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IURA |
Grandezze e miserie del giudizio
di Bernardo Albanese

Palermo. Museo Regionale: Cippo da Chiusi con re assiso
in tribunal con augure e scriba. Età di Porsenna (500 a.C.
circa)
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Questa breve comunicazione non toccherà, se non alla fine
e sommariamente, temi attinenti al campo dei miei studi.
Non tratterò del giudizio nel mondo del diritto romano,
e neppure nel mondo del diritto in generale - pur se tutti
sappiamo l'enorme rilevanza che il giudicare ed il giudizio
hanno sempre avuto e hanno nella sfera giuridica. Invece,
esporrò alcuni pensieri isolati che sono nati in me dalla
riflessione sul fenomeno del giudicare in senso generalissimo.
Tra le prime e più evidenti acquisizioni cui si perviene
se ci si pone a riflettere sul giudizio, sull'atto umano
del giudicare, è che quell'atto costituisce una operazione
interiore assolutamente necessaria e continuamente ricorrente
nell'esperienza d'ogni uomo, quale che sia il suo livello
di cultura o di intelligenza.
In effetti, il giudizio, nella sua portata più ampia, che
qui giova sottolineare, può definirsi - senza nessuna pretesa
di originalità e di approfondimento - come l'atto con cui
qualifichiamo alcunché in termini di valore, e quindi, almeno
nella maggior parte dei casi, in termini di approvazione
o disapprovazione, di positivo o negativo. In questa sua
generalissima valenza, il giudicare appare in modo evidente
come un'attività interiore inseparabile dal vivere d'ogni
creatura umana. Vivere da persona umana, infatti, è impensabile
senza un incessante ímpegno di valutazione, cioè senza giudizio.
Prima di tutto nella sfera empirica delle continue scelte
necessarie per il proprio operare materiale; poi, sempre
nell'ambito empirico, nell'altrettanto continuo e necessario
confronto con l'operare degli altri con i quali vivendo
si viene in contatto; infine, naturalmente, nel campo non
empírico della riflessione consapevole e sistematica. Comunque,
anche per uomini che non si sollevassero mai al di là dell'esperienza
pragmatica, che non acquistassero mai l'abitudine alla riflessione,
alla meditazione su se stessi, sugli altri, sull'esistenza
- per uomini, insomma, del tipo (alquanto astratto e teorico,
naturalmente) dei "bestioni" vichiani - giudicare, come
che sia, anche rozzamente, è necessario per vivere così
come è necessario a respirare. E ciò nella preistoria, nel
presente, nel futuro.
E, vero però che nella maggior parte dei casi, vivendo,
non ci accorgiamo neppure di formulare di continuo giudizi
sui nostri atti e su noi stessi, sugli atti altrui, sugli
altri uomini, e su mille e mille altre realtà. Ma di regola
non ci accorgiamo neppure di respirare. Se si vuole, può
accadere all'uomo di configurarsi come M. Jourdain, il borghese
gentiluomo di Molière, che scopriva attonito di "fare della
prosa", ogni volta che apriva bocca. Così scopriamo che,
spesso senza saperlo, siamo tutti giudici.
Non c'è bisogno di insistere molto sulla responsabilità
connessa a questo ruolo di giudici cui siamo condannati
consapevolmente o inconsapevolmente. Giudicare è, per qualche
verso, atto di affermazione di superiorità rispetto al quid
che si giudica. E un porsi al di fuori, anzi al di
sopra, di quel che si giudica. In ogni minimo giudizio vi
è la dignità che Manzoni delinea a proposito di Napoleone
posto tra due secoli: «Ei fe' silenzio ed arbitro / s'assise
in mezzo a lor». Si può citare, sia pur forzandone la portata,
un celebre detto di San Paolo: «L'uomo spirituale giudica
tutto e non è giudicato da nessuno» (Cor. 2, 15); si potrebbe
utilizzare questa difficile frase per sottolineare la responsabilità
del giudizio e la sua grandezza, affermando che bisogna
attribuire al nostro inevitabile e continuo giudicare una
dignità che ci renda sempre degni d'essere qualificati uomini
spirituali.
Una seconda evidente acquisizione, cui si giunge immediatamente
non appena ci si ponga a riflettere sull'atto umano del
giudicare, è che esso, paradossalmente, pur necessario e
continuo com'è, secondo quanto si è detto, ci appare, per
qualche verso, del tutto innaturale.
Che io sappia, nessuno ha espresso quel che voglio ora rilevare
in una forma più sintetica ed efficace di quanto abbia fatto,
in una ammirevole pagina, Salvatore Satta, parlando di ciò
che egli chiamava «il mistero del processo». Satta, grande
gíurista e grande artista, intitolò il suo romanzo più bello
Il giorno del giudizio: e proprio sul giudizio egli
meditò a fondo senza sosta. Leggiamo la parte essenziale
della sua ríflessione (Solíloqui e colloqui di un giurista,
Padova 1968, p. 11).
Veramente processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli
atti della vita che non hanno scopo. Paradosso? No, non
è un paradosso; è un mistero, il mistero del processo, il
mistero della vita. Se noi contempliamo il corso della nostra
esistenza, esso ci appare come un susseguirsi, un intrecciarsi,
un accavallarsí di azioni [
]: la vita stessa anzi non è
altro che l'immenso fiume dell'azione umana [
] Ed ecco,
ad un dato punto, questo fiume si arresta; anzi, ad ogni
istante, ad ogni momento del suo corso si arresta, deve
arrestarsi se non vuole divenire un torrente folle che tutto
travolga e sommerga: l'azione si ripiega in se stessa, e
docilmente, rassegnatamente si sottopone al giudizio. Perché
questa battuta d'arresto è proprio il giudizio: un atto
dunque contrario all'economia della vita, che è tutta movimento,
tutta volontà e tutta azione, un atto antiumano, inumano,
un atto veramente - se lo si considera, ben inteso, nella
sua essenza - che non ha scopo.
Fin qui Salvatore Satta; e si intende subito che egli vuol
dire che il giudizio non ha scopo, nel senso che esso non
ha uno scopo pragmatico dello stesso tipo di quello delle
tumultuose azioni concrete su cui si erge, appunto per superarle
e trascenderle.
Non è questa l'occasione per cogliere nelle parole che ho
citato gli echi di altri grandi spiriti; ad esempio Pascal
(con il suo insistere sull'uomo come "canna pensante", cioè
giudicante), di Bergson (con la sua attenzione approfondita
per l'esperienza della durata e per il lampo dell'intuizione),
di Pirandello (con la sua incessante angoscia per l'impossibilità
di razionalizzare il "non si sa come" della vita negli schemi
dei giudizi).
Non credo affatto di tradire il senso profondo della concezione
che Satta proponeva per il giudizio, se aggiungo che, proprio
in quanto atto senza scopo, antiumano, inumano, il giudizio,
ogni giudizio ha in sé una scintilla di sovrumano, anzi
di divino. Con Pascal dirò che «l'homme depasse infiniment
l'homme», massimamente allorché egli giudica. Insomma, in
qualche modo nega la sua natura.
Grandezze del giudizio, quindi. E tuttavia, inseparabile
da quelle grandezze, vi è spesso nel giudizio, e anzi quasi
alla radice dell'atto del giudicare, la minaccia di un'ombra
oscurissima, portatrice di profonde miserie: moltissimi
giudizi infatti, per le stesse coordinate elementari della
nostra struttura psicologica, rischiano di configurarsi
come affermazioni di potere.
In termini più semplici, si può dire che spessissimo il
giudizio è esposto al rischio di configurarsi come atto
di condanna o assoluzione. Ciò è particolarmente evidente,
è ovvio, allorché oggetto del nostro giudizio sono gli altri
e le azioni degli altri, anche se molte delle cose che dico
possono applicarsi, con specificazioni che qui non è il
caso di approfondire, anche al nostro giudizio sui nostri
atti e su noi stessi.
Il veleno che insidia sovente il giudizio si manifesta,
in sostanza, quando la superiorità sull'oggetto, che abbiamo
visto essere intrinseca all'atto stesso del giudicare, si
configura come affermazione di potere, o come arbitrio (del
resto - e ciò è più significativo di quanto comunemente
si creda - iudex e arbiter, nell'antica esperienza
giudiziaria romana, erano figure equivalenti, e differenti
solo per campo tecnico di attività).
A questa amara radice che può tanto spesso corrompere la
nobile pianta del giudizio si riferisce ovviamente il grande
comandamento del Vangelo: «Non giudicate». Non si pone in
guardia l'uomo, naturalmente, rispetto al grande compito
dell'arrestare la corsa precipitosa del reale per riflettere
e valutare (un compito inevitabile e, come si è visto, sovrumano,
in quanto dote dello pnemautikòj 'anqropoj, dello spiritualis
homo di cui parlava Paolo), quanto piuttosto rispetto
alla sua triste inclinazione ad affermare la propria superioriorità
sul prossimo, inclínazione che con tutta naturalezza ci
induce a presumerci forniti di qualche autorità sugli altri.
E chiaro che precisazioni particolari - ma non radicali
mutamenti di prospettiva - andrebbero proposte in relazione
all'attività di giudizio dei soggetti cui la collettività
organizzata, ed in particolare lo Stato, affida il compito
di giudicare e di condannare o assolvere. Mi limito a dire
che anche per i giudici di professione sussiste, a mio parere,
un particolare dovere di sottrarsi al rischio di concepire
il proprio giudizio prevalentemente in termini di potere,
e non di valutazione. Ma di questo non posso e non voglio
discorrere ora.
Per concludere, vorrei esporre una breve riflessione suggerita
dallantica esperienza giuridica romana.
Premetto che, come tutti sanno, il vocabolario del "giudicare"
è direttamente connesso, nelle lingue neolatine (e però
anche in altre, in particolare in inglese), all'esperienza
linguistica romana. Ius dicere e iudex, iudicare, iudicatum
e iudicatio sono termini in cui si è concretata gran
parte dell'esperienza romana' specie nella sfera dei rapporti
giuridici privati. E da quellantica esperienza è stata
ed è ancora, profondissimamente influenzata la moderna esperienza
giuridica, anche nel linguaggio.
Ora è interessante notare come, nella sfera specifica del
diritto, il termine iudicium (la cui valenza originaria
possiamo solo congetturare, per mancanza di fonti), quando
lo incontriamo in età progredita (III-II secolo a.C.), presenta
un fascio di significati tecnici tanto disparati da non
poter esser ricondotti facilmente ad un'idea unitaria. Tecnicamente
è iudicium il processo nella sua interezza, tecnicamente
è iudicium la sola fase processuale particolare in cui viene
pronunziata la sentenza, tecnicamente è iudicium
addirittura il formulario pretorio di verba in cui vengono
riassunti i termini di una lite, e via dicendo. Mi pare
che in siffatta curiosa situazione semantica di impossibilità
di riduzione ad un unico valore, si possa individuare un'eco
dell'intrínseca misteriosità del giudicare; un'eco, cioè,
di quello che poco fa abbiamo predicato come intrico paradossale
di necessarietà e di innaturalità del giudizio.
Ancora più interessante è rilevare come la più antica accezione
tecnica del sostantivo iudex che ci sia sicuramente
nota, in fase ancora precedente alle XII Tavole, rinvia
a figure di detentori del potere politico supremo. I decemviri,
cui la tradizione ascrive la composizione delle xn Tavole
negli anni 451-450 a. C., e però anche (ed è cosa di maggior
rilievo) la titolarità del sommo potere politico in luogo
delle magistrature ordinarie, temporaneamente soppresse,
secondo la tradizione, erano designati tecnicamente come
iudices decemvíri (Livio VI 44, 9). Lo stesso Livio
attesta (III 55, I2) che in età assai risalente, anche se
non all'origine, i consoli erano qualificati tecnicamente
come iudices, notizia confermata da una citazione
varroniana (de lingua Latina, VI 88), dai commentarii
consulares, e da una norma riportata in forma arcaizzante
da Cicerone (de legibus, III 3, 8). Per il pontifex
maximus possediamo una celebre definizione in cui egli
è qualificato come maximus iudex vindexque, nell'ambito
delle cose pertinenti alla sfera sacrale e religiosa, di
fronte alla contumacia (cioè 'disubbidienza") di
privati e magistrati. Ed è del tutto ragionevole credere
che anche il rex (che ebbe certo supremi poteri politici
e religiosi: il tardo rex sacrorum conserva ancora
il primo rango tra i sacerdoti, superiore anche al pontefice),
è del tutto ragionevole, dicevo, supporre che anche il rex
agli inizi di Roma fosse qualificato come iudex vindexque.
Ora, sembra certo che una attività processuale tecnica di
ius dicere fosse svolta fin da epoca remota dal rex
(le fonti parlano di iura reddere o dare,
per il rex: Ovidio, Metam., XIV 805-6, 823;
Livio I 41, 5; Ovidio, Fasti, I 203 e III 62), e poi dai
magistrati supremi (Livio II 27, 1 parla di ius dicere
de creditis pecuniis da parte dei consoli del 495 a.C.).
E però non sembra probabile che i più antichi magistrati
della repubblica romana - consoli e decemviri, per limitarci
a quelli considerati nelle fonti che abbiamo citato - abbiano
tratto quel loro nome di iudices solo dalla loro
attività giudiziaria. Insomma, in origine, iudex
dovette essere termine riferito ad un potere più ampio di
quello giudiziario.
Abbiamo in ciò un valido spunto per congetturare quel che
dovette essere il primitivo valore del ius dicere
e del iudicium (altre realtà, va notato, furono espresse
con i termini iudicare, iudicatio, iudicatum:
vi è una distinzione essenziale tra il dicere di
ius dicere e iudicium, ed il dicare
di iudicare, iudicatio e iudicatum).
Con ogni probabilità si trattò dell'esercizio d'un potere
supremo ancora non differenziato nelle sfere del processo,
dell'impero militare, della potestà amministrativa, ecc.
Forse, nella remota accezione del termine iudex si
rivela come, alla radice stessa d'ogni giudizio, vi sia
quella che ho chiamato insidia del potere. |
(da: Atti del Convegno Internazionale "Sul Giudizio".
Palermo, ottobre 1997, Il Giudizio. Filosofia, teologia,
diritto, estetica, a cura di Salvatore Nicosia, ed. Carocci,
Roma, 2000, pp. 25 - 30) |
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