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                                          ANTONIO GUARINO


                                       TRUCIOLI DI BOTTEGA

                                                                             

                                                                  *
                                                          Napoli, 1999



SOMMARIO

I. TRUCIOLI DI BOTTEGA
II. L’ «ULTIMA THULE»
III. LA «MADELEINE»
IV. LE PROFESSIONE E I MESTIERI
V. OLYMPIA 1936
VI. LA LOCANDIERA IN TRIBUNALE
VII. I LANZICHENECCHI A ROMA
VIII. LO «SCOOP»
IX. IL «GIURIDICHESE»
X. LETTERA IN UNA BOTTIGLIA


I. TRUCIOLI DI BOTTEGA

1. «Tutti gli uomini d'ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa o sí veramente che la virú somigli, doveriano, essendo veritieri e da bene, di lor propria mano descrivere la loro vita».
Cosí il Cellini dà inizio alla sua autobiografia, dettata (o meglio, cominciata a dettare) in età di cinquantotto anni, dunque nel 1558, ad un suo garzoncello «ammalatuccio», piú atto che lui non fosse all'uso della penna, tal Michele di Goro della Pieve a Gròppine, sempre pronto a seguirlo nei luoghi del suo lavoro e ad annotare fervidamente i suoi ricordi, le sue divagazioni, le sue vanterie. Il materiale fu tutto riversato nel manoscritto edito a stampa (da Guglielmo Piatti nel 1829) sotto il titolo La vita di Benvenuto Cellini fiorentino scritta (per lui medesimo) in Firenze.
Le parole del Cellini sono fortemente invoglianti all'autobiografismo chi creda di aver fatto nella vita, se non proprio e sempre «cose virtuose», almeno un certo numero di cose «che la virtù somiglino». Tanto piú invoglianti, se si ricorda quanto ha asserito Oscar Wilde, nel dialogo su Il critico come artista (in Intensions, 1891), e cioè che, se si lasciano dei discepoli, «è sempre Giuda quello che scrive la biografia».
Ma si può con un'autobiografia prevenire ed evitare la biografia di Giuda? Io sono convinto che no. Quando vi è un improbabile Giuda tra i tuoi discepoli, l'autobiografia che avrai faticosamente redatta (o, alla Cellini, dettata ad un segretario o detta ad un intervistatore) darà esca e nutrimento al sopravvissuto cattivello per ancora piú dettagliate notazioni critiche condite di imbarazzanti ricordi (i suoi) cui tu non sei piú in grado di ribattere: «ma quando mai?».
D'altra parte, per Giuda non dico, per il sacerdote che abbia giurato di obbedire «perinde ac cadaver» non mi pronuncio, ma per i discepoli di un ricercatore di verità (filosofo, storico, sociologo, giurista, giú giú sino al giusromanista) non penso ch'essi siano tenuti ad astenersi dal criticare sul piano scientifico i loro maestri. Al contrario, se il maestro si è comportato davvero come tale e li ha tirati su a pensare liberamente, nulla vi è di piú edificante del fatto che gli antichi discepoli, essendo finalmente in grado di volare con le proprie ali, diano di cozzo anche nei loro antichi maestri.
Che siano magari rispettosi della sua memoria, che sorvolino sui suoi difetti scientificamente irrilevanti, che mostrino compunti di dolersi nel rivelare certi particolari indispensabili. Ma, vivaddio, che obbediscano all'impulso dal maestro ricevuto di non guardare in faccia a nessuno. A nessuno, nemmeno a lui.

2. Alle corte. L'autobiografismo come vaccino contro il biografismo altrui conta poco o nulla. In piú esso può riuscire ingrato o addirittura doloroso all'autore, quando lo costringa a rammentare o a narrare episodi e faccende, sia pure non disonorevoli, che egli per un motivo o per l'altro sia stato indotto e sia tuttora indotto, come si dice, a «rimuovere». E poi volete mettere la pigrizia, talvolta addirittura la noia di essere costretti, per debito di completezza, a rimestare vecchie scartoffie oppure, avendole perdute o distrutte (quest'ultimo, per intenderci, è il caso mio), a ripercorrere con incerto ricordo sbiaditi avvenimenti dei passato? Una rogna.
Almeno ne valesse la pena come documento fededegno. Non credo che ne valga la pena.
Giuseppe Berto, uno scrittore che mi è caro non fosse altro perché ha sofferto la durezza della vita militare e la barbarie della guerra come e piú (molto piú) di me, ha scritto, ne Il male oscuro (1964), che uno scrittore è sempre autobiografico, ma ha giustamente aggiunto: «tuttavia si può dire che lo è un po' meno quando scrive di sé, cioè quando si propone piú scopertamente il tema dell'autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall'altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di persone». Ora, c'è qualcuno che vuol negare che io sono «scrittore»? Aggettivi la parola come vuole (buono, cattivo, pessimo), ma negarlo non può. Né può negare, ritengo, che io, scrivendo di questo o di quello, sia stato spesso (se non proprio sempre) piú o meno autobiografico. Perché dovrei andare piú in là e scivolare, chi sa, in imprese del tipo fuga da Castel Sant'Angelo?

3. Perciò tiri il lettore un profondo respiro di sollievo. Pur se molti amici (o nemici?) mi hanno piú volte invitato a farlo, dichiaro qui solennemente che mi guarderò bene dal pubblicare le mie «ricordanze». Bastano e avanzano per la posterità i pochi Fili della memoria che ho raccolti nelle mie Pagine di diritto romano (PDR. 2 [1993] 215 ss.), cui può sommarsi l'opuscolo intitolato Arsenico e vecchi merletti (n. 16 [1997] degli Opuscula del «Centro di studi romanistici Vincenzo Arangio-Ruiz»).
Né le pagine che seguono (e quelle altre che forse seguiranno) saranno tutte dedicate a casuali reminiscenze di una vita, la mia, che è stata lungamente e intensamente vissuta. No, si tratterà solo di una raccolta (o, se si vuole, di un'ammucchiata) di trucioli di bottega. Alla guisa di quelle minutaglie, di quegli avanzi di lavorazione che si trovano in ogni operosa bottega di ebanista, come, ad esempio, quella di Thomas Chippendale, al cui Gentleman and cabinetmaker's director (1754) ispirai un mio libro di Giusromanistica elementare (1989).
È piú che probabile che le mie puntuazioni saranno giudicate e siano cosa ben povera. Forse avrei dovuto dar loro un'intitolazione piú fastosa. Forse non sarei dovuto ricadere nell'ingenuità del già citato libro di metodologia romanistica: un libro che è stato onorato da una benevole recensione di Bernardo Albanese (in Iura 38, 202 ss.), ma che i piú, se bene intuisco, hanno supposto essere davvero elementare, cioè una cosuccia per principianti, e l'hanno quindi messo, senza leggerlo, da parte. Il vezzo dell'attenuazione o della sfumatura (dei l'«understatement», per dirla in anglo-italiano corrente) è un vezzo che fa di questi scherzi.
D'altronde chi può escludere che, titolando piú austeramente il prodotto, non otterrei, nella mia sfortuna, lo stesso risultato negativo? Proprio nella sua autobiografia (Vita di V A. da Asti scritta da esso, 1790-1803, IV 2) Vittorio Alfieri racconta che, trovatosi la prima volta tra le mani quel piccolo e garbato capolavoro del Galateo ovvero dei costumi (1558) di Giovanni della Casa, fu talmente incollerito dalla complessa congiunzione causale «conciossiacosaché» (derivante dal latino medievale «cum id sit causa quae») con cui il libretto iniziava («Conciossiacosaché tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la maggior parte, si come tu vedi, fornito, cioè questa vita mortale, ecc.»), che scagliò il volume «per la finestra».
Vero è che parecchi anni dopo («quando poi mi ero ben bene incallite le spalle ed il collo a sopportare il giogo grammatico») lo lesse di gusto e lo postillò. Ma non tutti son degni, come l'Alfieri, di essere sepolti in Santa Croce.



II. «ULTIMA THULE».

1. Non è di buon gusto per un ottuagenario (e passa) rivelare i suoi pensieri o i suoi timori, forse le sue illusioni, per il futuro vicino o meno vicino, comunque non lontano, che lo attende. Non posso tuttavia tacere che, diversamente da Albert Einstein e dagli illustri della sua fatta, alla distinzione tra passato, presente e futuro io ci credo.
Sí, ben da prima che l'enciclica Fides et ratio di papa Giovanni Paolo II (14 settembre 1998) esortasse a non diffidare aprioristicamente di certe spiegazioni che possono sembrare (o che sono) oggi come oggi irrazionali, io tendo a credere che l'inizio dell'Universo difficilmente sia consistito nel solo ed autonomo «big bang» di cui tanto diffusamente si parla (e di cui apprendo che qualcuno, per esempio il famoso astrofisico russo Andrej Linde della Stanford University of California, torna ora seriamente a dubitare). E tendo a credere, inoltre, ad una fine spaziale e temporale del conosciuto e del conoscibile (chiamiamola pure, se volete, «big crunch») che va ben oltre i limiti della mia vista e della mia vita. Insomma, l'idea della Genesi («In principio Dio creò cielo e terra»: Gn. 1.1) e quella del Giudizio Universale («Tutte le genti saranno adunate innanzi a lui ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capretti»: Mt. 25.32) sono idee, forse piuttosto ingenuamente formulate, alle quali non so rinunciare.
Ricordo, a questo proposito, che negli anni del liceo a Milano ci fu insegnante di filosofia un giovane e valentissimo studioso che faceva di cognome Omodeo (nessuna parentela con il grande Adolfo), il quale ce la mise tutta per convincerci delle interpretazioni cattoliche «modernistiche» di Lucien Laberthonnière e per indurci ad apprezzare lo «storicismo» di Benedetto Croce e sopra tutto il dominante «attualismo» di Giovanni Gentile. Il modernismo, almeno entro certi limiti, mi attrasse. La lettura di Croce mi lasciò freddo, ma mi indusse a scoprire, attraverso le critiche un po' epidermiche e alquanto supponenti che gli si muovevano (in Materialismo storico ed economia marxistica, 1900), un certo Karl Marx, che invece mi interessò. L'attualismo gentiliano, per quanto affascinante ne ritenessi e ne ritenga l'autore, no, no, proprio no, non mi sedusse affatto. Lo confessai e tentai di argomentarlo in un incontro privato col valoroso insegnante e questi, dopo avermi attentamente ascoltato, mi spiegò, con benevola ironia, che il mio dissenso dal Gentile e da altri era prova del fatto che ormai anch'io ero diventato un filosofo.
Filosofo non credo, anzi vorrei dire proprio no. Ma sin da allora tendenzialmente anarchico, nel senso limpido della parola, può darsi. Il vecchio e saggio André Frossard, morto a Parigi il 2 febbraio 1995, soleva dire che «un vero uomo libero non si trova a suo agio in nessun luogo». Il caso mio, proprio il caso mio.

2. Ciò posto in chiaro, torniamo, in certo modo, coi piedi sulla terra. Nel nostro piú o meno lungo cammino in questo basso mondo tutti sappiamo che, di là dell'Oceano, ci attende quella regione estrema, che in parte si confonde coi ghiacci delle acque, con la banchisa, col «pack», ed ai cui margini pervenne intorno al 325 a.C. l'audace navigatore massaliota Pitea: la regione che il Virgilio delle Georgiche (1.30) chiamò «ultima Thule» (amplius, in proposito: F Cordano, in Encicloped. Virgil. 5 [1990] 310 s.).
Per favore non banalizzate la cosa, non venite a ipotizzarmi che si trattava dell'Islanda piuttosto che della Norvegia o di altro, perché mi sarebbe facile replicare che, in senso virgiliano, potrebbe trattarsi anche della Terra del Fuoco o dello stesso Polo Sud (ove mai di questi luoghi i Romani antichi avessero notizia). Per chi sta qui a Napoli ( e fu a Napoli che Virgilio compose le Georgiche: cfr. 5.563 s.) tutto ciò fa assolutamente lo stesso, perché è chiaro che si allude malinconicamente a quelle che per una notissima canzone napoletana sono le imprecisabili «terre assai lontane» (ricorda Santa Lucia luntana di E. A. Mario, 1919). Terre molto diverse dalla dolcissima Santa Lucia a ridosso di Castel dell'Ovo, verso le quali, è destino, si parte e dalle quali, è destino, mai si tornerà.
Da un lato viene fatto di subire con pazienza, addirittura con comprensione, il giudizio che il giovane Holden, personaggio indimenticabile di J. D. Salinger [The Calcher in the Rye (1961) c. 2], dava del professore Spencer («So che pare cattivo dirlo, ma non lo dico in senso cattivo. Voglio dire che ci pensavo molto al vecchio Spencer, e se ci pensavi troppo, finiva che ti domandavi perché diavolo vivesse ancora»). Da un altro lato vien fatto di reagire, o almeno di tentarlo, come per l'appunto mi sforzo.

3. Che fare durante il viaggio e nell'attesa dell'arrivo a destinazione?
Vari anni fa amici fidati mi consigliarono di imparare il gioco del «bridge». «È un rimedio sovrano per la vecchiaia», mi dissero. «Oltre tutto», aggiunsero, «tiene in esercizio la memoria». E a voce piú bassa conclusero: «Naturalmente, sin che dura». Ma questo è il difficile. Il «bridge» è un gioco di «équipe», anche se ridotto al minimo di una coppia di giocatori. Ora, io adoro il lavoro di «équipe», ad un patto però: che sia io solo a dirigere la squadra.
Obbedire no, proprio non mi piace. E tanto meno mi piace incassare le occhiate severe (peggio ancora le parole di rampogna) che mi rivolge il compagno di gioco nell'ipotesi di una chiamata sbagliata o che altro. Sopra tutto le signore sono implacabili, e lanciano sguardi viperini che umiliano. Inoltre, poco a poco, fatalmente si avverte che le abilità vengono meno, che i quadri giocati non li ricordate piú tutti e che a un avviso di «due fiori» non sapete bene se coordinare un «tre quadri» o piú cautamente un «passo». E allora vi accorgerete che tutti (e prime tra tutti le signore) vi evitano, dicono parole gentili e vaghe per rifiutarvi al loro tavolo e, se non vi riescono, guardano di tanto in tanto oltre il soffitto per segnalare a Colui che tutto puote le indulgenze che si vanno meritando. Quando non vi accorgerete nemmeno di ciò, sarà il nirvana.
Niente «bridge», dunque. Fin che potrò saranno esclusivamente «solitari». Solitari con le «carte» che gli anziani sono soliti usare: osservazioni, rimembranze, aneddoti. Se mi volete seguire, seguitemi. Se no, no.
E non sprecatevi con gli sguardi viperini e con gli occhi levati al cielo. Tanto io non raccolgo. Intesi?



III. LA «MADELEINE»

1. Inutile dirlo. Mi farebbe non poco piacere se le mie divagazioni sul presente e sull'andato fossero ascoltate e fossero magari prese sul serio. Ma non ci conto molto. Anche su questo versante gli anni mi hanno tolto, accumulandosi l'uno sull'altro, parecchie illusioni.
Eppure non è che io tenda ad impancarmi sui toni solenni. Al contrario. Salvi casi piuttosto rari nei quali sono trascinato dal carattere in maledette questioni di principio (e allora, sono il primo a riconoscerlo, apriti cielo), io normalmente evito con cura gli argomenti (specie se religiosi, etici, politici e via su questa strada) in ordine ai quali sospetti che i miei ascoltatori o interlocutori perdano facilmente la calma o manchino deplorevolmente di tolleranza.
Il tipo a me piú congeniale è, vi dirò, un personaggio di P. C. Wodehouse, Mr. Mulliner, quando nel locale del «Riposo del pescatore» prendeva abilmente appiglio dai discorsi altrui per raccontare una fra le tante e tutte istruttive esperienze vissute da qualcuno dei suoi numerosi parenti. Non che gli avventori stessero tutti lí ad ascoltarlo incantati. Chi non gradiva i suoi ricordi di famiglia pensava ad altro o se ne andava quietamente a casa.
Mulliner, insomma, non era Proust e non pretendeva di esserlo. Tanto meno lo pretendo io, anche perché. Perché?
Perché (qui lo dico e qui lo nego) la verità è che a me Proust non piace. Il suo francese, assicurano gli intenditori, è qualcosa di stupendo ed io mi rimetto in pieno a questo giudizio. Ma, via, un'opera letteraria non consiste solo nella lingua, e la lettura dell'interminabile Recherche mi riesce, confesso, molto spesso stancante, quasi insopportabile. Anche Musil quello del Mann ohne Eigenschaften (l'uomo «senza qualità», come scrivono un po' approssimativamente i suoi traduttori italiani), anche Musil a volte, molte volte fa disperare, ma vi è sempre al fondo di lui un'ironia che stimola, quando addirittura non ferisce.
Non cosí Proust, direi. Troppo passivo per il mio carattere. Un carattere, il mio, lo ammetto, forse ancora piú insofferente di quello di Jacques Madeleine, che fu il primo in ordine di tempo (autunno del 1912) a sconsigliare all'editore Fasquelle (vergogna) la pubblicazione di Swann e delle Jeunes filles en fleurs. E non so quanto sia stato sincero alcuni anni dopo il non meno impaziente Andrè Gide nel tentativo di giustificare in qualche modo, appellandosi anche ad un fastidioso errore del manoscritto avuto in lettura, l'analogo parere negativo reso alla Nouvelle Revue Française.

2. È ovvio, comunque, che non è nei miei pensieri il ridicolo intendimento di far critica letteraria. Ed è ovvio che anch'io, nella mia pochezza, molti brani ed episodi della Recherche li ricordi, li ami e torni ogni tanto a trovarli.
Indelebile, tra essi, quello della «madeleine», la conchiglietta di pasta, «si grossement sensuel sous son plissage sévère et dévot», che svegliò di colpo in Proust il ricordo del bocconcino che la domenica mattina a Combray offriva a lui bambino la zia Léonie dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio. «Et dès q'eus reconnu le goùt du morceau de madeleine trempé dans le tilleul que me donnait ma tante..., aussitot la vieille maison grise sur la rue, où était sa chambre, vint comme un décor de théatre s'appliquer au petit pavillon donnant sur le jardin, q'on avait construit pour mes parents sur ses derrières...; et avec la maison, la ville..., la piace..., les rues..., les chemins...». Parole che prendono dentro anche me, ma che ancor piú mi terrebbero stretto se non continuassero con l'immagine efficace quanto si vuole, peraltro di ben diversa tonalità (interpolata?) del gioco giapponese dei fiori, delle case, delle figure umane che si dispiegano lentamente da un minuzzolo di carta lasciato cadere nell'acqua.
Vi dirò. Sfogliando l'ultimissima edizione, datata 1998, del Dizionario dello Zingarelli, ho avuto la piacevole sorpresa che la «madeleine» vi è entrata a far parte nel novero sempre piú ampio delle parole straniere residenti in Italia. Già sapevo dal Dictionnaire Robert che il morbido dolcetto era stato inventato dalla signora Madeleine Paulmier verso la metà del secolo decimonono, ma lo Zingarelli ha lodevolmente aggiunto l'indicazione, a titolo di traslato, della «funzione rievocativa», originata appunto da Marcel Proust, di questa gradevole specialità. Gli uomini di cultura italiani sono serviti.
Quanto alla degustazione della «madeleine» come pasta, si voglia scusarmi per la banalità della mia precisazione. Intingerla nel tè o nell'infuso di tiglio (l'ho messo piú volte a prova di persona) non è cosa facile, anzi è cosa difficile, perché basta un attimo di esitazione nel tirarla su e va a finire che si sfacela tutta. Non so come facesse la zia Léonie a passarla bagnata, eppure quasi integra, al nipotino. Proust, cosí minuzioso nei particolari, non avrebbe dovuto mancare di descrivercelo.
Per quanto mi riguarda, altro non so fare se non figurarmi, anche se con un certo disagio, che la zia Léonie operasse con la fulminea prestanza con cui Clark Gable, nel celeberrimo film «Accadde una notte» (It Happened One Night, 1935), inzuppava la ciambella (la «doughnut») nel caffè e se la portava alla bocca davanti alla sbigottita Claudette Colbert. Ma forse il richiamo dell'opera di Frank Capra non sta bene quando si parla, nientemeno, della Recherche.

3. Però che tristezza mi provoca, ogni volta che ci penso, quella buona zia Léonie.
Morta che fu, il caro nipote se ne ricordò abbondantemente, e come, sul piano narrativo. Ma non ebbe, direi, il culto della sua memoria. Buona parte dei mobili, tra cui il grande canapé del primo amore, li regalò alla tenutaria di un bordello, cui era desideroso di dimostrare i suoi «bons sentiments». E la magnifica argenteria antica la alienò in blocco per procurarsi il danaro necessario a colmare di fiori Madame Swann.
Rimaneva il grande vaso cinese, ma l'offerta di diecimila franchi da parte di un antiquario all'angolo degli Champs-Elysées gli fu irresistibile. Tanto piú, confessa candido, che non l'aveva venduto prima perché non credeva valesse piú di mille. Proust.





IV. LA PROFESSIONE E I MESTIERI

1. Ho detto e proclamato che non mi credo filosofo a tutto tondo (anche se, ovviamente, anche a me capita ogni tanto, come a chiunque altro, di filosofeggiare). Non sono filosofo, ma a maggior ragione mi chiedo spesso (filosoficamente?) chi sono.
Vorrei poter rispondere all'ardua domanda dicendo che sono un «giusromanista», cioé uno storico del diritto romano antico. Indubbiamente questa è la mia «professione», nel senso di scelta di vita, di assillo esistenziale, di attività irrinunciabile (corredata, diciamola tutta, anche da un'esigua, ma gradita mercede statale). Ma ecco il quesito. Alla mia scelta basale di vita corrisponde una «dottrina» (una dottrina di carattere generale) che prenda il mio nome e mi contraddistingua indelebilmente (o almeno durevolmente) nella storia degli studi romanistici?
Temo proprio di no. Certo, è piú che probabile che i maligni del nostro piccolo mondo scientifico parlino, preferibilmente alle mie spalle, delle «bagattelle del Guarino». Tutto sommato, non me ne dolgo, anche perché nei miei non infrequenti momenti di sconforto mi sono autodisprezzato io stesso. (Spesso ho cercato febbrilmente con gli occhi uno di quei cassonetti per la spazzatura che si trovano lungo le strade cittadine, divisando di gettarmici dentro. Se poi non l'ho mai fatto è perché per introdursi in un cassonetto stradale occorre eseguire un volteggio atletico del quale da molti anni non sono piú capace). Tuttavia, siccome anche io (come tutti, suppongo) ho sognato talvolta da giovane di essere venerato come un Maestro, come un Caposcuola, addirittura come un Nume, è umano che in quelle occasioni io abbia anche parallelamente sognato un avvenire in cui gli studiosi facessero riferimento all'«idealismo guariniano», oppure al mio «spiritualismo», al mio «sincretismo», alla mia «fenomenologia» e via di questo passo.
Nulla da fare, purtroppo. Tutto occupato. Sopra tutto i dannati filosofi hanno incettato tutte le etichette possibili.
Non escludo che, raschiando il fondo del barile, qualcosa ancora rimanga. Magari potrei farmi aiutare nella ricerca da qualche amico filosofo (che ne dite di una mia «endofasia pluralista»?). Ma, a prescindere dalla scarsa «fiducia mei», mi ha trattenuto dall'impresa la reazione fortemente ironica che mi ha causato la lettura di una pagina di Benedetto Croce (v. Letteratura italiana Ricciardi, vol. 75 [1951] 1172 ss.) scritta nel 1950 a mo' di postilla al suo Contributo alla critica di me stesso del 1915. Eccone le parole conclusive: «Una naturale ritrosia mi aveva impedito fin quasi ai settant'anni di dare un titolo al mio filosofare, scorgendo l'improprietà di cotesti titoli, quando ogni filosofia non dovrebbe portare altro nome che di 'filosofia'.... Avevo intitolato perciò i miei volumi filosofici semplicemente Filosofia dello spirito; ma le conclusioni a cui giunsi intorno alla storia e ai suoi rapporti con la filosofia mi suggerirono, e quasi mi imposero, il titolo di 'storicismo', al quale apposi, per indicarne il carattere, l'aggettivo di 'assoluto'». (Conseguente, no?).

2. Addio, dunque, alle sognate vanità. La «dottrina del Guarino» non esiste (a meno che se la inventi in futuro qualche ricercatore a caccia di cattedra). Ma resta ben ferma e inequivoca la mia professione di fede giusromanistica.
Rudolf von Jhering ebbe una volta la tentazione, rispondendo a un questionario burocratico, di attribuirsi come religione quella del romanista («Religion? Romanist»: v. in proposito le mie PDR. 2 [1993] 173). Quanto a me, sarò un sacerdote di mezza tacca, ma sono un sacerdote della nostra dottrina e (cosa per me inscindibile) del suo insegnamento ai giovani. Ho speso mezzo secolo nel dedicarmi a questi ultimi, spesso anche per conto di cari colleghi che ne erano impediti o sfiduciati (e senza mai far questioni indecorose di cabile o di sette). Tutto il resto che ho fatto nella mia lunghissima vita è stato solo attività separata e distinta (sia chiaro, non voglio dire inferiore). È stato insomma solo «mestiere».
Mestiere, anzi mestieri, vari mestieri, anche se tutti sempre subordinati allo studio del diritto romano, che mi attrasse sin dal primo anno universitario, e piú tardi all'insegnamento della materia, che praticai come assistente di Siro Solazzi e poi come docente (incaricato a Napoli a partire dal 1938, piú tardi cattedratico a Catania, e quindi a Napoli, a partire dal 1942).
So bene di essere stato criticato da alcuni per certi aspetti di questo mio attivismo extravagante. Lo fui, ad esempio, da Emilio Betti in occasione di due forti polemiche insorte tra noi negli anni cinquanta (dopo di che Betti generosamente mi perdonò e passò ad essermi amico, ricambiato di cuore e con devozione sino alla morte). So bene tutto ciò. Ma adduco a mia giustificazione il fatto che a partire dai diciotto anni (l'ho già detto altre volte) la mia vita è stata tutt'altro che facile e mi ha costretto a guadagnarmi il necessario per tirare avanti o anche, dopo aver conseguito finalmente un regolare stipendio, per arrotondarlo nei limiti del bisogno.
Di qui (e con largo sacrificio del tempo che altri dedicavano al loro onesto e legittimo divertimento), di qui il mio impegno in lezioni private di materie letterarie del ginnasio e del liceo (ma vi fu una volta che intruppai tra i miei allievi anche un bambino, ahi quanto vivace, della prima elementare). Di qui la correzione di bozze a migliaia di pagine (tra cui quelle di un paio di ristampe delle Istituzioni del Chiovenda, delle quali approfittai per mandarle quasi a memoria). Di qui il giornalismo radiofonico e quello su quotidiani esercitato a «cachet». Di qui la collaborazione alle ricerche di diritto comparato nell'Istituto di Studi legislativi a Roma. Di qui il parcheggio di quasi cinque anni (intermezzati da oltre un anno di servizio militare in Italia e sul fronte di guerra sovietico) nella magistratura ordinaria. Di qui infine un trentennio di avvocatura in civile (ma anche con un paio di processoni in Assise). Un esercizio, quest'ultimo, troncato di colpo, nel giugno 1976, in coincidenza con la mia entrata per la durata di una legislatura, la settima, nel Parlamento italiano.

3. Tengo molto, con riferimento a questi svariati mestieri, a mettere ben in evidenza tre punti.
Primo punto. Li ho esercitati tutti con diligenza e addirittura (beh, quasi tutti) con vivo interesse, come è nella mia stessa natura di uomo estremamente curioso di ogni aspetto della vita. (Particolarmente gradito mi è stato l'esercizio del giornalismo, ma sopra tutto l'attività del cronista, il quale ha, in fondo, la stessa fisiologia dello storico, dovendo entrambi rispondere alle famose cinque domande: «chi?, quando?, dove?, come?, perché?».)
Secondo punto. Da magistrato (tra il 1938 e la fine del 1942) mi sono reso utile dapprima come collaboratore minimo, in un certo ufficio del ministero della Giustizia, ai lavori per la riforma del codice civile e di poi, tornato a Roma dalla parentesi militaresca, come giudice militante in una sezione penale di quel Tribunale, anzi per qualche tempo anche come «giudice di sorveglianza» sull'andamento carcerario. (Nell'esercizio dell'ultima funzione detti qualche fastidio ai miei superiori per l'inusuale iniziativa, rispettosa però dei dettati di legge, di andare ad ascoltare e verbalizzare ed eventualmente accogliere, nel penitenziario di Civitavecchia, anche i reclami dei cosí detti detenuti «politici» dell'epoca. Ricordo, in proposito, che i carcerati, presentandosi nel mio ufficio accompagnati da un agente di custodia, erano tenuti a rendermi il «saluto romano» a braccio teso: cosa che li metteva in imbarazzo e che alcuni piú coraggiosi si rifiutavano di fare, andando incontro a prevedibili conseguenze spiacevoli. Commosso dal mio evidente disagio, l'anziano e navigatissimo cancelliere che mi accompagnava mi fece presente a mezza voce che, a stretto rigore di legge, il colloquio col detenuto doveva svolgersi solo in presenza di noi due e che io avrei anche potuto chiamar dentro l'interrogando recandomi sulla soglia della stanza e aprendo non piú di una fenditura della porta per farlo entrare: io e non lui, beninteso, visto che egli era organo puramente certificante, nonché padre di una numerosa famiglia.)
Terzo punto. Dall'Ordine degli avvocati mi dimisi, nel 1976, non solo per evitare (anche a me stesso) il sospetto che avessi accettato l'invito a candidarmi come parlamentare allo scopo di valorizzare la mia attività professionale, ma anche e sopra tutto perché ero ormai giunto personalmente alla conclusione ché un consistente esercizio della professione legale fosse incompatibile con un serio esercizio dell'attività di ricerca scientifica e di insegnamento universitario.
Lasciatemi aggiungere, come codicillo all'ultimo punto, che in Parlamento io mi detti molto da fare per l'impostazione di una legge sulle incompatibilità radicali comportate dalla missione di studioso e di docente. Ma il progetto divenne legge solo nella legislatura successiva (cui io non partecipai), subendo peraltro forti riduzioni ottenute a proprio favore dalla «lobby» dei professionisti privati (avvocati, medici, commercialisti e via dicendo).
Ovviamente, per coerenza con le mie convinzioni, io non sono piú tornato nel 1979, chiusa la breve parentesi parlamentare, all'esercizio dell'avvocatura e non ho accettato l'accomodante «chance» di divenire professore a «tempo limitato». Sono rientrato in Università come professore a «tempo pieno», rinunciando quasi del tutto anche alla collaborazione ai giornali. E, dopo l'amaro giorno della messa a riposo per limiti di età, eccomi qui. Studioso a «tempo perso» del diritto romano e dintorni, almeno sin che i righi dei libri non mi si confonderanno davanti agli occhi e non perderanno per me ogni significato.

4. Contento dei miei molti mestieri? A chi me lo chiedesse risponderei decisamente di sí.
A prescindere dal fatto già accennato che molte vie secondarie le ho imboccate per necessità (o anche per necessità), la magistratura, l'avvocatura e il giornalismo mi hanno aiutato ad acquistare esperienza: quell'esperienza pratica di cui, almeno secondo me, uno storiografo del diritto ha non meno bisogno di uno studioso del diritto moderno per essere veramente tale. Si pensi che per una ventina d'anni ho condotto alla radio una rubrica intitolata «L'Avvocato di tutti», sforzandomi di rispondere nel modo piú chiaro e conciso ai quesiti svariatissimi (in civile, in penale, in amministrativo, in finanziario e in altro) che mi sono stati proposti (non esagero) con molte decine di migliaia di lettere dagli ascoltatori, e che analoga operazione ho svolto, anch'essa per diversi anni, in una rubrica pubblicata da un giornale di Napoli sotto il titolo di «Vita e diritto».
Qualcuno mi obbietterà : ma tutta questa soddisfazione per i vari mestieri esercitati nella vita non è in contraddizione con il convincimento espresso poco fa che la professione úniversitaria sia incompatibile quanto meno con l'esercizio dell'avvocatura? Rispondo: certo che può apparire in contraddizione, ma io ho parlato dell'inconciliabilità con una «consistente» attività curialesca, cioè con un'attività che assorba troppo (o tenda ad assorbire troppo) il docente, inducendolo a sacrificarle anche in parte (e tutti sanno che per molti ciò avviene in gran parte, per taluni addirittura in grandissima parte) l'impegno dovuto alla ricerca, alle lezioni, alle esercitazioni, agli esami, alla coltivazione di se stessi, dei giovani studiosi e sopra tutto degli studenti.
Io non sto qui ad insegnare come si risolva il problema o se lo si sia veramente risolto in talune facoltà universitarie non giuridiche (per esempio, in quella di medicina). Francamente non lo so. Mi limito a segnalare che il problema non è di «tempi», ma è di «qualità», cioè di un impegno scientifico e didattico che deve essere pienamente assicurato. Gli ordinamenti universitari vigenti non mi pare che lo abbiano avviato a soluzione con la finzione del «tempo limitato». Anzi mi sembra che esso sia stato aggravato dalla legittimazione delle «supplenze» che i docenti di certe università esplicano o si sforzano di esplicare in altre università piú giovani che di analoghi docenti sul momento mancano.
Non è verosimile che il vino richiesto dalla professione universitaria sia bastevole anche per un largo esercizio dell'avvocatura, né mi sembra che il vino richiesto dall'insegnamento in un primo ateneo sia sufficiente anche per il secondo. A meno che il vino lo si annacqui, beninteso. O che si verifichi il miracolo delle nozze di Cana (Gv. 2.2-10).



V. OLYMPIA 1936

1. «Glen Morris vinse la medaglia d'oro nel decathlon, stabilendo il record mondiale. Era ormai sera quando i tre atleti americani salirono sul, podio per la premiazione (... ). Alla fine della cerimonia Glen Morris si diresse verso di me; non ebbi quasi il tempo di tendergli la mano e di congratularmi che mi prese fra le braccia, mi strappò la camicetta e mi baciò il seno, nel mezzo dello stadio, davanti a decine di migliaia di spettatori».
Sono parole di Leni Riefenstahl nelle sue Memoiren (1987, traduz. italiana 1995 dal titolo Stretta nel tempo, p. 215). Io non ero, in quell'agosto avanzato del 1936, tra le decine di migliaia di spettatori di questo specifico episodio, ma credo pienamente alla verità del racconto della grandissima regista, di cui ho ancora negli occhi il fascino energico della persona, cosí come l'avevo vista da attrice quando era stata interprete sullo schermo, a fianco di Gustav Diessl, de La tragedia di Pizzo Palù (1929). Che poi Glen Morris fosse un semidio dell'atletica è un fatto: il suo punteggio fu di 7900, con un «record» che sarebbe stato superato solo nel 1956 (Melbourne, Johnson p. 7937).
La Riefenstahl era lí a pochi passi, per dirigere la ripresa del suo grande film sui Giochi olimpici, e tra semidei certe cose possono ben succedere. Fossi stato presente, avrei applaudito.

2. Ma perché dico tutto questo? Ah, ecco: perché ad assistere alle giornate inaugurali delle Olimpiadi del 1936 a Berlino, apertesi il 1° agosto, c'ero anch'io.
Di tasca mia non avrei potuto farlo, ma fortuna volle che in Italia decisero di mandare in viaggio premio a Berlino un battaglione di cinquecento universitari dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti) appartenenti a tutti gli Atenei italiani, scegliendoli in base al criterio che avessero dato buona prova di sé nel campo culturale o in quello sportivo, che avessero «bella presenza» (o quasi) e che fossero alti almeno un metro e settantacinque (questo per dimostrare ai germanici che non era vero che noi italiani fossimo tutti bassotti). Col primo requisito io avevo le carte piuttosto in regola, col secondo (chiudendo un occhio) me la cavavo, col terzo ci andavo in pieno essendo alto ancora oggi un metro e ottantatrè. A mio favore c'erano inoltre i capelli ch'erano allora fortemente sul biondo e che contribuivano a smitizzare l'idea che i tedeschi (dei quali a quell'epoca eravamo ancora rivali piuttosto che amici servili) si erano fatti di noi bruni e olivastri «Südmenchen».
Breve. Costituita la falange italica si trattò di darle un'uniforme, e a questo proposito devo attestare che le autorità fasciste ebbero un tratto di buon gusto. Anziché rivestirci di camicie nere, di berretti a visiera e di stivaloni alla cavallerizza, disposero che ci mettessimo tutti in pantaloni lunghi e bianchi (integrati, ovviamente, da scarpe di tela candida e immacolata) e fecero indossare a tutti dei maglioncini sportivi rossi o blu, ciascuno con una vistosa lettera bianca sul petto che stesse ad indicare in maiuscolo l'iniziale dell'Università di provenienza. A me toccò un maglione rosso con in bianco la «N» di Napoli.
Lo spettacolo di inaugurazione fu meraviglioso specialmente quando calò notte. Perché negare che con queste cose i nazisti ci sapessero fare? La città, ch'era bellissima (oh Dio, non mai quanto Parigi), era animata e in festa. Noi della falange, quando andammo in libera uscita, riscuotemmo la nostra parte dei festeggiamenti anche perché, addobbati come eravamo, ci scambiavano per partecipanti ai Giochi. Ricordo ancora la scena del mio abbronzatissimo amico Aldo B. che mostrava compiaciuto la sua notevole muscolatura ad un gruppetto di ammiratrice entusiaste, cui mi parve importasse poco il suo aspetto inequivoco di «homo mediterraneus»

3. Quanto a me, per italiano non mi prese nessuno. Tuttavia mi rifeci nel mio piccolo dandomi le arie, per via della «N» che campeggiava sul petto, di essere uno smilzo atleta norvegese.
Distribuii anche qualche autografo. Siccome di buoni atleti «estivi» la Norvegia non ne aveva, o almeno io non ne conoscevo, contai sull'ignoranza geografica del pubblico e firmai Paavo Nurmi.
Mica poco, trattandosi del vincitore di otto medaglie olimpiche tra il 1920 e il 1928.
Chi sa che qualche vecchia bacucca non conservi ancora tra le sue carte la falsa firma del grande podista finlandese.



VI. LA LOCANDIERA IN TRIBUNALE

1. Mirandolina, la famosissima «locandiera» di Carlo Goldoni, era maestra nel creare dissapori tra gli uomini a causa sua. Ricordate le smanie di Fabrizio, i furori del cavaliere di Ripafratta, il duello che si accende, ad un certo punto, tra questi ed il conte di Albafiorita? Ricordate le angustie del buon marchese di Forlimpopoli? E ricordate, sopra tutto, la sapiente regia di Mirandolina nel tirare le fila della vicenda, che tutta quanta, integralmente, dipende da lei e dalle sue analisi di mercato?
Orbene, nel 1953, a due secoli circa di distanza dai tempi in cui era ambientata la commedia goldoniana, Mirandolina fu sul punto di creare, suo malgrado, nuove agitazioni e discussioni e querele. Non piú, certamente, per amore verso di lei, ma per qualcosa di vagamente simile: per amore verso Goldoni che l'aveva messa al mondo.
In quell'anno un ottimo complesso di attori (basti citare Rina Morelli e Paolo Stoppa) sotto la guida di uno dei migliori registri italiani, Luchino Visconti, mise in scena un'ennesima edizione della Locandiera goldoniana. Ma un'edizione in cui gli spettatori delle varie città d'Italia ebbero la sorpresa, a molti scarsamente gradita, di non ritrovare, diciamo, il clima tradizionale della commedia, nelle tante precedenti edizioni, buone o cattive, che di essa si erano potute vedere. Pur lasciando formalmente quasi immutato il testo dei dialoghi, il regista di questa Locandiera 1953, espertamente coadiuvato dai suoi attori, accentuò i toni caricaturali, talvolta grotteschi, giungendo, in definitiva, ad offrirci un quadro scenico che non era di serena e divertita accettazione del mondo settecentesco rappresentato dal Goldoni, ma che era, indubbiamente, di critica di quel mondo lontano (di quel mondo anteriore, per intenderci, alla Rivoluzione francese e ad altri avvenimenti successivi). Una critica che risultava evidente attraverso il compiaciuto ricalco di molti lati frivoli e ghirigorati del settecentismo.
E qui insorse la questione giuridica, sul limitare della controversia giudiziaria. Vi fu chi, di fronte a questa sconcertante interpretazione della Locandiera, gridò allo scandalo, affermò che il regista avesse deliberatamente tradito le intenzioni dell'autore e dette di piglio alla legge sui diritti d'autore (l. 22 aprile 1941 n. 633) affermando che, ove fossero esistiti ancora discendenti di Carlo Goldoni, essi avrebbero avuto diritto, in base all'articolo 20 della legge, di opporsi alla deformazione dell'opera. Altri poi, preoccupati dell'eventualità che non vi fossero piú al mondo pronipoti del Goldoni, invocarono l'articolo 23 della legge, co. 2°, da cui risultava che, in mancanza di tali persone, l'azione, qualora finalità pubbliche lo esigessero, poteva essere esercitata dalla Presidenza del Consiglio.

2. Come si vede, la questione era seria, almeno nelle intenzioni di coloro che l'avevano sollevata. Me ne occupai anch'io, in una rivista che avevo contribuito a far risorgere da antiche ceneri e di cui ero condirettore (Diritto e Giurisprudenza 68 [1953] 173 s.). Me ne occupai invitando tutti a rileggersi con calma l'articolo di legge su cui facevano leva i postumi difensori di Carlo Goldoni.
È un articolo che dice così: «Indipendentemente dai diritti esclusivi di utilizzazione economica dell'opera ..., ed anche dopo la cessione dei diritti stessi, l'autore conserva il diritto... di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione dell'opera..., che possa essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione». Il che significa che non basta ravvisare, nella rappresentazione scenica della Locandiera o di qualsivoglia altra opera antica o moderna, deformazioni, mutilazioni ed altre modificazioni. Occorre che tutto ciò sia di pregiudizio all'onore od alla reputazione dell'autore. Un po' di buon senso, suvvia.

3. Goldoni, come tutti sanno, studiava per avvocato, ma ad un certo momento gettò via la toga e le Pandette e si imbarcò nella gaia avventura di tutta la sua vita: l'avventura del teatro.
Questo notissimo episodio potrebbe esserci di insegnamento, se non di avvertimento. Quando andiamo a teatro per assistere alla rappresentazione di un'opera, lasciamo in guardaroba i codici e le leggi e godiamoci serenamente lo spettacolo. O magari critichiamolo con asprezza, ma sotto l'unico profilo che merita: il profilo dell'arte.



VII. I LANZICHENECCHI A ROMA

1. « 1528 Was soll ich Schreibers... nd nit lachen di Landsknech haben den Babst lauffen machen».
Questo graffito lacunoso si legge abbastanza chiaramente su un affresco del Salone delle Prospettive nella splendida Villa Farnesina in via della Lungara a Roma. «Le prospettive» del salone sono quelle dipinte sulle pareti da Baldassarre Peruzzi, il discepolo di Bramante e successore di Raffaello nella Fabbrica di San Pietro, che si dilettò a raffigurare sui muri quel che c'era al di là degli stessi cioè il panorama di Roma nel primo cinquecento. Per la precisione filologica, la villa era stata commissionata al Peruzzi dal ricco banchiere senese Agostino Chigi, della cui vezzosissima amante, la cortigiana Imperia, si possono ammirare al completo le fattezze in una delle tre figure femminili della Loggia di Cupido e Psiche, ma il sacco di Roma del 1527 dette origine a molti rivolgimenti, sicché l'edificio andò a finire nel 1577 dai Chigi ai Farnese, dei quali porta il nome. Oggi la villa è annessa, come sede di riguardo, all'Accademia Nazionale dei Lincei sita nel vicino Palazzo Corsini.
Chi è l'autore dello scarabocchio? Difficile che sia stato un lanzichenecco, non foss'altro perché i Landsknechte di Georg von Frundsberg (passati, dopo il colpo apoplettico che uccise costui, al comando di Konrad Bemelberg) erano del tutto analfabeti e comunque avevano già finito di sfogarsi, nei modi che sappiamo, entro la «nuova Babilonia» durante l'estate del 527. Piú probabile è che il grossolano distico sia stato scritto da un loro simpatizzante, di sangue germanico e di qualche approssimativa esperienza di lettere, appartenente alle truppe tardivamente inviate a Roma da Carlo V per restituire la libertà al papa Clemente VII (Giuliano de' Medici) asserragliato in Castel Sant'Angelo.
L'accordo col papa, persona estremamente infida, era stato stilato il 26 novembre 1527 e Castel Sant'Angelo era stato restituito alla sovranità pontificia il 6 dicembre successivo, ma non erano passate altre ventiquattr'ore che Clemente VII si era coraggiosamente dileguato di notte all'insaputa di tutti dirigendosi ad Orvieto travestito con gli abiti del suo maggiordomo. È ben spiegabile che, nel 1528, di questo suo grottesco «lauffen» (che aveva avuto inizio col fortunoso trasferimento, lungo cunicoli sotterranei, dal Vaticano a Castel Sant'Angelo) una persona di sicuro non molto ben disposta nei confronti del «Babst», altro non potesse che «lachen».
Il solo appunto che io mi senta in grado di muovere allo sconosciuto visitatore della Farnesina è di essersi dimostrato un «cretino con qualche lampo di imbecillità» (quest'uscita non è mia, come sapete), cioè un esponente di rilievo della lista, peraltro lunghissima, di quei minorati psichici che deturpano i monumenti d'arte con i loro miserevoli graffiti.

2. Le scarne considerazioni che precedono le ho fatte solo piuttosto di recente, trovandomi a visitare la Villa Farnesina. Era la prima volta o la seconda? Dal punto di vista spirituale (se vogliamo dire cosí) era la prima volta, ma dal punto di vista materiale era, a pensarci bene, la seconda.
Sí, perché la prima volta che misi piede (e sostai almeno un paio d'ore) in un salone della Farnesina fu un giorno, non ricordo quale, del lontano luglio 1937 nell'occasione dei solenni funerali di Guglielmo Marconi, uomo illustre quanto pochi mai che aveva rivestito la carica di presidente dell'Accademia d'Italia.
Era l'epoca di cui il regime fascista, per scimmiottare la Francia e la sua Académie, aveva sciolto la vecchia e gloriosa Accademia dei Lincei (oltre tutto largamente popolata da studiosi non fascisti) ed aveva devoluto le sue dotazioni ad una rutilante Accademia d'Italia, i cui membri (per verità, non tutti pensatori di secondo piano) erano goffamente rivestiti di una divisa piena di ricami in oro, completa di feluca e (se ricordo bene) di spadino. Per la morte di uno scienziato di fama internazionale quale era Marconi le cose furono fatte in grande. La salma fu esposta per un paio di giorni al pianterreno della Villa Farnesina e fu poi trasferita attraverso mezza Roma, issata su un carro (o forse su un affusto di cannone), sino alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, ove erano ad accoglierla le somme autorità dello stato, alla cui presenza si svolse la cerimonia funebre.
L'emozione degli italiani per l'avvenimento fu, senza esagerazioni, enorme: sia perché Marconi era da tutti giustamente stimato per le molte imprese scientifiche già realizzate, sia perché correva voce che la fine lo avesse colto mentre era lí lí per completare i piani di un prodigioso «raggio della morte» capace di bloccare a grande distanza i motori di tutti gli autocarri, i semoventi, i carri armati e che altro, dei quali si potessero servire i nemici del nostro paese in un'eventuale guerra futura. Per far partecipare in diretta tutto il paese ai funerali, l'Ente radiofonico nazionale, 1'EIAR, organizzò quattro o cinque postazioni lungo il percorso del corteo: la prima nell'androne della Farnesina, l'ultima nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, le altre in due o tre punti intermedi del tragitto.
La postazione piú importante, cioè l'ultima, fu assegnata, come era giusto, a Franco Cremascoli, un pioniere della radiofonia in Italia di persona prestante e di periodare elevato ma non uggiosamente solenne, sempre pronto a fronteggiare le interruzioni e le variazioni richieste dal «vivo» imprevedibile dell'avvenimento da descrivere. Quanto alla postazione di Villa Farnesina, la direzione dei servizi giornalistici si fidò, non senza qualche azzardo, di un radiocronista esordiente e piú precisamente di me, che solo qualche settimana prima ero uscito vincitore delle prove conclusive di un corso semestrale impartito ad un gruppo di borsisti modicamente remunerati del quale facevo parte.
Me la cavai abbastanza bene, anche se la durata del «servizio» rasentò le due ore e implicò la necessità di colmare vari vuoti di azione con notizie esterne (raccolte in contemporanea, usando la cuffia audio), con studiose reminiscenze delle imprese di Marconi, con riferimenti alla storia ed alla struttura della villa e con altri espedienti di questo tipo. Un espertissimo conoscitore di notabili mi stava vicino, aiutandomi con bigliettini che ne specificavano nomi e funzioni.
L'occasione non si prestava ovviamente a toni gioiosi e tanto meno entusiastici, toni che d'altronde le «note personali» relative alle mie possibilità di impiego sin dall'inizio avevano segnalati come estranei alle mie inclinazioni di radiocronista: radiocronista del tutto inadatto ad arrotondare troppo la voce, non atto quindi a occuparsi delle manifestazioni popolari cosí dette «oceaniche». Descrissi l'uscita del feretro dall'edificio e il suo allontanarsi verso la postazione numero due con il dovuto (e sentito) rispetto, evitando di cadere nel luttuoso e nel patetico. Il giudizio della direzione fu buono ed il compenso di duecento lire mi fu molto gradito. Compenso «ad hoc» perché, già l'ho detto in altra occasione (in Arsenico e vecchi merletti, 1997), a concorso ultimato avevo rifiutato un posto stabile e ottimamente stipendiato non volendo abbandonare i miei studi di giusromanista in erba.

3. Che altro? Nulla. Salvo forse che, essendo all'oscuro del graffito sui lanzichenecchi, non ebbi fortunatamente l'úzzolo di parlare, in uno dei momenti morti, anche di questi spietati uomini di ventura.
So bene che non sarebbe stato il caso, ma è un fatto che io un certo senso dell'umorismo ce l'ho, ed anche piuttosto sviluppato. Nella tristezza del momento e del luogo, un germe di comicità infrenabile era, su questo piano, costituito dai notabili presenti, tutti o quasi tutti panciutelli e di struttura non propriamente atletica, ma tutti addobbati con dorate divise da accademico e i più, i non accademici, con «alte uniformi» fasciste, quindi con pantaloni alla cavallerizza, stivaloni luccicanti, sahariane rigorosamente nere, cinturoni con o senza pistola e berrettoni a visiera prominenti nell'aquila d'oro imperiale, cioè in quella che la gente era usa denominare (sottovoce) la «quaglia».
Solenni, ma non marziali, i notabili. Figurarsi se fossero sopravvenuti, con ritardo di quattro secoli, i lanzichenecchi. Un fuggi fuggi generale verso via della Lungara e dintorni. Alla maniera del «Babst» e dei suoi cardinali, credo.
Fortuna. I lanzichenecchi non sopravvennero, o almeno io non li vidi. E poi è fuori discussione, io sarei stato il primo a fuggire.



VIII. LO «SCOOP»


1. La mia carriera di radiocronista durò poco. Rifiutata l'assunzione in servizio stabile, me ne andai a Berlino per studiare diritto romano. Dopo di che la guerra, la magistratura, la cattedra a Catania. Al piú, i «servizi» che feci da collaboratore «esterno» (cominciando con la morte di Guglielmo Marconi) furono circa una ventina.
Persa di vista l'EIAR e la successiva RAI, non seppi piú nulla del giornalismo radiofonico. Ma, come fu come non fu, nel maggio del 1950, proprio nei giorni in cui mi nacque la seconda figlia e in cui la facoltà giuridica napoletana decise finalmente di «chiamare» me da Catania e De Martino da Bari, ricevetti una telefonata da Roma. Il mio amico Vittorio Veltroni, che aveva anch'egli vinto come me il concorso del 1937 ed aveva poi fatto splendida e meritata carriera nella RAI, mi aveva ripescato nei suoi ricordi. Scoperto il mio attuale indirizzo, mi chiese se fossi disposto, sinché si trovasse l'uomo giusto, a dirigere «ad interim» per uno o due anni, la redazione giornalistica della zona campana e calabrese, che aveva poi sede a Napoli (colmo per me della comodità) in un edificio, il cosí detto Palazzo Singer, quasi di fronte alla sede universitaria di corso Umberto e al mio Istituto.
Perché no? Cosí dissi e cosí feci, in attesa di riattivare la professione di avvocato, che nei nove anni passati su e giú tra Napoli e Catania si era sviluppata, per necessità di cose, al minimo. E debbo aggiungere che la breve esperienza mi affaticò parecchio, ma mi piacque molto di piú, anche la varietà del lavoro e per l'alto livello culturale e umano dei collaboratori che trovai in redazione: da Luigi Compagnone a Samy Fayad, a Mimí Calvanese, a Ciro Buonanno, a Giannetto La Rotonda, alla fulminea stenodattilografa Ester Giliberti ed a tanti altri (i «tecnici del suono» in prima linea) di cui ometto il nome per economia di discorso.
Tutto funzionò abbastanza bene (cosí giudicò piú tardi, credo, il mio successore in pianta stabile, Enrico Mascilli Migliorini), ma qualche cosa mi mancava. Mi mancava quello che è il sogno di ogni giornalista, anche se dilettante e provvisorio come me, lo «scoop», l'avvenimento importante da cogliere in precedenza assoluta.

2. Ebbene, ecco i fatti.
Era la primavera del 1952, non ricordo di preciso la data. Il generale Neghib aveva fatto la rivoluzione in Egitto e il re Farouk era partito in gran fretta, lui e il suo seguito di famiglia e di corte, sul proprio «yacht» per destinazione ignota. Due giorni dopo, verso le undici del mattino, mi telefona da Capri il corrispondente Ciccaglione, annunciando meravigliato che Farouk era sbarcato a Marina Grande e si stava dirigendo verso un grande albergo di Anacapri.
Il tempo di passare la notizia a Veltroni a Roma, e mi precipito a precipitarmi a Capri. Occasione piú unica che rara, per me radiocronista a Napoli, giungere primo fra tutti sul posto. Intervistare il re, o almeno un suo dignitario, o almeno il suo servitore, un autista, un eunuco. Registrare. Mandare il nastro a Napoli per il «riversamento» su Roma. Se tutto va bene, ce la faccio per il Radiogiornale delle 20. Lo «scoop».
Tenete presente che a quei tempi non solo mancava la televisione, ma non c'erano nemmeno i «transistor» e gli aliscafi. Le apparecchiature da portare a Capri consistevano in due pesantissime casse con accumulatori, in un groviglio di cavi ed in almeno tre microfoni, essendo pacifico che uno o due non avrebbero funzionato o si sarebbero rotti. Il vaporetto di linea era già partito, sicché io ed un tecnico (Ciccarone o Elefante? Non ricordo) avremmo dovuto noleggiare un motoscafo, vincendo le fiere resistenze dell'economo, il coriaceo signor Colicchio.
Come Dio volle ce la facemmo. Partimmo, arrivammo, naturalmente non trovammo facchini e quindi ci caricammo personalmente del bagaglio (grave infrazione a sciocche norme sindacali). Di qui in auto ad Anacapri, all'albergo, a un maledetto terzo piano che il cavo appena appena ci permise di raggiungere. Mance a destra e a sinistra per superare le barriere umane. Dov'è Sua Maestà?
Sua Maestà si fece un po' attendere. Ma sapete chi c'era già sul posto? C'era Indro Montanelli, il sommo inviato speciale del Corriere della Sera. Un principe.
Con la fortuna che assiste i grandi giornalisti, Montanelli si trovava giusto a Capri da una settimana. Vi era giunto una settimana prima per un periodo straordinario di vacanze.

3. Insomma, per me niente piú «scoop». Ebbi solo la soddisfazione di «andare in onda» la sera stessa, alle 20, con un servizio di sei minuti, il doppio del massimo normale.
La mattina dopo il Corriere pubblicò le cinque colonne, coloratissime, perfette, dettate da Montanelli durante la notte. Mi morsi le mani. Quante altre cose non avevo né viste né immaginate. Quante.



IX. IL «GIURIDICHESE»


1. Indro Montanelli l'ho incontrato da vicino solo in quella tale occasione del 1952, a Capri, quando il re Farouk fuggi precipitosamente dall'Egitto. Talora l'ho visto in televisione o l'ho ascoltato in conferenze e tavole rotonde. Le mille volte (ma, usando la metafora del mille, mi tengo molto basso) l'ho invece letto nei suoi servizi di inviato speciale, nei suoi articoli di costume, nei suoi fondi di commentatore politico, nelle sue pagine e pagine di divulgatore di storia. Insomma, a farla breve, in quasi tutto ciò che ha scritto e pubblicato lungo la sua luminosa carriera di giornalista.
Intendiamoci, non è che io mi trovi sempre d'accordo con le sue opinioni, anzi sono frequenti le occasioni in cui non mi ci trovo. Ma che importanza ha questo dettaglio? L'importante e che di lui io ammiri la lucidità delle inquadrature (di avvenimenti, di situazioni, di concetti) e la freschezza dello stile espositivo. Uno stile cui ho sempre cercato, nel mio piccolo, di adeguarmi esercitando la mia attività di giurista e di studioso del diritto romano.
A Montanelli però non basta di essere quello che è. Egli deplora con molta frequenza e con altrettante fermezza che gli altri non siano come lui. Non è che gli faccia specie la divergenza degli altri, pochi o molti che siano, dalle idee che egli coltiva: non vi è anzi persona piú rispettosa (in parte forse perché disincantata) nei riguardi delle tesi altrui, cui al massimo reagisce con misurata ironia. Ciò che lo adombra è che non ci si esprima come lui, in linguaggio semplice, chiaro, accessibile a tutti (si diceva una volta, prima che subentrassero i citofoni, in linguaggio comprensibile dal portiere). In particolare, il suo bersaglio principale è costituito dagli storiografi e dai giuristi: i primi perché, fatta eccezione per gli inglesi, raccontano la storia in modo piatto, oscuro e spesso confusionario; i secondi perché, fatta eccezione per nessuno, usano chiudersi, alla guisa dei mandarini cinesi di altri tempi, in un frasario complesso che è tutto e solo gelosamente riservato al loro ceto.
E a tal riguardo Montanelli (lo ha proclamato piú volte, in «fondi» e «stanze» del Corriere della Sera) un metodo di cura ce l'ha, ed è molto semplice: quello di far tradurre le opere degli storici e deigiuristi (quindi, nel secondo caso, anche le leggi ed i provvedimenti affini) da buoni giornalisti, cioè da validi conoscitori della lingua viva, usi per loro mestiere a comunicare giorno dopo giorno col pubblico, ivi compreso il popolo minuto.

2. Posso manifestare il mio parziale dissenso? Eccolo riassunto in tre punti.
Primo. È vero che gli storiografi «continentali» omettono spesso di aver cura dello stile e della limpidezza quando pubblicano libri ed articoli che non siano rivolti agli iniziati della loro disciplina, bensí al pubblico dei non specialisti. Tuttavia in questa colpa incorrono del pari buon numero di storici anglosassoni, mentre non mancano gli storici, anche non anglosassoni, che da questa colpa sono sicuramente esenti.
Secondo. È vero che i giuristi (sia in veste di legislatori che di magistrati e di esperti) usano quasi sempre un linguaggio estremamente complesso e quasi mai si danno cura del fatto che i loro messaggi sono destinati in definitiva al pubblico. Tuttavia bisogna tener conto non tanto delle eccezioni (che vi sono, anche se indubbiamente molto poche) quanto della necessità che crea ad essi per l'appunto il «pubblico» dei litiganti e degli imputati di reato. Un pubblico estremamente difficile, causa prima della necessità di prevenire, nei limiti assai ristretti del possibile, le sue reazioni, le sue sottilizzazioni, insomma i suoi infiniti tentativi di sottrarsi all'osservanza del diritto e (con l'abile aiuto degli avvocati) di farla franca.
Terzo. È vero che i giornalisti hanno il compito di esprimersi in modo semplice e chiaro e che spesso questo compito essi lo assolvono egregiamente. Tuttavia molti tra loro (particolarmente i fondisti, quelli delle pagine di arte e cultura, i redattori delle rubriche di economia e talvolta persino i commentatori di avvenimenti sportivi) parlano difficile o addirittura difficilissimo pur quando potrebbero non farlo: al punto che anche una persona di buona cultura generale non sempre è in grado di comprendere i loro compiaciuti tecnicismi. Sfido Montanelli a capire alla prima ciò che si pubblica in tutte le pagine del grande giornale italiano cui egli collabora e che io, dovunque mi trovi, da innumerevoli anni scorro quotidianamente con devozione, senza omettere i necrologi e gli avvisi economici.
No, dunque, caro Montanelli. Dato e non concesso che vi siano in numero sufficiente i Montanelli capaci di spiegare con affabile scioltezza le cause sociali ed economiche della Rivoluzione Francese, le caratteristiche del dodecafonismo seriale di Anton von Webern, la politica economica della «dear money», l'importanza di un «assist» di Ronaldo, o anche solo le ragioni incontrovertibili per cui un uomo politico deve (dovrebbe) essere penalmente punito per aver allungato disinvoltamente le mani sulla proprietà privata o pubblica dei cìttadìni, l'obbligo di parlare «forte e chiaro», come dicono i «marines» americani negli sceneggiati televisivi, non incombe in primo luogo su lei e su pochi altri colleghi del suo livello. Incombe, per necessità di cose, anzi tutto e sopra tutto sui tecnici della materia. Tradurli non è possibile. Dunque va loro rivolto l'invito, magari la preghiera, di fare lo sforzo immane di evadere dalle discettazioni misteriche e di farsi capire dagli uomini della strada. Ricorda, tanto per fare un esempio, Gilberto Covi? Era un grandissimo attore comico (1885 - 1966) che recitava in genovese, dialetto estremamente difficile. Conscio di questa difficoltà, egli si faceva capire e applaudire da tutta Italia traducendo con naturalezza, dopo averle pronunciate, le parole e le frasi più ostiche.

3. L'importanza della chiarezza e dell'eventuale autotraduzione vale particolarmente per i giuristi e per il «giuridichese». Perché è principio fondamentale della nostra e di ogni nazione civile che le norme giuridiche «cogenti», cioè assolutamente inderogabili, e tra esse le leggi penali, non possono essere ignorate o fraintese dai soggetti giuridici.
L'ignoranza del diritto non scusa («ignorantia iuris non excusat»), fatti salvi i casi eccezionalissimi che essa sia stata determinata da irresistibile «forza maggiore» o (come ha aggiunto per le norme penali una pensosa sentenza, la n. 364/1988, della Corte Costituzionale) da assoluta «irriconoscibilità» di una maldestra formulazione legislativa. E faccio grazia a Montanelli della torbida fiumana dì discussioni, di «distinguo» e di cavilli cui ha dato luogo, in sede di accertamento giudiziale della riconoscibilità (o non riconoscibilià, o quasi riconoscibilità ecc.) di una norma penale, la sentenza costituzionale (a sua volta, direi, piuttosto maldestra) di cui ho appena parlato.
Bene, dunque, benissimo se qualche penna o qualche voce, esperta non solo di lingua viva ma anche di diritto, dà un aiuto «esterno» ai giuristi acché siano capítí dalla gente, ma la responsabilità primaria di portare i comandi del diritto alla piena comprensione dei destinatari è solo ed esclusivamente degli specialisti della materia. E siccome, purtroppo, non sempre il legislatore provvede (tra proposte, emendamenti, contro-emendamenti e rappezzi vari) ad esprimersi in modo adeguato (né lo aiutano sempre e a sufficienza i burocrati dello stato), ecco che devono subentrare, ai fini dell'interpretazione e della spiegazione spicciola delle norme giuridiche, gli esponenti della categoria cui appartengo, cioè gli studiosi e i docenti delle Facoltà di giurisprudenza. Studiosi e docenti tra i quali, è bene avvertirlo, un còmpito singolarmente duro (e un ammonimento altrettanto duro) spetta a quelli del diritto romano antico, i cosí detti «giusromanisti».

4. Ecco, se vi interessa, il caso mio. È stato piú di mezzo secolo fa che ho preso ad assolvere il compito divulgativo, oltre che dalla cattedra, con articoli di giornali e con conversazioni radiofoniche.
Ce l'ho messa tutta. Ma debbo dire che non ho riscosso diffusa approvazione nel ceto dei miei colleghi universitari, molti dei quali pensano che la cultura, e in particolare la cultura giuridica, debba portare (metaforicamente si capisce) la barba fluente e gli occhiali cerchiati d'oro. (Non si rendono conto che il parlare difficile, quando si può esprimere un concetto altrettanto esattamente in termini correnti, è solo manifestazione di posa, quindi, in definitiva, di provincialismo).
Comunque, malgrado la diffidenza dei miei colleghi con occhiali d'oro e con barba fluente (che poi, per fortuna, non sono tutti), io continuo ad essere convinto che chi parla in un'aula universitaria e fuori non deve limitarsi a decantare concetti in termini di doverosa precisione scientifica, ma deve anche sforzarsi di allenare i suoi allievi e ascoltatori a «leggere» il diritto fuori dei codici e dei trattati. A leggerlo là dove il diritto vive, anche se mascherato in mille modi. A leggerlo, preciso, nei giornali. A ritrovarlo nei fatti del giorno. A discorrerne con tutti usando un linguaggio di tutti.
Già nel 1955 ho dato alle stampe una scelta di conversazioni radiofoniche sotto il titolo Mestiere di avvocato (e mi è stato riferito che un famoso avvocato dell'epoca, Giovanni Porzio, vedendo il volume in una vetrinetta di Castelcapuano, il Palazzo di Giustizia di
Napoli, sbottò: «Quella dell'avvocato è una missione, non un mestiere»). A quella prima raccolta ne sono seguite altre quattro, sopra tutto di articoli pubblicati sul Mattino e su altri giornali, tra cui quello stesso cui collabora Indro Montanelli: Vita e diritto (1966), Tempi e costumi (1968), Diritto e rovescio (1973), L'avvocato risponde a tutti (1975). Poi basta. Il diritto romano mi ha riassorbito quasi completamente. Di articoli divulgativi ne ho scritti ancora, sebbene in minor numero, ma di raccolte non ne ho edite più.
Per carità, io non pretendo nemmeno lontanamente di poter essere paragonato, per la mia attività di conversatore col pubblico, all'illustre Rudolf von Jhering, di cui sono giustamente celebri (e credo ineguagliabili) le divagazioni tra il serio e il faceto che andava facendo nel secolo XIX in materia di diritto. Ma se il professore Jhering è al di sopra di ogni paragone, prego vivamente i lettori seriosi (in particolare i cattedratici) di non voler correre perciò col pensiero, ingenerosamente, all'estremo opposto del professore Unrat (quello del romanzo di Heinrich Mann o, per dirla piú chiara, del film L'angelo azzurro con Marlene Dietrich).


X. LETTERA IN UNA BOTTIGLIA

1. Il 26 luglio 1864 un magnifico «yacht» battente bandiera britannica, con le insegne dello scozzese lord Edward Glenarvan, faceva le sue prove di vela e motore alcune miglia fuori del golfo del Clyde. Tutto procedeva a meraviglia per il Duncan, quando fu avvistato un grosso pescecane che lord Glenarvan volle pescare allo scopo di liberare quelle acque dalla sua pericolosissima presenza. Issato a bordo, lo squalo venne squartato sul ponte e dentro vi fu trovata una bottiglia ancora intatta. Non per nulla si trattava di una vecchia Cliquot, anche se il tappo non era piú quello originale della gloriosa marca di «champagne» e pertanto aveva fatto filtrare acqua marina all'interno. Ne fu estratto a fatica un messaggio estremamente malconcio. La decifrazione non potè essere completa. Si scopri che il mittente era il capitano Grant, del trealberi Britannia naufragato in una località sperduta del 37° parallelo. Della longitudine nulla.
Questa la contingenza da cui prese avvio l'avventuroso giro del mondo, lungo la linea del 37° parallelo, effettuato da lord Glenarvan, da sua moglie lady Elena, dal flemmatico cugino Mac Nabbs e, a causa di una strana combinazione, dal dotto e distrattissimo geografo francese Paganel, allo scopo di accompagnare i due giovani figli del comandante del Britannia alla ricerca del padre. Chi non ha letto Les enfants du capitaine Grant (1867-68) di Jules Verne si affretti a farlo per sapere il séguito. (Non si vergogni, gli piacerà).
Perché ho ricordato Verne ed il suo romanzo? Oltre che per stimolare in qualche modo l'attenzione su queste pagine, per il fatto che anch'io mi sento metaforicamente un capitano Grant, ormai solo su un'isola deserta, che affida ad una bottiglia dall'incerto destino un messaggio dall'incerta decifrazione. E lo faccio, in coincidenza con la dodicesima edizione di una mia Storia del diritto romano (che esce a cinquant'anni esatti dalla prima), nella fiducia che qualche destinatario si comporti da cocciuto scozzese come lord Glenarvan e cerchi e trovi il senso delle mie parole prima che sia troppo tardi. Troppo tardi non certo per me, che ormai sono «out» e ne sono pienamente consapevole, ma per l'unica navigazione che mi ha veramente interessato nella vita e che ancor oggi veramente mi interessa: l'insegnamento del diritto romano nel quadro degli studi di giurisprudenza.

2. Amici giusromanisti di ambo i sessi e di tutte le nazioni civili, non mi rivolgo a voi per dirvi come dovete comportarvi nello studio scientifico della storia del diritto romano (come potrei?, come oserei?). Per quanto concerne me stesso, il mio pensiero sull'argomento l'ho comunque accennato piú volte, anche in tempi recenti o recentissimi, ed evito deliberatamente di richiamarvi in sede bibliografica ad essa perché la mia «metodologia» personale non c'entra (apprezzabile o non apprezzabile che sia) col tema su cui intendo concentrarmi in questa lettera.
In qualunque modo e tempo voi siate arrivati alla titolarità di un insegnamento giusromanistico entro una facoltà (o un'organizzazione similare) di giurisprudenza, sta di fatto che ormai vi siete arrivati e che pertanto vi trovate quasi quotidianamente a fronte di un pubblico di giovani studenti che aspirano ad esercitare le professioni di stampo giurisprudenziale. Ebbene io vi esorto, tutti e nella stessa misura, a prendere in seria considerazione un fenomeno ormqi innegabile e che, per di piú, non accenna minimamente a diminuire, anzi tende giorno per giorno ad aumentare: il fenomeno del disinteresse (ho detto disinteresse) sia degli studenti, sia dei colleghi docenti di altre materie, sia degli ordinamenti universitari per la vostra attività di insegnanti.
È deplorevole, è balordo, è incivile, è tutto quel che volete, ma la brutale domanda che molti, moltissimi si pongono è questa: a che serve la conoscenza del diritto romano, vuoi privato e vuoi pubblico, per la formazione di un giurista del giorno d'oggi? A che serve saperne di stipulatio, di ususfructus, di comitia centuriata, di responsa prudentium, di rescripta principum e via continuando? A che serve perdere tempo e moneta con queste chincaglierie passate e sorpassate? A che serve?
Ecco perché (se già non ve ne siete resi conto) voi siete una specie professionale in via di estinzione, piú o meno come quelle dei flebotomi, dei cocchieri di tiro a quattro, dei ciabattini, degli improvvisatori di versi a rima baciata. Tra breve i piú approfonditi antichisti fra voi (e fortunatamente ancora alcuni ve ne sono) troveranno forse ricetto in accademie oppure in facoltà letterarie, nelle quali ultime è sperabile che si rendano utili ad uno studio della storia antica che sia finalmente meno disinvolto di quello che suole attualmente praticarsi dai cosí detti «storici-storici», inclini in genere a snobbare le sottigliezze del diritto romano. Ma gli altri?
Gli altri giusromanisti (la maggioranza) si dovranno adeguare ad una di queste tre possibilità: a) passare ad insegnamenti di diritto moderno (nei quali, come già è successo talvolta in passato, potranno anche fare bene o benissimo); b) associare all'insegnamento giusromanistico quello di qualche materia giuridica di attualità (professando un po' dell'una e un po' dell'altra o miscelandole a mo' di macedonia); c) continuare, ma sí, continuare pigramente, come nulla fosse, nell'attività didattica di prima sino a che morte (o pensionamento) non segua.
Non so se posso dirlo, ma mi faccio coraggio e lo dico. Coloro (molti, temo) che adotteranno la terza soluzione daranno un segno inequivoco di cinismo, o almeno di stoltezza. Sarà sopra tutto a causa loro che, tempo qualche decennio, non piú, sopravverrà la fine del diritto romano come oggetto di serio studio storiografico. E non solo la fine sul piano didattico, ma anche la fine sul piano scientifico. Anche sul piano scientifico, per l'evidentissima ragione che la scienza si perpetua e progredisce attraverso la formazione di allievi e continuatori da parte dei maestri; tuttavia gli allievi non nascono dal nulla, ma provengono (al novantanove per cento) proprio dagli studenti. Ditemi ora se tra gli studenti del futuro ve ne saranno di quelli che avranno la «vocazione» alla ricerca scientifica nella mancanza di maestri in grado di selezionarli, di istruirli e di avviarli ai primi (e secondi e, talvolta, anche terzi) passi della loro carriera accademica.
Si annuncia, insomma, un triste destino: quello dell'estinzione dei nostri studi giusromanistici e del vostro correlativo insegnamento universitario. A meno che (datemi ascolto, amici) a meno che vi venga in aiuto la buona volontà di adeguarvi alle esigenze del cosí detto «adattamento ambientale». E purché il vostro tentativo sia coronato da consistenti risultati e questi risultati inducano prima gli studenti, poi i colleghi non giusromanisti, infine le istituzioni universitarie e affini a cambiare orientamento ed a riammettervi a pieno titolo nella categoria dei docenti di materie giuridiche. Un cammino in forte salita, ma non faticoso al punto da essere addirittura impervio.

3. Io mi permetto di sollecitare tutti voi, destinatari della presente lettera, a questo sforzo estremo. Non tenterò di suggerirvi dettagliatamente come fare perché non ne sarei capace. Voglio solo farvi presente che è finito per voi il tempo di parlare agli studenti (e agli uomini di cultura in genere) del diritto romano pubblico e privato come di un argomento nobilissimo a se stante, o anche di credere (come fanno i piú sconsiderati) di renderlo piú accetto banalizzandolo e riducendolo a nozioncine e curiosità costituenti oggetto di facili prove di esame. L'effetto (da voi sicuramente indesiderato) sarà solo quello di farlo parere una sorta di mondo chiuso entro una riserva indiana completa di Cavallo Pazzo e di Toro Seduto, di farlo sembrare una sorta di circo Barnum pieno di uomini in vestaglia e di donne plissettate che fanno e dicono cose curiosamente obsolete, o addirittura (non offendetevi) di farlo ritenere una sorta di «Disneyland» formicolante di vispi Labeotopolini o di dispettosi Capitopaperini che accompagnano i visitatori in Campo Marzio per vedervi i Comizi Centuriati (allietati, questi ultimi, dalla fanfara dei tubicines e dei cornicines).
Non è che non bisogni discorrere, con opportuni dosaggi, di tutto ciò e di quant'altro, ma è che bisogna discorrerne al fine di dare un sostanzioso contributo di esperienza (di una lunga e grandiosa esperienza) ad una visione approfondita dei problemi giuridici contemporanei. Chiaro?
Bella novità, diranno i piú malignetti (pochi, nevvero?) tra voi. Questa (essi diranno) altro non è che la vecchia proposta di Paul Koschaker nel senso di una «Aktualisierung der romanistischen Vorlesung». Niente affatto, rispondo. Non si tratta, a mio avviso, di fare lezioni di diritto romano a complemento dell'illustrazione dei soli istituti (oltre tutto, in massima parte privatistici) piú o meno somiglianti a quelli dell'antichità romana. E voglio aggiungere, a scanso di equivoci, che una «Aktualisierung», un'attualizzazione in senso koschakeriano dell'insegnamento romanistico (o addirittura della ricerca storiografica, come sostengono avventatamente alcuni) nemmeno può essere seriamente operata inzeppando nelle costruzioni giuridiche moderne (di cemento armato, figuriamoci) vecchi ed ormai inadatti materiali estratti dai giacimenti (sopra tutto da quelli privatistici) delle fonti giuridiche romane.
Si tratterebbe soltanto di orpelli superflui e spesso anche «kitsch». Il che stanno ampiamente a dimostrare (sincerità, sincerità) molte monografie cosí dette «scientifiche» zeppe di legnosi «precedenti» romani pubblicate in vari paesi del mondo nell'ultimo cinquantennio, oppure i cosí detti «cappelli» che in certi concorsi italiani (per esempio, nei concorsi per la magistratura) si mettono dai candidati in capo allo svolgimento scritto dei temi di diritto privato allo scopo di dimostrare di essere dotati, come richiesto dal bando, anche di sufficienti «nozioni romanistiche».
L'«adattamento ambientale» che occorre al giusromanista per essere utilizzabile ed utilizzato come insegnante in una moderna facoltà giuridica (e per ottenere lo stipendio relativo) è ben altro. Consiste, a mio parere, in una consapevole e accorta «full immersion» nella vita moderna del diritto. In altri tempi ed in altri luoghi (sopra tutto nel mio L'ordinamento giuridico romano, giunto alla quinta edizione nel 1990) ho avuto l'ardire di far ricorso alla funzione intermediatrice della cosí detta «teoria generale del diritto», ma qui mi avvalgo di un argomento piú dimesso. Mi limito ad asserire che, in parole piú povere, l'adattamento ambientale consiste solo nel tener presenti i giornali e le vicende quotidiane (quelle importanti) di cui essi riferiscono e nell'aver tra le mani, in piú, un paio di manuali di diritto vigente che siano ben aggiornati: uno di istituzioni di diritto pubblico ed uno di istituzioni di diritto privato (magari anche uno di istituzioni di diritto e procedura penale).
Questa «full immersion» nel moderno (in «tutto» il moderno, non nella sola specialità cui egli dedicherà eventualmente la sua collaterale professione di avvocato), questa sua partecipazione piena e verace alle problematiche del diritto vigente (unita all'adozione, nei limiti del possibile, del linguaggio giuridico corrente) porrà finalmente il giusromanista in condizione di contribuire efficientemente, non certo alla soluzione delle problematiche stesse, ma alla loro piú approfondita discussione. Il che significa che il giusromanista si renderà realmente e visibilmente utile allo studio ed allo sviluppo del diritto di oggi solo ponendosi a fianco dei docenti del moderno e facilitando ad essi la «comparazione» delle loro specifiche esperienze con un'altra e ben distinta esperienza giuridica: l'esperienza giuridica romana.

4. Mica facile, lo so. Sopra tutti perché noi giuristi (anche i non romanisti, sia chiaro) abbiamo tutti la deplorevole tendenza ad usare un linguaggio sempre piú tecnico e sempre piú criptico e ad impedire involontariamente al pubblico grosso di capire quel che forse vogliamo dire.
È successo tantissime volte anche a Roma, tra giuristi e non giuristi di allora. Ricordate, ad esempio, il processo privato? Dapprima le legis actiones, a furia di sottigliezze dei giuristi, «paulatim in odium venerunt» (cfr. Gai 4.30), sicché furono abbandonate e in par- te abolite. Di poi le formulae del nuovo processo ordinario si trasformarono anch'esse lentamente in trappole verbali per la gente comune, sicché Costanzo Il e Costante posero ufficialmente la pietra tombale anche sull'ormai comatoso processo formulare (cfr. CI. 2.57.1, a. 342). Infine la pura e semplice impetratio actionis del processo extra ordinem dette luogo, col seguirsi degli anni e delle liti, a tali e tanti raffinati «distinguo» circa l'esatta osservanza dei suoi limiti nel corso della causa che Teodosio II e Valentiniano III furono indotti a vietare le eccezioni relative (cfr. CI. 2.57.2, a. 428). E se non continuo è perché intravvedo un cartello che mi avverte del rischio di uno sconfinamento, di un «trespassing» nel Medioevo.
Opportuna avvertenza per chi voglia almeno provare a darmi ascolto è, peraltro, questa. Non si illuda il giusromanista di poter fare comparazione diacronica (fuori che in casi eccezionali) tutta quanta con le proprie forze: troppo vasto e profondo dovrebbe essere, a questo fine, il novero delle sue conoscenze relativamente alle molte ramificazioni dei diritti moderni. Ma non si attenda il giusromanista che gli studiosi e i docenti del moderno (fuori che in casi altrettanto eccezionali) abbiano la pazienza e la capacità di dedurre direttamente dai suoi libri, dalla sua voce, dalle sue fonti antiche (anche se tradotte in volgare) i mezzi e gli spunti per un'efficace operazione comparativa. Bisogna incontrarsi a mezzo del guado. E siccome, l'ho detto e lo ripeto, l'apprezzamento dei nostri rappresentanti come utili docenti di giurisprudenza è ormai in forte ribasso, è necessario che sia il giusromanista a compiere i passi iniziali e piú lunghi verso quest'auspicabile incontro con i riottosi giusmodernisti.
Non solo. È opportuno che egli, il giusromanista, faccia qualche cosa di piú. È opportuno che riveda (corregga, riscriva) i suoi manuali di «storia» e di «istituzioni» in funzione della comprensibilità e della convinta lettura degli stessi da parte degli studenti destinati ad operare come interpreti dei diritti vigenti nel terzo millennio dell'èra volgare. Dunque che si esprima non solo in «lingua viva» dal punto di vista generico, ma anche, insisto, in un «giuridichese» moderno ben temperato.

5. Nell'isola deserta in cui vegeto, da naufrago di una giusromanistica ch'era un tempo fiorente e rispettata, io non mi attendo che arrivino lord Glenarvan e il maggiore Mac Nabbs a raccogliermi con il Duncan. Tutto sommato, posso vivervi e morire in santa pace, anche perché la fortuna ha voluto che non sia tediato, come Robinson Crusoe, da un fedelissimo Venerdí. Mi basta e mi avanza una sorta di apparecchio radio, che riceve e che non trasmette, per mezzo del quale conosco all'ingrosso le ultime novità del mondo universitario d'Italia, d'Europa, del Mondo.
Le vecchie pile sono ormai quasi scariche, ma, prima che si esauriscano del tutto, spero ardentemente di apprendere (l'ho detto e lo ripeto) che questa mia lettera in una bottiglia sia stata ripescata, decifrata e benevolmente compresa da almeno alcuni tra i giusromanisti (tutti) cui la destino. Nessuno piú di me è in grado di dire (con Ovidio, Trist. 5.10.37): «barbarus hic ego sum, quia non intellegor ulti».
Spero ardentemente che qualcosa si faccia, prima che sia troppo tardi, nel senso da me indicato. Statevi bene, amici. Buona fortuna e tutte queste cose.
Nell'anno del Signore 1998, il 28 di settembre, lunedì, giorno di San Venceslao martire.

POSCRITTO. La data che chiude la mia lettera non è quella originaria, ma è quella, alquanto posteriore, in cui ho pronunciato di persona a Madrid, nella sede dell'Universitad Complutense e in occasione del cinquantaduesimo congresso della «Societé internationale d'histoire des droits de l'Antiquité», un intervento corrispondente al suo contenuto.
Ma come? (mi si dirà). Ecco la facile risposta. Lord Glenarvan, il cugino Mac Nabbs e tutti gli altri del Duncan, essendo autentici scozzesi, di testardaggine, se non di ottimismo, pari a quello del ben noto Mister Johnnie Walker (etichetta nera), non hanno tenuto conto del mio desiderio di restar solo nell'isola deserta. Mi hanno ostinatamente ricercato attraverso mille avventure, mi hanno ritrovato, mi hanno guarito da un'infermità e mi hanno portato a Madrid giusto in tempo per la seduta inaugurale del convegno. Cosa che, a dire il vero, mi ha fatto molto piacere perché ho rivisto molti amici che non si erano dimenticati di me.
La condizione che avevo posta a Glenarvan e compagni era stata però di essere ricondotto, terminato il congresso, nell'isola deserta. Quei degni gentiluomini l'hanno puntualmente rispettata. Eccomi dunque nuovamente qui, per non allontanarmi mai piú.
Sono gli ultimi giorni dell'anno di Grazia 1998 e ne approfitto per augurarvi il felice ascolto di un buon concerto di Capodanno 1999 dei «Wiener Philarmoniker», col lieto finale della Marcia di Radetzky.