ANTONIO GUARINO

 

                   TRUCIOLI DI BOTTEGA

                    

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SOMMARIO

 I.      LAURIA: VICENDE. DI UN'AMICIZIA

II.      LA TRADIZIONE E I COMIZI

III.      LE PARI  OPPORTUNITA’ E L’ANTICO

IV.      TITOLI E STILE

V.      NESENNIO APOLLINARE

VI.      PRESTITI


 

I. - LAURIA: VICENDE DI UN'AMICIZIA

1. Nato nel 1903 (20 ottobre), Mario Lauria celebrerebbe quest'anno il centenario se la morte non lo avesse colto quasi ottantottenne il 5 settembre 1991. Spegnersi a quell'età, ancora lucidissimo di mente, non è cosa che si possa troppo compiangere, salvo che in chiave di vana retorica. Inoltre, è bene dirlo, quello che fu per me un tristissimo giorno (accorsi a prim'ora accanto al suo letto nell'appartamentino di via Monteroduni) fu forse per lui un dono della Provvidenza. Il quieto passaggio al sonno eterno avvenuto durante la notte gli risparmiò infatti il dolore, che sarebbe stato immenso, di veder scomparire, nel giro di altri pochissimi anni, tutti e tre i figli (Maria Cristina, Francesco detto Ciccio, Felicetta) e l'adoratissima moglie Adelina.

Parole di commiato veramente belle, anche perché veramente sentite, gli hanno dedicato Francesco Amarelli (in SDHI. 57 [1991] 571, con un elenco completo delle opere edite e inedite) e Francesco Paolo Casavola (in Index 20 [1992] 655 ss.). Una calda e penetrante commemorazione accademica ne ha fatto, con riferi­mento anche alla sua opera scientifica, Francesco De Martino (v. Labeo 38 [1992] 5 ss.; ma v. anche J.G. Wolf, in ZSS. 110 [ 1993] 845 ss.). Anch'io ho tracciato di lui, quasi sul momento, un ricordo accorato (in Labeo 37 [1991] 402; v. anche PDR. 2 [1993] 56 s.), ma temo sia stato un necrologio, il mio, troppo contratto e quasi trattenuto nell'esteriore delle parole: il che non è solo dipeso da un'invincibile ritrosia che solitamente mi prende nella manife­stazione dei sentimenti che mi ingolfano l'animo. È dipeso altresí dal fatto che il mio rapporto umano con Mario Lauria è stato ben piú intenso e continuo di quanto io abbia mai amato rivelare e di quanto un estraneo possa credere, stando alle sole apparenze della nostra storia comune.

Se volessi oggi, approfittando della ricorrenza centenaria, tracciare al completo un quadro della persona e dell'opera di Mario Lauria visto dal mio angolo di osservazione, sento che nem­meno vi riuscirei. Non solo ripeterei fiaccamente cose già dette altrove (specie nella conversazione dal titolo Arsenico e vecchi mer­letti, pubblicata in Opuscula XVI [1997] del Centro Arangio­Ruiz), ma per parlare di lui finirei anche col tracimare la misura ormai già presso che colma dei miei riferimenti autobiografici. Mi fermerò pertanto su pochissimi punti ma, almeno per me, essen­ziali. I seguenti.

 

2. Lo conobbi quando mi ero appena trasferito da Milano a Napoli, nell'ottobre del 1932. Fu il primo professore di cui seguii le lezioni. Era quasi trentenne e copriva la cattedra di Istituzioni di diritto romano a titolo di supplenza del suo maestro Vincenzo Arangio-Ruiz. Questi aveva infatti trovato il modo di tenersi lon­tano dall'Italia e dal detestato regime fascista vincendo un con­corso internazionale per la difficile impresa dell'insegnamento (o, piú precisamente, della trasfigurazione) del pensiero giuridico romano agli studenti musulmani dell'Università del Cairo. Ad essi si rivolgeva in un francese che un paziente collaboratore locale tra­duceva ad sensum in arabo «decoranizzato».

Lauria non aveva la discorsività scorrevole e persuasiva con cui Arangio aveva fatto tanta presa, negli anni precedenti, sui pur difficili ascoltatori napoletani. Questo proprio no. Tuttavia era evi­dente, si toccava quasi con mano il suo impegno a farsi capire e sopra tutto (ecco il suo particolare) a far persuasi tutti gli ascolta­tori che ciò che egli diceva, sulla traccia del libro di Istituzioni del maestro, non era verità indiscutibile, ma era solo uno fra i tanti e diversi modi di presentare la materia guardandola da angolazioni diverse. Il suo insistente battito su questa realtà, il suo frequentis­simo richiamo di opinioni difformi o addirittura contrarie, le sue molte pause di riflessione critica personale rivelata a mezza voce quasi soltanto a se stesso, beh, gli assottigliarono rapidamente l'u­ditorio. Ma gli produssero in cambio un gruppo di fedelissimi, di giovani appena evasi dai rigori didascalici del liceo e affascinati come lui dal dubbio e dalla possibilità di scoprire le varianti del canone, di discuterle, di approfondirle. Tra i fedelissimi anch'io.

Finita la lezione, che per lui divenne visibilmente, ogni giorno di piú, come un percorso obbligato che lo infastidiva, Lauria si intratteneva con noi per ore intere. Non potendo restar troppo a lungo nell'aula destinata ad altri docenti, né amando aggirarsi discettando nei corridoi alla maniera della Scuola di Atene, ci attirò (meglio direi che ci attrasse) nei locali, al secondo piano, della vastissima biblioteca unitaria detta degli «Istituti Giuridici». Ci parve di trovarci in una sorta di grande officina del sapere (in un «Ouvroir de littérature potentielle» o «Oulipo», come avrebbe abbreviato Raymond Queneau) formicolante di stu­diosi e studenti, al cui funzionamento attendevano due diligenti impiegati e un paio di bidelli espertissimi tra cui primeggiava per intuizione e sveltezza un uomo di mezza età dall'occhio pronto che si chiamava, indimenticabile, Stefano.

Seduto a capo di un tavolo, con noi tutti intorno, e fumando (unico tra i suoi lussi) certe raffinate sigarette dal bocchino dorato, di cui ricordo che la marca era «Xantia», Lauria ci parlava ancora e amava che noi a nostra volta parlassimo fumando le sigarette di qua­lità piú modesta che potevamo permetterci (le mie, purtroppo, erano delle maleodoranti «Popolare» da 50 centesimi di lira al pac­chetto da dieci). E fu cosí che ci squadernò sotto gli occhi le fonti, insegnandoci come consultarle. E che ci fece vedere da vicino le rivi­ste, tra cui in primo luogo la Zeitschrift der Savigny-Stiftung e il Bullettino dell'Istituto di diritto romano sfogliati come fossero libri da messa. E che ci accompagnò con accorte spiegazioni nella lettura di qualche saggio. E che ci mise a gara nel discutere, tanto per comin­ciare, le tesi di Charles Appleton sull'istituto del tesoro cosí come esposte negli appena (o quasi appena) editi Studi in onore di Pietro Bonfante (3 [1930] 1-34, Le trésor et la `fusta causa usucapionis'). Tutto un mondo assolutamente nuovo da percorrere e da scoprire.

Il novero dei fedelissimi, è ovvio, diminuí man mano ulte­riormente, sinché rimanemmo in due: io ed il mio coetaneo Pietro Brandi, che sarebbe piú tardi, nel 1938, entrato con me in magi­stratura. Ma rispetto a Pietro, a prescindere da un entusiasmo che nel mio intimo era certamente di giorno in giorno maggiore, io ebbi in dono dalla fortuna la possibilità di conoscere Lauria ancor piú da vicino. Ecco perché.

3. Non me la passavo affatto bene, a quell'epoca, anzi stavo piuttosto male sul piano economico. Per tenermi agli studi dispen­savo a pagamento lezioni private di materie letterarie. Ora avvenne che certi signori Raimondi mi affidassero il compito di seguire ogni pomeriggio feriale gli studi dei loro tre figli: un primo che doveva prepararsi agli esami della terza ginnasiale (quella piú tardi denominata come terza media), un secondo che aveva da affron­tare gli esami di licenza elementare, un terzo ch'era alla prima ele­mentare e doveva sopra tutto star cheto, se non attento e tanto meno divertito, mentre io mi occupavo degli altri due. Abitava la famiglia Raimondi in via Calabritto 20 nel maestoso Palazzo Calabritto, antica dimora dei duchi di Estouteville (nome poi ita­lianizzato in Tuttavilla), un edificio al cui rifacimento parziale (tutto, o quasi tutto, è soltanto parziale a Napoli) aveva posto mano nel secolo XVII il grande architetto Luigi Vanvitelli. Per vero, l'appartamento non era al primo piano, cioè al piano nobi­liare cui si accedeva salendo uno scalone interminabile di pietra lavica. Insieme con altri, forse in antico destinati ai dipendenti di vario rango e alla servitú, era sito in un piano vertiginosamente piú alto al quale invece portava una lunghissima e scurissima scalinata a chiocciola (novantanove gradini) celata dietro uno dei portali del piano nobile. E un pomeriggio di un certo giorno, proprio uscendo dalla casa dei miei tre ragazzi, mi imbattei stupefatto nel professore Lauria, il quale abitava sin dalla nascita, guarda la com­binazione, nell' appartamento accanto.

Mi vide, mi riconobbe, mi parlò. Si accorse con qualche sor­presa della mia sempre taciuta fatica quotidiana per vivere, mi introdusse in casa sua, mi presentò alla moglie, mi fece intravve­dere la biblioteca sterminata, per tre quarti ereditata dal padre (che era stato un rinomato avvocato feudista) e per il resto messa insieme da lui stesso in pochi anni acquistando senza risparmio (ne aveva i mezzi) tutto quanto gli era stato possibile procurarsi in materia di diritto romano. Malgrado la distanza che ci separava, diventammo in breve, senza dircelo, amici e tali saremmo rimasti, con alti e bassi cui tra poco non mancherò di far cenno, per tutta la vita: lui compiacendosi spesso di scendere (talvolta con punte di cameratismo addirittura imbarazzanti) dal suo al mio livello di allievo, io mantenendomi sempre, inalterabilmente entro i limiti del riguardo che sentivo essermi doverosi.

Cosí per circa vent'anni, diciamo dal 1932 al 1950. Venti anni, o quasi, durante i quali Lauria, promosso da libero docente a professore di cattedra, andò ad insegnare in alcune Università non napoletane, ma in breve tempo tornò da titolare alla cattedra napoletana di Istituzioni di diritto romano, cattedra che era stata lasciata da ArangioRuiz per passare a Roma, e si apprestò poi a succedere a Siro Solazzi, quando questi pervenne a fine carriera, come professore di Pandette. Tutto questo mentre io, laureatomi con Solazzi, avevo fatto a mia volta carriera (con convulsi intervalli dovuti al servizio militare e alla guerra) prima come magistrato e poi come cattedratico (nove anni magici) nell'Università di Catania. Ormai Lauria non abitava piú nella vecchia casa paterna in cima a palazzo Calabritto, ma si era trasferito in un caseggiato di nuova costruzione con vista sul giardino di altro fastoso edificio principe­sco, il palazzo Cellamare della vicina via Chiaia, ed ivi aveva distinto rigorosamente casa e bottega. La sede familiare era sistemata al quarto piano insieme ai libri d'arte ed alla collezione completa delle amatissime opere di Anatole France. Il cosí detto «studio» era un appartamentino a piano terra in cui una grande stanza era riservata alla sua scrivania ed alla sua sempre piú vasta biblioteca, mentre i vani restanti erano destinati a studietti minori per gli allievi frattanto sopravvenutigli e ad una «suite» con bagno per eventuali visitatori stranieri (particolarmente graditi se germanici).

Per lungo tempo io ebbi accesso praticamente libero sia allo studio, sia anche all'appartamento familiare. In quest'ultimo alter­navo la impegnativa conversazione con la signora Adele, donna sprizzante intelligenza e cultura che era stata assistente di fisica a Genova, ai riposanti dialoghi con la deliziosa zia Margherita, che era la vecchia sorella del padre del professore ed aveva una raffinata educazione femminile rigorosamente all'antica (di quelle fatte esclusivamente in casa o dalle Suore: fraseggio in ottima lingua, locuzioni francesi naturalmente intercalate qua e là, silenzi appa­rentemente distratti quando i discorsi divenissero in sua presenza sconvenienti). Se invece scendevo nello studio vi trovavo sempre, in uno dei «box», almeno un giovane assistente in servizio, come fosse, «di picchetto»: preferibilmente Lucio Bove, per lungo tempo vezzeggiato da Lauria come un piccolo Voltaire alla corte di Federico II.

4. Nel 1950, con la mia chiamata alle Istituzioni di diritto romano di Napoli, che avvenne in parallelo con la chiamata di Francesco De Martino alla Storia, si apri un decennio (o poco piú) davvero indimenticabile, che non cancellò certo i miei ricordi degli anni di Catania (nei quali Sanfilippo ed io avevamo, tra l'al­tro, fondato Tura), ma ne attenuò lentamente il rimpianto.

Solazzi, da tutti noi venerato, lavorava ancora sodo e atten­deva, con l'aiuto industre di Bove, alla raccolta dei suoi scritti di minor mole, trascorrendo tranquillo il tempo che lo separava dalla fine. De Martino, tenuto a Roma per le sempre crescenti incom­benze politiche solitamente dal martedí pomeriggio al venerdí mattina, faceva a Napoli le sue regolari tre lezioni settimanali, mentre in ogni momento e occasione che gli si rendesse disponi­bile si chiudeva in biblioteche o in casa sobbarcandosi alla prodi­giosa fatica, che gli durò dieci anni, di pensare e di stendere i densi volumi della sua Storia della costituzione romana. In Università, e particolarmente nei locali degli Istituti giuridici, divampò (questo è il termine adeguato) Lauria, forse anche perché io fui pratica­mente il suo quotidiano «alter ego».

Moltissime furono le cose che facemmo. Tra esse il richiamo in vita di una vecchia istituzione culturale, prodiga di conferenze e seminari, denominata «Circolo Giuridico» e sopra tutto la crea­zione della nuova rivista Labeo (1955), di cui assumemmo con De Martino la condirezione. Ma in queste iniziative non saremmo riusciti, o saremmo riusciti solo in minima parte, se non fossimo stati circondati da uno stuolo di giovani studiosi di grande intelli­genza e di grandissimo impegno. Già Arangio, passando a Roma, ci aveva lasciato da curare la rifinitura dell'ormai bene avviato Franco Bonifacio, ma nuovi germogli sbocciarono ben presto: da Luigi Amirante a Franco Casavola, da Mario Bretone ad Angelo Ormanni, da Atanasio Mozzillo al già ricordato Lucio Bove e ad altri, ad altri, ad altri (forse a qualcuno di troppo). Tutti giovani studiosi che Lauria, «talent scout» innarrivabile, instancabilmente scopriva e si esaltava di aver scoperto, salvo talvolta a deludersi forse con eccessiva amarezza (ecco il suo difetto) se non rispondevano con immediatezza alle sue aspettative iniziali.

Parlare in breve dei “cavalli di razza” che tirammo su in quegli anni non è facile. Il più forbito di tutti era sicuramente Franco Casavola, giovane dall’eloquio elegante e pacato (mai gli sfuggiva una parola in dialetto) e dalla cultura generale solida e varia, che era anche da ammirare,almeno secondo me (causa le esperienze analoghe che avevo personalmente avuto), per la dignità con cui, pur senza scioccamente tentare di nasconderla, faceva fronte alla scarsità dei suoi mezzi di sussistenza. L’opposto di lui era Angelo Ormanni, ingegno vivacissimo, curioso insaziabile di tutto lo scibile umano, esperto di tutti i vernacoli della più fonda periferia, peraltro critico in modo a volte spietato e non soltanto con gli altri ma anche inquietamente con se stesso: temperamento insomma difficilmente conciliabile con quello di Lauria, che infatti abbandonò tempestosamente dopo qualche anno, pur senza cessare di amarlo, per passare a Roma, prima con Emilio Betti e poi (rotti i rapporti anche con questi, con l’acquietante Riccardo Orestano. Pronto a discussioni talvolta accanite era anche Mario Bretone, studioso di alta levatura e di diligenza filologica quasi maniacale che ha dato in seguito validissimi e ben noti contributi alla nostra scienza, ma in cui in non rari momenti di scontro con Lauria e con altri devono aver lasciato qualche risvolto tanto amaro da indurlo, in un certo senso, alla “rimozione” dei ricordi di allora (il che deduco dal fatto che non fa parola degli anni trascorsi con noi nei Minima Personalia, pubblicati recentemente in Belgagor 57 [2002] 363 ss.). Poco pacioso, assai poco, non meno pronto di Ormanni e Bretone a sguainare la spada, era inoltre Luigi Amirante, oggi purtroppo prematuramente scomparso, che, appoggiandosi in parte, come Bonifacio, anche direttamente al Prof. ArangioRuiz, dal nostro ambiente napoletano, spicco tra i primi il volo verso la libera docenza e la cattedra. Ne può tacersi in questo scarno elenco (che è pieno, tengo a dirlo, di omissioni), l’amabile presenza di Atanasio (Ninni) Mozzillo, facile ad accendersi ma alieno (per sua fortuna) dai dibattiti degeneranti sulla via dei litigi, che pian piano, richiamto da altri interessi culturali, si indusse poi ad abbandonare il campo giusromanistico, non senza aver prima con­quistato la libera docenza in diritto romano.

Nella saletta degli Istituti Giuridici che avevamo requisito per i nostri incontri Lauria appariva e scompariva (volte venendo dal­l'aula, volte allontanandosi per liti giudiziarie misteriose che aveva avuto in eredità dal padre davanti al Tribunale degli Usi Civici) come un Farfarello o, se volete, un Malacoda, un Cagnazzo, un Rubicante o un altro di quei diavoli turbinosi (buoni diavoli, in fondo) cui Dante assegna nella sesta bolgia dell'Inferno (canto XXI) il compito di rimestare con i loro raffi i «barattieri», i fac­cendieri della cosa pubblica, condannati a dibattersi nella pece bollente. Casavola (era lui o non era lui?) diceva talvolta di avver­tire al suo ingresso un inequivocabile odore sulfureo (e chi sa cosa avrebbe aggiunto quella linguaccia di Ormanni se si fosse ricor­dato dei modi peculiari di comando con cui Barbariccia, "duca" di questi diavoli, teneva in ordine la truppa del suo plotone). Certo è che Lauria con le sue insistenti domande, con i suoi dubbi improvvisi, con le sue osservazioni inaspettate metteva tutti quanti in agitazione, specie quando, con l'intelligenza fulminea che gli era propria, in cinque minuti aveva già capito (o creduto di capire, è lo stesso) dove andasse a parare il lungo discorso che qualcuno dei presenti avesse pensosamente intrapreso (e allora si rattrappiva sulla sedia, chiudendo gli occhi come per riposarseli, e attendeva la fine con ostentata pazienza, ogni tanto facendo cenni di assenso come per dire «è ovvio»).

Quando si comportava cosí, prenderlo in castagna, e mostrargli che invece non aveva previsto esattamente le conclu­sioni di un discorso, era presso che impossibile. Lo tentò e ritentò a varie riprese sopra tutto Bretone, ma invano, anche perché Lauria era, per verità, abilissimo nel trovare una via di uscita e nel rimestare le cose lasciandoci tutti con un palmo di naso. Solo una volta lo mise sotto scacco Amirante, ma su un particolare del tutto secondario, anche se caratterialmente significativo. Essendo sorto il problema di inviare una lettera o un libro a Mario Amelotti, che allora abitava a Firenze dove era assistente di Archi, Lauria trasse da un suo calepino fittamente riempito l'annotazione abbreviata «L. i. M.» che tradusse sicuro in via Lorenzo il Magnifico, mentre la località, come poi appurammo, era la via Lungo il Mugnone, là dove il buon Calandrino del Decameron boccaccesco (ottava gior­nata) fu indotto da Bruno e Buffalmacco ad aggirarsi invano nella ricerca della pietra elitropia.

 

5. Il ruolo che io svolsi in quel decennio e anche dopo (l'ho già detto con finta modestia in varie occasioni) fu essenzialmente quello del sergente maggiore. Non certo del sottufficiale urlante e aggressivo di tanti film inglesi e americani (urli e scenate non fanno parte del mio repertorio), ma del graduato, questo sí, infles­sibile e pignolo nel pretendere l'apprendimento e l'osservanza del regolamento, vale a dire del metodo: compito, questo, non facile, che ho svolto con piú autonomia anche negli anni successivi al 1961 con quelle che sono state le nuove leve dei miei allievi e assi­stenti piú stretti, dei quali qui tralascio di parlare. Mi rendo pie­namente conto che a quei tempi con la fermezza dei miei modi, resa piú dura dall'osservanza speciosa della cortesia formale, ho spesso suscitato, specie in persone appuntite come Bretone o Amirante, reazioni anche forti di insofferenza o addirittura di piú o meno passeggera antipatia. Me ne rendo conto, ma posso dire che col passare del tempo quelle reazioni sono tutte rientrate ed hanno dato luogo a manifestazioni di solidarietà e di affetto che mi hanno spesso molto commosso. (La telefonata di addio che, anni dopo, Ormanni mi fece da Roma, ove era in procinto di morte, non la dimenticherò mai).

Ad ogni modo, sono, oggi come allora, serenamente convinto che la mia attività di collaborazione con Lauria non sia stata inu­tile, tutt'altro. Infatti Lauria (perché tacerlo?) accanto ai suoi immensi pregi aveva i suoi non trascurabili difetti. Particolarmente la noncuranza della futura sistemazione dei suoi allievi in cattedra e inoltre, sempre crescente col tempo, la variabilità degli umori. Egli non era proprio il tipo da leggersi con assidua attenzione un manoscritto e da controllarne le citazioni. Non gli riusciva di fare agli autori delle critiche mirate e costruttive, tali comunque da raddrizzarli e non da scoraggiarli. Non gli veniva di accompagnare a Roma i candidati alla libera docenza e di dar loro consigli, ma sopra tutto coraggio, nella lunga notte dedicata a preparare la scena madre della lezione finale. Tutte incombenze alle quali io credo di non essermi sottratto mai e per nessuno.

Gli episodi che potrei narrare sono molti. A prescindere dalla rottura con Ormanni, cui ho accennato poco fa, ve ne furono di meno drastiche con Bretone e con Grelle. Drammatica fu poi quella volta in cui Lauria licenziò su due piedi due suoi assistenti ordinari (dei quali uno era a soli dieci o quindici giorni dal com­pimento del periodo minimo di servizio richiesto per il passaggio consolatorio tra gli insegnanti delle scuole medie) ed io lo convinsi con molta fatica a revocare il provvedimento: cosa che fece, molto corrucciato, ma a condizione (ben presto, ovviamente, dimenti­cata) che i due reprobi, pur restando formalmente in servizio, non si facessero piú vedere in eterno da lui. E ancora piú delicata fu la contingenza in cui un altro giovane studioso (diciamo pure chi era: Amirante), giunto ormai alle soglie del concorso per la catte­dra, si vide negare all'ultimo momento, la firma di autorizzazione alla stampa nella Collana della Facoltà di una sudata (e pregevole) monografia che era stata da me seguita passo passo. In questa tem­pestosa occasione, non essendo io riuscito in alcun modo a per­suadere Lauria alla firma, mi sentii in dovere di dichiarargli che l'autorizzazione l'avrei data sulla mia esclusiva responsabilità io stesso, e la detti. Ma il risentimento di Lauria per questo mio uso (l'unico e solo finora) della «par potestas» fu forte. Se ne dispiacque quasi quanto me.

 

6. Pur tra questi alti e bassi, la nostra attività in comune con­tinuò molto intensa, alimentata dalla devozione che entrambi avemmo sino alla morte per Solazzi e dall'affettuoso rispetto che ambedue portavamo a Vincenzo Arangio-Ruiz. Un episodio che ricordo nitidamente, sebbene non sappia precisarne troppo la data, fu quello di una visita collettiva che egli volle facessimo tutti, ma proprio tutti, nel 1958, ad Arangio (memoria aiutami: era di maggio) in occasione di una delle sue venute a Napoli per lo studio delle tavolette cerate ercolanesi in una sala del Museo Nazionale. L'incontro avvenne in casa mia, ove Arangio soleva alloggiare nelle sue trasferte napoletane, e durò non meno di tre ore, forse piú. I nostri giovani si affollarono curiosi e reverenti tutti nella mia stanza di studio o alle porte della stessa e Lauria li presentò uno ad uno al maestro. Arangio, ch'era assiso sull'unica poltrona di riguardo, li fece accoccolare l'un dopo l'al­tro accanto a se su un sediolino di legno impagliato che avevamo portato via dalla camera dei bambini, ed a ciascuno chiese ama­bilmente dei suoi studi, prodigando elogi, consigli, osservazioni, ricordi personali, facezie e fumando ininterrottamente le sue siga­rette preferite, che erano le Papastratos. Le tavolette di Ercolano (delle quali, ricordo per incidens, ho già fatto cenno in questi Trucioli 4 [2001] 34 ss.) vennero da lui ampiamente citate, ma non furono al centro della conversazione, anche perché non era ancora avvenuto il fortunato ritrovamento delle tavole di Mu­recine, che avrebbero interessato in seguito prima Bove e poi l'at­tivissimo Giuseppe Camodeca (quest'ultimo allora per tali studi «nondum natus» ).

Si parlò. insomma, di tutto un po', mentre mia moglie prov­vide a distribuire tutt'intorno tazzine su tazzine di caffè ben ristretto. Molti dei presenti, notando che Arangio il caffè lo sor­biva senza zucchero (o, come impropriamente si dice, amaro) e già sapendo che senza zucchero lo gustavamo tanto Lauria che io (il primo avendo adottato quest'uso per imitazione di Arangio ed io avendolo adottato a mia volta per imitazione di lui), si sentirono in dovere di non addolcire le loro tazzine con lo zucchero, di cui pure la zuccheriera era colma. (Fecero bene, del resto, dal mo­mento che il caffè al naturale aiuta i buoni giusromanisti ad esser tali e dissuade i cattivi dall'insistere in studi che non sono e non devono essere zuccherosi).

Basta. Tutto andò a finire, prima o poi, cosí. Ormanni, come ho già detto, emigrò a Roma. Bretone e tirelle si spostarono come incaricati a Bari. Casavola, che era stato dapprima accanto a noi, trovò il suo vero maestro nell'appartato (ma non assente) De Martino, del quale divenne assistente ordinario. Di piú: nel corso del decennio conquistarono meritatamente la cattedra prima Bonifacio, poi Amirante e finalmente lo stesso Casavola. Insomma le cose, con mia grande soddisfazione, ci andarono bene. Poi scop­piò, quasi d'improvviso, la bufera.

7. Mi sono spesso chiesto, e torno a chiedermelo ancor oggi, se proprio la riunione del 1958 in casa mia non fu alle origini di un lento cambiamento dei rapporti di Mario Lauria non solo con me ma persino con Arangio: cambiamento che assunse caratteri di evi­denza, se ben ricordo una data che non amo ricordare, nel 1961.

Io ignoro, e naturalmente mi sono sempre astenuto dal chie­dere, se Lauria ne abbia mai dato diffuse spiegazioni a quelli che furono in seguito i suoi piú stretti assistenti e che piú tardi, quando egli nel 1977 è andato fuori ruolo, sono passati ad essere gli assistenti che ho preso in carico diventando suo successore nella cattedra di Diritto romano e lasciando la cattedra di Istituzioni agli allievi frattanto sopravvenutimi col passar degli anni. Si tratta, parlo dei nuovi assistenti alle Pandette, di persone tutte sempre rimaste al vecchio maestro fedelissime e tutte divenute in breve a me dilettissime (e a me anche, ne sono sicuro e mi consola molto, fortemente affezionate: Franco Amarelli, Pina Mengano, Etty Pal­mesano, Mena Tramontano). La mia ipotesi, che è stata frutto di ripetuti esami di coscienza, parte da una data precisa, quella della morte di Siro Solazzi, avvenuta il 30 novembre 1957.

Era un freddo mattino del successivo primo dicembre. La salma, nella modestissima casa di via Luigia Sanfelice al Vomero, era stata composta e vegliata nella notte dalla moglie e da un paio di nipoti accorsi dalla cittadina natale di Jesi, in provincia di Ancona. Di estranei alla famiglia eravamo sul posto solo Lauria ed io, essendo De Martino trattenuto a Roma (o almeno cosí crede­vamo) dai suoi impegni politici. Il compito di accompagnare i resti mortali al cimitero di Poggioreale e di procedere agli altri tri­sti adempimenti del caso ce li assumemmo noi due. Furono ore di malinconia e di squallore durante le quali io cercai di dominare l'e­mozione quasi sempre tacendo, mentre Lauria per l'agitazione for­tissima quasi sempre parlò. Parlò fittamente di Solazzi, delle sue opere, delle sue ferme convinzioni socialistiche, di vari episodi del passato che gli tornavano alla mente. Ma in realtà (ed ebbi il torto di ascoltarlo distratto) parlò di se stesso e della nuova via di ricer­che che aveva da poco intrapreso e riversato, in prima approssi­mazione, in un corso a stampa dal titolo Ius: visioni romane e moderne (1956). Il suo assillo era che Solazzi, essendo ammalato, non avesse potuto leggerlo con la necessaria attenzione e che il maestro Arangio-Ruiz, cui aveva inviato già da tempo il volume, non gli avesse ancora detto o scritto quale fosse il suo parere sulle tesi da lui sostenute. Eppure non si trattava di un libro qualunque. Vi aveva impegnato tutto se stesso e lo aveva dedicato, per omag­gio supremo, alla moglie Adelina nella ricorrenza delle nozze d'ar­gento. Che piú?

Non starò qui a discutere, e neppure ad esporre, la teoria (del resto notissima) dell' «ordo iuris» di Lauria, la tesi cioè che tutti gli scritti giuridici e paragiuridici romani si conformarono per forza di tradizione ad un unico e solo sistema espositivo. De Martino commemorando Lauria la ha qualificata arditissima, ma, direi io, arditissima o ardita non è la tesi. Se si guarda bene, lo è l'intransi­genza con cui Lauria, dal 1956 in poi (particolarmente nella terza edizione del 1967, attentissimamente curata dalla Tramontano), ha inteso dimostrarla palmo a palmo, riducendo al minimo i casi talvolta evidenti di deviazione dall'ordo iuris che risultano dalle fonti ed elevando al massimo gli indizi talvolta evanescenti dell'a­derenza fedele di molte opere e compilazioni a quell'ordine siste­matico. Sin da principio io ho accompagnato il mio personale apprezzamento dell'ipotesi di fondo (che supera attendibilmente la tradizionale distinzione tra sistema civilistico e sistema edittale, per non parlare anche del cosí detto sistema istituzionale) con la franca opinione, che infastidiva visibilmente Lauria, secondo cui essa era da ritenersi applicata dai giuristi e paragiuristi romani in modo molto piú elastico di quanto egli non ritenesse.

Comunque, non fu certo il mio parere ad avere troppo peso ai suoi occhi. Molto piú importante, e quindi deludente e sgra­dito, fu per lui il parere negativo di Vincenzo Arangio-Ruiz quando questi si decise, dopo molto esitazioni, ad esprimerglielo con la franchezza un po' spiccia dell'antico maestro verso l'allievo (peraltro intanto cresciuto) di una volta. Lauria se ne dispiacque al punto da sentire come irreparabilmente incrinato il legame che lo teneva stretto ad Arangio. E molto significante il fatto che, quando nel 1964 Arangio mori, egli fu tra i pochissimi a non accorrere ai suoi funerali, a non telefonare, a non mandare nemmeno un tele­gramma. Del resto, poco piú tardi rifiutò anche di fare del maestro la commemorazione solenne nella Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti, adducendo confusamente la scusa di averlo già suf­ficientemente commemorato in aula ai suoi studenti.

La rottura ufficiale almeno con me, avvenne, prevista sí, ma non cosí aperta e rude, nel 1961. In modi piuttosto singolari, Lauria comunicò non solo agli stupiti colleghi della Facoltà, ma anche direttamente agli studenti, con un avviso manoscritto inse­rito in una bacheca del corridoio, di non avere piú nulla da spar­tire con me e di disapprovare a priori qualunque mia iniziativa accademica e didattica. Ciò si tradusse in pratica nelle sue dimis­sioni dalla direzione di Labeo, nel suo ritiro dal Circolo giuridico, nella interruzione del suo apporto alla costituzione del nuovo Centro di studi romanistici (il futuro Centro internazionale Aran­gio-Ruiz) che andavamo faticosamente organizzando, nonché nel togliere il saluto sia a me e sia all'innocente Casavola (ritenuto, in un primo momento, mio complice).

Ovviamente io non reagii né in pubblico né in privato: sia perché i maestri vanno sempre e ad ogni costo rispettati, specie se tuttora amatissimi; sia perché speravo che, come in tante prece­denti occasioni, l'incidente fosse passeggero. Ma l'incidente sta­volta non fu passeggero e la rottura persisté sul piano formale per la durata di trent'anni, insomma sino alla morte di lui nell'ultima sua abitazione di via Monteroduni, anche se non rare furono le volte in cui, credendolo rabbonito, gli chiesi sommessamente udienza per farmi perdonare. Carattere, diciamo pure duro carat­tere, quello di Lauria. Temperamento che non mi sento peraltro di deplorare, anche perché ho piena consapevolezza di avere anch'io un carattere molto difficile, specialmente per quelle che mi sem­brano (e forse, chi sa, non sono) questioni indefettibili «di princi­pio» e perché non mi sfugge il ricordo di essermi comportato, in altre occasioni e con altre persone, sia pure con maniere meno cla­morose, piú o meno duramente come lui.

 

8. Solo una cosa mi preme di aggiungere, in sincera coscienza e per chi sia disposto a credervi. Nella realtà dei fatti, cioè che al di fuori dalle apparenze esteriori, il rapporto di amicizia tra me e Lauria ha continuato a fluire ininterrottamente alla guisa di quei fiumi della petraia del Carso che a un tratto si insinuano sotterra. Scomparsa per vecchiaia l'adorabile zia Margherita, i contatti sono stati tenuti, tra noi, fittissimi, per mezzo della signora Adelina. Non vi è stato evento lieto o triste mio e della mia famiglia cui la coppia Lauria non abbia di cuore partecipato. Non vi è evento lieto o triste dei Lauria cui non abbiamo partecipato di cuore mia moglie ed io. Sconvolgente fu per noi il giorno in cui ci sedemmo accanto a loro nella Chiesa dell'Ascensione a Chiaia, ai funerali del loro giovanissimo nipote, figlio di Maria Cristina, che era rimasto vittima di un'escursione subacquea.

Dopo che l'eroica Maria Cristina, reagendo alle sventure della vita, fu assunta come dipendente nell'Istituto di Scienza delle Fi­nanze, mi feci in quattro per vincere le difficoltà burocratiche e per farla passare al Centro Arangio-Ruiz, di cui ero direttore (mai una volta arrivò fuori orario, si sottrasse ai suoi doveri, apri bocca per un pettegolezzo). E quando Maria Cristina decise, ormai ben piú che quarantenne, di conquistare lei stessa quella laurea in giuri­sprudenza che al figlio era stata interdetta dal fato, ci impe­gnammo tutti noi della cattedra di Diritto romano (anzi non tanto io, quanto i vecchi assistenti del padre) nell'incoraggiarla e accom­pagnarla lungo il faticoso cammino. Il giorno in cui fui relatore della sua tesi in diritto romano, ed espressi in pubblico la mia ammirazione per la sua indomita costanza, tra gli astanti scorsi in aula, seminascosti, anche loro, i due ormai vecchissimi genitori.

Avvenuta la proclamazione e a chiusura di seduta, quando mi svestii della toga e uscii a mia volta dall'aula, i due Lauria erano ad attendermi in corridoio. Lui si tenne ad una qualche distanza da me, fissando burberamente una finestra. A ringraziarmi per en­trambi mi avvicinò, fortemente commossa, Adelina.

«Presenti i miei omaggi al Professore», le dissi. E le baciai devotamente la mano.


II. - LA TRADIZIONE E I COMIZI

 

1. "La science du siècle passé, en optant pour une composi­tion exclusivement patricienne des curies, a fait un mauvais pari qu'elle a perdu'. Questa forte e recisa affermazione, relativa alla ricerca giusromanistica del secolo XIX, fu fatta da André Magdelain nel 1980, in un articolo (come al solito, affascinante di nitore e di impeto) che si rilegge immutato, con altri, nella rac­colta dal titolo Ius Imperium Auctoritas (1990, 471 ss., ma v. anche 423 ss.). Il Magdelain non solo ribadisce la tesi di una composi­zione esclusivamente plebea della curiae in età regia, ma sostiene con molto vigore, o almeno con molta sicurezza, che la tradizione canonica sul «passaggio rapido» della monarchia alla repubblica non sia contestabile. Salvo che (egli precisa) la «logique institutio­nelle» esige che la tesi sia corretta in vari punti molto importanti, sopra tutto per ciò che riguarda il suffragio universale. Il quale avrebbe caratterizzato la prima repubblica per tutto il quinto secolo, anche se non piú dopo.

Esula da questa nota (la quale riprende e corrobora osserva­zioni già espresse nel 1985 in Atti Acc. Pontaniana 65 ss.) l'intento di discutere punto per punto le ipotesi del Magdelain, come pure quello di contestare le opinioni diverse dalle sue e diverse tra loro stesse che sono state piú recentemente avanzate, a sostegno (ma sino ad un certo punto) del racconto tradizionale, da S. Tondo, da E Serrao e da altri studiosi. Per quanto mi riguarda, non penso di dovermi discostare dalle impostazioni difese in precedenti scritti (spec. Le origini quiritarie [1975] e La rivoluzione della plebe [1976], ma v. anche PDR. 3 [1984] 20-146). Saranno «scommesse perdenti», ma continuo a credervi.

Continuo a credervi perché, me lo si conceda, il Magdelain e cosí gli altri generosi neo-difensori ad oltranza della tradizione romana, sono manifestamente scommettitori che puntano su scommesse da definirsi, quanto meno, molto rischiose.

 

2. Si guardi, per esempio, all'argomento principe (un argo­mento che sembra aver fortemente impressionato anche j. Heurgon) su cui il Magdelain fonda la sua congettura della esi­stenza del suffragio universale nel quinto secolo, cioè nel tratto di tempo che va dalla rivolta di Bruto e Collatino sino, quanto meno, alla fondazione della ventunesima tribù territoriale, la Clustu­mina: fondazione che sarebbe avvenuta, secondo lui, non nel 495, ma dopo il 426, cioè dopo la caduta di Fidene. L'argomento è que­sto. Il giorno della sconfitta dell'Allia, cioè il 18 luglio (387 a.C.), «dies religiosus s'il en fut», è segnato nei Fasti Antiates Maiores come C, come giorno (fastus) adatto ai comizi. Ciò dimostrerebbe che quel giorno era già comiziale, dichiarato tale dai decemviri in sede di codificazione del calendario, quando si verificò la sciagura dell'Allia. Dunque solo successivamente dovette avvenire la pro­clamazione del «tabù» in ordine a quell'infausta ricorrenza.

Potrei rispondere, tra l'altro, che il 18 luglio era religiosus anche a causa della ricorrenza della strage dei Fabi al Crémera (cfr. Liv 6.1.11; Macrob. Sat. 1.16.23) e che la battaglia del Crémera si svolse, secondo la leggenda romana, nel 477 a.C., anteriormente dunque alla presa di Fidene ed anteriormente al decemvirato legi­slativo (451-450 a.C.). Ma mi sembra piú solida un'altra obbie­zione. I dies religiosi di antichissima origine (ad esempio, quelli «qui­bus mundus patet», di cui in Fest. 144.14 L.: 24 agosto, 5 ottobre, 8 novembre) non erano connessi alla distinzione tra dies fasti e dies nefasti e potevano ben essere dies comitiales. In essi era solo viva­mente sconsigliato, per iniziativa del senato, di svolgere attività pub­bliche e private di una certa rilevanza, sempre che non si presentasse una «ultima necessita s» (Fest. 144, 146 L.: «nihil eo tempore geri voluerunt; itaque per eos dies non cum hoste manus conserebant, non exercitus scribebatur, non comitia habebantur, non aliud quicquam in republica, nisi quod ultima necessitas admonebat, administrabatur»). Nozione, questa, non del tutto certa, ma abbastanza sicura.

Non è azzardato, ciò posto, basare sul dies Alliensis un argo­mento di importanza decisiva per la dimostrazione che già nel sec. V a.C. almeno dopo le XII tabulae, funzionavano in Roma (cosa in cui continuo a non credere) i comizi elettorali?

3. Ancora. A mente del Magdelain, dopo la caduta della monarchia i comitia curiata divennero assemblea votante, com­prensiva di tutto il populus Romanus Quiritium, ad eccezione peral­tro dei patres, che deliberavano separatamente in senato. Ma come la mettiamo col numero pari, e non dispari, delle 30 curiae, tanto piú che al Magdelain sembra essenziale un numero dispari di unità votanti per assicurare in ogni caso la maggioranza dei suffragi?

Sarà anche vero che il senato si riuniva contemporaneamente ai comitia curiata (nella curia Hostilia, se l'assemblea era convocata nel comitium; nella curia Calabra, se l'assemblea era convocata sul Campidoglio). Ma la delibera del senato era una delibera di valore diverso da quella dei comitia curiata. Era, piú precisamente, una delibera di auctoritas di quel voto che il Magdelain suppose fosse espresso dai comitia. Se quindici curie dicevano sí e quindici curie dicevano no, è poco credibile che la delibera dell'assemblea senato­ria (nell'uno o nell'altro senso) intervenisse con i caratteri del voto decisivo di una sorta di trentunesima curia. Basta pensare che i patres votavano una dichiarazione di auctoritas, esattamente dello stesso tipo, anche in ordine alle delibere dei comitia centuriata.

Quanto ai comitia centuriata, il Magdelain non solo è sicuro che essi ebbero sin dagli albori della repubblica attribuzioni deli­beranti (a prescindere dalle funzioni di carattere militare). Egli sostiene altresí che la originaria classis di ottanta centurie di fante­ria (cui si aggiungevano diciotto centurie di equites) fu incremen­tata dalle altre classi, per un totale di 195 centurie, nel corso del quinto secolo, instaurandosi in tal modo una stretta corrispon­denza con il numero delle venti tribú, almeno sino a quando non fu creata la tribú Clustumina. Solo il totale di 195 avrebbe garan­tito una maggioranza di 98 (la metà piú uno delle centurie). Per il che, rifiutando il totale di Dionigi e Cicerone (193), nonché quello di Livio (che pare di 194), il Magdelain assegna il rango di centuria votante anche alla misteriosa centuria procum patriciorum (composta, a suo dire, dagli ex-consolari) e sostiene altresí che la centuria dei proletarii (diversa da quella degli accensi velati) avrebbe garantito la partecipazione di tutti i cittadini, compresi quelli privi di mezzi economici, all'assemblea.

E un'ipotesi ardita di cui, francamente, non capisco la neces­sità. Primo, perché con la prima classe e con gli equites votavano «ab antiquo» le due centurie dei fabri (per un totale di 100 centu­rie) e le altre classi di fanteria erano chiamate l'una dopo l'altra al voto solo successivamente e in caso (improbabilissimo) di bisogno. Secondo, perché nella lontana eventualità di una parità di voti (per un totale di centurie uguale a 194) la votazione poteva essere rin­novata.

4. Singolare è che, nella sua ricerca di una centonovantacin­quesima centuria dei comitia centuriata, il Magdelain non abbia dato alcun peso alla misteriosa centuria «Niquis scivit», di cui fa parola, rifacendosi probabilmente alla solita fonte originaria del verboso e arruffato Varrone (sul quale v. le mie citate PDR. 3.146), Festo (184 L.). La singolarità consiste, a mio modo di vedere, nel fatto che egli (Ius etc. 426) considera questa centuria come vo­tante, sí, ma al di fuori del totale 195, cioè con carattere sopranu­merario. Vi avrebbero votato, secondo lui, coloro che avevano omesso di partecipare al voto dentro la loro propria centuria. In essa, insomma, des négligents trouvaient une solution de secours» ed anzi, forse, ve n'erano sino a cinque: una per ogni classe.

La questione merita di essere trattata piú da vicino, tanto piú che, or non è molto, C. Nicolet (Les listes des centuries: la pretendue centurie `niquis scivit", in MEFRA. 113 [2001] 723 ss., spec. 728 ss.) ha sostenuto che la centuria «niquis scivit», creata forse da una misteriosa legge del sec. Il a.C., sarebbe stata una centuria chiamata a votare per ultima (nell' improbabilissimo caso che ve ne fosse stato bisogno) e composta da coloro che avessero avuto demeriti comportanti l'esclusione dal voto nell'interno delle loro proprie centurie. Quando è cosí, rileggiamo anzi tutto il testo festino.

Fest. (184 L.): "Niquis scivit" centuria est, quae dicitur a Ser. Tullio rege constituta, in qua liceret ei(us) suffragium ferre, qui non tulisse in sua, nequis civis suffragií iure privaretur: nam sci scito signi­ficat sententiam dicito, ac suffragium ferto, unde scita plebis. Sed in ea centuria, neque censetur quisquam, neque centurio praeficitur, neque centurialis potest esse, quia nemo certus est eius centuriae. Est autem niquis scivit, nisi scivit.

Mi si corregga se sbaglio. Se Festo dice «niquis scivit centuria est», ciò impone di credere che, almeno nella sua immaginazione (e prima ancora in quella di Varrone), il «quid» in esame era mate­rialmente una «centuria» dell'assemblea comiziale, nel senso di reparto dei comitia centuriata, e piú precisamente di reparto costi­tuito da persone aventi diritto al voto ed effettivamente votanti fuori dalla centuria loro propria («qui non tulisse in sua»).

Non vedo, tenuto conto di ciò, come possa sostenersi col Nicolet che coloro che vi erano raccolti fossero privi del diritto di votare e che tuttavia, proprio in casi estremi di maggioranza non raggiunta, essi, acquistando il diritto di voto, fossero chiamati a concorrere con un voto centuriale. La legge che avesse introdotto questa norma contraddittoria sarebbe stata certamente citata (quanto meno come «monstrum») dalle fonti. E non vale appi­gliarsi, per sostenere l'ipotesi, alle dichiarazioni di Livio (1.43.10), di Cicerone (rep. 2.39,40) e dello stesso Festo secondo cui nell'as­semblea centuriata nessuno era privato del sufragium, essendo ovvio che il riferimento valeva per la categoria degli individui rico­nosciuti capaci di votare, in quanto liberi, cittadini e aventi diritto (per esempio, in quanto infrasessantenni). D'altra parte, come era mai possibile che si formulasse un voto centuriale nell'ambito di un'accolta di persone prive di un centurione che le mettesse in fila, che ne raccogliesse il voto individuale e che riferisse il risultato finale? Non è proprio Festo, nell'ultimo periodo, ad implicitamente escludere che dalla centuria «niquis scivit» fosse espresso un voto?

Ecco perché io direi che non soltanto l'ipotesi del Nicolet vada messa da parte, ma che regga poco o nulla anche la supposi­zione del Magdelain, secondo cui la nostra centuria aveva carattere puramente sussidiario del complesso di centurie dei pedites o addi­rittura di singole classi dei pedites. La cosí detta centuria «niquis» non era una centuria votante, ma era una ripartizione materiale del comitium, una centuria in senso improprio, una sorta di «sala di aspetto» in cui si sistemavano a titolo provvisorio gli «sbandati», vale a dire i cittadini giunti in ritardo alla convocazione generale oppure incerti circa la loro centuria di appartenenza. Cittadini in attesa di essere chiamati, in seguito a secondo appello, ad aggiun­gere il proprio voto a quello degli altri membri della centuria votante di loro legittima spettanza.

 

5. Ma torniamo ai comitia curiata.

Secondo il Magdelain, l'originaria composizione esclusiva­mente plebea degli stessi sarebbe comprovata dal fatto che non risulta dalla tradizione romana che la plebe si sia mai agitata per farne parte. L'argomento peraltro è assai fragile: non solo perché non risultano nemmeno aspirazioni esplicite dei patrizi ad èssere ammessi a quei comitia, ma anche perché i plebei facevano parte dell'organizzazione centuriata patrizio-plebea e perché essi tende­vano ovviamente a creare una propria autorevole assemblea (quale divenne quella dei concilia plebis) per opporsi al patriziato. Posto che i patrizi non avessero fatto parte «ab origine» dei comizi curiati, ben difficilmente i plebei avrebbero concesso agli stessi, creandosi la repubblica, di entrarvi.

Ad ogni modo, se si vuole ammettere che con la fondazione della repubblica sia riuscito ai patrizi di intromettersi nei comitia curiata, come può poi sostenersi dal Magdelain che la prima desi­gnazione dei tribuni plebis, quella del 494 a. C., sia avvenuta nel seno delle trenta curie? Anche se qualche fonte antica sembra dirlo, è evidente che la notizia è frutto di una confusione e che i tribuni plebis (ancor prima della iniziativa di Publilio Volerone, nel 471, di farli eleggere dalla plebe in ben ordinati concilia tributa) sono sorti da riunioni di plebei avvenute al di fuori dei comizi cen­turiati (sia che si ritengano questi esclusivamente patrizi, sia che si ritengano essi composti da patrizi e da plebei).

La scommessa del Magdelain è rischiosa, come tutti vedono, anche sotto il profilo ora accennato. E diventa addirittura dispe­rata, questo sí, là dove il nostro autore si spinge a sostenere che il plebiscitum Ovinium del 312 circa, alle soglie dunque del terzo secolo avanti Cristo, con l'invitare i censori a scegliere i senatori «ex omni ordine», ma «curiati~ (cfr. Fest. p. 290 L.), avrebbe implicitamente escluso dal senato tutti i patres che precedente­mente lo componevano (e che, come abbiamo visto, non facevano parte delle curie). Appio Claudio, dunque, togliendo di mezzo nel 312 un gran numero di senatori in carica, non avrebbe fatto (in una col suo collega di censura Caio Plauzio) una «infamis atque invidiosa lectio», come dice Livio (9.29.7), ma avrebbe scrupolosa­mente applicato il plebiscito (ponendo con ciò, senza volerlo, le premesse di una successiva entrata nei comitia curiata anche dei senatori).

Tesi, questa, che non spiega peraltro come mai il collegio cen­sorio, pur avendo operato nel giusto, fu talmente oppresso dalla disapprovazione popolare, che i consoli del 211 annullarono il suo operato (cfr. Liv. 9.30.1-2 e 9.46) e lo costrinsero a dimettersi.

6. «Tutto quello che riguarda le origini degli ordinamenti romani è pieno di ombra per non dire immerso nelle tenebre, il che non ha mai impedito di svolgere indagini ardite, che spesso hanno avuto a loro fondamento solo una ipotesi». Cosí, lucido come sem­pre, il compianto collega e amico Francesco De Martino, a conclu­sione di una sua rassegna del 1980 sulla storia dell' «equitatus» romano (ora in Diritto economia e società nel mondo romano 2 [1996] 281 ss.). Di ipotesi, sopra tutto in ordine alla piú antica storia di Roma, non possiamo fare a meno. Ma dobbiamo renderci conto che esse sono soltanto ipotesi e che le ipotesi nostre non ci auto­rizzano a proclamare inconsistenti e vacue, salvo eccezioni, le ipotesi altrui.


 

III. - LE PARI OPPORTUNITÀ E L'ANTICO

1. Dopo lunga e contrastata gestazione il Parlamento italiano ha partorito il 20 febbraio 2003 una legge costituzionale integra­tiva dell'art. 51 della Carta costituzionale. Là dove questa già pro­clamava e proclama che «tutti i cittadini dell'una e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in con­dizioni di eguaglianza» la nuova legge si è preoccupata di inserire un comma che specifica essere dovere della repubblica «promuo­vere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Forse solo cosí, si è pensato dal legislatore costituzionale, potrà farsi cessare, o potrà almeno fortemente limitarsi, tra l'altro, la «vergogna» di un paese in cui solo il 9,8 per cento dei deputati e appena il 7,7 per cento dei senatori sono di sesso femminile. Pensate, l'ultimo tra gli stati europei, il sessantanovesimo nel mondo, superato persino dal Mozambico, dal Laos e dal Turkmenistan.

A mio avviso, il problema dell'eliminazione delle «disparità» di fatto a svantaggio delle donne (essendo state ormai, per fortuna, già eliminate le disparità di diritto) è indubbiamente un problema serio e tuttora ancora lontano dall'esser stato risolto nel mondo del lavoro. Il nuovo comma costituzionale invece, sempre a mio avviso, molto serio non è, anzi è piuttosto ridicolo. Comunque, l'occasione della nuova legge costituzionale mi ha fatto tornare tra le mani alcuni appunti del lontano 1982, quando fui invitato, nel­l'ottobre, ad aprire i lavori del congresso indetto a Perpignano dalla Societé d'histoire des droits de l'antiquité.

 

2. In quell'occasione mi accorsi e dichiarai francamente che parlare del «trattamento delle donne nei diritti dell'antichità» (tale era il tema del congresso) tornava estremamente imbarazzante: non solo a causa della somma di esperienze storiche che bisognava tentare di padroneggiare, ma anche a causa della differenza d'im­postazioni ideologiche che bisognava cercare di superare. Per quanto riguarda la varietà delle esperienze storiche, basta pensare all'enorme distanza di tempi e di luoghi che passa tra l'antichità egizia, mesopotamica, babilonese, ed altre ancora, e l'antichità ebrea, greca, romana, con tutte le implicazioni che questa distanza comporta sul piano della lingua, della religione, della vita sociale. Per quanto riguarda la varietà delle impostazioni ideologiche, basta por mente all'abisso che intercorre tra chi si pone il proble­ma dell'«inferiorità» della condizione femminile rispetto a quella maschile e chi questo problema non se lo pone (o comunque non se lo pone abbastanza), con tutte le implicazioni che questa spac­catura a sua volta comporta sul piano della dialettica, della pole­mica e, non di rado, delle banalità.

Ciò che sopra tutto impressiona, lo dissi subito, è il reperto­rio delle insulsaggini e delle scioccherie che si usano esprimere, dall'una e dall'altra parte, sulla condizione femminile. E un reper­torio sterminato, che va dal «donne donne, eterni dei» del Barbiere di Siviglia allo «cherchez la femme» di Alessandro Dumas padre e che si onora (se cosí si può dire) di firme illustri a bizzeffe. Ricordate Montesquieu, ad esempio? Il barone de La Brède non si è peritato di affermare, nell'Esprit des bis (parte prima, libro VII, capitolo XVII), che è contro natura e ragione che le donne fac­ciano da padrone in famiglia, mentre non è affatto contro natura e ragione che esse siano a capo di un impero, dal momento che la loro stessa fragilità le porta ad essere piú benevole e moderate di molti sovrani maschi. E potrei continuare a lungo, spaziando da Tertulliano a Shakespeare, da Balzac alla de Beauvoir, senza dimenticare il dissoluto duca di Mantova e le fini allusività gestuali che ai tipi come lui oppongono le femministe nel nostro secolo.

Mi limiterò invece solo a due altre citazioni «contemporanee», l'una «contro» e l'altra «pro», ma entrambe, malgrado il gran nome dei loro autori, a dir poco sorprendenti. La prima citazione è del­l'italiano Cesare Lombroso (1835-1909), una gloria non facil­mente dimenticabile della medicina sociale del secolo XVIII, il quale definiva la donna (si badi bene: non la donna anormale, ma quella fisiologicamente e psicologicamente «normale», esente cioè da tare e devianze specifiche), la definiva, dico, una «semicrimina­loide», fortunatamente «innocua», caratterizzata da una «ottusità dolorifica darwiniana, per non dire teologica» e appunto perciò capace, dopo aver partorito con dolore una prima volta, di ricadere bestialmente in una o piú nuove gravidanze (cosa, assicurava Lombroso, che l'uomo maschio certo non farebbe). Questa teoria è un po' rattristante, direi, ma eccone un'altra che in qualche modo le fa da contrasto. Cito stavolta Moses J. Finley, indubbia­mente uno dei piú distinti storiografi della Grecia e di Roma, il quale dal fatto che la donna romana non era designata con i «tria nomina» (prenome, nome, cognome), ma era segnata dal solo nomen gentilizio (Tullia, Terenzia, Clodia e cosí via) ha tratto la illazione che essa non aveva per i Romani una individualità pro­pria, ma era considerata dagli stessi una frazione passiva e anonima del gruppo familiare (dimenticando il Finley, se posso permet­termi di contraddirlo, che il nome proprio e vero dei Romani era quello gentilizio e che la donna romana conservava orgogliosa­mente questo suo nome pur maritandosi e pur passando con ciò a far parte della famiglia del marito).

 

3. Varietà estrema di opinioni, dunque. Vi è però, innegabil­mente, un «fil rouge» che unisce tutti i diritti dell'antichità: un «fil rouge» rappresentato dalla condizione di inferiorità rispetto all'uomo in cui questi diritti, quale piú quale meno, hanno sem­pre posto la donna. Siamo tutti d'accordo, spero, che la natura, il sovrannaturale e la ragione astratta con questo dato di fatto non c'entrano, anche se è scontato e spiegabile che a queste sfere con­cettuali abbiano largamente fatto capo gli uomini (e le donne) di allora per darsi un perché del divario. Come storiografi dei diritti antichi noi dobbiamo aprirci nel sociale, nel reale e concreto delle società antiche, la via verso la verità piú credibile, o forse dovrei dire meno incredibile, in ordine alla quasi totalmente concorde misoginia degli antichi ordinamenti giuridici.

La spiegazione piú diffusa della diversificazione dei ruoli è quella socio-economica. Coloro che credono ad una società poli­tica matriarcale che avrebbe preceduto, nei vari paesi dell'orizzonte mediterraneo, le società politiche fondamentalmente patriarcali di cui abbiamo notizia sono inclini a pensare, beninteso con accen­tuazioni assai varie, che ad un certo momento, non piú tardi del periodo neolitico, si sarebbe proceduto tra uomini e donne ad una divisione delle funzioni esplicate nella vita associativa. La divisione dei compiti sarebbe stata suggerita da una convenienza economica accettata da ambedue i sessi: gli uomini all'artigianato, alle armi, alla politica; le donne alla conocchia, ai figli, alla casa. Attuata di comune accordo questa ripartizione basale dei ruoli, le articola­zioni specifiche (dalla limitazione delle assemblee deliberanti ai soli uomini sino all'esercizio dispotico del potere familiare da parte del marito) sarebbero emerse a titolo di naturale conseguenza e tutti sarebbero poi vissuti, come nelle favole, felici e contenti.

Questo schema di ricostruzione storica certamente non è del tutto poggiato sulle nuvole, ma altrettanto certamente è assai fra­gile, tanto da non reagire a facilissime critiche. Come mai le donne si sarebbero sempre e dovunque rassegnate alla totale esclusione dalle decisioni politiche? E come mai esse avrebbero per di piú accettato anche la subordinazione in casa? La tecnica della transa­zione avrebbe dovuto portare, direi, a poteri (mettiamo: quelli politici) riconosciuti in esclusiva agli uomini in compenso di altrettali poteri (mettiamo: quelli familiari) riconosciuti in esclu­siva alle donne. O aveva ragione il volgo romano nell'affermare, come riferisce Gaio (1.190), che le donne sono per loro natura piuttosto facili a farsi infinocchiare («levitate animi plerumque deci­piuntur»), oppure bisogna ritenere che una situazione originaria di parità tra uomini e donne alle origini delle società politiche e dei correlativi ordinamenti giuridici non si è mai (o quasi mai: non si sa) verificata. E siccome alla «levitas animi» del sesso femminile nessuno può ragionevolmente credere, dobbiamo chiederci se e sino a qual punto siano credibili le ipotesi dell'originario potere matriarcale.

 

4. Sono teorie, quelle sul potere matriarcale antichissimo, che traggono alimento dalle interpretazioni dei miti, dalla valutazione critica di piú o meno evidenti residui storici, dalla comparazione strutturale con società selvagge dell'età contemporanea. Sui miti e sui «torsi» storici dell'antichità ha fatto essenzialmente leva l'emi­nentissimo Johann Jacob Bachofen, l'autore di Das Miitterecht (1861), il quale è giunto al punto di ipotizzare una legge darwi­niana di evoluzione dal matriarcato al patriarcato. Sull'antro­pologia strutturale si sono invece essenzialmente basati l'acutis­simo Lewis Henry Morgan, la cui famosa Ancient Society è del 1877, nonché numerosi altri autori: da Friedrich Engels, nel suo divulgativo Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staats (1884), ad Henri Lévi-Strauss. Un attento e sottile inter­prete della massa di risultati ottenuti da tutti questi studiosi è oggi, nel campo della storiografia romanistica, Gennaro Franciosi, di cui i contributi sono notissimi.

Ora, questo non è il luogo in cui ci si possa intrattenere sul mito delle Amazzoni, le donne guerriere che usavano gli uomini come schiavi solo per averne figli (poi li ammazzavano), oppure sulla personalità di Tanaquil, la moglie oculata che pilotò abil­mente il marito Lucumone sino a farlo diventare il re Tarquinio Prisco. Questi e molti altri racconti consimili hanno probabil­mente un fondo di verità, ma è impossibile precisare il «quantum» di questa verità e piú impossibile ancora (se cosí si può dire) è l'in­dividuazione del «quid» di quella verità. Sono miti derivati in linea retta da certe situazioni primordiali o sono miti creati «a dispetto», cioè in linea di misoginia? Quanto alle risultanze dell'etnologia e dell'antropologia strutturale, sarebbe ovviamente da sciocchi non tenere nessun conto del matriarcato degli Irochesi del Nord America e della famiglia «punàlua» in uso presso certe tribú hawaiane, ma è molto dubbio che queste consuetudini siano state tutte correttamente interpretate ed ancora piú dubbio è che esse siano vincolanti per l'interpretazione delle labili tracce di somi­glianza che si ravvisano, aguzzando gli occhi ben bene, nella tradi­zione e nel vocabolario di popoli antichi ed in particolare del popolo romano. Per esempio, sarà pur vero che nelle tribú irochesi del secolo scorso l'appartenenza erga omnes della terra (cioè la pro­prietà della stessa) spettasse alle donne e che all'accordo tra le matrone fossero rimesse la scelta dei capi-tribú e la decisione di fare o non fare la guerra, ma è sintomatico che i capi-tribú erano maschi e che la caccia e la guerra erano fatte solo dagli uomini.

Vi è di piú. È curioso, per non dire altro, che, pur trovandoci noi di fronte ad ordinamenti giuridici fioriti (alcuni prima ed altri dopo) in un arco di tre, quattro, cinquemila anni, in nessuno di essi la supposta organizzazione matriarcale ci si manifesti con i connotati minimi della storicità. Tutto ciò invita a pensare, stando almeno allo «stato degli atti», che il matriarcato sia tutt'oggi sol­tanto un'ipotesi vaga e che forse si sia dato irriflessivamente veste di residuo del matriarcato delle origini al fatto che negli ordina­menti antichi, ivi compreso quello romano, sempre ebbe rilievo, accanto alla discendenza in linea maschile, anche la discendenza in linea femminile. Era del tutto ovvio, ad esempio, e non imposto da precedenti di struttura matriarcale della famiglia, che da molti ordinamenti antichi si desse rilevanza di impedimento matrimo­niale o di incesto alle unioni sessuali tra parenti in linea femminile. Il principio, o meglio le verità secondo cui «mater semper certa est, pater is est quem nuptiae demonstrant» non è stato affermato per primo dal giurista Paolo (D. 2.4.5), ma si riscontra già nel­l'Odissea (1.215-216), là dove Telemaco, interrogato sul se sia figlio di Ulisse, risponde cauto: "io non lo so: nessuno può sapere quale sia stato il suo seme".

 

5. Messa da parte l'ipotesi matriarcale, come pure quella di un'originaria eguaglianza tra uomini e donne, resta alle origini della vita sociale dei popoli antichi, la vecchia e sperimentata ipo­tesi patriarcale, di cui gli indizi sono comunque molto piú nume­rosi e molto piú sicuri nei tempi cosí detti storici. Ma accettare quest'ipotesi ad occhi chiusi non si può. Bisogna spiegarsela con riflessioni meno superficiali di quelle relative alla ripartizione del lavoro liberamente concordato tra uomini e donne.

Le motivazioni specifiche sono state certamente diverse dal­l'una all'altra civiltà antica, ed è compito degli specialisti portarle alla luce. A me peraltro pare, che una motivazione di fondo, approssimativamente identica per tutte le antiche civiltà, vi sia. La vita sociale, organizzata, fosse essa quella di un piccolo «clan» o fosse quella di una piú vasta e complessa aggregazione politica, esi­geva in antico un'attività essenziale, tra le altre, che solo gli uomini erano in grado, per universale convinzione, di svolgere: l'attività bellica, se non di offesa, quanto meno di difesa. La guerra del mondo contemporaneo, e piú ancora la guerra che si annuncia per un non lontano avvenire, è guerra parimenti accessibile ad uomini ed a donne perchè si riassume essenzialmente in macchine (dalla mitraglietta al carro armato, all'aereo a reazione, alla bomba ato­mica) che tanto gli uomini quanto le donne possano, con eguale perizia e con eguale coraggio, manovrare. Non altrettanto per la guerra antica, che era una guerra, a dir cosí, fatta a mano, una guerra cui tornavano necessari sopra tutto gli uomini, sia per la maggiore loro vigoria fisica, sia per la loro piena disponibilità in tutti i giorni del mese lunare, sia per l'assenza in essi (millanta anni prima che fosse inventata la pillola) delle possibili gravidanze, dei parti e degli allattamenti degli infanti.

 

6. Sia chiaro. Io non ripropongo, con queste mie considera­zioni, la tesi assurda della superiorità degli uomini rispetto alle donne. Dico soltanto che nei tempi antichi, quando si procedette alla costituzione delle società politiche, si prese atto di differenze appariscenti tra uomini e donne, di quelle che stavano sotto gli occhi di tutti e che in quelle epoche erano addirittura insuperabili. Si prese atto della diversità, avviando conseguentemente gli uomini verso funzioni sociali che inevitabilmente, o quasi, ripor­tarono a posizioni di prevalenza rispetto alle donne. Solo in momenti successivi queste differenze di ruoli furono teorizzate con ricorso a cause sovrumane e a cause naturali. Ma è importante mettere in luce che nessun ordinamento giuridico antico fa del­l'uomo un sovrano di fronte alla donna, nessun ordinamento giu­ridico antico considera la donna una schiava dell'uomo.

Noi non dobbiamo in altri termini, giudicare le cose alla luce di concezioni e di aspirazioni contemporanee. Solo partendo da questo punto iniziale potremo seriamente far storia del tratta­mento delle donne da parte dei diritti antichi.


 

IV - TITOLI E STILE

1. Filippo Gallo, concludendo una sua approfondita recen­sione critica di un'importante monografia che qui non occorre nominare, ha formulato un «rilievo» di carattere generale (cfr. Tura 49 [1998, ma 2002] 148 s.), questo. «Il gusto letterario e la ricerca dell'eleganza non dovrebbero oltrepassare il segno, rappresentato dal carattere tecnico del discorso giuridico. Titoli quali Meta­morfosi e Intermezzo donelliano (il primo per indicare i mutamenti naturali delle cose e le loro trasformazioni ad opera dell'uomo ed il secondo per rappresentare il ruolo avuto da Donello nel passag­gio dall'antico al moderno), a mio avviso, lo oltrepassano, se pure non manca nella tecnica del giurista l'uso della metafora, come quella notissima delle fonti del diritto, da tempo fatta propria dalla legge in una con l'implicazione ideologica ad essa inerente».

Francamente, sono affermazioni che mi lasciano alquanto dubbioso. Capisco l'unità dello stile letterario, la quale sconsiglia a chi scrive in modo piú raffinato di incorrere nelle cosí dette «cadute» e consiglia a chi scrive in modo meno ricercato di non inserire grossolanamente qua e là preziosismi e «cammei». Questo lo capisco. Ma non capisco tanto bene che vi sia per lo storico, per il sociologo, per il giurista uno stile «tecnico» da non oltrepassare, salvo che in rari casi di consolidate metafore. Certo, in un libro giuridico i minori di età non possono essere bonariamente deno­minati «picciotti» e i fallimenti non possono essere decorosamente chiamati «stangate», ma un discorso giuridico ad essi relativo può essere condotto sia in maniera (faccio per dire) «notarile» sia in maniera (faccio sempre per dire) «carneluttiana» (allusione, code­sta, ad uno dei piú fascinosi giuristi italiani del secolo scorso, Francesco Carnelutti). L'essenziale è che si tratti di un discorso aderente al tema trattato e coerente nella discussione del me­desimo. Meglio naturalmente, tra i due, almeno secondo me, il meno greve ed il piú raffinato stilisticamente.

Quanto ai titoli dei libri, degli articoli, dei capitoli o di certe brevi trattazioni parentetiche (cioè, traducendo dagli originali greci o latini, «interposte» o «intermezzate»), penso che vi sia libertà di scelta tra quelli lunghi e circostanziati (eventualmente agevolati da sottotitoli, oltre che dai sommari, anche detti dai sapienti «abstracts»), e quelli brevi o brevissimi pari ad etichette di mero richiamo al nocciolo dell'argomento o degli argomenti in questione. Tanto gli uni quanto gli altri solitamente non bastano a far capire se il contenuto sia o non sia di interesse dell'aspirante lettore, il cui dovere è insomma di leggersi attentamente tutto quanto per poi concludere: è buono, è cattivo, è cosí e cosí. Indico, a mò di esempio, il parallelo tra il pregevole saggio di G. Bassanelli Sommariva intitolato Costanzo e Costante hanno davvero abolito il processo formulare? (in RDR. 1 [2001] estr. p. 9) e l'articolo (non tenuto presente dalla B. S.) di A. Guarino intitolato Aucupatio syl­labarum (in Mél. Cannata [1999] 167-169). Il lettore può capire abbastanza facilmente che il tema dei due scritti è (forse) lo stesso, ma quali siano le ipotesi e le argomentazioni di due autori non può risultare che dalla lettura integrale degli elaborati.

 

2. A costo di ripetermi (e nemmeno per la prima volta), il mio gusto personale è sempre e tutto per lo scrivere breve, ovve­rossia sintetico e preciso, e per il titolare brevissimo, ovverossia puramente allusivo e possibilmente allettante. Mi spiace se spesso non vi riesco (del che mi accorgo, purtroppo, solo rileggendomi a cose fatte), ma mi spiace ancor piú se talvolta i lettori (o alcuni tra gli stessi) pensano che io abbia lavorato in fretta, cioè senza com­pleto esame e riesame di fonti e di bibliografia e magari volgendo a scherzo argomenti secondo loro degni di abito scuro come ad un funerale. Quando si è trattato di corsi di lezioni, di esposizioni manualistiche, di prolusioni accademiche o di discorsi solenni (per esempio, commemorazioni), non ho mancato ovviamente di adot­tare toni e titoli adeguati alle relative contegnose usanze, ma quando non si è trattato di dover soddisfare queste esigenze, ebbene, spesso ho preferito, entro (spero) i limiti del buon gusto, servirmi di una breve "etichetta» di richiamo (magari anche, perché no?, del tipo un po' solleticante di Ausonío "ab urbe condita", oppure di Galba von Berlichingen). C'è del male in tutto questo?

Dicevo poc'anzi dei «sommari» che agevolano la lettura. Non mi smentisco, ma tengo a precisare che il sommario, oltre che troppo ristretto, non di rado può essere involontariamente de­viante, visto che la sintesi in cui esso consiste è il risultato di un' interpretazione del sommarista: interpretazione diligente e onesta quanto si vuole, ma sempre (debbo proprio citare Gadamer?) sog­gettiva. E non ci si illuda che il sommario riesca piú fedele quando sia stato compilato dallo stesso autore. Al contrario. L'autore è spesso inconsciamente portato, piuttosto che a riassumere ciò che ha scritto, ad esprimere in breve ciò che voleva dire, a valorizzare la tesi che voleva sostenere e che (può darsi) non è riuscito a dimo­strare in modo adeguato.

Quando, tra il 1946 e il 1949, Cesare Sanfilippo ed io met­temmo in atto la formula innovativa della rivista Tura (il cui primo volume apparve nel 1950) ci rendemmo conto, nell'apprestare la «Rassegna bibliografica» del poco affidamento informativo dato da molti sommari «autoreferenziali» inviatici dagli autori. Sicché, usufruendo dell'aiuto di una magnifica compagine di giovani ed efficienti collaboratori, quei sommari pazientemente li correg­gemmo o addirittura li sostituimmo con sintesi curate da noi. Altri tempi.

 

3. Posso permettermi un «finale stendhaliano»?

In una famosa lettera a Balzac, datata 30 ottobre 1840, il grandissimo Henry Beyle scrisse (chi sa quanto veridicamente): «Componendo la Certosa, per prendere il tono leggevo tutte le mattine due o tre pagine del Codice Civile, in modo da essere sempre naturale». Dico la verità. Mi chiedo, nel mio piccolo, se, per essere meno fastidioso e saccente nel parlare della stipulatio e affini, io non abbia fatto male, molto male (come tanti altri miei colleghi, del resto) a trascurare una letturina quotidiana della Chartreuse de Parme.


 

V. - NESENNIO APOLLINARE

1. La vecchiaia, si sa, piú procede in avanti verso l'inevitabile «exit» e piú suscita ricordi dei tempi passati. Ogni occasione è buona per rammentarsi di particolari sempre piú minuscoli della vita trascorsa: particolari spesso piacevoli e soddisfacenti, ma tal­volta anche sgradevoli o purtroppo addirittura vergognosi. Tutto sommato, è un bene. Aiuta ad ingannare utilmente l'attesa, specie quando induce ad esami di coscienza. Il guaio è che i vecchi diffi­cilmente se ne stanno zitti. Parlano, anzi non è raro che siano piut­tosto loquaci. Sicché va a finire che annoiano non poco coloro che sono tenuti dalle circostanze ad ascoltarli. Meglio, molto meglio, se essi riversano le loro reminiscenze in documenti, cioè in scritti che si possono tanto leggere quanto, come questo, cestinare.

Ebbene, cestinate pure. Ecco, in iscritto, il ricordo, o piutto­sto la serie di ricordi che mi sono stati del tutto innocentemente occasionati da Leandro Polverini con un suo articolo, al solito pre­cisissimo, intitolato L'impero romano: antico e moderno (in Antike und Altertumswissenschaft in der Zeit von Faschismus und Natio­nalsozialismus, ed. Text and Studies in the History of Humanities 1 [Cambridge 2001] 145 ss.). Il saggio tratta degli accostamenti for­temente positivi all'impero romano del cosí detto «impero fasci­sta» cui, furono indotti, tra molti altri, tre eminenti antichisti ita­liani di generazioni diverse: Ettore Pais (1856-1939), Luigi Pareti (1885-1962) e Mario Attilio Levi (1902-1998). A tal proposito esso non solo ricorda che «la riapparizione dell'impero sui colli fatali di Roma» fu proclamata via radio alle piazze d'Italia da Benito Mussolini il 9 maggio 1936 con un martellante discorso pronunciato dal famoso balcone di Palazzo Venezia, ma mette anche in luce che ben presto segui l'allestimento a Roma, nel Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, di un'imponente "Mostra augustea della Romanità", durata dal settembre 1937 al no­vembre 1938 e dedicata al bimillenario della nascita di Augusto (23 settembre).

Naturalmente il discorso del 9 maggio 1936 (aveva allora quasi ventidue anni) me lo ricordo bene e, mi si perdoni, non mi vergogno affatto di dire che mi esaltò. Esso seguiva di quattro o cinque giorni un analogo discorso vespertino, sempre via radio, con cui Mussolini aveva annunciato la presa di Addis Abeba e la vittoria delle truppe italiane nella guerra di Etiopia. L'entusiasmo in Italia era stato enorme, coinvolgendo (è bene sottolinearlo) molti, ma molti antifascisti nella generale soddisfazione patriottica di aver riscattato un passato coloniale inglorioso, quello segnato dalle umiliazioni inferteci dall'etiopico «ras» Menelik, e di essere riusciti a superare l'ostacolo oppostoci dalla Società delle Nazioni e delle «sanzioni» pretese contro di noi sopra tutto da due paesi super-colonialistici, cioè dalla Francia e dall'Inghilterra. Facile, oltre che doveroso in ogni senso, dire oggi, a colonialismo supe­rato, che il corollario della fondazione dell'impero italiano in Etiopia (non in Italia, intendiamoci) era press'a poco una burletta. Ma i tempi erano quelli dell'impero britannico sulle Indie messo su sessant'anni prima (1876) dal fantasioso Beniamino Disraeli per compiacere la vanità della regina Vittoria. Chi sdottoreggia «ex post» su certi fatti e su certe epoche cerchi di tornare a calma. Prima di pronunciare talune severe condanne storicizzi, storicizzi.

 

2. Comunque non è il 9 maggio 1936 che mi sta a cuore. Mi sta a cuore, «hic et nunc», la Mostra augustea della Romanità per­ché l'ho percorsa, dall'entrata all'uscita, piú volte e perché almeno una volta l'ha visitata, pur essendo antifascista integrale, il mio austero maestro Siro Solazzi.

Per quanto riguarda me e vari milioni di italiani in bolletta (oppure risparmiosi) che non risiedevano nella capitale, la cosa è facile da spiegare: le biglietterie ferroviarie offrivano un forte sconto a chi, recandosi a Roma in andata-ritorno, accettasse di recarsi anche alla Mostra e vi ci facesse timbrare in uscita il biglietto di ritorno. Ma per Solazzi, ch'era cosí sprezzante del regime fascista in vigore? Piú facile ancora, almeno per chi abbia avuto l'onore di conoscere da vicino l'uomo. Egli alla Mostra vi si recò, «una tan­tum», di proposito, sia pure approfittando di non so quale visita da fare alla Biblioteca Vaticana, proprio allo scopo di constatare da vicino, di «toccare con mano», come era dovere dell'uomo di scienza e in particolare del buon giusromanista, a qual punto e con quali argomenti si fossero spinti gli organizzatori nell'esaltazione dell'impero di Augusto e nell'audacia del parallelo di esso col gio­vane «impero» coloniale di marca fascista.

Quando tornò a Napoli, Solazzi era veramente soddisfatto. Incontrandosi con Francesco De Martino e con me, suoi devotis­simi allievi, elencò una per una tutte le minchionerie storico-poli­tiche rilevate nelle sale della Mostra. Innumerevoli. Particolarmente interessato fu De Martino, piú anziano di me di sette anni ed in procinto di presentarsi al concorso per la cattedra, il quale era allora appena emerso dallo studio della costituzione augustea. Meno coinvolto ero io, che avevo appena pubblicato un volume sulla «col­latio emancipati», mi trovavo agli inizi delle indagini ben poco imperiali sul cosí detto «beneficium competentiae» e mi accingevo a recarmi con una borsa di studio presso Paul Koschaker a Berlino. Senonché toccò proprio a me di essere maggiormente colpito da una delle esecrazioni del maestro: il quale aveva appuntato che in una delle sale della mostra erano affastellati sulle pareti i nomi dei grandi giureconsulti romani e che tra questi nomi era stato immesso, non si capisce perché, quello di un certo Nesennius Apollinaris, che giurista di vaglia certamente non era.

Nesennius Apollinaris? Guarda guarda, io, povero pivello agli esordi, questo personaggio lo conoscevo, anzi lo avevo proprio tra le mani nelle vesti di interrogante del giurista Paolo nel libro 14 delle quaestiones (cfr. D. 42.1.41 pr.). Tirai febbrilmente fuori dalle mie carte la scheda del passo in cui Nesennio figurava e la mostrai a Solazzi.

«Sí», mi rispose benevolo, «lo conosco naturalmente anch'io», e mi citò a memoria anche uno o due altri testi e le questioni rela­tive. «Tuttavia» aggiunse, «essere un interrogante non significa essere un giureconsulto». Io tacqui e pensai, almeno per un momento, che alludesse a me. Ma, per vero, il maestro era del tutto incapace di sinuose allusioni e diceva sempre, per sua natura, direttamente, pane al pane e vino al vino. Solo che qualche volta, «pietatis causa», taceva e in quell'occasione omise appunto di rive­larmi che di Nesennio Apollinare si era già personalmente occu­pato, con riferinento a D. 27.1.32, in un contributo del 1920 (La conferma del tutore nel diritto romano, ora in Scritti di diritto romano 2 [1957] 297 ss., particolarm. 308 ss.): cosa che scopersi a distanza di venti anni, ma che avrei potuto sapere sin da allora se avessi consultato la voce dedicata a Nesennius Apollinaris da A. Berger in RE. 33.1 (1936) 69 s.

 

3. «Quandoque bonus dormitat Homerus», anche se non è pro­prio il caso di indignarsene come Orazio (Ars poet. 359). Nel suo scritto del 1920 (cfr. 309 nt. 35) il Solazzi aveva omesso di citare, tra i quesiti posti da Nesennio Apollinare, giusto quello risultante da D. 42.1.41 pr., mentre aveva aggiunto essere Nesennio uno «sco­laro di Paolo» che «amava discutere le questioni relative ai pupilli».

Non so dire, e non credo che importi, se Nesennio Apollinare fosse davvero un discepolo del giureconsulto e se questi ne fosse il «maestro». Certo è solo che egli era in corrispondenza, probabil­mente da lontano (cioè per lettera) con Paolo, mentre azzardata (e comunque qui irrilevante) è la proposta del Mommsen (Dig. ed. maior 2.541 nt. 2) di correggerne il nome in «Nasennius» e di farne un possibile discendente lontano di quel C. Nasennius da Suessa di cui parla Cicerone in una sua lettera a Bruto (1.8: cfr. F. Miinzer, in RE. sv.). Nella Palingenesia iuris civilis di O. Lenel (1889) l'ordine dei passi, entro i 26 libri quaestionum di Giulio Paolo, è il seguente: 1274 (lib. I = D. 3.5.33), che comincia con «Nesennius Apollinaris Tulio Paula salutem»); 1339 (lib. VI = Vat. 227 = D. 26.2.30), che comincia con un incompleto (?) «Apollinaris Paulo»; 1343 (lib. VII = D. 27.1.32), che comincia con «N. A. Tulio Paulo»; 1391 (lib. XV = D. 42.1.41), che comin­cia con un «N. A.»; 1404 (lib. XVII = D. 35.2.22), che comincia con un «N. A. Tulio Paulo» (seguito da: «Ex facto, domine, species eius modi incidit»).

L'esame di questa piccola serie di quaestiones contribuisce anzi tutto a gettar acqua sul fuoco di una troppo netta e radicale diffe­renziazione, nell'ambito delle opere di casistica della giurispru­denza classica, tra libri responsorum (relativi a casi reali) e libri quaestionum (relativi a problemi realistici, ma formulati artificial­mente). Basta badare al numero 1404, ove piú chiara non po­trebbe essere l'induzione dell'interrogante ad esplicitare la quaestio derivandola da un accadimento reale. Non solo. L'esame della pic­cola seria contribuisce anche a chiarire che i grandi giuristi non rispondevano solo alle domande «vive» poste loro dai clienti ed alle quaestiones loro prospettate a voce dai discepoli che li circonda­vano quotidianamente, ma esplicavano la loro attività oracolare anche a favore di devoti giuristi minori (spesso anche ex-discepoli, si capisce) che «esercitavano» la professione in altri centri abitati e che eventualmente li appellavano per iscritto, in segno di rispetto, con un «domine».

Senza insistere qui sul punto (il che mi porterebbe inevitabil­mente ad inoltrarmi nella palude dei libri digestorum, con partico­lare riguardo a quelli di Cervidio Scevola: tema su cui, da ultimo, v. T. Masiello, Le Quaestiones di Cerv. Sc. [2000] passim), ricorderò a me stesso che ancor oggi non è raro il caso, specie nell'ambiente universitario, del «riciclaggio», con poche giunte e varianti, delle stesse e medesime opere di casistica (e in ispecie di certi «corsi di lezioni») sotto titoli diversi. La vita.

 

4. Quanto alla quaestio numero 1391, che è quella omessa nel ricordo dal Solazzi e viceversa studiata da me, si tranquilizzi il let­tore. Non ho nessun proposito di riesaminarla in questa sede dopo averla laboriosamente discussa in un articolo Sul beneficium com­petentiae dell extraneus promissor dotis", che può leggersi in Festschrift P. Koschaker 2 (1939) 49 ss. (spec. 67 ss.) e che, al pari di altri connessi contributi monografici su vari aspetti del cosí detto «beneficium competentiae», ho omesso di riprodurre, per eco­nomia di spazio, nelle Pagine di diritto romano (v. però Guarino, La condanna nei limiti del possibile' [1978]). In questa sede mi è caro solo ricordare che il testo di Paolo me lo studiai a lungo, insieme con altri ad esso connessi, nell'oasi di tranquillità che fu assicurata a noi studiosi di diritto romano (tra cui, ricordo Erbe, Below, Schwarz e il giapponese Harada), nel corso dell'agitatissimo periodo 1937-38, dal juristisches Seminar dell'Università ber­linese diretto da Paul Koschaker.

Piú caro ancora mi è ricordare quella sera in cui, trovandomi ospite in casa di Fritz Schulz, che viveva appartato dall'Ateneo di cui non era piú docente, Schulz si interessò talmente al quesito di Nesennio Apollinare che mi trasse per un braccio dal salotto (ove sua moglie e pochi amici stavano facendo un po' di musica) e mi portò in punta di piedi nell'attiguo suo studio. Sedendosi al mio fianco dietro alla scrivania, lesse e rilesse quasi famelicamente la scheda. Anzi, visto che il «casus» era relativo ad una «delegatio», tracciò su un foglio bianco un triangolo isoscele segnandone gli angoli con le lettere indicative delle «dramatis personae» (delegante, delegato, delegatario) e ritornò per qualche minuto a comportarsi con me da quell'avvincente esegeta delle fonti che era stato nei suoi Seminari e che ormai la scomunica politica gli impediva di essere piú.

Fa bene all'animo ricordarsi, dopo piú di mezzo secolo, delle figure di siffatti maestri. E sentirsene come allora, piú di allora, allievi.


 

VI. - PRETESTI

1. «ET IN ARCADIA EGO». - All'occhio vigile di Mario Bretone (La "cartella rossa", in RG. = Rechtsgeschichte 1 [2002] estr. e nt. 11) non era sfuggito, naturalmente, il capoverso in cui Cristina Vano, nel suo bel libro sulla scoperta del Gaio Veronese ("Il nostro autentico Gaio" [2000] 128 s. e nt. 61-62), parla (e non ne poteva fare a meno) del «carattere tendenzialmente ipocon­driaco» di B. G. Niebuhr: carattere «ulteriormente oppresso dalle sgradevoli sensazioni destate da un paese [l'Italia] del quale dete­stava il clima, il cibo, la gente e del quale disprezzava studi e costume», spingendosi a dire, tra l'altro, che i moti antiborbonici del 1820 erano una sorta di «ribellione di negri». Anche a me (Insomma chi era Gaio?, in Trucioli 8 [2002] 18 ss.) le parole della Vano non erano sfuggite, ma aveva omesso di ricordarle per eco­nomia di discorso. Senonché il Bretone non si è fermato alla prima osservazione ed è passato ad aggiungere che una singolare affinità fra il negro e il napoletano è stata affermata, qualche decennio piú tardi, da Victor Hehn (in Reisebilder aus Italien und Frankreich [1894] 169: edizione postuma rispetto alla morte avvenuta nel 1890): «Der Neapolitanischer ist von allen Italienern dem Deutschen am fernsten, er ist den Menschen der tropischen Zone nahezu verwandt».

Eh no, qui si comincia ad esagerare. Napoletano quale sono, per di piú con un quarto di fierissimo sangue sannita, sento fre­mere dentro di me un impulso che assomiglia molto al «Signore, si ritenga schiaffeggiato». Già si comportò nobilmente in tal modo, a nome di tutti gli Italiani, il bollente colonello napoletano Gabriele Pepe nei confronti di Alphonse de Lamartine quando costui si permise (nel XIII Dernier chant du pèlerinage d'Harold) di chiudere le sue insolenze su noialtri di quaggiú con i versi: "Je vais chercher ailleurs (pardonne, ombre romaine!) / des hommes, et non pas de la poussière humaine": il duello fu celebrato nel 1826 e andò a finire, tanto perché lo si sappia, con una sanguinante ferita del borioso offensore francese. Magari mi getterei in un duello anch'io ed a maggior ragione (in nome cioè di tutti i Napoletani), se il signor Hehne non si fosse dato alla fuga morendo trenta o quarant'anni prima che io nascessi (e «die Todte reiten schnell», come usano dire in quei nebbiosi paesi). La sola cosa che mi rimane, prima di chiudere gli occhi anch'io, è di rendermi conto come mai a certa gente di lassú (non solo dei paesi germanici, ma oggi anche dei sedicenti «celtici» della italica Gallia cisalpina) sia potuta venire in mente la seguente baggianata (cito sempre parole del Hehne): «In der That, wollte man den Bewohner der heissen Zone oder dessen Urbild, den Neger, nach seiner geistigen Natur genau zeichen, man wurde diese Natur in dem neapolitanischen Charakter tausendfaltig Ubergangsweise angedeutet finden». Ove si sostiene, insomma, che i «negri» sono manifestazione primaria e riassuntiva di tutte le genti colorate dei paesi caldi (arabi, turchi e curdi compresi: questo è chiaro) e che i napoletani, pur non essendo propriamente colorati di pelle, sono spiritualmente il limbo che fa da anticamera a quel mondo pittoresco e civilmente poco evoluto.

Non replicherò a questi infantili pregiudizi antinapoletani brandendo a difesa i Reisebiicher italiani di Wolfgang Goethe, che addirittura portarono in esergo (almeno nelle due prime edizioni) il motto «Et in Arcadia ego». Non risponderò citando, in partico­lare, le deliziose lettere da Napoli, alle quali ha dedicato acute parole di commento il nostro Benedetto Croce (ora in Aneddoti di varia letteratura [1942] XC, 2.286 ss.) e delle quali la migliore tra­duzione italiana è certamente quella di un altro nostro, il meri­dionalista Giustino Fortunato (1848-1932), e fu pubblicata (si noti bene) nel 1917, cioè nel pieno della prima guerra mondiale. Non mi fermerò, ancora piú in particolare, sulle lettere goethiane del 28 e del 29 maggio 1787, in cui si sdrammatizza e finalmente si incomincia (superficialmente, sia pure) a capire il complesso fenomeno della «populace» napoletana costituita dai cosí detti «lazzaroni» (per i quali rinvio ancora una volta al Croce cit. CV, 2.428 ss.). Nulla di tutto ciò. Mi limiterò e mi limito, questo sí, ad affermare che non mi offende né punto né poco l'assimilazione ai «negri» dei «napoletani», cioè della gente del Sud Italia e della vicina Sicilia.

Alla base della concezione, ancor oggi largamente diffusa, dei cosí detti «negri» come selvaggi, come gente di livello civile irre­parabilmente inferiore a quello dei cosí detti «bianchi», sta indub­biamente un torbido e incivile sentimento di razzismo, che a me personalmente fa altrettanto orrore quanto il razzismo (che. almeno era aperto e conclamato, non voglio dire leale) di Hitler e degli sterminatori suoi seguaci.

 

2. «THINGS OTHER THAN THINGS». - Nelle settimane natali­zie del dicembre 2002 l'autorevole giornale americano Washington Post ha lanciato l'invito ad astenersi dal distribuire regali festivi che potrebbero essere inutili o di troppo (cioè già posseduti) per i donatari: meglio dare in dono «cose diverse dalle cose» («Enough already: giving things other than things»). Ottima idea, anche se un po' vecchiotta, trattandosi dell'esortazione ad elargire «buoni acquisto» e simili, cioè titoli di credito o, come dicevano i romani, «tesserae» abilitanti ad ogni sorta di benefici, anche se consistenti non in cose materiali, ma in prestazioni di servizi ed altro (accon­ciatura di capelli, cenetta in un noto ristorante, lavaggio auto, ingresso al cinema o in discoteca eccetera).

A prescindere dalle piccole complicazioni di carattere fiscale che l'adozione del sistema implica sopra tutto nel mondo moderno (argomento che suggerisco agli studiosi di diritto tribu­tario), a prescindere dalle analisi giuridiche che il fenomeno com­porta per il mondo moderno piú ancora che per quello antico (argomento che suggerisco agli studiosi di diritto privato positivo e quanto meno di diritto romano), a prescindere dalle possibilità di inadempimento della prestazione da parte del terzo e delle responsabilità civili ed eventualmente penali relative (argomento che suggerisco a coloro che ambiscono ad un dottorato di ricerca), a prescindere da tante altre «things» che mi vengono in mente, mi limito qui solo ad un modesto consiglio derivante dalla mia per­sonale e sofferta esperienza. Tra le ipotesi di «cartolarizzazione» dei donativi che il Washington Post formula figura 1' «aliud pro alio» di una squadretta di esperti che vi venga in casa a «riordinare la biblioteca». Amici, non ne approfittate.

Vari anni fa mi rivolsi ad una piccola impresa del ramo affin­ché i miei libri, che erano già tutti ordinatissimamente sistemati, me li spolverassero uno ad uno. Ebbene, non vi dico che cosa ne usci fuori. Non solo quei maledetti «esperti» trattarono i volumi a interi blocchi, ma disordinarono internamente i blocchi e spesso li rimisero negli scaffali a testa in giú. Fortuna ch'ero in piena atti­vità di insegnamento e che ero circondato da un subisso di giovani e bravi assistenti i quali fecero a gara per rimettermi le cose a posto, cosí come a lungo si prestarono in seguito, diminuendo peraltro di numero, nel sistemarmi al posto giusto i nuovi arrivi sopra tutto negli scaffali piú alti.

Oggi, lontano come sono dall'Università e dalle vicende acca­demiche, gli «ex» che vengono a trovarmi sono pochini, purtroppo invecchiati e inoltre affaccendatissimi nei loro insegnamenti o in altre professioni. Tutto passa, è fatale. I nuovi arrivi librari me li sistemo faticosamente, ma ancora ordinatamente da solo, aiutan­domi con una solida scala a bracciuoli che un collaboratore dome­stico mi apre e mi sposta pazientemente là dove mi occorre.

Ce la faccio, ce la faccio, non ho problemi insuperabili. E sic­come sono un cattivone, quasi quasi regalerò un «ticket» per la squadra del riordino libri a qualche collega che mi sta meno sim­patico, confidando nella sua ingenuità.

 

3. IL METODO E L'ANDAZZO. - L'anno scorso, 2002, fu per me

una insperata notizia apprendere che la mia Giusromanistica ele­mentare del 1988, pur non essendo (almeno a mia conoscenza) un libro «consigliato» agli studenti in sede di lezioni universitarie, era andata ad esaurirsi. Non si era trattato di una grande tiratura, è vero. Ma, insomma, uno o duemila persone interessate ai pro­blemi del diritto avevano ritenuto non inopportuno fare la piccola spesa per comprarlo. Accolsi quindi lietamente l'invito dell'editore ad apprestare una nuova edizione, ed altrettanto lietamente rinun­ciai pure stavolta (come già prima) a percepire diritti di autore, purché il prezzo di copertina fosse mantenuto il piú basso possi­bile. Senonché, quando mi misi al lavoro, constatai con un certo disappunto, controllando le mie schede di lettura, chela mia ope­ricciuola (e cosí dicasi anche dei miei due puntuali saggi oggi anche raccolti, in traduzione spagnola, nel volumetto dal titolo Sobre la credibilidad de la ciencia romanistica moderna, 1998) era stata piuttosto raramente intesa e considerata nella sua funzione critica di alcune tesi metodologiche sostenute da Max Kaser a par­tire dal 1967 e riversate (nonché rivedute) nell'opuscolo Zur Methodologie der rómischen Rechtsquellenforschung (1972). In altri termini, è avvenuto molto di rado che le mie considerazioni, quando anche se ne cita il titolo, vengano a loro volta criticamente considerate. «Criticamente», cioè tanto per essere eventualmente accolte quanto per essere rigorosamente respinte.

Tutto ciò, mi si passi la ruvidità con cui lo dico, non è serio. Non è serio perché la questione in gioco non è se io abbia scritto bene o male. E invece, precipuamente, se sia stato del tutto inutile la fatica dedicata da varie generazioni di giusromanisti dell'Ot­tocento e della prima metà del Novecento all'esame esegetico-cri­tico delle fonti postclassico-giustinianee, cioè di gran parte delle fonti di cui siamo tenuti ad avvalerci per ricostruire il diritto dei secoli precedenti. La questione è se il metodo esegetico dei cosí detti «interpolazionisti», cioè di coloro che si pongono il problema dell'esistenza dei glossemi postclassici e delle interpolazioni giusti­nianee, sia o non sia da trascurare o addirittura da accantonare. La questione è se la giusromanistica contemporanea debba conti­nuare lungo la strada di quella precedente (sia pure, come è ovvio, avvalendosi di ulteriori esperienze, riflessioni e cautele) oppure se essa possa non farlo piú, e considerare come punti sostanzialmente fermi (o comunque molto raramente discutibili con vero impegno sul piano interpolazionistico) i testi dei giuristi romani cosí come li si leggono nei Digesta.

Nella «premessa» del libro sulla Giusromanistica elementare ho scritto che non avevo la pretesa di ricalcare le orme solenni del Discours de la Méthode pour bien conduire sa raison et chercher la vérite dans les sciences (1637) di René Descartes. Lo confermo. Sia chiaro però che non volevo con ciò rinnegare il fondamentale metodo cartesiano della ricerca scientifica. E tra i quattro principi formulati da Cartesio fondamentalissimo è quello enunciato per ultimo: «fare in ogni caso enumerazioni cosí complete e rassegne cosí enerali da essere sicuro di non tralasciare nulla».

E’ faticoso, lo so, ma necessario. Il fatto che col passare del tempo e col progredire delle ricerche le enumerazioni e le rassegne vanno aggiornate e perciò si ingrossano non autorizza gli studiosi a mettere da canto le carte vecchie e ingiallite. Al contrario, la piú attenta ed esperta rilettura delle vecchie e ingiallite carte può essere spunto per nuove idee. (Ricordo, a questo proposito, che quando, nel dicembre 1942, mi recai per la prima volta nell'Università di Catania e vi conobbi personalmente Cesare Sanfilippo, questi era intento, in una stanza del Seminario Giuridico, a consultare la Magna Glossa nel commento ad un testo giuridico di cui si stava interessando. «Cosí mi ha insegnato Riccobono», mi disse).

Metodo, dunque, metodo. Non si tralasci né il Fabro, né il Cuiacio, né il Beseler, né addirittura il Guarino. Saranno vecchi, oppure matti, oppure piccoli di cervello, ma fanno parte di un percorso che non ammette "bypass". Procedere a balzelloni non è metodo. E’ andazzo.