ANTONIO GUARINO
TRUCIOLI DI
BOTTEGA
I.
LAURIA:
VICENDE. DI UN'AMICIZIA
II.
LA
TRADIZIONE E I COMIZI
III.
LE
PARI OPPORTUNITA E
LANTICO
IV.
TITOLI
E STILE
V.
NESENNIO
APOLLINARE
VI.
PRESTITI
I. -
LAURIA: VICENDE DI UN'AMICIZIA
1. Nato
nel 1903 (20 ottobre), Mario Lauria celebrerebbe quest'anno il centenario se la
morte non lo avesse colto quasi ottantottenne il 5 settembre 1991. Spegnersi a
quell'età, ancora lucidissimo di mente, non è cosa che si possa troppo
compiangere, salvo che in chiave di vana retorica. Inoltre, è bene dirlo, quello
che fu per me un tristissimo giorno (accorsi a prim'ora accanto al suo letto
nell'appartamentino di via Monteroduni) fu forse per lui un dono della
Provvidenza. Il quieto passaggio al sonno eterno avvenuto durante la notte gli
risparmiò infatti il dolore, che sarebbe stato immenso, di veder scomparire, nel
giro di altri pochissimi anni, tutti e tre i figli (Maria Cristina, Francesco
detto Ciccio, Felicetta) e l'adoratissima moglie Adelina.
Parole
di commiato veramente belle, anche perché veramente sentite, gli hanno dedicato
Francesco Amarelli (in SDHI. 57
[1991] 571, con un elenco completo delle opere edite e inedite) e Francesco
Paolo Casavola (in Index 20 [1992]
655 ss.). Una calda e penetrante commemorazione accademica ne ha fatto, con
riferimento anche alla sua opera scientifica, Francesco De Martino (v. Labeo 38 [1992] 5 ss.; ma v. anche J.G.
Wolf, in ZSS. 110 [ 1993] 845 ss.). Anch'io ho tracciato di lui, quasi sul
momento, un ricordo accorato (in Labeo 37
[1991] 402; v. anche PDR. 2
[1993] 56 s.), ma temo sia stato un necrologio, il mio, troppo contratto e
quasi trattenuto nell'esteriore delle parole: il che non è solo dipeso da
un'invincibile ritrosia che solitamente mi prende nella manifestazione dei
sentimenti che mi ingolfano l'animo. È dipeso altresí dal fatto che il mio
rapporto umano con Mario Lauria è stato ben piú intenso e continuo di quanto io
abbia mai amato rivelare e di quanto un estraneo possa credere, stando alle sole
apparenze della nostra storia comune.
Se
volessi oggi, approfittando della ricorrenza centenaria, tracciare al completo
un quadro della persona e dell'opera di Mario Lauria visto dal mio angolo di
osservazione, sento che nemmeno vi riuscirei. Non solo ripeterei
fiaccamente cose già dette altrove (specie nella conversazione dal titolo
Arsenico e vecchi merletti, pubblicata in Opuscula XVI [1997] del Centro
ArangioRuiz), ma per parlare di lui finirei anche col tracimare la misura
ormai già presso che colma dei miei riferimenti autobiografici. Mi fermerò
pertanto su pochissimi punti ma, almeno per me, essenziali. I
seguenti.
2. Lo
conobbi quando mi ero appena trasferito da Milano a Napoli, nell'ottobre del
1932. Fu il primo professore di cui seguii le lezioni. Era quasi trentenne e
copriva la cattedra di Istituzioni di diritto romano a titolo di supplenza del
suo maestro Vincenzo Arangio-Ruiz. Questi aveva infatti trovato il modo di
tenersi lontano dall'Italia e dal detestato regime fascista vincendo un
concorso internazionale per la difficile impresa dell'insegnamento (o, piú
precisamente, della trasfigurazione) del pensiero giuridico romano agli studenti
musulmani dell'Università del Cairo. Ad essi si rivolgeva in un francese che un
paziente collaboratore locale traduceva ad sensum in arabo
«decoranizzato».
Lauria
non aveva la discorsività scorrevole e persuasiva con cui Arangio aveva fatto
tanta presa, negli anni precedenti, sui pur difficili ascoltatori napoletani.
Questo proprio no. Tuttavia era evidente, si toccava quasi con mano il suo
impegno a farsi capire e sopra tutto (ecco il suo particolare) a far persuasi
tutti gli ascoltatori che ciò che egli diceva, sulla traccia del libro di
Istituzioni del maestro, non era verità indiscutibile, ma era solo uno fra i
tanti e diversi modi di presentare la materia guardandola da angolazioni
diverse. Il suo insistente battito su questa realtà, il suo frequentissimo
richiamo di opinioni difformi o addirittura contrarie, le sue molte pause di
riflessione critica personale rivelata a mezza voce quasi soltanto a se stesso,
beh, gli assottigliarono rapidamente l'uditorio. Ma gli produssero in
cambio un gruppo di fedelissimi, di giovani appena evasi dai rigori didascalici
del liceo e affascinati come lui dal dubbio e dalla possibilità di scoprire le
varianti del canone, di discuterle, di approfondirle. Tra i fedelissimi anch'io.
Finita
la lezione, che per lui divenne visibilmente, ogni giorno di piú, come un
percorso obbligato che lo infastidiva, Lauria si intratteneva con noi per ore
intere. Non potendo restar troppo a lungo nell'aula destinata ad altri docenti,
né amando aggirarsi discettando nei corridoi alla maniera della Scuola di Atene,
ci attirò (meglio direi che ci attrasse) nei locali, al secondo piano, della
vastissima biblioteca unitaria detta degli «Istituti Giuridici». Ci parve di
trovarci in una sorta di grande officina del sapere (in un «Ouvroir de
littérature potentielle» o «Oulipo», come avrebbe abbreviato Raymond Queneau)
formicolante di studiosi e studenti, al cui funzionamento attendevano due
diligenti impiegati e un paio di bidelli espertissimi tra cui primeggiava per
intuizione e sveltezza un uomo di mezza età dall'occhio pronto che si chiamava,
indimenticabile, Stefano.
Seduto
a capo di un tavolo, con noi tutti intorno, e fumando (unico tra i suoi lussi)
certe raffinate sigarette dal bocchino dorato, di cui ricordo che la marca era
«Xantia», Lauria ci parlava ancora e amava che noi a nostra volta parlassimo
fumando le sigarette di qualità piú modesta che potevamo permetterci (le
mie, purtroppo, erano delle maleodoranti «Popolare» da 50 centesimi di lira al
pacchetto da dieci). E fu cosí che ci squadernò sotto gli occhi le fonti,
insegnandoci come consultarle. E che ci fece vedere da vicino le riviste,
tra cui in primo luogo la Zeitschrift der
Savigny-Stiftung e il Bullettino dell'Istituto di diritto romano sfogliati
come fossero libri da messa. E che ci accompagnò con accorte spiegazioni nella
lettura di qualche saggio. E che ci mise a gara nel discutere, tanto per
cominciare, le tesi di Charles Appleton sull'istituto del tesoro cosí come
esposte negli appena (o quasi appena) editi Studi in onore di Pietro Bonfante (3 [1930]
1-34, Le trésor et la `fusta causa usucapionis'). Tutto un mondo
assolutamente nuovo da percorrere e da scoprire.
Il
novero dei fedelissimi, è ovvio, diminuí man mano ulteriormente, sinché
rimanemmo in due: io ed il mio coetaneo Pietro Brandi, che sarebbe piú tardi,
nel 1938, entrato con me in
magistratura. Ma rispetto a Pietro, a prescindere da un entusiasmo che nel
mio intimo era certamente di giorno in giorno maggiore, io ebbi in dono dalla
fortuna la possibilità di conoscere Lauria ancor piú da vicino. Ecco
perché.
3. Non
me la passavo affatto bene, a quell'epoca, anzi stavo piuttosto male sul piano
economico. Per tenermi agli studi dispensavo a pagamento lezioni private di
materie letterarie. Ora avvenne che certi signori Raimondi mi affidassero il
compito di seguire ogni pomeriggio feriale gli studi dei loro tre figli: un
primo che doveva prepararsi agli esami della terza ginnasiale (quella piú tardi
denominata come terza media), un secondo che aveva da affrontare gli esami
di licenza elementare, un terzo ch'era alla prima elementare e doveva sopra
tutto star cheto, se non attento e tanto meno divertito, mentre io mi occupavo
degli altri due. Abitava la famiglia Raimondi in via Calabritto 20 nel maestoso
Palazzo Calabritto, antica dimora dei duchi di Estouteville (nome poi
italianizzato in Tuttavilla), un edificio al cui rifacimento parziale
(tutto, o quasi tutto, è soltanto parziale a Napoli) aveva posto mano nel secolo
XVII il grande architetto Luigi Vanvitelli. Per vero, l'appartamento non era al
primo piano, cioè al piano nobiliare cui si accedeva salendo uno scalone
interminabile di pietra lavica. Insieme con altri, forse in antico destinati ai
dipendenti di vario rango e alla servitú, era sito in un piano vertiginosamente
piú alto al quale invece portava una lunghissima e scurissima scalinata a
chiocciola (novantanove gradini) celata dietro uno dei portali del piano nobile.
E un pomeriggio di un certo giorno, proprio uscendo dalla casa dei miei tre
ragazzi, mi imbattei stupefatto nel professore Lauria, il quale abitava sin
dalla nascita, guarda la combinazione, nell' appartamento
accanto.
Mi
vide, mi riconobbe, mi parlò. Si accorse con qualche sorpresa della mia
sempre taciuta fatica quotidiana per vivere, mi introdusse in casa sua, mi
presentò alla moglie, mi fece intravvedere la biblioteca sterminata, per
tre quarti ereditata dal padre (che era stato un rinomato avvocato feudista) e
per il resto messa insieme da lui stesso in pochi anni acquistando senza
risparmio (ne aveva i mezzi) tutto quanto gli era stato possibile procurarsi in
materia di diritto romano. Malgrado la distanza che ci separava, diventammo in
breve, senza dircelo, amici e tali saremmo rimasti, con alti e bassi cui tra
poco non mancherò di far cenno, per tutta la vita: lui compiacendosi spesso di
scendere (talvolta con punte di cameratismo addirittura imbarazzanti) dal suo al
mio livello di allievo, io mantenendomi sempre, inalterabilmente entro i limiti
del riguardo che sentivo essermi doverosi.
Cosí
per circa vent'anni, diciamo dal 1932 al 1950. Venti anni, o quasi, durante i
quali Lauria, promosso da libero docente a professore di cattedra, andò ad
insegnare in alcune Università non napoletane, ma in breve tempo tornò da
titolare alla cattedra napoletana di Istituzioni di diritto romano, cattedra che
era stata lasciata da ArangioRuiz per passare a Roma, e si apprestò poi a
succedere a Siro Solazzi, quando questi pervenne a fine carriera, come
professore di Pandette. Tutto questo mentre io, laureatomi con Solazzi, avevo
fatto a mia volta carriera (con convulsi intervalli dovuti al servizio militare
e alla guerra) prima come magistrato e poi come cattedratico (nove anni magici)
nell'Università di Catania. Ormai Lauria non abitava piú nella vecchia casa
paterna in cima a palazzo Calabritto, ma si era trasferito in un caseggiato di
nuova costruzione con vista sul giardino di altro fastoso edificio
principesco, il palazzo Cellamare della vicina via Chiaia, ed ivi aveva
distinto rigorosamente casa e bottega. La sede familiare era sistemata al quarto
piano insieme ai libri d'arte ed alla collezione completa delle amatissime opere
di Anatole France. Il cosí detto «studio» era un appartamentino a piano terra in
cui una grande stanza era riservata alla sua scrivania ed alla sua sempre piú
vasta biblioteca, mentre i vani restanti erano destinati a studietti minori per
gli allievi frattanto sopravvenutigli e ad una «suite» con bagno per eventuali
visitatori stranieri (particolarmente graditi se
germanici).
Per
lungo tempo io ebbi accesso praticamente libero sia allo studio, sia anche
all'appartamento familiare. In quest'ultimo alternavo la impegnativa
conversazione con la signora Adele, donna sprizzante intelligenza e cultura che
era stata assistente di fisica a Genova, ai riposanti dialoghi con la deliziosa
zia Margherita, che era la vecchia sorella del padre del professore ed aveva una
raffinata educazione femminile rigorosamente all'antica (di quelle fatte
esclusivamente in casa o dalle Suore: fraseggio in ottima lingua, locuzioni
francesi naturalmente intercalate qua e là, silenzi apparentemente
distratti quando i discorsi divenissero in sua presenza sconvenienti). Se invece
scendevo nello studio vi trovavo sempre, in uno dei «box», almeno un giovane
assistente in servizio, come fosse, «di picchetto»: preferibilmente Lucio Bove,
per lungo tempo vezzeggiato da Lauria come un piccolo Voltaire alla corte di
Federico II.
4. Nel
1950, con la mia chiamata alle Istituzioni di diritto romano di Napoli, che
avvenne in parallelo con la chiamata di Francesco De Martino alla Storia, si
apri un decennio (o poco piú) davvero indimenticabile, che non cancellò certo i
miei ricordi degli anni di Catania (nei quali Sanfilippo ed io avevamo, tra
l'altro, fondato Tura), ma ne
attenuò lentamente il rimpianto.
Solazzi,
da tutti noi venerato, lavorava ancora sodo e attendeva, con l'aiuto
industre di Bove, alla raccolta dei suoi scritti di minor mole, trascorrendo
tranquillo il tempo che lo separava dalla fine. De Martino, tenuto a Roma per le
sempre crescenti incombenze politiche solitamente dal martedí pomeriggio al
venerdí mattina, faceva a Napoli le sue regolari tre lezioni settimanali, mentre
in ogni momento e occasione che gli si rendesse disponibile si chiudeva in
biblioteche o in casa sobbarcandosi alla prodigiosa fatica, che gli durò
dieci anni, di pensare e di stendere i densi volumi della sua Storia della costituzione romana. In
Università, e particolarmente nei locali degli Istituti giuridici, divampò
(questo è il termine adeguato) Lauria, forse anche perché io fui
praticamente il suo quotidiano «alter ego».
Moltissime
furono le cose che facemmo. Tra esse il richiamo in vita di una vecchia
istituzione culturale, prodiga di conferenze e seminari, denominata «Circolo
Giuridico» e sopra tutto la creazione della nuova rivista Labeo (1955), di cui assumemmo con De
Martino la condirezione. Ma in queste iniziative non saremmo riusciti, o saremmo
riusciti solo in minima parte, se non fossimo stati circondati da uno stuolo di
giovani studiosi di grande intelligenza e di grandissimo impegno. Già
Arangio, passando a Roma, ci aveva lasciato da curare la rifinitura dell'ormai
bene avviato Franco Bonifacio, ma nuovi germogli sbocciarono ben presto: da
Luigi Amirante a Franco Casavola, da Mario Bretone ad Angelo Ormanni, da
Atanasio Mozzillo al già ricordato Lucio Bove e ad altri, ad altri, ad altri
(forse a qualcuno di troppo). Tutti giovani studiosi che Lauria, «talent scout»
innarrivabile, instancabilmente scopriva e si esaltava di aver scoperto, salvo
talvolta a deludersi forse con eccessiva amarezza (ecco il suo difetto) se non
rispondevano con immediatezza alle sue aspettative
iniziali.
Parlare
in breve dei cavalli di razza che tirammo su in quegli anni non è facile. Il
più forbito di tutti era sicuramente Franco Casavola, giovane dalleloquio
elegante e pacato (mai gli sfuggiva una parola in dialetto) e dalla cultura
generale solida e varia, che era anche da ammirare,almeno secondo me (causa le
esperienze analoghe che avevo personalmente avuto), per la dignità con cui, pur
senza scioccamente tentare di nasconderla, faceva fronte alla scarsità dei suoi
mezzi di sussistenza. Lopposto di lui era Angelo Ormanni, ingegno vivacissimo,
curioso insaziabile di tutto lo scibile umano, esperto di tutti i vernacoli
della più fonda periferia, peraltro critico in modo a volte spietato e non
soltanto con gli altri ma anche inquietamente con se stesso: temperamento
insomma difficilmente conciliabile con quello di Lauria, che infatti abbandonò
tempestosamente dopo qualche anno, pur senza cessare di amarlo, per passare a
Roma, prima con Emilio Betti e poi (rotti i rapporti anche con questi, con
lacquietante Riccardo Orestano. Pronto a discussioni talvolta accanite era
anche Mario Bretone, studioso di alta levatura e di diligenza filologica quasi
maniacale che ha dato in seguito validissimi e ben noti contributi alla nostra
scienza, ma in cui in non rari momenti di scontro con Lauria e con altri devono
aver lasciato qualche risvolto tanto amaro da indurlo, in un certo senso, alla
rimozione dei ricordi di allora (il che deduco dal fatto che non fa parola
degli anni trascorsi con noi nei Minima Personalia, pubblicati
recentemente in Belgagor 57 [2002] 363 ss.). Poco pacioso, assai poco,
non meno pronto di Ormanni e Bretone a sguainare la spada, era inoltre Luigi
Amirante, oggi purtroppo prematuramente scomparso, che, appoggiandosi in parte,
come Bonifacio, anche direttamente al Prof. ArangioRuiz, dal nostro ambiente
napoletano, spicco tra i primi il volo verso la libera docenza e la cattedra. Ne
può tacersi in questo scarno elenco (che è pieno, tengo a dirlo, di omissioni),
lamabile presenza di Atanasio (Ninni) Mozzillo, facile ad accendersi ma alieno
(per sua fortuna) dai dibattiti degeneranti sulla via dei litigi, che pian
piano, richiamto da altri interessi culturali, si indusse poi ad abbandonare il
campo giusromanistico, non senza aver prima conquistato la libera docenza
in diritto romano.
Nella
saletta degli Istituti Giuridici che avevamo requisito per i nostri incontri
Lauria appariva e scompariva (volte venendo dall'aula, volte allontanandosi
per liti giudiziarie misteriose che aveva avuto in eredità dal padre davanti al
Tribunale degli Usi Civici) come un Farfarello o, se volete, un Malacoda, un
Cagnazzo, un Rubicante o un altro di quei diavoli turbinosi (buoni diavoli, in
fondo) cui Dante assegna nella sesta bolgia dell'Inferno (canto XXI) il compito
di rimestare con i loro raffi i «barattieri», i faccendieri della cosa
pubblica, condannati a dibattersi nella pece bollente. Casavola (era lui o non
era lui?) diceva talvolta di avvertire al suo ingresso un inequivocabile
odore sulfureo (e chi sa cosa avrebbe aggiunto quella linguaccia di Ormanni se
si fosse ricordato dei modi peculiari di comando con cui Barbariccia,
"duca" di questi diavoli, teneva in ordine la truppa del suo plotone). Certo è
che Lauria con le sue insistenti domande, con i suoi dubbi improvvisi, con le
sue osservazioni inaspettate metteva tutti quanti in agitazione, specie quando,
con l'intelligenza fulminea che gli era propria, in cinque minuti aveva già
capito (o creduto di capire, è lo stesso) dove andasse a parare il lungo
discorso che qualcuno dei presenti avesse pensosamente intrapreso (e allora si
rattrappiva sulla sedia, chiudendo gli occhi come per riposarseli, e attendeva
la fine con ostentata pazienza, ogni tanto facendo cenni di assenso come per
dire «è ovvio»).
Quando
si comportava cosí, prenderlo in castagna, e mostrargli che invece non aveva
previsto esattamente le conclusioni di un discorso, era presso che
impossibile. Lo tentò e ritentò a varie riprese sopra tutto Bretone, ma invano,
anche perché Lauria era, per verità, abilissimo nel trovare una via di uscita e
nel rimestare le cose lasciandoci tutti con un palmo di naso. Solo una volta lo
mise sotto scacco Amirante, ma su un particolare del tutto secondario, anche se
caratterialmente significativo. Essendo sorto il problema di inviare una lettera
o un libro a Mario Amelotti, che allora abitava a Firenze dove era assistente di
Archi, Lauria trasse da un suo calepino fittamente riempito l'annotazione
abbreviata «L. i. M.» che tradusse sicuro in via Lorenzo il Magnifico, mentre la
località, come poi appurammo, era la via Lungo il Mugnone, là dove il buon
Calandrino del Decameron boccaccesco
(ottava giornata) fu indotto da Bruno e Buffalmacco ad aggirarsi invano
nella ricerca della pietra elitropia.
5. Il
ruolo che io svolsi in quel decennio e anche dopo (l'ho già detto con finta
modestia in varie occasioni) fu essenzialmente quello del sergente maggiore. Non
certo del sottufficiale urlante e aggressivo di tanti film inglesi e americani
(urli e scenate non fanno parte del mio repertorio), ma del graduato, questo sí,
inflessibile e pignolo nel pretendere l'apprendimento e l'osservanza del
regolamento, vale a dire del metodo: compito, questo, non facile, che ho svolto
con piú autonomia anche negli anni successivi al 1961 con quelle che sono state
le nuove leve dei miei allievi e assistenti piú stretti, dei quali qui
tralascio di parlare. Mi rendo pienamente conto che a quei tempi con la
fermezza dei miei modi, resa piú dura dall'osservanza speciosa della cortesia
formale, ho spesso suscitato, specie in persone appuntite come Bretone o
Amirante, reazioni anche forti di insofferenza o addirittura di piú o meno
passeggera antipatia. Me ne rendo conto, ma posso dire che col passare del tempo
quelle reazioni sono tutte rientrate ed hanno dato luogo a manifestazioni di
solidarietà e di affetto che mi hanno spesso molto commosso. (La telefonata di
addio che, anni dopo, Ormanni mi fece da Roma, ove era in procinto di morte, non
la dimenticherò mai).
Ad ogni
modo, sono, oggi come allora, serenamente convinto che la mia attività di
collaborazione con Lauria non sia stata inutile, tutt'altro. Infatti Lauria
(perché tacerlo?) accanto ai suoi immensi pregi aveva i suoi non trascurabili
difetti. Particolarmente la noncuranza della futura sistemazione dei suoi
allievi in cattedra e inoltre, sempre crescente col tempo, la variabilità degli
umori. Egli non era proprio il tipo da leggersi con assidua attenzione un
manoscritto e da controllarne le citazioni. Non gli riusciva di fare agli autori
delle critiche mirate e costruttive, tali comunque da raddrizzarli e non da
scoraggiarli. Non gli veniva di accompagnare a Roma i candidati alla libera
docenza e di dar loro consigli, ma sopra tutto coraggio, nella lunga notte
dedicata a preparare la scena madre della lezione finale. Tutte incombenze alle
quali io credo di non essermi sottratto mai e per nessuno.
Gli
episodi che potrei narrare sono molti. A prescindere dalla rottura con Ormanni,
cui ho accennato poco fa, ve ne furono di meno drastiche con Bretone e con
Grelle. Drammatica fu poi quella volta in cui Lauria licenziò su due piedi due
suoi assistenti ordinari (dei quali uno era a soli dieci o quindici giorni dal
compimento del periodo minimo di servizio richiesto per il passaggio
consolatorio tra gli insegnanti delle scuole medie) ed io lo convinsi con molta
fatica a revocare il provvedimento: cosa che fece, molto corrucciato, ma a
condizione (ben presto, ovviamente, dimenticata) che i due reprobi, pur
restando formalmente in servizio, non si facessero piú vedere in eterno da lui.
E ancora piú delicata fu la contingenza in cui un altro giovane studioso
(diciamo pure chi era: Amirante), giunto ormai alle soglie del concorso per la
cattedra, si vide negare all'ultimo momento, la firma di autorizzazione
alla stampa nella Collana della Facoltà di una sudata (e pregevole) monografia
che era stata da me seguita passo passo. In questa tempestosa occasione,
non essendo io riuscito in alcun modo a persuadere Lauria alla firma, mi
sentii in dovere di dichiarargli che l'autorizzazione l'avrei data sulla mia
esclusiva responsabilità io stesso, e la detti. Ma il risentimento di Lauria per
questo mio uso (l'unico e solo finora) della «par potestas» fu forte. Se ne
dispiacque quasi quanto me.
6. Pur
tra questi alti e bassi, la nostra attività in comune continuò molto
intensa, alimentata dalla devozione che entrambi avemmo sino alla morte per
Solazzi e dall'affettuoso rispetto che ambedue portavamo a Vincenzo
Arangio-Ruiz. Un episodio che ricordo nitidamente, sebbene non sappia precisarne
troppo la data, fu quello di una visita collettiva che egli volle facessimo
tutti, ma proprio tutti, nel 1958, ad Arangio (memoria aiutami: era di maggio)
in occasione di una delle sue venute a Napoli per lo studio delle tavolette
cerate ercolanesi in una sala del Museo Nazionale. L'incontro avvenne in casa
mia, ove Arangio soleva alloggiare nelle sue trasferte napoletane, e durò non
meno di tre ore, forse piú. I nostri giovani si affollarono curiosi e reverenti
tutti nella mia stanza di studio o alle porte della stessa e Lauria li presentò
uno ad uno al maestro. Arangio, ch'era assiso sull'unica poltrona di riguardo,
li fece accoccolare l'un dopo l'altro accanto a se su un sediolino di legno
impagliato che avevamo portato via dalla camera dei bambini, ed a ciascuno
chiese amabilmente dei suoi studi, prodigando elogi, consigli,
osservazioni, ricordi personali, facezie e fumando ininterrottamente le sue
sigarette preferite, che erano le Papastratos. Le tavolette di Ercolano
(delle quali, ricordo per incidens,
ho già fatto cenno in questi Trucioli
4 [2001] 34 ss.) vennero da lui ampiamente citate, ma non furono al centro
della conversazione, anche perché non era ancora avvenuto il fortunato
ritrovamento delle tavole di Murecine, che avrebbero interessato in seguito
prima Bove e poi l'attivissimo Giuseppe Camodeca (quest'ultimo allora per
tali studi «nondum natus» ).
Si
parlò. insomma, di tutto un po', mentre mia moglie provvide a distribuire
tutt'intorno tazzine su tazzine di caffè ben ristretto. Molti dei presenti,
notando che Arangio il caffè lo sorbiva senza zucchero (o, come
impropriamente si dice, amaro) e già sapendo che senza zucchero lo gustavamo
tanto Lauria che io (il primo avendo adottato quest'uso per imitazione di
Arangio ed io avendolo adottato a mia volta per imitazione di lui), si sentirono
in dovere di non addolcire le loro tazzine con lo zucchero, di cui pure la
zuccheriera era colma. (Fecero bene, del resto, dal momento che il caffè al
naturale aiuta i buoni giusromanisti ad esser tali e dissuade i cattivi
dall'insistere in studi che non sono e non devono essere
zuccherosi).
Basta.
Tutto andò a finire, prima o poi, cosí. Ormanni, come ho già detto, emigrò a
Roma. Bretone e tirelle si spostarono come incaricati a Bari. Casavola, che era
stato dapprima accanto a noi, trovò il suo vero maestro nell'appartato (ma non
assente) De Martino, del quale divenne assistente ordinario. Di piú: nel corso
del decennio conquistarono meritatamente la cattedra prima Bonifacio, poi
Amirante e finalmente lo stesso Casavola. Insomma le cose, con mia grande
soddisfazione, ci andarono bene. Poi scoppiò, quasi d'improvviso, la
bufera.
7. Mi
sono spesso chiesto, e torno a chiedermelo ancor oggi, se proprio la riunione
del 1958 in casa mia non fu alle origini di un lento cambiamento dei rapporti di
Mario Lauria non solo con me ma persino con Arangio: cambiamento che assunse
caratteri di evidenza, se ben ricordo una data che non amo ricordare, nel
1961.
Io
ignoro, e naturalmente mi sono sempre astenuto dal chiedere, se Lauria ne
abbia mai dato diffuse spiegazioni a quelli che furono in seguito i suoi piú
stretti assistenti e che piú tardi, quando egli nel 1977 è andato fuori ruolo,
sono passati ad essere gli assistenti che ho preso in carico diventando suo
successore nella cattedra di Diritto romano e lasciando la cattedra di
Istituzioni agli allievi frattanto sopravvenutimi col passar degli anni. Si
tratta, parlo dei nuovi assistenti alle Pandette, di persone tutte sempre
rimaste al vecchio maestro fedelissime e tutte divenute in breve a me
dilettissime (e a me anche, ne sono sicuro e mi consola molto, fortemente
affezionate: Franco Amarelli, Pina Mengano, Etty Palmesano, Mena
Tramontano). La mia ipotesi, che è stata frutto di ripetuti esami di coscienza,
parte da una data precisa, quella della morte di Siro Solazzi, avvenuta il 30
novembre 1957.
Era un
freddo mattino del successivo primo dicembre. La salma, nella modestissima casa
di via Luigia Sanfelice al Vomero, era stata composta e vegliata nella notte
dalla moglie e da un paio di nipoti accorsi dalla cittadina natale di Jesi, in
provincia di Ancona. Di estranei alla famiglia eravamo sul posto solo Lauria ed
io, essendo De Martino trattenuto a Roma (o almeno cosí credevamo) dai suoi
impegni politici. Il compito di accompagnare i resti mortali al cimitero di
Poggioreale e di procedere agli altri tristi adempimenti del caso ce li
assumemmo noi due. Furono ore di malinconia e di squallore durante le quali io
cercai di dominare l'emozione quasi sempre tacendo, mentre Lauria per
l'agitazione fortissima quasi sempre parlò. Parlò fittamente di Solazzi,
delle sue opere, delle sue ferme convinzioni socialistiche, di vari episodi del
passato che gli tornavano alla mente. Ma in realtà (ed ebbi il torto di
ascoltarlo distratto) parlò di se stesso e della nuova via di ricerche che
aveva da poco intrapreso e riversato, in prima approssimazione, in un corso
a stampa dal titolo Ius: visioni romane e
moderne (1956). Il suo assillo era che Solazzi, essendo ammalato, non avesse
potuto leggerlo con la necessaria attenzione e che il maestro Arangio-Ruiz, cui
aveva inviato già da tempo il volume, non gli avesse ancora detto o scritto
quale fosse il suo parere sulle tesi da lui sostenute. Eppure non si trattava di
un libro qualunque. Vi aveva impegnato tutto se stesso e lo aveva dedicato, per
omaggio supremo, alla moglie Adelina nella ricorrenza delle nozze
d'argento. Che piú?
Non
starò qui a discutere, e neppure ad esporre, la teoria (del resto notissima)
dell' «ordo iuris» di Lauria, la tesi
cioè che tutti gli scritti giuridici e paragiuridici romani si conformarono per
forza di tradizione ad un unico e solo sistema espositivo. De Martino
commemorando Lauria la ha qualificata arditissima, ma, direi io, arditissima o
ardita non è la tesi. Se si guarda bene, lo è l'intransigenza con cui
Lauria, dal 1956 in poi (particolarmente nella terza edizione del 1967,
attentissimamente curata dalla Tramontano), ha inteso dimostrarla palmo a palmo,
riducendo al minimo i casi talvolta evidenti di deviazione dall'ordo iuris che risultano dalle
fonti ed elevando al massimo gli indizi talvolta evanescenti dell'aderenza
fedele di molte opere e compilazioni a quell'ordine sistematico. Sin da
principio io ho accompagnato il mio personale apprezzamento dell'ipotesi di
fondo (che supera attendibilmente la tradizionale distinzione tra sistema
civilistico e sistema edittale, per non parlare anche del cosí detto sistema
istituzionale) con la franca opinione, che infastidiva visibilmente Lauria,
secondo cui essa era da ritenersi applicata dai giuristi e paragiuristi romani
in modo molto piú elastico di quanto egli non ritenesse.
Comunque,
non fu certo il mio parere ad avere troppo peso ai suoi occhi. Molto piú
importante, e quindi deludente e sgradito, fu per lui il parere negativo di
Vincenzo Arangio-Ruiz quando questi si decise, dopo molto esitazioni, ad
esprimerglielo con la franchezza un po' spiccia dell'antico maestro verso
l'allievo (peraltro intanto cresciuto) di una volta. Lauria se ne dispiacque al
punto da sentire come irreparabilmente incrinato il legame che lo teneva stretto
ad Arangio. E molto significante il fatto che, quando nel 1964 Arangio mori,
egli fu tra i pochissimi a non accorrere ai suoi funerali, a non telefonare, a
non mandare nemmeno un telegramma. Del resto, poco piú tardi rifiutò anche
di fare del maestro la commemorazione solenne nella Società Nazionale di
Scienze, Lettere ed Arti, adducendo confusamente la scusa di averlo già
sufficientemente commemorato in aula ai suoi
studenti.
La
rottura ufficiale almeno con me, avvenne, prevista sí, ma non cosí aperta e
rude, nel 1961. In modi piuttosto singolari, Lauria comunicò non solo agli
stupiti colleghi della Facoltà, ma anche direttamente agli studenti, con un
avviso manoscritto inserito in una bacheca del corridoio, di non avere piú
nulla da spartire con me e di disapprovare a priori qualunque mia iniziativa
accademica e didattica. Ciò si tradusse in pratica nelle sue dimissioni
dalla direzione di Labeo, nel suo
ritiro dal Circolo giuridico, nella interruzione del suo apporto alla
costituzione del nuovo Centro di studi romanistici (il futuro Centro
internazionale Arangio-Ruiz) che andavamo faticosamente organizzando,
nonché nel togliere il saluto sia a me e sia all'innocente Casavola (ritenuto,
in un primo momento, mio complice).
Ovviamente
io non reagii né in pubblico né in privato: sia perché i maestri vanno sempre e
ad ogni costo rispettati, specie se tuttora amatissimi; sia perché speravo che,
come in tante precedenti occasioni, l'incidente fosse passeggero. Ma
l'incidente stavolta non fu passeggero e la rottura persisté sul piano
formale per la durata di trent'anni, insomma sino alla morte di lui nell'ultima
sua abitazione di via Monteroduni, anche se non rare furono le volte in cui,
credendolo rabbonito, gli chiesi sommessamente udienza per farmi perdonare.
Carattere, diciamo pure duro carattere, quello di Lauria. Temperamento che
non mi sento peraltro di deplorare, anche perché ho piena consapevolezza di
avere anch'io un carattere molto difficile, specialmente per quelle che mi
sembrano (e forse, chi sa, non sono) questioni indefettibili «di
principio» e perché non mi sfugge il ricordo di essermi comportato, in
altre occasioni e con altre persone, sia pure con maniere meno clamorose,
piú o meno duramente come lui.
8. Solo
una cosa mi preme di aggiungere, in sincera coscienza e per chi sia disposto a
credervi. Nella realtà dei fatti, cioè che al di fuori dalle apparenze
esteriori, il rapporto di amicizia tra me e Lauria ha continuato a fluire
ininterrottamente alla guisa di quei fiumi della petraia del Carso che a un
tratto si insinuano sotterra. Scomparsa per vecchiaia l'adorabile zia
Margherita, i contatti sono stati tenuti, tra noi, fittissimi, per mezzo della
signora Adelina. Non vi è stato evento lieto o triste mio e della mia famiglia
cui la coppia Lauria non abbia di cuore partecipato. Non vi è evento lieto o
triste dei Lauria cui non abbiamo partecipato di cuore mia moglie ed io.
Sconvolgente fu per noi il giorno in cui ci sedemmo accanto a loro nella Chiesa
dell'Ascensione a Chiaia, ai funerali del loro giovanissimo nipote, figlio di
Maria Cristina, che era rimasto vittima di un'escursione
subacquea.
Dopo
che l'eroica Maria Cristina, reagendo alle sventure della vita, fu assunta come
dipendente nell'Istituto di Scienza delle Finanze, mi feci in quattro per
vincere le difficoltà burocratiche e per farla passare al Centro Arangio-Ruiz,
di cui ero direttore (mai una volta arrivò fuori orario, si sottrasse ai suoi
doveri, apri bocca per un pettegolezzo). E quando Maria Cristina decise, ormai
ben piú che quarantenne, di conquistare lei stessa quella laurea in
giurisprudenza che al figlio era stata interdetta dal fato, ci
impegnammo tutti noi della cattedra di Diritto romano (anzi non tanto io,
quanto i vecchi assistenti del padre) nell'incoraggiarla e accompagnarla
lungo il faticoso cammino. Il giorno in cui fui relatore della sua tesi in
diritto romano, ed espressi in pubblico la mia ammirazione per la sua indomita
costanza, tra gli astanti scorsi in aula, seminascosti, anche loro, i due ormai
vecchissimi genitori.
Avvenuta
la proclamazione e a chiusura di seduta, quando mi svestii della toga e uscii a
mia volta dall'aula, i due Lauria erano ad attendermi in corridoio. Lui si tenne
ad una qualche distanza da me, fissando burberamente una finestra. A
ringraziarmi per entrambi mi avvicinò, fortemente commossa,
Adelina.
«Presenti
i miei omaggi al Professore», le dissi. E le baciai devotamente la
mano.
1.
"La science du siècle passé, en optant pour une composition exclusivement
patricienne des curies, a fait un mauvais pari qu'elle a perdu'. Questa
forte e recisa affermazione, relativa alla ricerca giusromanistica del secolo
XIX, fu fatta da André Magdelain nel 1980, in un articolo (come al solito,
affascinante di nitore e di impeto) che si rilegge immutato, con altri, nella
raccolta dal titolo Ius Imperium
Auctoritas (1990, 471 ss., ma v. anche 423 ss.). Il Magdelain non solo
ribadisce la tesi di una composizione esclusivamente plebea della curiae in età regia, ma sostiene con
molto vigore, o almeno con molta sicurezza, che la tradizione canonica sul
«passaggio rapido» della monarchia alla repubblica non sia contestabile. Salvo
che (egli precisa) la «logique institutionelle» esige che la tesi sia
corretta in vari punti molto importanti, sopra tutto per ciò che riguarda il
suffragio universale. Il quale avrebbe caratterizzato la prima repubblica per
tutto il quinto secolo, anche se non piú dopo.
Esula
da questa nota (la quale riprende e corrobora osservazioni già espresse nel
1985 in Atti Acc. Pontaniana 65 ss.)
l'intento di discutere punto per punto le ipotesi del Magdelain, come pure
quello di contestare le opinioni diverse dalle sue e diverse tra loro stesse che
sono state piú recentemente avanzate, a sostegno (ma sino ad un certo punto) del
racconto tradizionale, da S. Tondo, da E Serrao e da altri studiosi. Per quanto
mi riguarda, non penso di dovermi discostare dalle impostazioni difese in
precedenti scritti (spec. Le origini
quiritarie [1975] e La rivoluzione
della plebe [1976], ma v. anche PDR.
3 [1984] 20-146). Saranno «scommesse perdenti», ma continuo a
credervi.
Continuo
a credervi perché, me lo si conceda, il Magdelain e cosí gli altri generosi
neo-difensori ad oltranza della tradizione romana, sono manifestamente
scommettitori che puntano su scommesse da definirsi, quanto meno, molto
rischiose.
2. Si
guardi, per esempio, all'argomento principe (un argomento che sembra aver
fortemente impressionato anche j. Heurgon) su cui il Magdelain fonda la sua
congettura della esistenza del suffragio universale nel quinto secolo, cioè
nel tratto di tempo che va dalla rivolta di Bruto e Collatino sino, quanto meno,
alla fondazione della ventunesima tribù territoriale, la Clustumina:
fondazione che sarebbe avvenuta, secondo lui, non nel 495, ma dopo il 426, cioè
dopo la caduta di Fidene. L'argomento è questo. Il giorno della sconfitta
dell'Allia, cioè il 18 luglio (387 a.C.), «dies religiosus s'il en fut», è segnato
nei Fasti Antiates Maiores come C,
come giorno (fastus) adatto ai
comizi. Ciò dimostrerebbe che quel giorno era già comiziale, dichiarato tale dai
decemviri in sede di codificazione del calendario, quando si verificò la
sciagura dell'Allia. Dunque solo successivamente dovette avvenire la
proclamazione del «tabù» in ordine a quell'infausta
ricorrenza.
Potrei
rispondere, tra l'altro, che il 18 luglio era religiosus anche a causa della
ricorrenza della strage dei Fabi al Crémera (cfr. Liv 6.1.11; Macrob. Sat. 1.16.23) e che la battaglia del
Crémera si svolse, secondo la leggenda romana, nel 477 a.C., anteriormente
dunque alla presa di Fidene ed anteriormente al decemvirato legislativo
(451-450 a.C.). Ma mi sembra piú solida un'altra obbiezione. I dies religiosi di antichissima origine
(ad esempio, quelli «quibus mundus
patet», di cui in Fest. 144.14 L.: 24 agosto, 5 ottobre, 8 novembre) non
erano connessi alla distinzione tra dies
fasti e dies nefasti e potevano ben essere dies comitiales. In essi era solo
vivamente sconsigliato, per iniziativa del senato, di svolgere attività
pubbliche e private di una certa rilevanza, sempre che non si presentasse
una «ultima necessita s» (Fest. 144,
146 L.: «nihil eo tempore geri voluerunt; itaque per
eos dies non cum hoste manus conserebant, non exercitus scribebatur, non comitia
habebantur, non aliud quicquam in republica, nisi quod ultima necessitas
admonebat, administrabatur»).
Nozione, questa, non del tutto certa, ma abbastanza
sicura.
Non è
azzardato, ciò posto, basare sul dies
Alliensis un argomento di importanza decisiva per la dimostrazione che
già nel sec. V a.C. almeno dopo le XII
tabulae, funzionavano in Roma (cosa in cui continuo a non credere) i comizi
elettorali?
3.
Ancora. A mente del Magdelain, dopo la caduta della monarchia i comitia curiata divennero assemblea
votante, comprensiva di tutto il populus Romanus Quiritium, ad eccezione
peraltro dei patres, che
deliberavano separatamente in senato. Ma come la mettiamo col numero pari, e non
dispari, delle 30 curiae, tanto piú
che al Magdelain sembra essenziale un numero dispari di unità votanti per
assicurare in ogni caso la maggioranza dei suffragi?
Sarà
anche vero che il senato si riuniva contemporaneamente ai comitia curiata (nella curia Hostilia, se l'assemblea era
convocata nel comitium; nella curia Calabra, se l'assemblea era
convocata sul Campidoglio). Ma la delibera del senato era una delibera di valore
diverso da quella dei comitia curiata.
Era, piú precisamente, una delibera di auctoritas di quel voto che il Magdelain
suppose fosse espresso dai comitia.
Se quindici curie dicevano sí e quindici curie dicevano no, è poco credibile
che la delibera dell'assemblea senatoria (nell'uno o nell'altro senso)
intervenisse con i caratteri del voto decisivo di una sorta di trentunesima
curia. Basta pensare che i patres
votavano una dichiarazione di auctoritas, esattamente dello stesso
tipo, anche in ordine alle delibere dei comitia
centuriata.
Quanto
ai comitia centuriata, il Magdelain
non solo è sicuro che essi ebbero sin dagli albori della repubblica attribuzioni
deliberanti (a prescindere dalle funzioni di carattere militare). Egli
sostiene altresí che la originaria classis di ottanta centurie di
fanteria (cui si aggiungevano diciotto centurie di equites) fu incrementata dalle
altre classi, per un totale di 195 centurie, nel corso del quinto secolo,
instaurandosi in tal modo una stretta corrispondenza con il numero delle
venti tribú, almeno sino a quando non fu creata la tribú Clustumina. Solo il totale di 195
avrebbe garantito una maggioranza di 98 (la metà piú uno delle centurie).
Per il che, rifiutando il totale di Dionigi e Cicerone (193), nonché quello di
Livio (che pare di 194), il Magdelain assegna il rango di centuria votante anche
alla misteriosa centuria procum
patriciorum (composta, a suo dire, dagli ex-consolari) e sostiene altresí
che la centuria dei proletarii
(diversa da quella degli accensi
velati) avrebbe garantito
la partecipazione di tutti i cittadini, compresi quelli privi di mezzi
economici, all'assemblea.
E
un'ipotesi ardita di cui, francamente, non capisco la necessità. Primo,
perché con la prima classe e con gli equites votavano «ab antiquo» le due centurie dei fabri (per un totale di 100
centurie) e le altre classi di fanteria erano chiamate l'una dopo l'altra
al voto solo successivamente e in caso (improbabilissimo) di bisogno. Secondo,
perché nella lontana eventualità di una parità di voti (per un totale di
centurie uguale a 194) la votazione
poteva essere rinnovata.
4.
Singolare
è che, nella sua ricerca di una centonovantacinquesima centuria dei comitia centuriata, il Magdelain non
abbia dato alcun peso alla misteriosa centuria «Niquis scivit», di cui fa parola,
rifacendosi probabilmente alla solita fonte originaria del verboso e arruffato
Varrone (sul quale v. le mie citate PDR.
3.146), Festo (184 L.). La
singolarità consiste, a mio modo di vedere, nel fatto che egli (Ius etc. 426) considera questa centuria
come votante, sí, ma al di fuori del totale 195, cioè con carattere
sopranumerario. Vi avrebbero votato, secondo lui, coloro che avevano omesso
di partecipare al voto dentro la loro propria centuria. In essa, insomma, des
négligents trouvaient une solution de secours» ed anzi, forse, ve n'erano sino a
cinque: una per ogni classe.
La
questione merita di essere trattata piú da vicino, tanto piú che, or non è
molto, C. Nicolet (Les listes des
centuries: la pretendue centurie `niquis scivit", in MEFRA. 113 [2001] 723 ss., spec. 728 ss.) ha sostenuto che la centuria «niquis scivit», creata forse da una
misteriosa legge del sec. Il a.C., sarebbe stata una centuria chiamata a votare
per ultima (nell' improbabilissimo caso che ve ne fosse stato bisogno) e
composta da coloro che avessero avuto demeriti comportanti l'esclusione dal voto
nell'interno delle loro proprie centurie. Quando è cosí, rileggiamo anzi tutto
il testo festino.
Fest.
(184 L.): "Niquis scivit" centuria est,
quae dicitur a Ser. Tullio
rege constituta, in qua liceret ei(us) suffragium ferre, qui non tulisse in sua,
nequis civis suffragií iure privaretur: nam sci scito significat sententiam
dicito, ac suffragium ferto, unde scita plebis. Sed in ea centuria, neque
censetur quisquam, neque centurio praeficitur, neque centurialis potest esse,
quia nemo certus est eius centuriae. Est
autem niquis scivit, nisi scivit.
Mi si
corregga se sbaglio. Se Festo dice «niquis scivit centuria est», ciò impone
di credere che, almeno nella sua immaginazione (e prima ancora in quella di
Varrone), il «quid» in esame era
materialmente una «centuria»
dell'assemblea comiziale, nel senso di reparto dei comitia centuriata, e piú precisamente
di reparto costituito da persone aventi diritto al voto ed effettivamente
votanti fuori dalla centuria loro propria («qui non tulisse in
sua»).
Non
vedo, tenuto conto di ciò, come possa sostenersi col Nicolet che coloro che vi
erano raccolti fossero privi del diritto di votare e che tuttavia, proprio in
casi estremi di maggioranza non raggiunta, essi, acquistando il diritto di voto,
fossero chiamati a concorrere con un voto centuriale. La legge che avesse
introdotto questa norma contraddittoria sarebbe stata certamente citata (quanto
meno come «monstrum») dalle fonti. E
non vale appigliarsi, per sostenere l'ipotesi, alle dichiarazioni di Livio
(1.43.10), di Cicerone (rep. 2.39,40)
e dello stesso Festo secondo cui nell'assemblea centuriata nessuno era
privato del sufragium, essendo ovvio
che il riferimento valeva per la categoria degli individui riconosciuti
capaci di votare, in quanto liberi, cittadini e aventi diritto (per esempio, in
quanto infrasessantenni). D'altra parte, come era mai possibile che si
formulasse un voto centuriale nell'ambito di un'accolta di persone prive di un
centurione che le mettesse in fila, che ne raccogliesse il voto individuale e
che riferisse il risultato finale? Non è proprio Festo, nell'ultimo periodo, ad
implicitamente escludere che dalla centuria «niquis scivit» fosse espresso un
voto?
Ecco
perché io direi che non soltanto l'ipotesi del Nicolet vada messa da parte, ma
che regga poco o nulla anche la supposizione del Magdelain, secondo cui la
nostra centuria aveva carattere puramente sussidiario del complesso di centurie
dei pedites o addirittura di
singole classi dei pedites. La cosí
detta centuria «niquis» non era una
centuria votante, ma era una
ripartizione materiale del comitium,
una centuria in senso improprio,
una sorta di «sala di aspetto» in cui si sistemavano a titolo provvisorio gli
«sbandati», vale a dire i cittadini giunti in ritardo alla convocazione generale
oppure incerti circa la loro centuria di appartenenza. Cittadini in attesa di
essere chiamati, in seguito a secondo appello, ad aggiungere il proprio
voto a quello degli altri membri della centuria votante di loro legittima
spettanza.
5. Ma
torniamo ai comitia
curiata.
Secondo
il Magdelain, l'originaria composizione esclusivamente plebea degli stessi
sarebbe comprovata dal fatto che non risulta dalla tradizione romana che la
plebe si sia mai agitata per farne parte. L'argomento peraltro è assai fragile:
non solo perché non risultano nemmeno aspirazioni esplicite dei patrizi ad
èssere ammessi a quei comitia, ma
anche perché i plebei facevano parte dell'organizzazione centuriata
patrizio-plebea e perché essi tendevano ovviamente a creare una propria
autorevole assemblea (quale divenne quella dei concilia plebis) per opporsi al
patriziato. Posto che i patrizi non avessero fatto parte «ab origine» dei comizi curiati, ben
difficilmente i plebei avrebbero concesso agli stessi, creandosi la repubblica,
di entrarvi.
Ad ogni
modo, se si vuole ammettere che con la fondazione della repubblica sia riuscito
ai patrizi di intromettersi nei comitia
curiata, come può poi sostenersi dal Magdelain che la prima
designazione dei tribuni plebis,
quella del 494 a. C., sia avvenuta nel seno delle trenta curie? Anche se
qualche fonte antica sembra dirlo, è evidente che la notizia è frutto di una
confusione e che i tribuni plebis
(ancor prima della iniziativa di Publilio Volerone, nel 471, di farli
eleggere dalla plebe in ben ordinati concilia tributa) sono sorti da riunioni
di plebei avvenute al di fuori dei comizi centuriati (sia che si ritengano
questi esclusivamente patrizi, sia che si ritengano essi composti da patrizi e
da plebei).
La
scommessa del Magdelain è rischiosa, come tutti vedono, anche sotto il profilo
ora accennato. E diventa addirittura disperata, questo sí, là dove il
nostro autore si spinge a sostenere che il plebiscitum Ovinium del 312 circa, alle
soglie dunque del terzo secolo avanti Cristo, con l'invitare i censori a
scegliere i senatori «ex omni ordine»,
ma «curiati~ (cfr. Fest. p. 290
L.), avrebbe implicitamente escluso dal senato tutti i patres che precedentemente lo
componevano (e che, come abbiamo visto, non facevano parte delle curie). Appio
Claudio, dunque, togliendo di mezzo nel 312 un gran numero di senatori in carica,
non avrebbe fatto (in una col suo collega di censura Caio Plauzio) una «infamis atque invidiosa lectio», come
dice Livio (9.29.7), ma avrebbe scrupolosamente applicato il plebiscito
(ponendo con ciò, senza volerlo, le premesse di una successiva entrata nei comitia curiata anche dei
senatori).
Tesi,
questa, che non spiega peraltro come mai il collegio censorio, pur avendo
operato nel giusto, fu talmente oppresso dalla disapprovazione popolare, che i
consoli del 211 annullarono il suo
operato (cfr. Liv. 9.30.1-2 e 9.46) e lo costrinsero a
dimettersi.
6.
«Tutto
quello che riguarda le origini degli ordinamenti romani è pieno di ombra per non
dire immerso nelle tenebre, il che non ha mai impedito di svolgere indagini
ardite, che spesso hanno avuto a loro fondamento solo una ipotesi». Cosí, lucido
come sempre, il compianto collega e amico Francesco De Martino, a
conclusione di una sua rassegna del 1980 sulla storia dell' «equitatus» romano (ora in Diritto economia e società nel mondo romano
2 [1996] 281 ss.). Di
ipotesi, sopra tutto in ordine alla piú antica storia di Roma, non possiamo fare
a meno. Ma dobbiamo renderci conto che esse sono soltanto ipotesi e che le
ipotesi nostre non ci autorizzano a proclamare inconsistenti e vacue, salvo
eccezioni, le ipotesi altrui.
III. -
LE PARI OPPORTUNITÀ E L'ANTICO
1. Dopo
lunga e contrastata gestazione il Parlamento italiano ha partorito il 20
febbraio 2003 una legge costituzionale integrativa dell'art. 51 della Carta
costituzionale. Là dove questa già proclamava e proclama che «tutti i
cittadini dell'una e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e
alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza» la nuova legge si è
preoccupata di inserire un comma che specifica essere dovere della repubblica
«promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e
uomini». Forse solo cosí, si è pensato dal legislatore costituzionale, potrà
farsi cessare, o potrà almeno fortemente limitarsi, tra l'altro, la «vergogna»
di un paese in cui solo il 9,8 per cento dei deputati e appena il 7,7 per cento
dei senatori sono di sesso femminile. Pensate, l'ultimo tra gli stati europei,
il sessantanovesimo nel mondo, superato persino dal Mozambico, dal Laos e dal
Turkmenistan.
A mio
avviso, il problema dell'eliminazione delle «disparità» di fatto a svantaggio
delle donne (essendo state ormai, per fortuna, già eliminate le disparità di
diritto) è indubbiamente un problema serio e tuttora ancora lontano dall'esser
stato risolto nel mondo del lavoro. Il nuovo comma costituzionale invece, sempre
a mio avviso, molto serio non è, anzi è piuttosto ridicolo. Comunque,
l'occasione della nuova legge costituzionale mi ha fatto tornare tra le mani
alcuni appunti del lontano 1982, quando fui invitato, nell'ottobre, ad
aprire i lavori del congresso indetto a Perpignano dalla Societé d'histoire des
droits de l'antiquité.
2. In
quell'occasione mi accorsi e dichiarai francamente che parlare del «trattamento
delle donne nei diritti dell'antichità» (tale era il tema del congresso) tornava
estremamente imbarazzante: non solo a causa della somma di esperienze storiche
che bisognava tentare di padroneggiare, ma anche a causa della differenza
d'impostazioni ideologiche che bisognava cercare di superare. Per quanto
riguarda la varietà delle esperienze storiche, basta pensare all'enorme distanza
di tempi e di luoghi che passa tra l'antichità egizia, mesopotamica, babilonese,
ed altre ancora, e l'antichità ebrea, greca, romana, con tutte le implicazioni
che questa distanza comporta sul piano della lingua, della religione, della vita
sociale. Per quanto riguarda la varietà delle impostazioni ideologiche, basta
por mente all'abisso che intercorre tra chi si pone il problema
dell'«inferiorità» della condizione femminile rispetto a quella maschile e chi
questo problema non se lo pone (o comunque non se lo pone abbastanza), con tutte
le implicazioni che questa spaccatura a sua volta comporta sul piano della
dialettica, della polemica e, non di rado, delle
banalità.
Ciò che
sopra tutto impressiona, lo dissi subito, è il repertorio delle
insulsaggini e delle scioccherie che si usano esprimere, dall'una e dall'altra
parte, sulla condizione femminile. E un repertorio sterminato, che va dal
«donne donne, eterni dei» del Barbiere di
Siviglia allo «cherchez la femme» di Alessandro Dumas padre e che si onora
(se cosí si può dire) di firme illustri a bizzeffe. Ricordate Montesquieu, ad
esempio? Il barone de La Brède non si è peritato di affermare, nell'Esprit des bis (parte prima, libro
VII, capitolo XVII), che è contro natura e ragione che le donne facciano da
padrone in famiglia, mentre non è affatto contro natura e ragione che esse siano
a capo di un impero, dal momento che la loro stessa fragilità le porta ad essere
piú benevole e moderate di molti sovrani maschi. E potrei continuare a lungo,
spaziando da Tertulliano a Shakespeare, da Balzac alla de Beauvoir, senza
dimenticare il dissoluto duca di Mantova e le fini allusività gestuali che ai
tipi come lui oppongono le femministe nel nostro secolo.
Mi
limiterò invece solo a due altre citazioni «contemporanee», l'una «contro» e
l'altra «pro», ma entrambe, malgrado il gran nome dei loro autori, a dir poco
sorprendenti. La prima citazione è dell'italiano Cesare Lombroso
(1835-1909), una gloria non facilmente dimenticabile della medicina sociale
del secolo XVIII, il quale definiva la donna (si badi bene: non la donna
anormale, ma quella fisiologicamente e psicologicamente «normale», esente cioè
da tare e devianze specifiche), la definiva, dico, una «semicriminaloide»,
fortunatamente «innocua», caratterizzata da una «ottusità dolorifica darwiniana,
per non dire teologica» e appunto perciò capace, dopo aver partorito con dolore
una prima volta, di ricadere bestialmente in una o piú nuove gravidanze (cosa,
assicurava Lombroso, che l'uomo maschio certo non farebbe). Questa teoria è un
po' rattristante, direi, ma eccone un'altra che in qualche modo le fa da
contrasto. Cito stavolta Moses J. Finley, indubbiamente uno dei piú
distinti storiografi della Grecia e di Roma, il quale dal fatto che la donna
romana non era designata con i «tria
nomina» (prenome, nome, cognome), ma era segnata dal solo nomen gentilizio (Tullia, Terenzia,
Clodia e cosí via) ha tratto la illazione che essa non aveva per i Romani una
individualità propria, ma era considerata dagli stessi una frazione passiva
e anonima del gruppo familiare (dimenticando il Finley, se posso
permettermi di contraddirlo, che il nome proprio e vero dei Romani era
quello gentilizio e che la donna romana conservava orgogliosamente questo
suo nome pur maritandosi e pur passando con ciò a far parte della famiglia del
marito).
3.
Varietà estrema di opinioni, dunque. Vi è però, innegabilmente, un «fil
rouge» che unisce tutti i diritti dell'antichità: un «fil rouge» rappresentato
dalla condizione di inferiorità rispetto all'uomo in cui questi diritti, quale
piú quale meno, hanno sempre posto la donna. Siamo tutti d'accordo, spero,
che la natura, il sovrannaturale e la ragione astratta con questo dato di fatto
non c'entrano, anche se è scontato e spiegabile che a queste sfere
concettuali abbiano largamente fatto capo gli uomini (e le donne) di allora
per darsi un perché del divario. Come storiografi dei diritti antichi noi
dobbiamo aprirci nel sociale, nel reale e concreto delle società antiche, la via
verso la verità piú credibile, o forse dovrei dire meno incredibile, in ordine
alla quasi totalmente concorde misoginia degli antichi ordinamenti
giuridici.
La
spiegazione piú diffusa della diversificazione dei ruoli è quella
socio-economica. Coloro che credono ad una società politica matriarcale che
avrebbe preceduto, nei vari paesi dell'orizzonte mediterraneo, le società
politiche fondamentalmente patriarcali di cui abbiamo notizia sono inclini a
pensare, beninteso con accentuazioni assai varie, che ad un certo momento,
non piú tardi del periodo neolitico, si sarebbe proceduto tra uomini e donne ad
una divisione delle funzioni esplicate nella vita associativa. La divisione dei
compiti sarebbe stata suggerita da una convenienza economica accettata da
ambedue i sessi: gli uomini all'artigianato, alle armi, alla politica; le donne
alla conocchia, ai figli, alla casa. Attuata di comune accordo questa
ripartizione basale dei ruoli, le articolazioni specifiche (dalla
limitazione delle assemblee deliberanti ai soli uomini sino all'esercizio
dispotico del potere familiare da parte del marito) sarebbero emerse a titolo di
naturale conseguenza e tutti sarebbero poi vissuti, come nelle favole, felici e
contenti.
Questo
schema di ricostruzione storica certamente non è del tutto poggiato sulle
nuvole, ma altrettanto certamente è assai fragile, tanto da non reagire a
facilissime critiche. Come mai le donne si sarebbero sempre e dovunque
rassegnate alla totale esclusione dalle decisioni politiche? E come mai esse
avrebbero per di piú accettato anche la subordinazione in casa? La tecnica della
transazione avrebbe dovuto portare, direi, a poteri (mettiamo: quelli
politici) riconosciuti in esclusiva agli uomini in compenso di altrettali poteri
(mettiamo: quelli familiari) riconosciuti in esclusiva alle donne. O aveva
ragione il volgo romano nell'affermare, come riferisce Gaio (1.190), che le
donne sono per loro natura piuttosto facili a farsi infinocchiare («levitate animi plerumque
decipiuntur»), oppure bisogna ritenere che una situazione originaria di
parità tra uomini e donne alle origini delle società politiche e dei correlativi
ordinamenti giuridici non si è mai (o quasi mai: non si sa) verificata. E
siccome alla «levitas animi» del
sesso femminile nessuno può ragionevolmente credere, dobbiamo chiederci se e
sino a qual punto siano credibili le ipotesi dell'originario potere
matriarcale.
4. Sono
teorie, quelle sul potere matriarcale antichissimo, che traggono alimento dalle
interpretazioni dei miti, dalla valutazione critica di piú o meno evidenti
residui storici, dalla comparazione strutturale con società selvagge dell'età
contemporanea. Sui miti e sui «torsi» storici dell'antichità ha fatto
essenzialmente leva l'eminentissimo Johann Jacob Bachofen, l'autore di Das Miitterecht (1861), il quale è
giunto al punto di ipotizzare una legge darwiniana di evoluzione dal
matriarcato al patriarcato. Sull'antropologia strutturale si sono invece
essenzialmente basati l'acutissimo Lewis Henry Morgan, la cui famosa Ancient Society è del 1877, nonché numerosi altri autori: da
Friedrich Engels, nel suo divulgativo Ursprung der Familie, des Privateigentums
und des Staats (1884), ad Henri Lévi-Strauss. Un attento e sottile
interprete della massa di risultati ottenuti da tutti questi studiosi è
oggi, nel campo della storiografia romanistica, Gennaro Franciosi, di cui i
contributi sono notissimi.
Ora,
questo non è il luogo in cui ci si possa intrattenere sul mito delle Amazzoni,
le donne guerriere che usavano gli uomini come schiavi solo per averne figli
(poi li ammazzavano), oppure sulla personalità di Tanaquil, la moglie oculata
che pilotò abilmente il marito Lucumone sino a farlo diventare il re
Tarquinio Prisco. Questi e molti altri racconti consimili hanno
probabilmente un fondo di verità, ma è impossibile precisare il «quantum» di questa verità e piú
impossibile ancora (se cosí si può dire) è l'individuazione del «quid» di quella verità. Sono miti
derivati in linea retta da certe situazioni primordiali o sono miti creati «a
dispetto», cioè in linea di misoginia? Quanto alle risultanze dell'etnologia e
dell'antropologia strutturale, sarebbe ovviamente da sciocchi non tenere nessun
conto del matriarcato degli Irochesi del Nord America e della famiglia «punàlua»
in uso presso certe tribú hawaiane, ma è molto dubbio che queste consuetudini
siano state tutte correttamente interpretate ed ancora piú dubbio è che esse
siano vincolanti per l'interpretazione delle labili tracce di somiglianza
che si ravvisano, aguzzando gli occhi ben bene, nella tradizione e nel
vocabolario di popoli antichi ed in particolare del popolo romano. Per esempio,
sarà pur vero che nelle tribú irochesi del secolo scorso l'appartenenza erga omnes della terra (cioè la
proprietà della stessa) spettasse alle donne e che all'accordo tra le
matrone fossero rimesse la scelta dei capi-tribú e la decisione di fare o non
fare la guerra, ma è sintomatico che i capi-tribú erano maschi e che la caccia e
la guerra erano fatte solo dagli uomini.
Vi è di
piú. È curioso, per non dire altro, che, pur trovandoci noi di fronte ad
ordinamenti giuridici fioriti (alcuni prima ed altri dopo) in un arco di tre,
quattro, cinquemila anni, in nessuno di essi la supposta organizzazione
matriarcale ci si manifesti con i connotati minimi della storicità. Tutto ciò
invita a pensare, stando almeno allo «stato degli atti», che il matriarcato sia
tutt'oggi soltanto un'ipotesi vaga e che forse si sia dato
irriflessivamente veste di residuo del matriarcato delle origini al fatto che
negli ordinamenti antichi, ivi compreso quello romano, sempre ebbe rilievo,
accanto alla discendenza in linea maschile, anche la discendenza in linea
femminile. Era del tutto ovvio, ad esempio, e non imposto da precedenti di
struttura matriarcale della famiglia, che da molti ordinamenti antichi si desse
rilevanza di impedimento matrimoniale o di incesto alle unioni sessuali tra
parenti in linea femminile. Il principio, o meglio le verità secondo cui «mater semper certa est, pater is est quem
nuptiae demonstrant» non è stato affermato per primo dal giurista Paolo (D. 2.4.5), ma si riscontra già
nell'Odissea (1.215-216), là
dove Telemaco, interrogato sul se sia figlio di Ulisse, risponde cauto: "io non
lo so: nessuno può sapere quale sia stato il suo seme".
5.
Messa
da parte l'ipotesi matriarcale, come pure quella di un'originaria eguaglianza
tra uomini e donne, resta alle origini della vita sociale dei popoli antichi, la
vecchia e sperimentata ipotesi patriarcale, di cui gli indizi sono comunque
molto piú numerosi e molto piú sicuri nei tempi cosí detti storici. Ma
accettare quest'ipotesi ad occhi chiusi non si può. Bisogna spiegarsela con
riflessioni meno superficiali di quelle relative alla ripartizione del lavoro
liberamente concordato tra uomini e donne.
Le
motivazioni specifiche sono state certamente diverse dall'una all'altra
civiltà antica, ed è compito degli specialisti portarle alla luce. A me peraltro
pare, che una motivazione di fondo, approssimativamente identica per tutte le
antiche civiltà, vi sia. La vita sociale, organizzata, fosse essa quella di un
piccolo «clan» o fosse quella di una piú vasta e complessa aggregazione
politica, esigeva in antico un'attività essenziale, tra le altre, che solo
gli uomini erano in grado, per universale convinzione, di svolgere: l'attività
bellica, se non di offesa, quanto meno di difesa. La guerra del mondo
contemporaneo, e piú ancora la guerra che si annuncia per un non lontano
avvenire, è guerra parimenti accessibile ad uomini ed a donne perchè si riassume
essenzialmente in macchine (dalla mitraglietta al carro armato, all'aereo a
reazione, alla bomba atomica) che tanto gli uomini quanto le donne possano,
con eguale perizia e con eguale coraggio, manovrare. Non altrettanto per la
guerra antica, che era una guerra, a dir cosí, fatta a mano, una guerra cui
tornavano necessari sopra tutto gli uomini, sia per la maggiore loro vigoria
fisica, sia per la loro piena disponibilità in tutti i giorni del mese lunare,
sia per l'assenza in essi (millanta anni prima che fosse inventata la pillola)
delle possibili gravidanze, dei parti e degli allattamenti degli
infanti.
6. Sia
chiaro. Io non ripropongo, con queste mie considerazioni, la tesi assurda
della superiorità degli uomini rispetto alle donne. Dico soltanto che nei tempi
antichi, quando si procedette alla costituzione delle società politiche, si
prese atto di differenze appariscenti tra uomini e donne, di quelle che stavano
sotto gli occhi di tutti e che in quelle epoche erano addirittura insuperabili.
Si prese atto della diversità, avviando conseguentemente gli uomini verso
funzioni sociali che inevitabilmente, o quasi, riportarono a posizioni di
prevalenza rispetto alle donne. Solo in momenti successivi queste differenze di
ruoli furono teorizzate con ricorso a cause sovrumane e a cause naturali. Ma è
importante mettere in luce che nessun ordinamento giuridico antico fa
dell'uomo un sovrano di fronte alla donna, nessun ordinamento
giuridico antico considera la donna una schiava
dell'uomo.
Noi non
dobbiamo in altri termini, giudicare le cose alla luce di concezioni e di
aspirazioni contemporanee. Solo partendo da questo punto iniziale potremo
seriamente far storia del trattamento delle donne da parte dei diritti
antichi.
IV -
TITOLI E STILE
1.
Filippo Gallo, concludendo una sua approfondita recensione critica di
un'importante monografia che qui non occorre nominare, ha formulato un «rilievo»
di carattere generale (cfr. Tura 49
[1998, ma 2002] 148 s.), questo. «Il gusto letterario e la ricerca dell'eleganza
non dovrebbero oltrepassare il segno, rappresentato dal carattere tecnico del
discorso giuridico. Titoli quali Metamorfosi e Intermezzo donelliano (il
primo per indicare i mutamenti naturali delle cose e le loro trasformazioni
ad opera dell'uomo ed il secondo per rappresentare il ruolo avuto da Donello nel
passaggio dall'antico al moderno), a mio avviso, lo oltrepassano, se pure
non manca nella tecnica del giurista l'uso della metafora, come quella notissima
delle fonti del diritto, da tempo fatta propria dalla legge in una con
l'implicazione ideologica ad essa inerente».
Francamente,
sono affermazioni che mi lasciano alquanto dubbioso. Capisco l'unità dello stile
letterario, la quale sconsiglia a chi scrive in modo piú raffinato di incorrere
nelle cosí dette «cadute» e consiglia a chi scrive in modo meno ricercato di non
inserire grossolanamente qua e là preziosismi e «cammei». Questo lo capisco. Ma
non capisco tanto bene che vi sia per lo storico, per il sociologo, per il
giurista uno stile «tecnico» da non oltrepassare, salvo che in rari casi di
consolidate metafore. Certo, in un libro giuridico i minori di età non possono
essere bonariamente denominati «picciotti» e i fallimenti non possono
essere decorosamente chiamati «stangate», ma un discorso giuridico ad essi
relativo può essere condotto sia in maniera (faccio per dire) «notarile» sia in
maniera (faccio sempre per dire) «carneluttiana» (allusione, codesta, ad
uno dei piú fascinosi giuristi italiani del secolo scorso, Francesco
Carnelutti). L'essenziale è che si tratti di un discorso aderente al tema
trattato e coerente nella discussione del medesimo. Meglio naturalmente,
tra i due, almeno secondo me, il meno greve ed il piú raffinato
stilisticamente.
Quanto
ai titoli dei libri, degli articoli, dei capitoli o di certe brevi trattazioni
parentetiche (cioè, traducendo dagli originali greci o latini, «interposte» o
«intermezzate»), penso che vi sia libertà di scelta tra quelli lunghi e
circostanziati (eventualmente agevolati da sottotitoli, oltre che dai sommari,
anche detti dai sapienti «abstracts»), e quelli brevi o brevissimi pari ad
etichette di mero richiamo al nocciolo dell'argomento o degli argomenti in
questione. Tanto gli uni quanto gli altri solitamente non bastano a far capire
se il contenuto sia o non sia di interesse dell'aspirante lettore, il cui dovere
è insomma di leggersi attentamente tutto quanto per poi concludere: è buono, è
cattivo, è cosí e cosí. Indico, a mò di esempio, il parallelo tra il pregevole
saggio di G. Bassanelli Sommariva intitolato Costanzo e Costante hanno davvero abolito il
processo formulare? (in RDR. 1 [2001]
estr. p. 9) e l'articolo (non tenuto presente dalla B. S.) di A. Guarino
intitolato Aucupatio syllabarum
(in Mél. Cannata [1999] 167-169).
Il lettore può capire abbastanza facilmente che il tema dei due scritti è
(forse) lo stesso, ma quali siano le ipotesi e le argomentazioni di due autori
non può risultare che dalla lettura integrale degli
elaborati.
2.
A costo
di ripetermi (e nemmeno per la prima volta), il mio gusto personale è sempre e
tutto per lo scrivere breve, ovverossia sintetico e preciso, e per il
titolare brevissimo, ovverossia puramente allusivo e possibilmente allettante.
Mi spiace se spesso non vi riesco (del che mi accorgo, purtroppo, solo
rileggendomi a cose fatte), ma mi spiace ancor piú se talvolta i lettori (o
alcuni tra gli stessi) pensano che io abbia lavorato in fretta, cioè senza
completo esame e riesame di fonti e di bibliografia e magari volgendo a
scherzo argomenti secondo loro degni di abito scuro come ad un funerale. Quando
si è trattato di corsi di lezioni, di esposizioni manualistiche, di prolusioni
accademiche o di discorsi solenni (per esempio, commemorazioni), non ho mancato
ovviamente di adottare toni e titoli adeguati alle relative contegnose
usanze, ma quando non si è trattato di dover soddisfare queste esigenze, ebbene,
spesso ho preferito, entro (spero) i limiti del buon gusto, servirmi di una
breve "etichetta» di richiamo (magari anche, perché no?, del tipo un po'
solleticante di Ausonío "ab urbe
condita", oppure di Galba von
Berlichingen). C'è del male in tutto
questo?
Dicevo
poc'anzi dei «sommari» che agevolano la lettura. Non mi smentisco, ma tengo a
precisare che il sommario, oltre che troppo ristretto, non di rado può essere involontariamente
deviante, visto che la sintesi in cui esso consiste è il risultato di un' interpretazione
del sommarista: interpretazione diligente e onesta quanto si vuole, ma sempre
(debbo proprio citare Gadamer?) soggettiva. E non ci si illuda che il sommario riesca
piú fedele quando sia stato compilato dallo stesso autore. Al contrario.
L'autore è spesso inconsciamente
portato, piuttosto che a riassumere ciò che ha scritto, ad esprimere in breve
ciò che voleva dire, a valorizzare la tesi che voleva sostenere e che (può
darsi) non è riuscito a dimostrare in modo adeguato.
Quando,
tra il 1946 e il 1949, Cesare Sanfilippo ed io mettemmo in atto la formula
innovativa della rivista Tura (il cui
primo volume apparve nel 1950) ci rendemmo conto, nell'apprestare la «Rassegna
bibliografica» del poco affidamento informativo dato da molti sommari
«autoreferenziali» inviatici dagli autori. Sicché, usufruendo dell'aiuto di una
magnifica compagine di giovani ed efficienti collaboratori, quei sommari
pazientemente li correggemmo o addirittura li sostituimmo con sintesi
curate da noi. Altri tempi.
3.
Posso permettermi un «finale stendhaliano»?
In una
famosa lettera a Balzac, datata 30 ottobre 1840, il grandissimo Henry Beyle
scrisse (chi sa quanto veridicamente): «Componendo la Certosa, per prendere il tono leggevo
tutte le mattine due o tre pagine del Codice Civile, in modo da essere sempre
naturale». Dico la verità. Mi chiedo, nel mio piccolo, se, per essere meno
fastidioso e saccente nel parlare della stipulatio e affini, io non abbia fatto
male, molto male (come tanti altri miei colleghi, del resto) a trascurare una
letturina quotidiana della Chartreuse de
Parme.
V. -
NESENNIO APOLLINARE
1. La
vecchiaia, si sa, piú procede in avanti verso l'inevitabile «exit» e piú suscita ricordi dei tempi
passati. Ogni occasione è buona per rammentarsi di particolari sempre piú
minuscoli della vita trascorsa: particolari spesso piacevoli e soddisfacenti, ma
talvolta anche sgradevoli o purtroppo addirittura vergognosi. Tutto
sommato, è un bene. Aiuta ad ingannare utilmente l'attesa, specie quando induce
ad esami di coscienza. Il guaio è che i vecchi difficilmente se ne stanno
zitti. Parlano, anzi non è raro che siano piuttosto loquaci. Sicché va a
finire che annoiano non poco coloro che sono tenuti dalle circostanze ad
ascoltarli. Meglio, molto meglio, se essi riversano le loro reminiscenze in
documenti, cioè in scritti che si possono tanto leggere quanto, come questo,
cestinare.
Ebbene,
cestinate pure. Ecco, in iscritto, il ricordo, o piuttosto la serie di
ricordi che mi sono stati del tutto innocentemente occasionati da Leandro
Polverini con un suo articolo, al solito precisissimo, intitolato L'impero romano: antico e moderno (in Antike und Altertumswissenschaft in der Zeit
von Faschismus und Nationalsozialismus, ed. Text
and Studies in the History of Humanities 1 [Cambridge
2001] 145 ss.). Il
saggio tratta degli accostamenti fortemente positivi all'impero romano del
cosí detto «impero fascista» cui, furono indotti, tra molti altri, tre
eminenti antichisti italiani di generazioni diverse: Ettore Pais
(1856-1939), Luigi Pareti (1885-1962) e Mario Attilio Levi (1902-1998). A tal
proposito esso non solo ricorda che «la riapparizione dell'impero sui colli
fatali di Roma» fu proclamata via radio alle piazze d'Italia da Benito Mussolini
il 9 maggio 1936 con un martellante discorso pronunciato dal famoso balcone di
Palazzo Venezia, ma mette anche in luce che ben presto segui l'allestimento a
Roma, nel Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, di un'imponente "Mostra
augustea della Romanità", durata dal settembre 1937 al novembre 1938 e
dedicata al bimillenario della nascita di Augusto (23
settembre).
Naturalmente
il discorso del 9 maggio 1936 (aveva allora quasi ventidue anni) me lo ricordo
bene e, mi si perdoni, non mi vergogno affatto di dire che mi esaltò. Esso
seguiva di quattro o cinque giorni un analogo discorso vespertino, sempre via
radio, con cui Mussolini aveva annunciato la presa di Addis Abeba e la vittoria
delle truppe italiane nella guerra di Etiopia. L'entusiasmo in Italia era stato
enorme, coinvolgendo (è bene sottolinearlo) molti, ma molti antifascisti nella
generale soddisfazione patriottica di aver riscattato un passato coloniale
inglorioso, quello segnato dalle umiliazioni inferteci dall'etiopico «ras»
Menelik, e di essere riusciti a superare l'ostacolo oppostoci dalla Società
delle Nazioni e delle «sanzioni» pretese contro di noi sopra tutto da due paesi
super-colonialistici, cioè dalla Francia e dall'Inghilterra. Facile, oltre che
doveroso in ogni senso, dire oggi, a colonialismo superato, che il
corollario della fondazione dell'impero italiano in Etiopia (non in Italia,
intendiamoci) era press'a poco una burletta. Ma i tempi erano quelli dell'impero
britannico sulle Indie messo su sessant'anni prima (1876) dal fantasioso
Beniamino Disraeli per compiacere la vanità della regina Vittoria. Chi
sdottoreggia «ex post» su certi fatti
e su certe epoche cerchi di tornare a calma. Prima di pronunciare talune severe
condanne storicizzi, storicizzi.
2.
Comunque non è il 9 maggio 1936 che mi sta a cuore. Mi sta a cuore, «hic et nunc», la Mostra augustea della
Romanità perché l'ho percorsa, dall'entrata all'uscita, piú volte e perché
almeno una volta l'ha visitata, pur essendo antifascista integrale, il mio
austero maestro Siro Solazzi.
Per
quanto riguarda me e vari milioni di italiani in bolletta (oppure risparmiosi)
che non risiedevano nella capitale, la cosa è facile da spiegare: le
biglietterie ferroviarie offrivano un forte sconto a chi, recandosi a Roma in
andata-ritorno, accettasse di recarsi anche alla Mostra e vi ci facesse timbrare
in uscita il biglietto di ritorno. Ma per Solazzi, ch'era cosí sprezzante del
regime fascista in vigore? Piú facile ancora, almeno per chi abbia avuto l'onore
di conoscere da vicino l'uomo. Egli alla Mostra vi si recò, «una tantum», di proposito, sia
pure approfittando di non so quale visita da fare alla Biblioteca Vaticana,
proprio allo scopo di constatare da vicino, di «toccare con mano», come era
dovere dell'uomo di scienza e in particolare del buon giusromanista, a qual
punto e con quali argomenti si fossero spinti gli organizzatori nell'esaltazione
dell'impero di Augusto e nell'audacia del parallelo di esso col giovane
«impero» coloniale di marca fascista.
Quando
tornò a Napoli, Solazzi era veramente soddisfatto. Incontrandosi con Francesco
De Martino e con me, suoi devotissimi allievi, elencò una per una tutte le
minchionerie storico-politiche rilevate nelle sale della Mostra.
Innumerevoli. Particolarmente interessato fu De Martino, piú anziano di me di
sette anni ed in procinto di presentarsi al concorso per la cattedra, il quale
era allora appena emerso dallo studio della costituzione augustea. Meno
coinvolto ero io, che avevo appena pubblicato un volume sulla «collatio emancipati», mi trovavo
agli inizi delle indagini ben poco imperiali sul cosí detto «beneficium competentiae» e mi accingevo
a recarmi con una borsa di studio presso Paul Koschaker a Berlino. Senonché
toccò proprio a me di essere maggiormente colpito da una delle esecrazioni del
maestro: il quale aveva appuntato che in una delle sale della mostra erano
affastellati sulle pareti i nomi dei grandi giureconsulti romani e che tra
questi nomi era stato immesso, non si capisce perché, quello di un certo Nesennius Apollinaris, che giurista di
vaglia certamente non era.
Nesennius
Apollinaris? Guarda
guarda, io, povero pivello agli esordi, questo personaggio lo conoscevo, anzi lo
avevo proprio tra le mani nelle vesti di interrogante del giurista Paolo nel
libro 14 delle quaestiones (cfr. D.
42.1.41 pr.). Tirai febbrilmente fuori dalle mie carte la scheda del passo in
cui Nesennio figurava e la mostrai a Solazzi.
«Sí»,
mi rispose benevolo, «lo conosco naturalmente anch'io», e mi citò a memoria
anche uno o due altri testi e le questioni relative. «Tuttavia» aggiunse,
«essere un interrogante non significa essere un giureconsulto». Io tacqui e
pensai, almeno per un momento, che alludesse a me. Ma, per vero, il maestro era
del tutto incapace di sinuose allusioni e diceva sempre, per sua natura,
direttamente, pane al pane e vino al vino. Solo che qualche volta, «pietatis causa», taceva e in
quell'occasione omise appunto di rivelarmi che di Nesennio Apollinare si
era già personalmente occupato, con riferinento a D. 27.1.32, in un contributo del 1920 (La conferma del tutore nel diritto
romano, ora in Scritti di diritto
romano 2 [1957] 297 ss., particolarm. 308 ss.): cosa che scopersi a distanza
di venti anni, ma che avrei potuto sapere sin da allora se avessi consultato la
voce dedicata a Nesennius Apollinaris
da A. Berger in RE. 33.1 (1936) 69 s.
3.
«Quandoque bonus dormitat Homerus», anche
se non è proprio il caso di indignarsene come Orazio (Ars poet. 359). Nel suo scritto del 1920 (cfr. 309 nt. 35) il Solazzi aveva omesso di citare,
tra i quesiti posti da Nesennio Apollinare, giusto quello risultante da D. 42.1.41 pr., mentre aveva aggiunto
essere Nesennio uno «scolaro di Paolo» che «amava discutere le questioni
relative ai pupilli».
Non so
dire, e non credo che importi, se Nesennio Apollinare fosse davvero un discepolo
del giureconsulto e se questi ne fosse il «maestro». Certo è solo che egli era
in corrispondenza, probabilmente da lontano (cioè per lettera) con Paolo,
mentre azzardata (e comunque qui irrilevante) è la proposta del Mommsen (Dig. ed. maior 2.541 nt. 2) di correggerne il nome in «Nasennius» e di farne un possibile
discendente lontano di quel C. Nasennius da Suessa di cui parla Cicerone in una
sua lettera a Bruto (1.8: cfr. F. Miinzer, in RE. sv.). Nella Palingenesia iuris civilis di O. Lenel
(1889) l'ordine dei passi, entro i 26 libri quaestionum di Giulio Paolo, è
il seguente: 1274 (lib. I = D. 3.5.33), che comincia con «Nesennius Apollinaris Tulio Paula
salutem»); 1339 (lib.
VI = Vat.
227 = D. 26.2.30), che comincia con un
incompleto (?) «Apollinaris Paulo»; 1343
(lib. VII = D. 27.1.32),
che comincia con «N. A. Tulio
Paulo»; 1391 (lib. XV = D. 42.1.41), che comincia con un «N. A.»; 1404 (lib. XVII = D. 35.2.22), che comincia con un «N. A. Tulio Paulo» (seguito da: «Ex facto, domine, species eius modi
incidit»).
L'esame
di questa piccola serie di quaestiones
contribuisce anzi tutto a gettar acqua sul fuoco di una troppo netta e
radicale differenziazione, nell'ambito delle opere di casistica della
giurisprudenza classica, tra libri
responsorum (relativi a casi reali) e
libri quaestionum (relativi a problemi realistici, ma formulati
artificialmente). Basta badare al numero 1404, ove piú chiara non
potrebbe essere l'induzione dell'interrogante ad esplicitare la quaestio derivandola da un accadimento
reale. Non solo. L'esame della piccola seria contribuisce anche a chiarire
che i grandi giuristi non rispondevano solo alle domande «vive» poste loro dai
clienti ed alle quaestiones loro
prospettate a voce dai discepoli che li circondavano quotidianamente, ma
esplicavano la loro attività oracolare anche a favore di devoti giuristi minori
(spesso anche ex-discepoli, si capisce) che «esercitavano» la professione in
altri centri abitati e che eventualmente li appellavano per iscritto, in segno
di rispetto, con un «domine».
Senza
insistere qui sul punto (il che mi porterebbe inevitabilmente ad inoltrarmi
nella palude dei libri digestorum,
con particolare riguardo a quelli di Cervidio Scevola: tema su cui, da
ultimo, v. T. Masiello, Le Quaestiones di
Cerv. Sc. [2000] passim), ricorderò a me stesso che ancor oggi non è raro il
caso, specie nell'ambiente universitario, del «riciclaggio», con poche giunte e
varianti, delle stesse e medesime opere di casistica (e in ispecie di certi
«corsi di lezioni») sotto titoli diversi. La vita.
4.
Quanto alla quaestio numero 1391, che
è quella omessa nel ricordo dal Solazzi e viceversa studiata da me, si
tranquilizzi il lettore. Non ho nessun proposito di riesaminarla in questa
sede dopo averla laboriosamente discussa in un articolo Sul beneficium competentiae dell
extraneus promissor dotis", che può leggersi in Festschrift P. Koschaker 2 (1939) 49 ss.
(spec. 67 ss.) e che, al pari di altri connessi contributi monografici su vari
aspetti del cosí detto «beneficium
competentiae», ho omesso di riprodurre, per economia di spazio, nelle
Pagine di diritto romano (v. però
Guarino, La condanna nei limiti del
possibile' [1978]). In questa sede mi è caro solo ricordare che il testo di
Paolo me lo studiai a lungo, insieme con altri ad esso connessi, nell'oasi di
tranquillità che fu assicurata a noi studiosi di diritto romano (tra cui,
ricordo Erbe, Below, Schwarz e il giapponese Harada), nel corso
dell'agitatissimo periodo 1937-38, dal juristisches Seminar dell'Università
berlinese diretto da Paul Koschaker.
Piú
caro ancora mi è ricordare quella sera in cui, trovandomi ospite in casa di
Fritz Schulz, che viveva appartato dall'Ateneo di cui non era piú docente,
Schulz si interessò talmente al quesito di Nesennio Apollinare che mi trasse per
un braccio dal salotto (ove sua moglie e pochi amici stavano facendo un po' di
musica) e mi portò in punta di piedi nell'attiguo suo studio. Sedendosi al mio
fianco dietro alla scrivania, lesse e rilesse quasi famelicamente la scheda.
Anzi, visto che il «casus» era
relativo ad una «delegatio», tracciò
su un foglio bianco un triangolo isoscele segnandone gli angoli con le lettere
indicative delle «dramatis personae»
(delegante, delegato, delegatario) e ritornò per qualche minuto a
comportarsi con me da quell'avvincente esegeta delle fonti che era stato nei
suoi Seminari e che ormai la scomunica politica gli impediva di essere
piú.
Fa bene
all'animo ricordarsi, dopo piú di mezzo secolo, delle figure di siffatti
maestri. E sentirsene come allora, piú di allora,
allievi.
VI. -
PRETESTI
1. «ET
IN ARCADIA EGO». - All'occhio vigile di Mario Bretone (La "cartella rossa", in RG. = Rechtsgeschichte 1 [2002] estr. e nt. 11) non era
sfuggito, naturalmente, il capoverso in cui Cristina Vano, nel suo bel libro
sulla scoperta del Gaio Veronese ("Il
nostro autentico Gaio" [2000] 128 s. e nt. 61-62), parla (e non ne poteva
fare a meno) del «carattere tendenzialmente ipocondriaco» di B. G. Niebuhr:
carattere «ulteriormente oppresso dalle sgradevoli sensazioni destate da un
paese [l'Italia] del quale detestava il clima, il cibo, la gente e del
quale disprezzava studi e costume», spingendosi a dire, tra l'altro, che i moti
antiborbonici del 1820 erano una sorta di «ribellione di negri». Anche a me (Insomma chi era Gaio?, in Trucioli 8 [2002] 18 ss.) le parole
della Vano non erano sfuggite, ma aveva omesso di ricordarle per economia
di discorso. Senonché il Bretone non si è fermato alla prima osservazione ed è
passato ad aggiungere che una singolare affinità fra il negro e il napoletano è
stata affermata, qualche decennio piú tardi, da Victor Hehn (in Reisebilder aus Italien und Frankreich
[1894] 169: edizione postuma rispetto alla morte avvenuta nel 1890): «Der
Neapolitanischer ist von allen Italienern dem Deutschen am fernsten, er ist den
Menschen der tropischen Zone nahezu verwandt».
Eh no,
qui si comincia ad esagerare. Napoletano quale sono, per di piú con un quarto di
fierissimo sangue sannita, sento fremere dentro di me un impulso che
assomiglia molto al «Signore, si ritenga schiaffeggiato». Già si comportò
nobilmente in tal modo, a nome di tutti gli Italiani, il bollente colonello
napoletano Gabriele Pepe nei confronti di Alphonse de Lamartine quando costui si
permise (nel XIII Dernier chant du
pèlerinage d'Harold) di chiudere le sue insolenze su noialtri di quaggiú con
i versi: "Je vais chercher ailleurs (pardonne, ombre romaine!) / des hommes, et
non pas de la poussière humaine": il duello fu celebrato nel 1826 e andò a finire, tanto perché lo si
sappia, con una sanguinante ferita del borioso offensore francese. Magari mi
getterei in un duello anch'io ed a maggior ragione (in nome cioè di tutti i
Napoletani), se il signor Hehne non si fosse dato alla fuga morendo trenta o
quarant'anni prima che io nascessi (e «die Todte reiten schnell», come usano
dire in quei nebbiosi paesi). La sola cosa che mi rimane, prima di chiudere gli
occhi anch'io, è di rendermi conto come mai a certa gente di lassú (non solo dei
paesi germanici, ma oggi anche dei sedicenti «celtici» della italica Gallia
cisalpina) sia potuta venire in mente la seguente baggianata (cito sempre parole
del Hehne): «In der That, wollte man den Bewohner der heissen Zone oder dessen
Urbild, den Neger, nach seiner geistigen Natur genau zeichen, man wurde diese
Natur in dem neapolitanischen Charakter tausendfaltig Ubergangsweise angedeutet
finden». Ove si sostiene, insomma, che i «negri» sono manifestazione primaria e
riassuntiva di tutte le genti colorate dei paesi caldi (arabi, turchi e curdi
compresi: questo è chiaro) e che i napoletani, pur non essendo propriamente
colorati di pelle, sono spiritualmente il limbo che fa da anticamera a quel
mondo pittoresco e civilmente poco evoluto.
Non
replicherò a questi infantili pregiudizi antinapoletani brandendo a difesa i Reisebiicher italiani di Wolfgang
Goethe, che addirittura portarono in esergo (almeno nelle due prime edizioni) il
motto «Et in Arcadia ego». Non
risponderò citando, in particolare, le deliziose lettere da Napoli, alle
quali ha dedicato acute parole di commento il nostro Benedetto Croce (ora in Aneddoti di varia letteratura [1942] XC, 2.286 ss.) e delle quali la migliore
traduzione italiana è certamente quella di un altro nostro, il
meridionalista Giustino Fortunato (1848-1932), e fu pubblicata (si noti
bene) nel 1917, cioè nel pieno della
prima guerra mondiale. Non mi fermerò, ancora piú in particolare, sulle lettere
goethiane del 28 e del 29 maggio 1787, in cui si sdrammatizza e
finalmente si incomincia (superficialmente, sia pure) a capire il complesso
fenomeno della «populace» napoletana costituita dai cosí detti «lazzaroni» (per
i quali rinvio ancora una volta al Croce cit. CV, 2.428 ss.). Nulla di tutto
ciò. Mi limiterò e mi limito, questo sí, ad affermare che non mi offende né
punto né poco l'assimilazione ai «negri» dei «napoletani», cioè della gente del
Sud Italia e della vicina Sicilia.
Alla
base della concezione, ancor oggi largamente diffusa, dei cosí detti «negri»
come selvaggi, come gente di livello civile irreparabilmente inferiore a
quello dei cosí detti «bianchi», sta indubbiamente un torbido e incivile
sentimento di razzismo, che a me personalmente fa altrettanto orrore quanto il
razzismo (che. almeno era aperto e conclamato, non voglio dire leale) di Hitler
e degli sterminatori suoi seguaci.
2.
«THINGS OTHER THAN THINGS». - Nelle settimane natalizie del dicembre 2002
l'autorevole giornale americano Washington Post ha lanciato l'invito ad
astenersi dal distribuire regali festivi che potrebbero essere inutili o di
troppo (cioè già posseduti) per i donatari: meglio dare in dono «cose diverse
dalle cose» («Enough already: giving things other than things»). Ottima idea,
anche se un po' vecchiotta, trattandosi dell'esortazione ad elargire «buoni
acquisto» e simili, cioè titoli di credito o, come dicevano i romani, «tesserae» abilitanti ad ogni sorta di
benefici, anche se consistenti non in cose materiali, ma in prestazioni di
servizi ed altro (acconciatura di capelli, cenetta in un noto ristorante,
lavaggio auto, ingresso al cinema o in discoteca
eccetera).
A
prescindere dalle piccole complicazioni di carattere fiscale che l'adozione del
sistema implica sopra tutto nel mondo moderno (argomento che suggerisco agli
studiosi di diritto tributario), a prescindere dalle analisi giuridiche che
il fenomeno comporta per il mondo moderno piú ancora che per quello antico
(argomento che suggerisco agli studiosi di diritto privato positivo e quanto
meno di diritto romano), a prescindere dalle possibilità di inadempimento della
prestazione da parte del terzo e delle responsabilità civili ed eventualmente
penali relative (argomento che suggerisco a coloro che ambiscono ad un dottorato
di ricerca), a prescindere da tante altre «things» che mi vengono in mente, mi
limito qui solo ad un modesto consiglio derivante dalla mia personale e
sofferta esperienza. Tra le ipotesi di «cartolarizzazione» dei donativi che il
Washington Post formula figura 1' «aliud pro alio» di una squadretta di
esperti che vi venga in casa a «riordinare la biblioteca». Amici, non ne
approfittate.
Vari
anni fa mi rivolsi ad una piccola impresa del ramo affinché i miei libri,
che erano già tutti ordinatissimamente sistemati, me li spolverassero uno ad
uno. Ebbene, non vi dico che cosa ne usci fuori. Non solo quei maledetti
«esperti» trattarono i volumi a interi blocchi, ma disordinarono internamente i
blocchi e spesso li rimisero negli scaffali a testa in giú. Fortuna ch'ero in
piena attività di insegnamento e che ero circondato da un subisso di
giovani e bravi assistenti i quali fecero a gara per rimettermi le cose a posto,
cosí come a lungo si prestarono in seguito, diminuendo peraltro di numero, nel
sistemarmi al posto giusto i nuovi arrivi sopra tutto negli scaffali piú
alti.
Oggi,
lontano come sono dall'Università e dalle vicende accademiche, gli «ex» che
vengono a trovarmi sono pochini, purtroppo invecchiati e inoltre
affaccendatissimi nei loro insegnamenti o in altre professioni. Tutto passa, è
fatale. I nuovi arrivi librari me li sistemo faticosamente, ma ancora
ordinatamente da solo, aiutandomi con una solida scala a bracciuoli che un
collaboratore domestico mi apre e mi sposta pazientemente là dove mi
occorre.
Ce la
faccio, ce la faccio, non ho problemi insuperabili. E siccome sono un
cattivone, quasi quasi regalerò un «ticket» per la squadra del riordino libri a
qualche collega che mi sta meno simpatico, confidando nella sua
ingenuità.
3. IL
METODO E L'ANDAZZO. - L'anno scorso, 2002, fu per me
una
insperata notizia apprendere che la mia Giusromanistica elementare del
1988, pur non essendo (almeno a mia conoscenza) un libro «consigliato» agli
studenti in sede di lezioni universitarie, era andata ad esaurirsi. Non si era
trattato di una grande tiratura, è vero. Ma, insomma, uno o duemila persone
interessate ai problemi del diritto avevano ritenuto non inopportuno fare
la piccola spesa per comprarlo. Accolsi quindi lietamente l'invito dell'editore
ad apprestare una nuova edizione, ed altrettanto lietamente rinunciai pure
stavolta (come già prima) a percepire diritti di autore, purché il prezzo di
copertina fosse mantenuto il piú basso possibile. Senonché, quando mi misi
al lavoro, constatai con un certo disappunto, controllando le mie schede di
lettura, chela mia opericciuola (e cosí dicasi anche dei miei due puntuali
saggi oggi anche raccolti, in traduzione spagnola, nel volumetto dal titolo Sobre la credibilidad de la ciencia
romanistica moderna,
1998) era stata piuttosto
raramente intesa e considerata nella sua funzione critica di alcune tesi
metodologiche sostenute da Max Kaser a partire dal 1967 e riversate (nonché rivedute)
nell'opuscolo Zur Methodologie der
rómischen Rechtsquellenforschung (1972). In altri termini, è avvenuto molto
di rado che le mie considerazioni, quando anche se ne cita il titolo, vengano a
loro volta criticamente considerate. «Criticamente», cioè tanto per essere
eventualmente accolte quanto per essere rigorosamente
respinte.
Tutto
ciò, mi si passi la ruvidità con cui lo dico, non è serio. Non è serio perché la
questione in gioco non è se io abbia scritto bene o male. E invece,
precipuamente, se sia stato del tutto inutile la fatica dedicata da varie
generazioni di giusromanisti dell'Ottocento e della prima metà del
Novecento all'esame esegetico-critico delle fonti
postclassico-giustinianee, cioè di gran parte delle fonti di cui siamo tenuti ad
avvalerci per ricostruire il diritto dei secoli precedenti. La questione è se il
metodo esegetico dei cosí detti «interpolazionisti», cioè di coloro che si
pongono il problema dell'esistenza dei glossemi postclassici e delle
interpolazioni giustinianee, sia o non sia da trascurare o addirittura da
accantonare. La questione è se la giusromanistica contemporanea debba
continuare lungo la strada di quella precedente (sia pure, come è ovvio,
avvalendosi di ulteriori esperienze, riflessioni e cautele) oppure se essa possa
non farlo piú, e considerare come punti sostanzialmente fermi (o comunque molto
raramente discutibili con vero impegno sul piano interpolazionistico) i testi
dei giuristi romani cosí come li si leggono nei Digesta.
Nella
«premessa» del libro sulla Giusromanistica elementare ho scritto
che non avevo la pretesa di ricalcare le orme solenni del Discours de la Méthode pour bien conduire sa
raison et chercher la vérite dans les sciences (1637) di René Descartes. Lo
confermo. Sia chiaro però che non volevo con ciò rinnegare il fondamentale
metodo cartesiano della ricerca scientifica. E tra i quattro principi formulati
da Cartesio fondamentalissimo è quello enunciato per ultimo: «fare in ogni caso
enumerazioni cosí complete e rassegne cosí enerali da essere sicuro di non
tralasciare nulla».
E
faticoso, lo so, ma necessario. Il fatto che col passare del tempo e col
progredire delle ricerche le enumerazioni e le rassegne vanno aggiornate e
perciò si ingrossano non autorizza gli studiosi a mettere da canto le carte
vecchie e ingiallite. Al contrario, la piú attenta ed esperta rilettura delle
vecchie e ingiallite carte può essere spunto per nuove idee. (Ricordo, a questo
proposito, che quando, nel dicembre 1942, mi recai per la prima volta
nell'Università di Catania e vi conobbi personalmente Cesare Sanfilippo, questi
era intento, in una stanza del Seminario Giuridico, a consultare la Magna Glossa nel commento ad un testo
giuridico di cui si stava interessando. «Cosí mi ha insegnato Riccobono», mi
disse).
Metodo,
dunque, metodo. Non si tralasci né il Fabro, né il Cuiacio, né il Beseler, né
addirittura il Guarino. Saranno vecchi, oppure matti, oppure piccoli di
cervello, ma fanno parte di un percorso che non ammette "bypass". Procedere a
balzelloni non è metodo. E andazzo.