in sede arbitrale, di prestare giuramento (56); l'imposizione alle parti, anche nel giudizio arbitrale, di prestare il ius iurandum calumniae (C.2.58.2.4, del 531); la conferma del divieto rivolto agli arbitri di svolgere attività nei giorni festivi del calendario cristiano (57); la facoltà concessa alle parti di giovarsi nel giudizio ordinario delle prove testimoniali raccolte nel procedimento arbitrale (C.2.55.5.4 e C.4.20.20, del 530); l'effetto interruttivo della prescrizione attribuito al procedimento arbitrale, alla stregua - è detto espressamente - della lis inchoata in ordinario iudicio (C.2.55.5.3, del 530).

11. Possiamo adesso chiederci se e quali vantaggi presentasse, nelle età postclassica e giustinianea, l'arbitrato privato rispetto al processo ordinario (58). Una cosa in proposito è sicura: venuto meno il processo formulare, si affermò un tipo di processo statale rigido e costoso in cui lo spazio lasciato all'autonomia e all'iniziativa delle parti era ancora più ridotto che nelle classiche cognitiones extra ordinem (59). Con Giustiniano il processo ufficiale mantenne le stesse caratteristiche e, per di più, si complicò in maniera intollerabile: si stabilirono, ad es., intricate prescrizioni e lungaggini in materia probatoria; si diede possibilità alla parte convenuta - dal momento della notificazione del libello a quello dell'emanazione della sentenza - di bloccare o quanto meno ritardare il procedimento con contestazioni di vario ordine; e così via (60).

D'altro canto, salvo eccezioni - la più significativa delle quali durata appena nove anni -, la sentenza arbitrale non aveva effetti esecutivi; né, in via di principio, era soggetta ad appello. Ma il procedimento relativo era gratuito (l'arbitro continuò a non percepire alcun compenso); e, nonostante i tanti interventi legislativi, il dibattimento arbitrale era assai più snello e semplice rispetto al processo ordinario, e ampia rimase complessivamente l'autonomia lasciata ai contendenti; ai quali, d'altronde, erano assicurate adesso maggiori garanzie che in precedenza (ius iurandum calumniae, giuramento dei patroni e dell'arbitro, etc.).

A ciò fa riscontro una buona diffusione, rivelata dall'interesse del legislatore e confermata dalle fonti documentali (61). Una diffusione certo notevole ma in nessun caso, si deve ritenere, superiore a quella dei giudizi ordinari (62).

12. Si è messo in luce ripetutamente come la concezione dell'arbitrato privato sia cambiata a partire dal IV secolo. S'è rilevato pure come sia andato mutando l'atteggiamento di «favore» delle fonti vive del diritto: al «disfavore» del pretore e della giurisprudenza e al disinteresse del legislatore classico corrisponde presso il legislatore postclassico una inversione di tendenza. Tutto questo mentre il nuovo processo ordinario postclassico e quello giustinianeo si andavano caratterizzando in modo tale da fare apparire «appetibile», assai più che in precedenza, il ricorso all'arbitrato privato.

Allo stato delle nostre conoscenze non si può dire però, in generale, che la pratica dell'arbitrato si sia espansa in proporzione. La sua diffusione, maggiore o minore a seconda dei periodi e dei tipi, appare comunque sempre apprezzabile.

Ebbene, in proposito è possibile pensare che la diffusione dell'arbitrato, più che al favore o disfavore del legislatore e dei minori o maggiori vantaggi rispetto al processo ufficiale, sia dipesa a Roma dall'esistenza di formazioni sociali libere e spontanee, in cui i membri si identificavano più che rispetto alla compagine statale, ed erano tra loro spontaneamente solidali. Si tratta dello stesso fenomeno, in fondo, per cui per lungo tempo il cittadino romano nel compiere un affare credette di essere largamente garantito dalla fides riposta nell'altro contraente, anch'egli, possiamo pensare, appartenente alla stessa aggregazione del tipo di quelle cui ho fatto riferimento; lo stesso fenomeno, dico ancora, per cui per lungo tempo fu relativamente agevole a creditori e debitori trovare persone pronte a fare da garanti, sì che le garanzie personali ebbero più fortuna di quelle reali.

Ho parlato di formazioni sociali libere e spontanee in cui i membri fossero liberamente e spontaneamente tra loro solidali. Il concetto, in relazione a quanto voglio significare, deve essere inteso da un canto nel senso più ampio e dall'altro in relazione al rapporto che veniva in considerazione. Per il tempo precedente la nascita del processo formulare ho già fatto riferimento ad un arbitrato libero che doveva avere luogo nei rapporti tra Romani e stranieri: si deve pensare, evidentemente, ad uomini di affari, che gestivano i loro negozi sulla base di una prassi ben determinata, e naturalmente interessati all'osservanza di essa. Con riguardo agli anni che seguirono la guerra sociale e il conferimento della cittadinanza agli italici, ho fatto riferimento ai socii, già fruitori di un diritto almeno in parte diverso da quello di Roma, del quale invece, sotto l'aspetto formale, erano venuti ad essere necessariamente partecipi. Per epoche successive e sino all'editto di Caracalla del 212, si può comunque pensare ai nuovi cives, interessati all'applicazione del diritto loro di origine. Per la tarda età repubblicana e per il tempo del Principato possiamo ricordare quelle cerchie di «amici» qualificati tali perché legati allo stesso «clan» (63); ed anche alle grandi famiglie del tempo del Principato, in cui contava più il vincolo politico che quello di sangue, quest'ultimo, peraltro, spesso inesistente. Per ogni epoca o quasi del diritto romano possiamo riferirci alle aggregazioni di artigiani, a certi collegia o sodalitates, specie con riguardo al Basso Impero quando, come è fin troppo noto, le classi sociali subirono un inarrestabile processo di irrigidimento. Giocarono un ruolo di non poco momento in proposito anche motivi religiosi, per cui abbiamo visto, ad es., il diffondersi di arbitrati speciali tra cristiani e tra ebrei.

Certo, per l'età preformulare e tra i nuovi cives il ricorso all'arbitrato, cui s'è fatto cenno, ebbe motivazioni per le quali rilevava il diritto da applicare, e con esso il tipo di giudizio cui ricorrere. Non dovette però in ogni caso essere assente una componente di tipo diverso, quella per cui parti ed arbitro sentivano di appartenere alla stessa formazione sociale nel senso indicato.

Ma per tutte o quasi le altre «aggregazioni» alle quali ho fatto riferimento ritengo di poter affermare in termini generali che è alla loro stessa esistenza e al vincolo che spontaneamente univa gli appartenenti a ciascuna di esse che si deve, assai più che a certi vantaggi del compromissum rispetto al processo formulare e rispetto agli altri modi procedendi del tempo, quella discreta diffusione dell'arbitrato privato che s'è visto essere attestata per il periodo che va dal I sec. a.C. al III d.C. (64).

Per l'età postclassica e con riguardo all'espiscopalis audientia e all'arbitrato affidato al capo spirituale ebraico, una spiegazione analoga è intuitiva e immediata. E d'altra parte l'integrazione sempre maggiore della nuova religione cristiana nel tessuto sociale dell'Impero romano può ritenersi essere stata alla base del calo di interesse, già prima di Giustiniano, per l'arbitrato affidato ai vescovi (65).

Riprende allora quota l'arbitrato `laico' (66), per vero mai caduto in desuetudine, per la cui diffusione - ripeto - può forse essere sufficiente fare riferimento non tanto alle complicazioni, alle lungaggini e ai costi del processo privato statale, quanto a quell'irrigidimento della società in classi che è tra le più note caratteristiche peculiari del Basso Impero (67).

Queste mie affermazioni - è doveroso dirlo - sono tributarie di quella moderna dottrina, affermata per l'arbitrato in sé e con lo sguardo diretto alla realtà di oggi (68), per cui il proprium dell'arbitrato sarebbe appunto il fatto di essere espressione di gruppi «amicali», o comunque «sociali» - intesi come faticosamente ho tentato di chiarire -, nei quali i componenti si identificano più che nella compagine statale, talché ritengano più sicuro, anzi affatto naturale, risolvere tra essi stessi le controversie privatistiche che reciprocamente li riguardano, affidandole quindi «ad uno dei loro» anziché ad un giudice integrato in una struttura - la struttura statale - da essi, in relazione all'affare di cui si tratta, vissuta come estranea.

© Matteo Marrone
Dipartimento di Storia del Diritto
Università di Palermo


Note:

1 Contro v. per tutti M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht (München 1966), 20 e seg.; B. ALBANESE, Il processo privato romano delle «legis actiones» (Palermo 1987, rist. 1993), 12.
2 Sappiamo, invece, per l'epoca considerata, di arbitrati internazionali e pubblici: E. DE RUGGIERO, L'arbitrato pubblico in relazione col privato presso i Romani, in BIDR, 5 (1892), 49 e segg.; G. BROGGINI, Iudex arbiterve (Köln Graz 1957), 44 e segg.; M. LEMOSSE, Rèflexion sur la conception romaine de l'arbitrage internationale, in Aktuelle Fragen aus modernem Recht und Rechtsgeschichte. Gedächtnissschrift für R. Schmidt (1966), 341 e segg. - Su un particolare arbitrato, tra le comunità dei Sallvienses e dei Sosinestanei: A. TORRENT, El arbitraje en el bronce de Contreiba, in Studi Sanfilippo, 2 (Milano 1982), 639ss.
3 Cfr. G. BROGGINI, op. cit., 189 e segg.; 230 e seg.; M. KASER, op. cit., 113; v. già E. BETTI, Diritto romano, I (Padova 1935), 493 e segg.; Istituzioni di diritto romano, I (Padova 1947), 274 e segg.; cfr. G. CRIFO', voce «Arbitrato. a) Diritto romano, in Encicl. del Diritto, 2 (1958), 893.
4
A qualche decennio prima pensa K.-H. ZIEGLER, Das private Schiedsgericht im antiken römischen Recht (München 1971), 5ss.
5 O. LENEL, Das Edictum perpetuum, III ediz. (Leipzig 1927; ristampa anastatica Aalen 1985), 130 e seg.
6 Così D.4.8.32.12 (Paul. 13 ad ed.); cfr. K.-H. ZIEGLER, op. cit., 7 nt.7, 84 e segg.; v. anche J. PARICIO, Notas sobre la sentencia del arbiter ex compromisso. Sanción contra el árbitro que no dió sentencia, in RIDA, 31 (1984), 297 e segg.
7 Riguardò un punto affatto marginale la norma della lex Iulia che, secondo D.4.8.9.2 (Ulp. 13 ad ed.), avrebbe fatto riferimento all'arbitrato (negando ai giudici già investiti della stessa controversia di assumere il ruolo di arbitri). - Appare chiaro da D.4.8.41 (Callistr. 1 ed. mon.) che l'esclusione dal ruolo di arbitri dei minori di 25 anni non fu stabilito dalla lex Iulia ma ricavato da essa in via di interpretazione.
8 Arg. ex D.4.8.14 (Pomp. 11 ad Q. Mucium). La clausola relativa era spesso articolata in modo da dare facoltà all'arbitro di prorogare il termine (c.d. clausula de die proferenda): D.4.8.25.1 e 27 pr. (Ulp. 13 ad ed.). Cfr. K.-H. ZIEGLER, op. cit., 65 e seg., 70 e seg.
9 D.4.8.27.1 (Ulp. 13 ad ed.), D.4.8.32.19 (Paul. 13 ad ed.), D.4.8.47 pr. e 49.2 (Iul. 4 dig.).
10 D.4.8.32.6 (Paul. 13 dig.).
11 D.4.8.32.7 (Paul. 13 ad ed.). Che non potesse aver luogo arbitrato per questioni di in integrum restitutio dipendeva dalla struttura dell'in integrum restitutio stessa. Un divieto in tal senso per i classici avrebbe avuto poco senso; né essi lo espressero mai. Ebbe un senso invece che, mutata la procedura, questo divieto sia stato espresso da Giustiniano, in CI.2.46.3.1 (a. 531).
12
D.4.8.7 pr.-1 e 9 pr. (Ulp. 13 ad ed.), D.4.8.8 (Paul. 13 ad ed.).
13
D.4.8.9.1 (Ulp. 13 ad ed.), D.4.8.41 (Call. 1 ed mon.). Non è improbabile che dalla funzione di arbitri fossero escluse le donne, almeno in punto di fatto: K.-H. ZIEGLER, op. cit., 119 e seg.
14 Più precisamente, il pretore non poteva costringere a svolgere il compito di arbitro, pure se avesse accettato, altro magistrato di pari o superiore imperium: D.4.4.3.8 (Ulp. 13 ad ed.) e 4 (Paul. 13 ad ed.); K.-H. ZIEGLER, op. cit., 120 e seg.
15 Su ciò è sufficiente fare rinvio, ancora una volta, a K.-H. ZIEGLER, op. cit., 129 e segg.
16 D.4.8.21.9 (Ulp. 13 ad ed.), D.4.8.27.4 (Ulp. 13 ad ed.); D.4.8.40 (Pomp. 11 var. lect.), etc.; R. KNÜTEL, Stipulatio poenae (Köln-Wien 1976), 203 e segg.
17 Cfr. D.4.8.30 (Paul. 13 ad ed.).
18 É possibile però ritenere, pure se mancano testimonianze espresse in proposito, che, se ad agire in giudizio dopo la sentenza arbitrale fosse stata la parte cui l'arbitro aveva dato ragione, contro di lui l'avversario non avrebbe potuto pretendere la poena compromissi: così M. TALAMANCA, Ricerche in tema di "compromissum" (Milano 1958), 111 nt. 26.
19 Cfr. D.4.8.32.14 (Paul. 13 ad ed.), C.2.55.1 (Anton., a.213); v. pure D.49.1.23 pr. (Papin. 19 resp.), che non riguarda però il processo formulare.
20 D.4.8.32.14 (Ulp. 13 ad ed.), C.2.55..3 (Diocl. et Maxim., a. 290 vel 293).
21 Va da sé che penso soprattutto a Labeone ed Aristone. I testi più significativi e noti sono D.50.16.19 (Ulp. 11 ad ed.) e D.2.14.7.2 (Ulp. 4 ad ed.), su cui, per tutti (la letteratura al riguardo è sterminata): R. SANTORO, Il contratto nel pensiero di Labeone, in Annali Palermo, 37 (1983); F. GALLO, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano, I (Torino 1992), 97ss. e passim; G. MELILLO, Contrahere, pacisci, transigere. Contributi allo studio del negozio bilaterale romano (Napoli 1994), 28ss. E peraltro, sul tema si è discorso molto e approfonditamente durante il II Congresso Internazionale dell'ARISTEC su «Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica», che ha avuto luogo a Palermo e Trapani dal 7 al 10 giugno 1995 e i cui "Atti" sono in corso di pubblicazione.
22 Cfr. D.4.8.2 (Ulp. 4 ad ed.), Consult. 9.17 (ex corpore Gregor.). In D.4.8.11.3 (Ulp. 13 ad ed.) si parla tuttavia di un compromissum nudo pacto, in relazione al quale l'unica tutela pensabile è l'exc. pacti conventi; e in D.4.8.13.1 (Ulp. 13 ad ed.), per il caso particolare in cui a promettere con stipulatio la poena compromissi fosse stata soltanto una parte, si dà a questa una exceptio veluti pacti contro l'azione esercitata dall'avversario nonostante il compromissum. La genuinità del fr. 13.1, nella parte in cui menziona l'exc. veluti pacti, è controversa: per la sostanziale classicità (salvo a credere interpolata l'exceptio veluti pacti al posto della comune exceptio pacti conventi): M. TALAMANCA, op. cit., 126 e segg.; contro F. BONIFACIO, voce «Compromesso (dir. romano), in Nov. Dig., 3 (1959), 785 e seg.; K.-H ZIEGLER, op. cit., 51 e seg., 183 e segg. Da notare che una exc. veluti pacti compare anche in una c. di Giustiniano (C.2.55.5 pr.) quale rimedio in favore del convenuto nel caso di compromissum sine poena: v. più avanti, nt. 52. - Che alla convenzione arbitrale i classici riconoscessero autonomia e rilevanza in sé (pur negando fondamentalmente l'exceptio pacti conventi contro l'azione della parte che agisse in giudizio in spregio della convenzione stessa), sostiene decisamente M. TALAMANCA, Ricerche, cit., passim; L'arbitrato romano dai `veteres' a Giustiniano (rec. a Ziegler) cit., in Labeo, 20 (1974), 86 e segg.; Sull'interpretazione di Ulpiano, l.13 `ad ed., D.4.8.21.9-11, in Studi in on. di G. Chiarelli, 4 (1974), 4227 e segg.
23 V. tuttavia la nt. precedente.
24
K.-H. ZIEGLER, op. cit., 25, 161ss.
25 Su ciò, un cenno pure presso D. E. VALIÑ0, Prólogo a G.BUIGUES OLIVER, La solución amistosa de los conflictos en derecho romano: el arbiter ex compromisso (Madrid 1990), 18.
26
Cfr. K.-H. ZIEGLER, op. cit., 25. Anche ad ammettere che l'arbitro dovesse decidere secondo il diritto romano, nessuno dubita che fosse in facoltà delle parti demandare espressamente all'arbitro un giudizio secondo equità (cfr. infra, nt. 28); e quindi - io penso - anche sulla base di un sistema giuridico diverso da quello romano.
27 Ciò è ammesso comunemente, pure se non è direttamente testimoniato: cfr. M. TALAMANCA, op. cit., 28 ed ivi nt. 65. - Altra questione è se il giudice potesse per sua libera scelta, quando si trattava - come di norma - di questioni «edittali», giudicare in ogni caso secondo equità. Il punto è controverso: per la soluzione positiva K.-H ZIEGLER, op. cit., 136 e seg.; J. PARICIO, Notas sobre la sentencia cit., 288 e segg.; v. pure G.BUIGUES OLIVER, La solución amistosa cit., 132 e segg.; solleva dubbi, pure se in definitiva preferisce non pronunziarsi: M. TALAMANCA, op. cit., 24 e segg.; L'arbitrato romano dai `veteres' a Giustiniano (rec. a Ziegler), in Labeo, 20 (1974), 96.
28 V. specificamente C.2.55.1 (Anton., a.213).
29 Non ritengo invece che anche la sentenza dell'arbiter ex compromisso dovesse essere necessariamente pecuniaria: cfr. M. TALAMANCA, Ricerche, cit., 29 e segg.; K.-H. ZIEGLER, Das private Schiedsgericht cit., 138 e segg.; Papinian zum privaten Schiedsgericht, in ZSS, 109 (1992), 536 e ivi nt. 26; manifesta incertezze J. PARICIO, Notas sobre la sentencia cit., 293 e segg.
30 Per una compiuta rassegna di queste testimonianze: K.-H. ZIEGLER, Das private Schiedsgericht cit., 16 e segg., 150 e segg.
31 Di un compromissum (ma non sappiamo di che specie fosse) parla anche Cic. pro Scauro. 38. A torto invece K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 21 e seg., richiama tra i testi sull'arbitrato privato mediante compromissum Cic. ad Quintum fr. 2.14.4 e ad Att. 4.15.7: vi si parla sì di arbitratus e compromittere, non però con riguardo ad una controversia privata ma con riguardo ad una sorta di scommessa elettorale; in merito alla quale, peraltro, neppure appare probabile che le parti si fossero scambiate stipulazioni penali (più candidati avevano depositato 500.000 sesterzi ciascuno presso Catone; il quale avrebbe dovuto poi distribuire l'intera somma depositata a quanti degli stessi candidati non fossero incorsi in un ambitus illegale): cfr. M. TALAMANCA, Ricerche, cit., 71 e segg.; L'arbitrato romano... (rec. a Ziegler), cit., 89 e seg.
32
Cfr. F. BLUME, K. LACHMANN e A. RUDORFF, Die Schriften der römischen Feldmesser, I (Berlin 1948), pag. 43 e seg.; C. THULIN, Corpus Agrimensorum Romanorum, I fasc. 1 (Stuttgart 1913,), pag. 33.
33 Cfr. K.-H. ZIEGLER, luoghi citati supra, nt. 30.
34 Cfr. K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 155 e seg.
35 Cfr. K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 156s.
36 Cfr. K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 156.
37 V. ad es.
D.4.8.44 (Scaev. 2 dig.); e Tab. Heracl. 76-82, CIL 1268, Tacitus hist. 1.24 e Sveton. Otho, 4.2, e il passo di Agennius Urbicus, richiamati più in alto.
38 D.4.8.42 (Papin. 2 resp.) e 32.20 (Paul. 13 ad ed.). Un compromesso per una questione di proprietà in D.21.2.56.1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.).
39 D.4.8.3 pr. (Ulp. 13 ad ed.).
40 V. specialmente D.4.8.43 (Scaev. 1 resp.). Sulla definizione del compromesso 'de rebus controversiisve' come plenum compromissum, cfr. D.4.8.21.6 (Ulp. 13 ad ed.).
41 D.4.8.19.1 (Paul. 13 ad ed.) e 21 pr. (Ulp. 13 ad ed.).
42 V. ad es. D.4.8.23.3 (Ulp. 13 ad ed.), 39 pr. (Iav. 11 ex Cassio), 52 (Marcian. 2 regul.).
43 Cfr. M. TALAMANCA, Ricerche cit., 143 nt. 229; K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 177, 192. - Preferisco non parlare in proposito di «processualizzazione» per le osservazioni in proposito espresse da E. FAZZALARI: da ultimo in Fondamenti dell'arbitrato, in Rivista dell'arbitrato, 1 (1995), 1 e segg.
44 In particolare è oggetto di dispute se, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, i poteri decisionali di vescovi e patriarchi siano stati rafforzati oppure ridotti. Sono molti infatti gli studiosi convinti che prima di allora a vescovi e patriarchi fosse stata riconosciuta una potestà praticamente giurisdizionale; talché gli interventi imperiali del 398 e 408 (richiamati nelle due note che seguono) avrebbero tolto loro questo potere (eccetto che in materia spirituale e religiosa) e riconosciuto agli stessi nelle materie di diritto privato, su accordo delle parti (anche se informalmente manifestato), niente più che il ruolo di arbitri privati, con gli effetti indicati nel testo. In questo senso, v. per tutti M.R. CIMMA, L'episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano (Torino 1989), 31 e segg., 81 e segg.; 88 e seg. Altri autori negano invece che vescovi e patriarchi abbiano mai avuto una potestà praticamente giurisdizionale (eccetto che in materia religiosa), e credono che le cc. del 398 e del 408 abbiano solo regolato e conferito maggiori effetti all'arbitrato di patriarchi e vescovi. In questo senso, per tutti, W. SELB, Episcopalis audientia von der Zeit Konstantins bis zur Nov.XXXV Valentinians III, in ZSS, 84 (1967),171 e segg.; cfr. K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 167 e segg. La prima tesi si fonda, sul piano testuale e per quanto riguarda l'episcopalis audientia, soprattutto su C. Sirmond. 1 (Constant., a. 333), un testo che quanti esprimono diverso avviso ritengono, sulla scia di Gotofredo, del tutto inaffidante. - A parte i testi richiamati nelle due note che seguono, altre fonti rilevanti in materia, di controversa interpretazione, sono: C.Th. 2.27.1 (Constant., a. 318), CI.1.4.7 (Arcad. et Honor., a. 398), C.Th,16.11.1 (Arcad. et Honor., a.399), Nov.
Valent. 35 (a. 452).
45 C.Th.1.27.2 = CI.1.4.8 (Arcadius, Honorius et Theodosius, a. 408).
46 Cfr. C.Th.2.1.10 (=CI.1.9.8) (Arcadius et Honorius, a. 398).
47 La c. è in C.Th. 2.8.18 e C. Th. 11.7.13, che trova sostanziale riscontro in CI.3.12.6-5-6 (Valent., Theod. et Arcad.), di qualche anno dopo (a. 389).
48 Un problema del genere risulta essere stato già sollevato dalla giurisprudenza classica, con riferimento naturalmente ai dies feriati: cfr. D.4.8.36 (Ulp. 77 ad ed.); K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 130s.; 178.
49 Cfr. K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 179.
50 I contendenti avrebbero giurato ut arbitri sententiae stetur (§ 2); l'arbitro: super lite cum omni veritate dirimenda (§ 1).
51 In CI.2.55.4.4, in alternativa all'actio in factum si danno, secundum quod facti qualitas postulaverit, una condictio ex lege o un'actio in rem utilis. Ma nel successivo § 6 e in CI.2.55.5 pr., dello stesso Giustiniano, è contemplata solo l'actio in factum.
52 Si ammise però, con C.2.55.5 pr. (a.530), un arbitrato informale e sine poena, sanzionato, sempreché le parti avessero sottoscritto la sentenza arbitrale, da actio in factum ed exceptio veluti pacti. In merito ai caratteri di questo arbitrato (informale e sine poena) e alla relativa sanzione mediante exc. veluti pacti Giustiniano dichiara non trattarsi di novità (Cum antea sancitum fuerat ...). Secondo K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 182 e segg., 251, l'imperatore avrebbe fatto riferimento a precedenti postclassici. V. tuttavia D.4.8.13.1 (Ulp. 13 ad ed.), che ammette, per un caso affatto particolare, una exc. veluti pacti (cfr. supra, nt. 22); D.4.8.27.7 (Ulp. 13 ad ed.) e 28 (Paul. 13 ad ed.), dove non si nega efficacia ad un compromissum sine poena (effettuato però mediante reciproche stipulationes); D.4.8.11.3 (Ulp. 13 ad ed.), dove si discorre di un compromissum nudo pacto. Su D.4.8.13.1, v. supra, nt.22; sugli altri testi del Digesto citati qui: M. TALAMANCA, Ricerche cit., 103 e segg., 116, 122 e segg.; L'arbitrato romano... (rec. a Ziegler) cit., 90, 97, 99 nt. 15. - L'actio in factum prevista da C.2.55.5 pr., non riguardando l'arbitrato giurato, avrebbe dovuto restare in vigore anche dopo Nov. 82.11. Ma le fonti bizantine si esprimono in senso contrario: cfr. M. TALAMANCA, Ricerche, cit., 144 nt. 230; K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 251, 259s. - Un'actio in factum per l'esecuzione della sentenza arbitrale fu prevista pure, per un'ipotesi in cui le parti l'avessero sottoscritta, in C.2.55.4.6-7 (Iust., a.529), e non sembra essere stata abolita da Nov.82.11: così K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 249. Sta di fatto, ad ogni modo, che le fonti papirologiche e non giuridiche del tempo immediatamente successivo alla citata legislazione giustinianea (cfr. infra, nt. 61) riguardano compromissa cum poena. Da notare ancora che le stesse fonti sembrano ignorare il divieto dell'arbitrato giurato disposto da Nov. 82.11: cfr. ZIEGLER, op. ult. cit., 263 e segg.
53 Peraltro ribadite da Giustiniano a proposito di arbitrato: cfr. C.2.55.4.7 (a.529).
54 Basti scorrere, per rendersene conto, il testo delle cc. giustinianee che siamo andati richiamando.
55 Cfr. C.2.55.6, del 531. - Il divieto, pure a negare che fosse già del diritto classico (v. supra, nt. 13), dovette in ogni caso avere valore pratico più che altro nei rapporti tra patrone e liberti, secondo quanto del resto fa pensare lo stesso testo della c.: cfr. K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 119 e seg., 222 e seg.
56 Cfr. C.3.1.14.1 e 4, del 530. Si deve pensare, in proposito, ad un giuramento del tutto indipendente da quello di parti e giudice cui Giustiniano aveva conferito effetti particolari.
57 Il divieto fu realizzato con l'inclusione nel Codex repetitae praelectionis - in C.3.12.6 - della citata c. del 386.
58 Di assai maggiori vantaggi del procedimento arbitrale privato rispetto al processo ufficiale nelle età postclassica e giustinianea parla decisamente K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 199 e segg., 272 e seg.
59
V. per tutti M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht (München 1966), 410 e segg.
60 V., per tutti, U. ZILLETTI, Studi sul processo civile giustinianeo (Milano 1965); M. KASER, op. ult. cit., l.c.; D. SIMON, Untersuchungen zum justinianischen Zivilprozess (München 1969).
61 Queste fonti sono puntualmente elencate ed analizzate da K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 193ss.; 263ss. Per l'età postclassica pregiustinianea non ci è giunto nessun documento in lingua latina; cinque sono quelli a noi pervenuti (e noti a Ziegler) in lingua greca: P. Giss.104 (del 399), P. Lond. 992 (del 507) [=FIRA,III,n.182], SB 5681 e BGU 315 (di data incerta ma certamente di età postclassica), SB 7033 (del 481); cui si deve aggiungere, per quanto riguarda l'episcopalis audientia, P. Lips.43 (di data incerta ma sicuramente del IV sec.) [=FIRA, III, n.183]. Su quest'ultimo testo v. però M. R. CIMMA, op. cit., 69 e seg. - Più numerosi sono i documenti successivi alla richiamata legislazione giustinianea, del VI e VII sec., tutti in lingua greca, analizzati (per quanto possibile, ché molti sono più o meno gravemente lacunosi) da Ziegler: P. Lond. 1707 (del 566), SB 4847 (di epoca bizantina), P. Lond. 456 (VII sec.), SB 4672 (del tempo arabo), P. Lond. 1708 (del 567?), P. Lond. 1709 (del 570), P. Stud. Pal. XX. 243 VII sec.), P.Lond. 1732 (del 586­?), P. Greng. 99a (del VI o VII sec.), P. Mon. 6 (del 583), P. Lond.113 (VI sec.). Pure interessanti i documenti circa casi in cui, in definitiva, si perviene ad una transazione promossa dall'arbitro-amichevole compositore: P. Mon. 1 (del 574), P. Mon. 7 (del 583), P. Mon. 14 (del 594), SB 8988 (del 647). Viene in considerazione in materia anche una lettera di Papa Gregorio Magno al Vescovo di Siracusa, dell'a.
599 (Greg. Magn. epist. 9.91): cfr. K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 271 e seg.
62 É fuori discussione che le testimonianze dell'applicazione, in concreto, del processo ufficiale per le liti tra privati nelle età postclassica e giustinianea sono assai più numerose rispetto a quelle relative al procedimento arbitrale privato.
63 Va da sé che penso agli «amici» nel significato identificato da B. ALBANESE, La struttura della manumissio inter amicos. Contributo alla storia dell'amicitia romana, in Annali Sem. Giurid. Univ. Palermo, 29 (1962), 5 e segg. [=Scritti giuridici, I, Palermo 1991, 217 e segg.]; L'«amicitia» del diritto privato romano, in Jus, 14 (1963), 130 e segg.) [=Scritti giuridici cit., I, 313 e segg.].
64 In attesa di procedere ad una più attenta analisi delle fonti - che a prima vista sembrano per vero non promettere molto in merito all'aspetto che qui interessa - mi limito intanto a rilevare quanto segue. Notevole è, dal punto di vista adesso considerato, il fatto che Cicerone (pro Rosc. com. 5/15) parli di arbitrato privato in termini di officium domesticum; e che altrove (pro Caec.2.6) indichi l'arbitro con l'appellativo di disceptator domesticus che garantisce honorariam operam amici. Così, almeno, secondo l'interpretazione di G. BROGGINI, Iudex arbiterve cit., 212, 215 e seg. (K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 20). Né può essere privo di significato, anche se non si tratta di vero arbitrato (cfr. supra, nt. 31), il fatto che la vicenda che conosciamo attraverso Cic. ad Q. fratrem 2.14.4 e ad Atticum 4.15.7, riguardi, nel ruolo sia pure improprio di parti ed arbitro, personaggi certamente della stessa stretta cerchia sociale. - L'episodio narrato da Tacito hist. 1.24 e Sveton. Otho, 4.2 (cfr. supra, § 9) è di un arbitrato che due militi affidano al loro comandante. - Sarebbe interessante conoscere lo stato sociale di L. Cominio Primo e L. Appuleio Proculo da una parte e Ti. Crasso Firmo dall'altra, rispettivamente parti e arbitro per un regolamento di confini in Tab. Hercol. 76-80, del 69-70 d.C. (il testo è stato pubblicato da V. ARANGIO-RUIZ e G. PUGLIESE CARRATELLI, Tabulae Herculanenses, V, in La parola del passato, 10, 1955, 449ss.).
65 Cfr. K.-H. ZIEGLER, op. ult. cit., 236s., 272. Da notare peraltro che, negli arbitrati «confessionali» cui si è fatto cenno, la scelta dell'arbitro non era del tutto libera, perché l'arbitro non avrebbe potuto non essere il capo spirituale della comunità religiosa locale. Quanto poi alla episcopalis audientia, non mancano nelle fonti tracce di pressioni esercitate sui fedeli per il ricorso ad essa: cfr. W. SELB, op. cit., 198; M. R.CIMMA, op. cit., 92, 119 e seg.
66 Cfr. supra, nt. 61.
67 Una conferma di ciò, che la diffusione dell'arbitrato privato «laico» durante il basso impero sia da mettere in connessione con le stratificazioni sociali particolarmente rigide in questo periodo, potrebbe forse venire dall'analisi prosopografica dei personaggi che compaiono nelle fonti papirologiche richiamate supra, nt. 61. Notevole è ad ogni modo che l'arbitrato cui sembra fare riferimento nel 599 Gregorio Magno, epist. 9.91 (cfr. K:-H. ZIEGLER, op. cit., 271) avrebbe avuto luogo tra il vescovo di Siracusa e un dignitario del luogo.
68 F. MAZZARELLA, Arbitrato e processo, Padova, 1968; Sull'efficacia e l'impugnabilità dei lodi dopo la legge di riforma del 9 febbraio 1983, in Foro Ital., 1984, V, 181ss.


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