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SOMMARIO I. AL CANCELLO DEL GIARDINO II.
SETTE NOTE III.
IL
CLUB DEGLI ANTIPATICI IV.
SPIGOLATURE ROMANISTICHE V.
IL BARBONCINO VI.
LA CASSAFORTE I. AL CANCELLO DEL GIARDINO «Io vidi Otto Lenel per l'ultima volta nella sua
casa di Friburgo, dove ero stato invitato dalla sua amorevole moglie. Il
suo aspetto non era per nulla preoccupante. Solo la sua bocca, un tempo
cosí eloquente, era quasi ammutolita. Parlava di rado, e sempre con poche
parole. Quando mi accomiatai, egli mi accompagnò in silenzio fino al
cancello del giardino e mi diede la mano. Poi mi guardò allontanare
per un po' di tempo. I suoi occhi esprimevano un addio; io lo compresi
bene: era l'ultimo addio». Riporto queste parole della premessa di Federico M.
D'Ippolito al primo volume (p. XXXV ss.) delle Gesammelte Schriften di Otto Lenel, curate in edizione fototipica
(Napoli, 1990-94)
da Okko Behrends e da lui. Le parole costituiscono, a loro volta, la
traduzione in italiano di quelle scritte a ricordo del Lenel da Moritz
Wlassak nel 1935
(Erinnerungen an O. L., in Almanach
Ak. Wiss. Wien 85 [1935]
1-28 estr.), cioè nell'anno stesso della morte di lui. Mi erano sfuggite
(anzi, per essere sincero, non le conoscevo) e mi hanno, dopo tanto
tempo, profondamente colpito. Lenel, nato nel 1849, mori ad
ottantasei anni. Ottantasei. Il solo punto in comune che io abbia,
giunto all'anno duemila, con lui. Ciò mi fa chiedere spesso se non sia
venuto il momento di chiudere bottega. Ma la risposta è, per ora, no.
A parte il fatto che taluni studiosi piú anziani di me, e di me ben piú
validi, resistono tuttora valorosamente sulla breccia, vi è che i miei
interessi sono sempre concentrati sulla ricerca, anche se dal mondo
accademico, come dirò piú esplicitamente in un «pezzo» successivo
(il sesto), mi sono irrevocabilmente distaccato. È vero che i
risultati degli studi che compio sono quantitativamente piú scarsi di
prima (del «qualitativamente» non parliamo nemmeno). È vero che di
essi do conto quasi esclusivamente, in edizioni private, agli amici
che mi restano (o che credo mi restino). Ma «ita
res se habent». Questa è la realtà. I trucioli di bottega, dunque, non mi mancano. Spesso
mi sono dato da fare intorno a un tronco d'albero con l'esito di tirarne
fuori uno stuzzicadenti. Li getto o non li getto nel cestino? Non me la
sento. Li cestini il lettore. Al
quale sottopongo una mia bibliografia a tutt'oggi, facendo seguito a
quella (dal 1937 a parte del 1994) pubblicata in Pagine di
diritto romano (= PUR.) 7
(1995) 305 - 337. Giustiniano in
lingua viva, in
SDHI. 60 (1994) 514 ss. L'enigma
di fondo, in Index 23
(1995) 377 ss. «Voyelles», in
Labeo 41 (1995) 87 ss. «Impact
factor», ivi 139 s. Ciusromanisti
in cerca d'autore, ivi 307 s. Manzoni, chi
era costui?, ivi
433
s. Lord Lovat al
Cremera, ivi
478
s. Maria Cristina
Lauria (ricordo),
ivi 138 s. Tagliacarte, ivi 122
ss.: 1, 6, 13, 14, 18; 287 ss.: 2, 6, 7, 8, 12, 14, 16, 18, 19, 21, 22,
24, 25; 455 ss.: 1, 6, 7, 9, 10, 13, 14, 15, 19, 21. Le casalinghe
secondo Bernardo Tanucci, in Riv. Dir. Civ. 41.2 (1995)
410 ss. Storia del
diritto romano, II.ma ed. (1996), pp. 812. Il diritto. Un identikit (1966), pp. 185. Mecenate e
Terenzio, in
L'incidenza dellAntico. Studi in
rnern. di E. Lepore 2 (1996) 445 ss. (già in Labeo
38 [1992] 137 ss.). La rimozione
del diritto e l'esperienza romana (1: Il diritto secondo Mefistofele; 2:
L'esigenza della rirnoziorte; 3: L'esperienza giuridica romana; 4:
Una pagina di Dickens; 5: La resistibile autorità di Giuliano; 6: La
dissolvenza delle consuetudini; 7: La
soppressione delle leggi; 8: 1 giuristi
e la guerra di Troia; 9: Fuorisacco),
in Labeo 42 (1996) 7 ss. «Regifugium»:
quando e perché», ivi 389 ss. (= I cinque giorni del «iegifugium»,
in Mélanges à la mémoire de
A. Magdelain [19981 197 ss.). Da Teodosio Il
a Giustiniano, in Labeo 42 (1996) 286 s. La
restaurazione di Giove, ivi 132 s. Il diritto
romano del marchese Maffei, ivi 304 s. Quella volta a
Salisburgo (ricordo
di R. Szramkiewicz), ivi 555.
Francesca Bozza (ricordo), ivi 137. Tagliacarte,
ivi 126:
1; 287 ss.: 1, 2, 3, 7, 8, 11, 16, 17, 21, 22, 23, 24; 542 ss.: 1, 5, 6,
8, 19. Equità per il
giudice di pace, in Riv. Dir. Civ. 42.2 (1996)
689 ss. Diritto privato
romano, 11.ma ed. (1997), pp. 1140. L'uso de'
mortali è come fronda», in Ricerche dedicate a E Gallo (1997)
339 ss. Società nel diritto
romano, in Digesto IV,
vol. 14: Commerciale (1997) 310 ss. Arsenico
e vecchi merletti (Centro Arangio-Ruiz, Opuscula
XVI), Napoli 1997. L'esigenza
giurisprudenziale della sintesi e la sua storia generale, in La
codificazione del diritto
dall'Antico al Moderno (1999) 1 ss. (estr. anticipato 1997). «His
master's voice», in Labeo
43 (1997) 70 ss. Il diritto
rornano: eredità da rifiutare?, in Attualità
dell'Antico. Atti del Congresso naz. dellAss. Italiana di Cultura
Classica (1997) 139 ss. (già edito in L'héritage
classique [Aosta 1991) 87 ss. e in PDR.
1 [19931 40 ss.). Lo stufato
all'irlandese (1: Gli
ingredienti; 2:
Discorsi ambigui; 3:
Le esperienze dei medici; 4:
Le oscurità di Papiniano;
5: 1 carteggi privati; 6:
A morte la presunzione inuciana; 7:
Il marchingegno
giurimetrico; 8: Il testamento
del nullatenente; 9:
Il topo di Montmorency), in Labeo
43 (1997) 390 ss. I « Pithanà»
tra Labeone e Paolo, ivi 108
ss. Le fortunose
sorti del diritto romano, ivi 273
ss. Il Kamasutra, ivi 157
s. La partenza di
Enea, ivi
320;
Dormono sulla
collina (ricordo di M. Kaser e G.G. Archi), ivi 495. Tagliacarte, ivi 134 ss.: 2, 6, 7, 8, 10, 11, 14, 15, 16, 21; 298 ss.: 1, 2, 4, 11, 14,
15, 16, 18; 486 ss.: 1, 5, 6. Storia del
diritto romano, 12.ma ed. (1998), pp. 789. Sobre la credibilidad de la ciencia romanistica moderna (riedizione
in lingua spagnola, con prologo di J. Paricio, di: Sulla
credibilità della scienza romanistica moderna, 1971,
in
PDR.
1, 1993, 403 ss., e
Le vie al diritto classico,
1983, in PDR. 1, 1993, 433 ss.)
(1998), pp. 80. I «Libri institutionum» come mezzi di impianto del sapere giuridico in età romana, in Il genere istituzionale e il diritto oggi, Atti della Giornata Lincea in onore di Alberto Trabucchi (1998) 17 ss. Toccate senza
fuga (1: Accordi iniziali; 2: La tredicesima disposizione; 3. Diritto e
politica; 4: Il metodo e il sistema;; 5: La risata sardonica; 6: Accordo
finale), in Index 26 (1998) 1 ss. Capitale Amaurote, in Riv.
Dir. Civ. 44.2 (1998) 157 ss. (destinato a Studi in onore di G. Gandolfi). Il dito sulla
piaga (1: Il dubbio di Tommaso; 2: Labeone «superman»; 3: «Pauli de
iuris et facti ignorantia»; 4: «Aversa sella»; 5: Mecenate marito
disponibile; 6: Tommaso e Bartolomeo), in Labeo 44
(1998)
241
ss. «Romanorum
phoenices» (1: L'«Arabum phoenix»; 2: Il «favor debitoris»; 3: Il
«ius mercatorum»; 4: I Predigesti), ivi 357 ss. (destinato a Mélanges F. Sturm 1, 1999). Il Professore
Serebrjakòv, ivi
414
ss. L'esperienza
romana della repubblica «nazionale», in Oltre lo «Stato»: da
Aristotele ai postmoderni,
Atti del Convegno dell'Ass. It. di Cultura Class. 1996 [Aosta
1998] 71 ss. Presentazione di S. Randazzo, «Leges mancipii». Contributo allo
studio dei limiti di rilevanza
dell'accordo negli atti formali di alienazione (1998)
3 s. Diritto del
presente e diritto del passato, in Labeo 44 (1998) 102 ss. La
Veuve, ivi 154 s. Tagliacarte, ivi 138 ss.: 1, 5, 8, 12, 13, 15; 321 ss.:1, 6, 7, 10; 501 ss: 1, 10, 15. Trucioli di
bottega, 1 (1: Trucioli di bottega; 2: «Ultima Thule»; 3: La «Madeleine»;
4: La professione e i mestieri; 5: Olympia 193E 6: La locandiera in
tribunale; 7: 1 Lanzichenecchi a Roma; 8: Lo «scoop»; 9: Il
giuridichese; 10: Lettera in una bottiglia), ediz. f. c., Napoli 1999, pp. 41. Trucioli di
bottega, 2 (1 : L'io virtuale; 2: «My Country»; 3: Sette note; 4: La
sceneggiata; 5: «Uti legassit»; 6: Il meridiano del caffé), ediz.
f. c., Napoli 1999, pp. 47. Labeone
e il labeonisrno, in Règle et pratique du droit dans les realités
juridiques de l'Antiquité (Soveria
Mannelli 1999). «Aucupatio
syllabarum», in
Mélanges C. A. Cannata (Neuchàtel
1999).
«Obligatio est iuris vinculum», in SDHI. 65
(2000) (destinato a «Vincula iuris». Studi in on. di M. Talamanca).
II. SETTE NOTE 1. La legge di Gresham. Sir
Thomas Gresham (1519-1579), consigliere finanziario della regina Elisabetta e banchiere di
grande fortuna, è passato alla storia per avere, tra l'altro,
formulato la famosa «legge» economica che porta il suo nome: «la
moneta cattiva scaccia la buona». Semplice: se sono in circolazione
monete metalliche aventi lo stesso valore nominale ma un diverso
contenuto di «fino» (cioè di oro o di argento), è inevitabile che la
gente avveduta tesaurizzi le monete di maggior valore intrinseco e che
sul mercato si diffondano le monete con minore contenuto di metallo. Sir Thomas espresse la sua legge allo scopo di segnalare il danno che sarebbe derivato all'economia pubblica dal trionfo della moneta cattiva e di auspicare una rigorosa osservanza della cosí detta moneta buona. Ma naturalmente non tutti si preoccuparono, come egli si preoccupò, della congruità del valore intrinseco con quello nominale. La moneta cattiva continuò ad avere fortuna, malgrado la spiacevole conseguenza di un correlativo rialzo dei prezzi dei prodotti immessi sul mercato o, quel che è peggio, di un correlativo scadimento della qualità, a prezzi invariati, di quel prodotti. Io temo fortemente che l'attuale moltiplicazione
degli atenei, o sedicenti tali, che va verificandosi di questi tempi in
Italia sia, sul piano analogico, una piena conferma della legge di
Gresham e delle sue conseguenze peggiori: quelle di deterioramento dei
prodotti culturali che quegli atenei immettono sul mercato. Non mi
fermo sugli aspetti miserevoli o addirittura grotteschi del fenomeno: li
ha colti in pieno, tanto per fare un nome, il giornalista Gian Antonio
Stella sul
Corriere della sera del 20 febbraio 1999 (e in una puntuale replica del 18 marzo al professore Orazio A.
Barra, «Esperto scientifico dell'Unione Europea e delle Nazioni unite»,
oltre che docente in una delle tre Università della Calabria). Nemmeno
mi fermo sul fatto che la facoltà pressoché immancabile nei nuovi
atenei (e in istituzioni superiori che prima non ne erano fornite) è
la facoltà di giurisprudenza, nella quale peraltro l'insegnamento del
diritto romano è sempre più ridotto e banalizzato. Mi fermo invece,
non so dire se con dolore o con vergogna, sulla costatazione che tutti
questi nuovi atenei, ai quali si aggiungono talune scuole private di «preparazione»
agli esami, sono entrati tra loro in concorrenza sempre piú aperta
ricorrendo perfino a spazi pubblicitari sui giornali ed a «spot»
televisivi. (I1 vertice, se non mi inganno, è stato per ora raggiunto
dalla pur antica e nobile Università di Macerata con un «dépliant»
vivacemente illustrato e diffuso in almeno un milione di copie come
allegato al supplemento settimanale del Corriere
il 30 settembre 1999. Apprendiamo da esso che Macerata è «una
università su misura», nella quale gli studenti troveranno: «possibilità...
di riprendere gli studi interrotti», un adeguato «servizio di senior
tutor» per prepararsi meglio e «tasse differenziate per frequentare
a tempo pieno o parziale»). Comodità, «tutoraggio», forse anche merendine, coni gelati ed altre piú sostanziose facilitazioni? Non so. So solo che è ovvio che il grosso pubblico, volendosi procurare una laurea o un diploma, non sottilizzi sulla bontà della moneta, anzi risparmi la moneta buona e preferisca la possibilità di ottenere il «titolo» là dove gli si offre di comprarlo con moneta cattiva. 2. Gli epistolari. -
«Caro amico, bene, sono qui a New York. Non ci si sta male. Me la passo
abbastanza bene. Tutto è abbastanza buono. 1 luoghi di ritrovo notturno
non c'è male. Non so quando ritornerò. Come state tutti? Saluti. Tuo
Bertie. - P.S. Da quando non vedi il caro Ted?». La lettera sopra trascritta era il massimo di cui,
per sua stessa ammissione, fosse capace in materia epistolare l'amabile
e svagato Bertie Wooster, alle cui sorti fortunatamente accudiva
l'inimitabile domestico Jeeves. Bertie era un personaggio ambientato da
Pelham Grenville Wodehouse (Curry
on ... Jeeves, 1925, cap. V) nel cuore degli anni venti, quando i
tipi come lui costituivano ancora una rara eccezione all'uso ereditato
dall'Ottocento di scrivere e ricevere, nei rapporti con parenti ed
amici, lettere frequenti e particolareggiate, di cui i destinatari
facevano diligente raccolta e spesso gli stessi mittenti conservavano
le minute o i ricalchi. Gli «epistolari» a stampa che ne sono derivati
non si contano, e molti altri se ne potrebbero pubblicare spulciando ciò
che ancora resta di vari archivi privati. Fu nei dintorni della seconda guerra mondiale che la
prassi delle epistole cominciò rapidamente a decrescere. Il telefono,
le registrazioni di appunti su nastro, la vita sempre piú convulsa
dei tempi e, conseguentemente, una sempre minore disponibilità (e
capacità) ad articolare pensieri e sentimenti. Queste, a mio
avviso, le cause principali. Alle quali si è aggiunto il progressivo
abbandono della scrittura a mano, sostituita dall'impiego delle macchine
da scrivere e dei «personal computer», mezzi meccanici che non di rado
danno fretta al pensiero e impediscono le opportune pause di
riflessione. Fra gli ultimi a cedere siamo stati io e mia moglie quando,
un paio di decenni fa, ci trovammo di fronte ad alcuni voluminosi pacchi
di lettere che ci eravamo scambiate prima da fidanzati e poi da coniugi
tenuti lontani tra loro dalla guerra e quando, pur non vergognandoci
personalmente di tante effusioni e dei relativi ricordi, decidemmo
concordemente di distruggere il tutto acché i nostri discendenti non
sorridessero di noi. (Sapete come sono, questi discendenti). Comunque, questo non è il luogo e il momento per
diffondersi sull'importanza degli epistolari. Mi si conceda solo di
chiudere quest'appunto con una chicca che ho colto nel libro di André
Maurois su Les trois Dumas (1957,
p. 160 s.). Si tratta di una lettera di Dumas figlio scritta all'amico
Henri Rivière 1'11 aprile 1871. Dumas vi racconta, non senza
compiacimento, la prima volta che, a soli diciotto anni, ospitò nella
sua « garçonnière» una donna sposata (signora della quale fa
il nome, contravvenendo, mi spiace dirlo, ai suoi doveri elementari di
gentiluomo). Ebbene, sorvolando sulla contestabile moralità
dell'argomento, ammirate con me, vi prego, come pian piano l'episodio
prenda la mano al narratore portando alla luce, quasi suo malgrado,
l'uomo di teatro e la battuta ad effetto. «Figurez-vous que la
belle Mme ... arrivait chez
moi pour la prémière fois, vètue d'une robe de soie bianche brodée
de bouquets de fleurs, avec l'écharpe pareille et un chapeau de paille
de riz... Elle était remarquablement belle: des cheveux d'or, des yeux
de saphir, de dents de perles, les doits roses recourbés et un petit
bouquet de poils entre les seins ... Pendant nos premiers ébats, la
locataire audessus de moi se mit à jouer du violon. Cette 'belle et
honeste dame', comme disait Brantôme, suspendit alors les mouvements
auxquelles elle se livrait et qui lui étaient familiers, et me dit: 'va
donc en mesure'... ». 3. Alla maniera
di Tacito. - Questa me l'ha raccontata l'indimenticabile amico
Giuseppe Branca, che è stato per molti anni professore di Storia del
diritto romano nell'Università (oggi detta de «La Sapienza») a Roma. Ad uno dei primi corsi del suo magistero romano
assistè in aula la figlia diciottenne. Branca, come di consueto, si
liberò in un paio di lezioni dei re. Altre quattro o cinque lezioni le
dedicò all'ordinamento serviano, alla legislazione decemvirale, alla
costituzione repubblicana. Una lezione per le guerre puniche, un'altra
per il primato di Roma nel Mediterraneo, infine sopravvennero i
Gracchi e su di essi Branca si soffermò una, due, tre settimane. Al che
la figlia, che era di spirito non meno arguto del suo, gli rivelò che
lei e gli altri studenti si erano piuttosto stufati dei due fratelli ed
erano in attesa di sapere che altro successe a Roma dopo quei due. Punto sul vivo, Branca si ricordò della
celebratissima sintesi da Romolo ad Augusto («Urbem
Romani a principio reges habuere rell.») con cui Tacito dà inizio
ai suoi Annali e nelle seguenti tre lezioni (dico tre) espose tutto il
resto della storia del diritto romano sino a Giustiniano. Gettata via
questa ingombrante zavorra, annunciò ai suoi studenti, guardando in
tralice la figlia: «Adesso che ho terminato il corso procederò, a
titolo di esercitazione, precisandovi alcuni interessanti particolari
sui Gracchi. Dovete sapere che, diversamente da Tiberio, Caio Gracco
eccetera, eccetera, eccetera». 4. Professori sterili. -
Il
fatto
che molti docenti universitari, dopo aver conquistato la cattedra,
smettano di produrre scientificamente, o addirittura di tenersi al
corrente degli sviluppi della loro scienza, è un fenomeno largamente
diffuso. Ogni tanto qualche ministro delle Università annuncia che vi
porrà rimedio, non so con quanto senso pratico e con quanta serietà di
intenti. Ma può un individuo giungere all'insegnamento universitario
senza aver scritto sul piano scientifico nemmeno una riga? Vecchia questione. Me la proposi (riproposi) anni fa
nell'accingermi a redigere un «redazionale» di Labeo dedicato ai cento anni dalla fondazione del Bollettino
dell'Istituto di diritto romano,
il BIDR. Per l'occasione presi in mano i primi numeri della
gloriosa rivista ed ebbi a notare che, fra vari dolorosi necrologi di
eminenti studiosi (H. Summer Maine, 1.164; J. Muirhead, N. D. Fustel de
Coulanges, W. Studemund, 2.215 ss.), figurava (2.214) anche quello del
commendator Giuseppe Bruzzo, professore di Istituzioni di diritto romano
(dal 1848) nell'Università di Genova, il quale, «alieno dal pubblicare
i propri studi, stampò solo un discorso inaugurale» per l'anno
accademico 1881-82. Qual'era la piattaforma culturale, almeno ai suoi
inizi, di questo docente? Ed è congruo rispondere ad un quesito del
genere con le parole benevoli che Franco Casavola (Professori
di Napoli 1860, in Labeo 7 [1962] 38) ha
dedicato ad un altro docente privo assolutamente di bibliografia
tecnica, Roberto Savarese (1805-1875),
nominato professore a Napoli dopo la fine del regno borbonico: «all'alto
ufficio civile, che importa la cattedra, si è usato adempiere in altri
tempi veramente insegnando»? Dio mio, del Bruzzo non so, ma del Savarese non mi
sfugge che fu avvocato dottissimo, autore di memorie defensionali a stampa
non esenti da appropriati richiami al diritto privato romano, uomo di
cultura improntata al modello di Vico, riconosciuto come affascinante
maestro di diritto anche da chi tenne cattedre giusromanistiche a Napoli
sul finire del secolo XIX. Se mi sfuggisse, mi rinfrescherebbe la
memoria, arricchendola di altre numerose cognizioni, il libro di Andrea
Lovato su Diritto romano e scuola storica nell'Ottocento napoletano (1999),
ove il Savarese ha larga parte nel capitolo secondo (p.
51 ss.) intitolato
peraltro «Avvocati». Non solo. A onore di Roberto Savarese va
ascritto, almeno secondo me, il fatto che egli rifiutò
consapevolmente il carico dell'insegnamento ufficiale (quello ai giovani
studenti) e chiese e ottenne dal ministro Francesco de Sanctis il titolo
di «professore emerito», che dalle regolari lezioni e dai relativi
esami (per vero, non anche, allora, dallo stipendio) lo esentava.
Tuttavia sono proprio le regolari lezioni, coordinate in un organico e
ben aggiornato «corso», quelle che fanno (o dovrebbero fare) il
professore universitario militante, il cattedratico. O non è cosí? Terminerei il discorso con questo interrogativo, se
Rudolf Jhering non avesse scritto la sesta lettera di Scherz und Ernst (libro che qui mi piace citare nell'eccellente
traduzione italiana di Giuseppe Lavaggi, Serio
e faceto nella giurisprudenza [1953]
111 ss., spec. 124 ss.).
Tutti ricorderanno le ironie dedicate in questa lettera alla
spremitura del già spremutissimo diritto romano, alla grafomania dei «liberi
docenti» a caccia di posti di ruolo, alla sottile esegesi di D.
50.16.135, alla proposta di
istituire un «ius librorum»,
vagamente analogo al «ius liberorum»
romano, da concedere a persone di fiducia purché non scrivano, o
almeno pubblichino i loro manoscritti solo dopo un novennio. In queste
pagine, peraltro, bisogna saper distinguere (impresa, lo riconosco,
non sempre facile) lo «Scherz» dallo «Ernst». Si può non aver
pubblicato nulla (o non aver pubblicato ancora nulla) ed essere padroni
affidabilissimi della materia (ne abbiamo un esempio a Napoli in uno
studioso cui dispiacerebbe di essere qui nominato; ma del quale non
posso dimenticare che, avendogli finalmente estirpata un'ottima «lettura»
su un'edizione di Ausonio per Labeo, mi venne poi a supplicare di distruggerla, quando si era
giunti alle seconde o terze bozze, perché non si sentiva ancora sicuro
di averla scritta a dovere). Ma come si fa a rendere convinto il
pubblico dei «Fachgenossenen» (e quello degli studenti) che la fiducia
nello sterile esordiente non è mal riposta? In certe Università straniere questo sistema lo si
pratica da molti anni e in certe Università o Sub-università o
Para-università italiane (che sono ormai piú di duecento) lo si è
cominciato ad adottare in dosi massicce da un decennio o poco piú. Mi
è consentito dire che non mi piace? Certo che mi è consentito. Tanto
non mi ascolta nessuno. 5. Scaramucce di carta. -
Ho
provato
una certa sorpresa, per non dire altro, nel leggere la nota di Carlo
Augusto Cannata dal titolo Diritto
giurisprudenziale e diritto codificato, pubblicata in Labeo 45 (1999) 240 ss.
Niente drammi, per carità. Sopra tutto trattandosi di Cannata, studioso
egregio che stimo sin dai tempi ormai lontanucci in cui ha iniziato la
sua carriera, e cui ho anche dedicato, in occasione delle onoranze
resegli dall'Università di Neuchàtel, quel poco che ho potuto e saputo
scrivere di mio. Ma veniamo ai fatti. I fatti sono quattro. Primo: in un articolo su Potere
centrale e giurisprudenza nella formazione del diritto privato romano (in
Paricio ed., Poder politico y derecho en la Roma Classica [1996]
69 ss.) Cannata ha ipotizzato una certa «battaglia»
(metaforica) «vinta» da Labeone nei confronti di Augusto, spingendosi
a parlare in proposito addirittura di «certezza». Secondo: nel
settembre 1997
a Messina, in occasione del Congresso SIHDA, io ho svolto una
comunicazione orale, presente in prima fila Cannata, la quale è stata
cortesemente, riguardosamente, ma apertamente critica del suo pensiero
(e non a caso sono poi rimasto dietro al mio tavolo, senza sottrarmi
alle cordialità della sala, in attesa di un'eventuale replica).
Terzo: la sintesi della mia comunicazione, con lo stesso titolo di Labeone superman, era (si sappia) già in via di stampa per Labeo
(44 [1998] 242 ss.)
nell'ambito di un articolo metodologico (secondo il mio
solito, stringatissimo) intitolato Il
dito sulla piaga, ed è perciò che ho rinunciato ad includerla
negli Atti del convegno (pubblicati solo a fine 1999),
ai quali ho contribuito con un pezzo di respiro piú generico dal
titolo Labeone e il labeonismo. Quarto:
nella sua ultima nota Cannata fa presente che la versione 1996
del suo pensiero (quella di cui ho tenuto conto) corrispondeva nel
contenuto ad un contributo pubblicato in Mél.
A. Schneider del 1997, ma non alla «versione definitiva comparsa
dopo poco (il congresso)» in un suo volume (Per
una storia della scienza giuridica europea, 1: Dalle origini all'opera
di Labeone [1997] 316 ss.) che io ancora non conoscevo e che ho poi letto,
non possedendolo di persona, su copia prestatami da un amico. Ciò posto, è comprensibile che oggi, ad inoltrato
anno 1999, il C. si richiami alla sua «versione definitiva» (nella
quale, egli dice, è presente tutta un'analisi dei phitana
labeoniani «che sta alla base di tutta la mia idea e che in quelle
versioni precedenti non avevo potuto inserire per contigenti ragioni
di spazio»). È apprezzabile, aggiungo, che il C. precisi e chiarisca
oggi, con richiamo alla «versione definitiva», la cosa che piú
importa, cioè il suo pensiero sulla labeonica battaglia («anche se
piuttosto sorda che combattuta in campo aperto», ammorbidisce oggi
l'autore). È scusabile, spero, che io mi astenga dall'esprimermi in
questa sede, per contingenti ragioni di tedio, relativamente alle
ipotesi del C. su un tema metodologico (quello della necessità di
sufficienti riscontri testuali nella valutazione, che non sia
iperbolica, di certe luminose figure della giurisprudenza romana),
visto che ad esso ho già dedicato sin troppe pagine in anni passati
(il che risulta dalla mia bibliografia aggiornata al 1999). Ma, «francamente»
per «francamente», non ammetto che certe mie affermazioni, che qui
pienamente confermo (controllare per credere), siano tacciate di «arbitrarie». A me di «arbitrario» non l'ha mai dato nessuno. Io
sono uno studioso serio «quanto basta» (non voglio dire di piú), che
legge tutto con la dovuta attenzione e col debito senso di responsabilità.
Ho polemizzato piú volte, come sfidato e non come sfidante, con
personaggi anche di rispettabile spessore, sempre misurando le parole
e inducendoli, prima o poi, a misurarle con me. È proprio necessario
che giusto con Carlo Augusto Cannata ingaggi oggidí una «battaglia»
(o anche solo una modesta scaramuccia) di carta? No, spero proprio di
no. Non sono Labeone. Perderei. 6. La «brioche» di Maria Antonietta. -
Filippo
Cassola
mi ha fatto dono dell'estratto anticipato di un articolo che apparirà
in Index 28 del 2000. Titolo: Problemi
della tradizione orale. Riferimento: antichità classica, greca e
romana. Trattazione: piana, equilibrata, documentatissima. Orientamento
(da me pienamente condiviso in vari scritti aventi speciale riguardo al
diritto romano): inammissibilità di ogni apriorismo negativo nei
confronti delle tradizioni popolari, anche quando non supportate da
documentazione esteriore. Il tutto all'insegna di un'apertura di idee e
di una disponibilità culturale degne, a mio avviso, del massimo elogio. Mi fermerei qui, lasciando ai lettori il godimento di
una piú attenta lettura, se fossi capace di sorvolare su un particolare
di minima importanza. Non ne sono capace. Eccomi pertanto a segnalare
quanto scrive l'autore a p. 20 (su
nt. 539): «Tutti, credo, abbiamo commesso almeno una volta nella vita un
peccato di concentrazione, attribuendo a Maria Antonietta, regina di
Francia, il famoso detto 'se il popolo non ha pane, mangi brioches'. Queste parole sono citate da Jean Jacques Rousseau, nelle
Confessions (I.
6), come un ricordo di gioventù: erano quindi già note prima che
Maria Antonietta nascesse. Ma l'errore è spontaneo, quasi inevitabile». Errore? Beh, non lo direi con tanta sicurezza. Vero è che il famosissimo detto «qu'ils mangent de la brioche» era già nato e noto prima dei tempi di Maria Antonietta, tuttavia nulla esclude che la regina di Francia possa averlo pronunciato anch'essa. Anzi, proprio perché il detto era già in corso e proprio perché il linguaggio della nobiltà francese era nei riguardi della plebe molto sprezzante (ricambiato, presumibilmente, da un linguaggio della «sans-culotterie» troppo frizzante perché la mia incompleta maleducazione riesca ad immaginarselo tutto), proprio per questo è ben possibile che le parole famose siano veramente uscite di bocca alla regina. Scommetterei che Jean-Paul Marat ne fosse certo,
anche se non so (e non ho voglia di accertare) se ne abbia scritto ne L'ami
du peuple. Escluderei che la fedele principessa di Lamballe abbia
mai ammesso di averle udite, pur se le ha udite, prima della morte
atroce che le fu inflitta nel 1792. Non darei peso,
ovviamente, ai si ed ai no di tanti storici e biografi di terz'ordine
quanto alla verità dell'episodio. La possibilità, peraltro, rimane.
Uno storico avveduto non può escluderla, pur se il suo dovere è di
ritenere importanti cose ben diverse e ben piú gravi che non quelle
famigerate parole. Questo è, del resto, il destino delle frasi celebri.
Piú sono celebri e piú sono ricche di padri, di madri, di avi, di
fratelli e di biscugini. Rinvio, in proposito, a quanto ho scritto nel 1974 in ordine a Scipione Emiliano e a Val. Max. 6.2.333
(nonché ad altre fonti che qui tralascio di citare) in un pezzo
leggibile (ma non dico che ne valga la pena) in PDR. 2 (1993)
428. E voglio aggiungere, prima di chiudere, che quando,
in occasione di una certa mia ricorrenza privata, pubblicai un
fascicoletto destinato agli amici ebbi l'idea scherzosa di apporre in
esergo sulla sua prima pagina un diffusissimo proverbio americano («No
good deed goes impunished»), attribuendolo come detto famoso a tal Ch.
Puget Sound (1787). L'immaginario Puget Sound era il Channel P.S., che
dal Pacifico porta a Seattle, e che fu scoperto appunto nel 1787. Non ci
crederete, ma due o tre colleghi mi scrissero da varie parti del mondo
per contestare che la frase fosse stata detta da Charles Puget Sound e
per sostenere (cfr. Labeo 40
(19941 415) la paternità di altri egregi pensatori. 7. Punti malfermi. -
Nella sua interessante «Opera prima» dal titolo Ad statuam
licet confugere (1999) Richard Gamauf ha adottato il noto sistema di
Gerhard Beseler di eliminare i punti fermi nelle citazioni delle opere
giuridiche romane. Esempio a p. 146: D. 47.10.38 (Scaev
4 reg). In questa «spuntatura» non vi è assolutamente nulla di
male, salva l'occasione che essa mi dà di estrarre dal cilindro
spelacchiato della mia memoria una reminiscenza di gioventù. Nel 1937, ancora fresco di laurea, fui assunto come
assistente nell'Istituto di studi legislativi di Roma diretto dal
professor Salvatore Galgano, cattedratico di diritto comparato
nell'Università (una cara persona, di carattere però molto chiuso e
sospettoso). La sede dell'ente era nel Palazzo di Giustizia (il cosí
detto «Palazzaccio»), piú precisamente nell'ammezzato della Corte di
Appello sita al primo piano. Compito mio e di altri giovani studiosi
di varia estrazione (piú tardi divenuti docenti universitari,
magistrati ed altro) era di curare le numerose riviste di giurisprudenza
comparata che l'istituto pubblicava, provvedendo alle note di commento,
alla «preparazione» dei manoscritti per la tipografia ed alla
correzione delle bozze di stampa (dalle prime alle seconde, alle terze,
alle ennesime) che lo scrupoloso direttore, provocando ritardi su
ritardi, esigeva. Ora, come tutti sanno, il «non plus ultra» della perfezione scientifica e formale era
costituito dalla Zeitschrift fiir
ausländisches und internationales Privatrecht fondata dal grande
Ernst Rabel e questo periodico, non si è mai capito perché, non usava
punti fermi a conclusione dei periodi. Un brutto giorno Galgano,
assillato dalla preoccupazione che le nostre riviste fossero meno
evolute di quelle germaniche, ci convocò tutti a consiglio e, dopo aver
parlato lui solo, decise ad unanimità che abolissimo i punti fermi
anche noi. Ci demmo subito da fare in questo senso, ma è ovvio che,
in quell'epoca di imperante «linotype», le ripetute revisioni di
manoscritti e di bozze implicarono ulteriori ritardi nella concessione
del «si stampi» agli elaborati. Arrivò il giorno in cui tutto il
lavoro sembrò terminato. Senonché, sapete che fece il direttore? Senza
nemmeno riunirci in consiglio, emise un «ukase» personale disponendo, «re
melius perpensa», che i punti fermi fossero tutti quanti
ripristinati. Eseguimmo. Intanto erano passati mesi e mesi ed io decisi di far
punto, non fermo ma fermissimo, col laborioso Istituto. Vinta una borsa
di studio, mi recai a Berlino, ove ebbi l'onore di conoscere
personalmente Ernst Rabel. Furono visite private perché era il fatale
1938. Rabel era stato estromesso dall'Università e si preparava ad
emigrare in America. Parlandomi (notai bene) usava punti, virgole e
tutto il resto. Salvo gli esclamativi, che appresi da lui ad aborrire.
III. IL CLUB DEGLI ANTIPATICI 1. L'ispirazione a fondare un mio personalissimo Club
degli Antipatici mi venne, non so piú in quale giorno o mese del 1938,
da Pier Maria Pasinetti, un colto e ben educato coetaneo che da quell'anno
non ho piú rivisto, ma di cui ho seguito a distanza, per oltre mezzo
secolo, la bella carriera di letterato, di docente universitario di
letteratura italiana a Los Angeles, di elzevirista del Corriere
della Sera e di
autore di romanzi e racconti prevalentemente ambientati nella sua
Venezia. Si era a Berlino, tutti giovani tra i venti e i
trent'anni ivi convenuti per ragioni di studio. Non ricordo se
Pasinetti facesse parte della «sporca dozzina» di alcuni di noi
italiani albergati, in forza di relative borse di studio, nello
Hegel-Haus, un istituto aperto a studiosi (maschi e femmine)
provenienti da vari paesi d'Europa che era sito «am Kupfergraben»
sulle rive della Sprea, proprio di fronte al Pergamon Museum. Non credo.
Non era tipo da partecipare alle chiassose esuberanze di gran parte del
nostro gruppo, specie quando, a sera, sfilavano per il reparto «Herren»
le ragazze in accappatoio allo scopo di andare e tornare incontaminate
nei locali delle docce, che erano comuni. Sta in fatto che quando la direzione, dopo averne
tollerate di cotte e di crude, decise di allontanare la maggioranza
degli «Italiener» e di mettere loro in mano 120 marchi al mese affinché
trovassero altrove un tetto che li accogliesse e un tanto da sfamarsi o
da impiccarsi, i due soli esentati dal bando, per buona condotta,
fummo io e Franco Pierandrei, futuro cattedratico di Diritto
costituzionale a Torino. Non accettammo in segno di solidarietà di
gruppo. Se Pasinetti non fu anch'egli tra i prosciolti, vuoi dire che
allo Hegel-Haus non c'era, perché rispetto a me e a Pierandrei egli
volava per rispettabilità parecchio piú in alto. Dunque, Pasinetti era un tipo poco incline a
sopportare gli esuberanti. Per questo motivo non poteva soffrire, tra
gli altri, Bebé Altavilla, che a Berlino c'era ormai da due anni e si
dava da fare come portaborse e «negro» («Ghost-writer», please) del
locale corrispondente del Corriere
della Sera. Bebé (per i profani Enrico) si era laureato
brillantemente in giurisprudenza a Napoli ed era, tengo a dirlo, persona
a me carissima per la sua intelligenza e la sua cordialità. Ma era
forse proprio la sua cordialità, talvolta un po' eccessiva, a renderlo
sgradito a Pasinetti, cui credo piacesse poco anche l'aria di importanza
che inevitabilmente si dava nel propinarci ogni tanto notizie di prima
mano sulla politica di quei giorni, sui litigi tra Göring e Göbbels e
sulle ultime avventure dell'affascinante Lyda Baawarowa, ch'era di Göbbels
l'amante «en titre». Com'è, come non è, un giorno ch'eravamo tutti
riuniti per una festa alla «Deutsche-italienische Gesellschaft» entrò
in sala Bebé Altavilla, con l'intenzione (gli si leggeva in faccia) di
rivelarci fresca fresca l'ultima novità sulla questione dei Sudeti o
che altro. Pasinetti sbottò, a mezza voce, in un: «Ecco il presidente
del Club degli antipatici». 2. Tutti hanno un nòvero piú o meno vasto di gente
che gli è piú o meno stabilmente antipatica. Questo va da sé. Ma
l'idea di un catalogo, anzi di un «club», di un vero e proprio circolo
degli antipatici mi parve piú ordinata, piú sistematica, piú
rispondente al mio carattere di persona forse apparentemente alquanto
disinibita, ma in realtà ordinatissima, addirittura pignola. «Ogni
posto per la sua cosa, ogni cosa per il suo posto»: questa la mia
divisa. Si spiega quindi perché, qualche anno dopo l'episodio berlinese
che ho raccontato, io mi sia preso il gusto di dar vita concreta al
mio Club degli antipatici. Intendiamoci. Il club è molto esclusivo, molto
riservato e molto aggiornato. Ho detto molto? No, volevo dire
moltissimo. Mi spiego meglio. L'esclusivismo del club è dato dal fatto che non è
facile esservi ammessi. Per entrarvi si può nascere tanto nobiluomini
quanto plebei, ma occorre avere in piú una cifra intellettuale e
sociale di apprezzabile rilievo. In altre parole, i cretini e tutta la
vasta gamma dei loro simili sono rigorosamente respinti. Un cretino non
può essere simpatico o antipatico, è soltanto un cretino. Spesso è un
personaggio importante, addirittura importantissimo (magari un re o un
imperatore oppure, in graduatoria discendente, un ministro, un parlamentare,
un commendatore), ma resta il fatto che non sa di niente. Inoltre il
cretino non reagisce, non si convince, non si oppone, non si appassiona.
Il suo piccolo patrimonio di idee ricevute da antenati o superiori
rimane assolutamente intatto, a meno che i superiori (gli antenati,
ovviamente, non piú) gli impartiscano orientamenti diversi. Il grande
attore-autore napoletano Eduardo De Filippo era solito dire di non aver
paura di stare faccia a faccia con nessuno, salvo che col cretino
(ch'egli, veramente, chiamava il «fesso»). «Cretino si muore» ha
proclamato, dal suo canto, quell'altro principe del teatro e della vita
che è stato (napoletano anch'egli) Totò. Stabilito che per diventare membri del club bisogna
essere persone intelligenti e stimabili, passiamo al requisito della
riservatezza. Molto semplice. La «privacy» dei soci è sacra, tanto
sacra che nemmeno essi sanno con sicurezza di essere eletti. Neanche
sotto tortura ne rivelerei i nomi, anche se talvolta mi tradisce,
purtroppo, il viso: quel benedetto viso troppo trasparente che mi ha
impedito di diventare giocatore di «poker», diplomatico e, per dirla
tutta, amico di tanti notabili che avrebbero potuto essermi utili.
D'altronde, che importanza ha sapere che si è stati ammessi nel mio
club personale e che, insomma, mi si è antipatici? Altro sarebbe se si
fosse antipatici a soggetti ben piú validi e altolocati di me. E poi io
ho il sospetto che essere antipatici (non dico a me, dico a qualcuno)
sia per certi individui addirittura una piccola soddisfazione. Meglio
che niente, vi pare? «Sono antipatico, dunque sono», per enunciarla
approssimativamente con Cartesio. Comunque, è ben difficile che a me si resti
antipatici a lungo. L'esame di coscienza non mi è affatto estraneo.
Pertanto l'elenco dei soci viene aggiornato, con esclusione di alcuni e
con immissione di altri, ogni fine d'anno, tra il 26 e il 31 dicembre.
La durata massima è mediamente un paio d'anni, in capo ai quali mi
accorgo di essermi sbagliato o di essermi totalmente rabbonito, sicché
tutto finisce lí. Unica eccezione è stata quella di tre persone
valentissime, molto note sul piano nazionale, che hanno coperto la
presidenza e le due vicepresidenze del club per oltre un decennio, tra i
'60 e i '70. Ma c'era di che. Erano, ciascuno nel suo campo, troppo
presenzialisti e troppo visibilmente compiaciuti dei loro indiscutibili
meriti per potermi andare a genio. II presidente era un uomo politico
dalle alterne fortune che Indro Montanelli definí efficacemente «il
rièccolo». Dei vicepresidenti, l'uno era un attore prestantissimo e
sciupafemmine noto come il «mattatore», mentre l'altro era un
delizioso e fluido «mezz'ala» di una grande squadra calcistica del
Nord (e della Nazionale puranche) che quando cadeva a terra in partita
per effetto di un ineccepibile contrasto sul pallone (un «tackle»,
come si dice) si guardava attorno dispiaciuto e offeso invece di
rialzarsi e tirare avanti. Altri indizi? Assolutamente no. Silenzio di tomba
(ovviamente, imbiancata). 3. Vorrei mettere bene in chiaro a scansi di
equivoci, che di antipatici sí, ne ho e ne ho avuti, sebbene il numero
accenni fortemente, man mano che la vecchiaia procede, a diminuire. Di
odiosi no. Non ne ho, né ne ho avuto mai nessuno. Non sono un santo,
tutt'altro, ma l'odio non è fatto per me. Posso giurarlo senza incrociare
le dita. Conclusione. Si tolgano dalla testa, i pochi o molti
che mi hanno a loro volta (come li capisco) in antipatia, che io
rassomigli anche da lontano a quel «camorrista» della saga
napoletana, il quale era tanto cattivo da essere chiamato, nello stesso
suo ambiente malavitoso, e non senza un truce orgoglio da parte sua, «Totonno
'o fetente» (Antonio la puzzola maligna). No, non sono assimilabile a
lui. No. (L'ultima su Totonno me l'ha narrata quest'estate, a
Kitzbühel, il mio amico Claudio Carrelli, ingegnere apprezzatissimo e
giocatore di golf insuperabile, nonché griffato sobriamente «Lacoste».
Una volta che un tale, incontrandolo per strada, voltò lo sguardo
altrove per non salutarlo, Totonno si offese a morte e disse ai suoi
seguaci: «Datemi dodici ore di tempo e gli ammazzo 'a mamma». Gli
amici per quanto efferati camorristi, osservarono che questa reazione pareva
loro eccessiva: «Ma come, addirittura 'a mamma?». E Totonno, con
fatalismo euripideo: «Embè, io sono fetente»).
IV. SPIGOLATURE ROMANISTICHE 1. Le «Quinquaginta».-
Il fervore con cui Carmela Russo Ruggeri esprime e difende le proprie
tesi nei suoi studi sulle «Quinquaginta
decisiones» di Giustiniano (1999),
lo dico subito, mi piace. Anche se inevitabilmente comporta qualche
verbosità di troppo, esso dà al libro quel sapore di genuino, di
casalingo, di lavorato a mano che è diventato sempre piú raro in
questa nostra epoca di compassati saggi giusromanistici digitati (e in
parte pensati) al «computer». Valutazioni critiche dell'opera non
sto qui ad esprimerne. Solo una nota sul numero delle decisiones
di Giustiniano: « quinquaginta». Cinquanta, perché proprio cinquanta, possibile che
siano state non piú o meno di cinquanta? A questa pensosa domanda
verrebbe fatto (a un laico, però) di rispondere che, se pure il numero
reale delle decisiones non fu
tondo, generalmente si adotta il sistema di «arrotondare» nel titolo o
nel ricordo, e non se ne parla piú. Per esempio, i «Settanta», cioè
i traduttori in greco del Vecchio Testamento, furono in realtà (pare)
settantadue: nessuno vi ha mai dato peso. E se è vero che nel 1938
fu pubblicata una raccolta di 49 racconti appunto col titolo di Quarantanove
racconti (The first fortynine stories), è vero anche che l'autore
di questa bizzaria, vogliamo mettere?, era Ernest Hemingway, quello di
Fiesta e di Morte nel pomeriggio (per non parlare del resto). Insomma (direbbe
sempre un laico), non facciamo questioni di lana caprina. Il guaio è che le questioni di lana caprina sono la
specialità e la delizia dei «professori», una famiglia di mammiferi
dalla fantasia davvero inesauribile. Indicare un esemplare di questa
genia costa solo l'imbarazzo della scelta. Potrei citare in proposito il
Grossfeld, Zeichen und Zahlen im
Recht (1993) o, relativamente al numero «tre», il Gouldy, Trichotomy in Roman Law (1910)
e il recentissimo contributo alla Fs.
Grossfeld (1998, p.1219 ss.) dei
coniugi Fritz e Gudrun Sturm, Die
Dreiteilung des Code civil (la cui saggia e spiritosa conclusione
è di non concludere e di augurare al festeggiato un «ter
bibe»). Ma ho sotto mano una preda piú facile, il Guarino, da cui
vorrei proprio sapere per quale estrosa sollecitazione mentale egli ha
ripetutamente ipotizzato (in varie edizioni della sua Storia
del diritto romano, nonché in L'Esegesi
delle fonti del dir. rom. 3
[1968] 498 s., pubblicata,
questa, con la complicità di L. Labruna) che i 16
libri del Codex Theodosianus furono, almeno in prima stesura, ripartiti uno
per uno tra i membri della commissione compilatrice, i quali (guarda,
guarda) erano appunto sedici. «Ab
uno disce omnes», come diceva Virgilio (Aen. 2.65 s.). Pfui, passa
via. Quanto alle Quinquaginta,
un «premio internazionale delle fandonie» (se ve n'è qualcuno
disponibile) io lo assegnerei allo Scheltema (citato dalla Russo R. a p.
106 nt. 90), il quale ha pensato che si possa pensare ad una coincidenza
del titolo col compleanno di Giustiniano, di cui fu celebrato il mezzo
secolo «a partire dall'11 maggio 531».
L siccome generalmente risulta che Giustiniano nacque invece l'll
maggio 482, altro congruo
premio lo assegnerei allo Zwalve (citato dalla Russo R. nella stessa
nota), il quale, non potendosi attribuire le Quinquaginta decisiones al
532, ha arditamente sostenuto che Giustiniano non nacque nel 482, ma nel 481.
Anzi, se vogliamo seguire questa strada, un terzo premio ancora piú
corposo proporrei di destinarlo a me stesso per la fuggevole idea, cui
però immediatamente rinuncio, che, salva restando la nascita dell'imperatore
l11
maggio 482, le Quinquaginta
siano state dedicate, nel 531, al cinquantenario del suo concepimento, avvenuto almeno sette mesi
prima della nascita, dunque, ci siamo, in un giorno imprecisato del 481. (A chi sorridesse beffardamente di fronte a questa congettura mi
sarebbe facile replicare che, secondo i principi del cattolicesimo, la
persona umana non ha inizio dalla nascita, ma proprio dal concepimento:
donde la condanna del procurato aborto sotto specie di omicidio). Va bene così? No, forse no. Mi pare di intuire che
molti torceranno il naso. Anche perché, coincidenza per coincidenza,
ve ne una molto piú appetitosa da segnalare: quella tra le cinquanta decisiones del 530
o del 531 (sorvoliamo su
questo punto delicato) e i 50
libri dei Digesta. È
stato l'acutissimo Hofman ad accorgersene ed a giocarci su (in un
articolo significativamente intitolato DieZahlenspielerei
in der Eintlieilung der Digesten e pubblicato in Z.
Rechtsgesch. 11 [ 1874]
342). Ma la Russo R. (p. 105
ss.) si mostra, a mio avviso giustamente (non foss' altro, per
quanto ho già detto io da tempo in Storia
cit. n. 273), molto perplessa di fronte alla significatività della coincidenza.
Secondo lei, infatti, le Quinquaginta
decisiones furono un autonomo codex,
a carattere puramente transitorio, ben distinto dai successivi
Digesta giustinianei, sicché non è pensabile che il numero delle decisiones
sia stato preventivamente commisurato a quello dei libri delle
Pandette. Giusto. Ma sa la studiosa messinese che cosa le
replicherebbe qualche emulo (non io) dello studioso austriaco?
Ribatterebbe che forse non furono le Quinquaginta
decisiones ad essere denominate cosí in vista dei cinquanta libri
dei futuri Digesti, ma furono i libri dei Digesta
ad essere portati ad un totale di cinquanta in omaggio al precedente
autorevole delle Quinquaginta
decisiones. Se solo si pensa che il titolo «De
legatis et fideicommissis», dei Digesti, anziché essere contenuto
in un unico libro, è stato stiracchiato in tre libri (30-32), il gioco
è fatto. Quasi quasi, chiederei un parere su quest'ultima
ingegnosa soluzione al mio immortale amico Rhett Butler, che di giochi
e giochetti se ne intendeva. Ma no, era cosí brusco di modi l'eroe di
Via col vento. Mi risponderebbe come nella scena finale a Rossella
O' Hara: «Francamente non me ne importa un accidente» («Frankly, I
don't give a damn»). 2. Aimez-vous
Propèrce? - Questa domanda ispirata alla Sagan (Aimez-vous Brahms?, 1959) mi è sgorgata dal cuore leggendo, tra i
molti validissimi contributi pubblicati negli atti del XXI colloquio
internazionale GIREA (Femmes-esclaves.
Modèles d'interpretation
anthropologique, économique, juridique,
1999),
un articolo di Antonio Gonzales dal titolo (p. 281 ss.) «Servitium amoris»
et «Meretrix regina» (sottotitolo: Esclavage
méthaforique de l'homme libre: une situation d'inversion).
Anche
un profano intuisce alla prima che vi si cita sopra tutto Properzio,
quegli che definí Cleopatra «meretrix
regina» (el. 3.11.39). Ma si può sapere perché? Intendiamoci. Tra le molte mie ignoranze è difficile
stabilire una gerarchia, ma è fuor di dubbio che Properzio vi occupa
uno dei primi posti. Non solo lo conosco poco, ma lo capisco anche meno.
Anzi, francamente, le sue sdolcinature non mi piacciono. Tuttavia lo
rispetto (ci mancherebbe). E quando lo si tira in ballo cerco di rendermi
conto. Il che, questa volta, malgrado la buona volontà, non mi è
riuscito. Diamine. La figura della schiavitù di amore («servitium
amoris») è una delle più antiche della poesia classica.
Properzio, come è noto, vi ricorre largamente nei confronti di Cinzia
(mi limiterò a citare il conclusivo 3.25.3: Quinque
tibi potui servire fideliter annos) e tutti i critici si sono
limitati finora a dire: «che bello, che bello». Pochi, per quanto mi
risulta, si sono spinti ad esplorare le implicazioni sociologiche e
nessuno, sempre per quanto ne so, ha raggiunto la vetta delle
implicazioni giuridiche prima che vi si aggrappasse il Gonzales. Il
quale (p. 299 s.), posto di fronte a 3.10.15-17 (Et
pete, qua polles ut sit tibi
forma perennis, / inque meum semper stent
tua regna caput), si sente di affermare che da questa invocazione
all'amata «nous pouvons déceler un vocabulaire juridique relatif à la
capitis deminutio maxima», cioè relativo alla perdita della libertas e quindi anche della civitas. Non credo che occorrano commenti a questo modo di
ragionare o, piú precisamente, di mettere parole su carta. Né mi
dilungo sul fatto che nel copioso discorso vengono inseriti, quasi
avessero alcunché di contiguo all'antico mondo romano, anche personaggi
maschili e femminili di due film contemporanei: il Ben-Hur
di William Wyler del 1959 e lo Spartacus
di Stanley Kubrick del 1960 (riveduto nel 1991). Che c'entrano col
nostro argomento la donna amata da Charlton Heston nel primo film (un
film che si rifà, come i due precedenti del 1926 e del 1907, alle
fantasie del generale ottocentesco Lee Wallace) e la Varinia eletta nel
secondo film come sua compagna da Kirk Douglas? E per quanto riguarda
particolarmente Varinia (l'affascinante Jean Simmons), è lecito
chiedere come mai costei, da schiava di Lentulo Battiato che era, sia
diventata liberta (no, non
serva fuggitiva) per il fatto di essere stata rapita a quest'ultimo da
Spartaco? Ad ogni modo, tornando a Properzio, la rilettura
delle sue elegie, che ho puntualmente fatto nell'elaborazione di questa
nota, mi conforta in una convinzione: quella che è temerario
pretendere dal nostro, sopra tutto nei primi tre libri, alcunché di
seriamente riferibile non dico al diritto, ma alla prassi sociale
romana. Ciò anche nei rari casi in cui al giuridico e al sociale egli,
come nella famosa elegia 2.7, formalmente si riferisce. Properzio è un
poeta e soltanto poeta. Forse, a riflettervi meglio, almeno per questo
anch'io, misuratamente, lo amo. 3. «Galba
negabat».- Chi non ricorda la famosa satira di Orazio (1.2,
databile intorno al 40-39 a.C.) in cui il poeta dà il saggio consiglio,
a coloro non sanno fare a meno delle donne, di evitare comunque le
matrone, specie se maritate, per non incorrere, colti in flagrante, in
reazioni e vendette giunte talvolta sino all'estremo «ut quidam
testis caudamque salacem / demeteret ferro»? E chi non ricorda che
Orazio (1.2.44-45)
conclude il quadro «grand-guignolesco» dicendo che tutti
ritenevano giuridicamente ineccepibile anche l'evirazione del
disgraziato amante, ma che Galba no, era di opinione contraria («Iure
omnes, Galba negabat»)? E
chi non ricorda, infine, la vecchia domanda circa l'identificazione del
tollerante Galba? Al problema dell'identità di Galba molti (tra cui mi
metto anch'io) rispondono con un «non
liquet». Ma non mancano coloro che hanno avanzato le piú diverse
ipotesi, a cominciare dallo pseudo-Acrone e da Pomponio Porfirione, che
parlano entrambi di un Calba (o Servio Galba) iuris peritus
o iuris consultus: il
quale, peraltro, essendo un assiduo frequentatore di talami altrui,
non si capisce bene se esprimesse un parere «pro
veritate» o
invece, diciamo cosí, «pro
cauda». Ed ecco ora che Arrigo D. Manfredini (Il responso
«pro aequitate contra ius»
di Galba, in AUFE n. s. 12
[1998] 129 ss.) di ipotesi ne escogita un'altra (se non erro,
nuovissima) facendosi forte, oltre che della pseudo-Acrone, anche di Cic., de orat.
1.56.239-240). Il
Galba di Orazio sarebbe l'oratore Servio Sulpicio Galba, che fu
console del 144 a.C. Vediamo un po'. Che Galba fosse un «matronarum
sectator» lo insinua solo lo pseudo-Acrone (confortato da
Porfirione), ma non darei troppo rilievo alla cosa, essendo presumibile
che egli le sue avventure galanti le avesse avute e le avesse in misura
non superiore a quella di gran parte dei gentiluomini dei suoi tempi.
Che egli fosse poi un iuris peritus (come dice lo pseudo-Acrone), anche se non proprio un
iuris consultus (come si
spinge ad affermare Porfirione), risulta dalle parole messe da
Cicerone in bocca a Marco Antonio dialogante col suo rivale L. Licinio
Crasso nei giorni tra 1'8 e
il 10 settembre del 91. Nel notissimo passo di Cicerone (passo che qui non
trascrivo per brevità) dice Antonio di aver spesso sentito parlare («hoc
saepe audlivi») di un giudizioso parere «pro
aequitate» espresso appunto da Galba in contraddizione col
responso di stretta aderenza al ius civile
che P. Licinio Crasso Muciano, avvicinato da un campagnolo mentre
si trovava a passeggio con lui, aveva dato all'agricoltore lasciandolo
molto poco soddisfatto. All'amico Galba oppose, in riferimento a
quella questione, tali e tanti argomenti analogici ed equitativi da
costringerlo a cambiare avviso e ad addurre a propria scusa l'essersi
rifatto pedissequamente al pensiero di giureconsulti del calibro di
Publio Mucio Scevola, suo fratello di sangue, e di Sesto Elio Peto.
Sorvolando sul particolare di interesse strettamente prosopografico che
il Crasso dell'aneddoto non ha precisamente tutti i tratti di Crasso
Muciano, il «dunque» del passo ciceroniano sta nel fatto che Servio
Galba con l'interpretazione progressiva («pro
aequitate») del diritto ci sapeva fare. L'interrogante di Crasso,
essendo probabilmente rimasto presente a tutta la diatriba, non poté
che esserne arcicontento. Ma da che si desume che la quaestio
attenesse all'adulterio? Solo dall'elegante intuizione del
Manfredini. Il che è troppo poco. Mi si lasci dire. È ben possibile che il dialogo de
oratore, composto nel 55 a.C., fosse conosciuto da Orazio, oltre
tutto frequentatore assiduo di Mecenate. Ma manca ogni indizio che il rusticanus
interrogante di Crasso fosse un compare Alfio pervaso da spirito di
vendetta o un compare Turiddu timoroso per averla fatta grossa. Non
riesco a vedere perché nella sua satira Orazio abbia fatto maliziosa
allusione proprio al Galba ciceroniano. Di più. Il Manfredini asserisce che ai tempi antichi
(ancor piú che a quelli piuttosto rilassati di Orazio) i mariti
inferociti si laticiassero spesso con affilati coltelli su coloro che
avessero cooperato agli adulteri commessi dalle loro mogli fedifraghe:
non discuto. Il Manfredini sostiene altresí che i poveracci colti, se
così si può dire, in fallo riuscissero quasi altrettanto spesso a
sedare i vendicativi mariti con l'offerta di congrue somme di danaro:
non discuto nemmeno questo. Ciò che discuto, anzi ciò che mi
permetto di contestare, è che Galba possa «aver sostenuto che,
almeno in caso di minacciata evirazione, la composizione doveva essere
obbligatoria», cioè che l'offeso non la potesse rifiutare. Insomma i
mariti (cui aggiungerei gli irascibilissimi padri), posti di fronte
all'offerta della riparazione in danaro, sarebbero stati tenuti,
secondo Galba, a riporre momentaneamente i loro coltelli nel fodero,
ad intavolare trattative con l'avversario, magari a recarsi con lui
prima davanti al pretore e poi davanti al giudice o ai recuperatori per
una sorta di processo estimatorio dell'offesa ricevuta. Con la
conseguenza che le armi da taglio si sarebbero potute risfoderare
esclusivamente nell'ipotesi di pagamento non effettuato. No, questo no, proprio no. E vero che lo
pseudo-Acrone, cui il Manfredini si appella, dice che «primo adulterii poena pecuniaria erat», ma il buon uomo asserisce
sconsideratamente qualcosa di troppo perché, se prima della lex
lulia de adulteriis (quella del 18-17 a.C.) fosse stata riconosciuta
questa indulgente normativa, vi è da scommettere che la lex
Iulia l'avrebbe confermata e non avrebbe configurato le ipotesi di
flagranza e di accusatio mariti vel patris che
invece, con evidente sforzo di versare acqua sul fuoco della prassi
prevalente, essa configurò. Quanto alla supposta tesi di Galba, posso dire che è
molto poco verosimile? Se l'offerta di danaro o di altri beni da parte
dell'offensore avesse avuto de
iure un effetto sospensivo della reazione sanguinaria dell'offeso,
solo un idiota o un aspirante suicida si sarebbe astenuto dal farla e
dal rinviare con ciò l'atroce vendetta alla fine di una discussione
pattizia o addirittura di un processo estimatorio. Inoltre, supponendo
che le parti non si fossero messe d'accordo circa la pecunia
doloris dell'offeso e che, instaurato il processo, la condemnatio
pecuniaria dell'offensore non fosse stata onorata in executivis da quest'ultimo, non riesco proprio ad immaginarmi
l'offeso procedere finalmente al taglio che aveva in un primo momento
agognato. Si sarebbe davvero trattato, ai tempi di Galba, di
una sorprendente eccezione all'ormai piú blando sistema esecutivo
della manus iniectio. E, poi anche ad Otello
sarebbero frattanto venuti meno i furori. 4. Il Prefetto
normativo. - Una costituzione di Alessandro Severo, indirizzata
a un tal Restituto e riportata da CI. 1.26.2 sotto la data del 13 agosto
235 (essendo consoli Severo e Quinziano), dichiara: Formam a praefecto praetorio datami, et si generalis sit, minime legibus
vel constitutionibus contrariam, si nihil postea ex auctoritate mea
innovatum est, servari aequum est. Sorvolando il qui trascurabile particolare che il 13
agosto 235 l'imperatore non era piú Alessandro Severo ma era (a far
tempo dal 25 marzo di quell'anno) Massimino il Trace, la «communis opinio», sulle tracce del grande Zachariae von
Lingenthal (Anekdota zum
byzantinischen Gesetzbucht 3
11843, rist. 19691 223 ss.), ha sempre tratto dalla citata
costituzione la ragionevole illazione che già nell'età dei Severi i
prefetti del pretorio fossero dotati di poteri normativi nell'ambito
delle rispettive circoscrizioni. Poteri normativi che peraltro, a
quanto risulta dalle fonti di cui disponiamo, furono esercitati su
larga scala non prima dell'età giustinianea (per il che si vedano
particolarmente Iustinian. CI.
3.1.16, CI. 8.40.27) . Giusto? No, replica Francesco Arcaria (Sul potere
normativo del prefetto del pretorio, in SDHI. 63 (1997) 301 ss.): la
potestà normativa fu riconosciuta ai prefetti del pretorio solo quando
il termine «forma»
assunse il valore (o divenne sinonimo) di editto normativo, solo tra la
fine del V e gli inizi del VI secolo. Prima di allora la parola ebbe
soltanto il senso di istruzione specifica, cioè di epistula
indirizzata a singoli funzionari subordinati. Inoltre l'«et si
generalis sit» di CI. 1.26.2, ove non sia stato interpolato da
Giustiniano, vuol soltanto significare, nel linguaggio di Alessandro
Severo (non in quello di Giustiniano), che le epistulae
prefettizie sono degne di rispetto anche nell'ipotesi in cui vengano
rimesse, in originali conformi, a piú dipendenti (o a tutti), a mo' di
«circolari». Sincerità. La tesi dell'Arcaria è sostenuta con
larga ed esperta dottrina, ma non mi convince. Tutti sappiamo che il
lessema «forma» ha
nelle fonti impieghi svariatissimi (diligentemente registrati appunto
dall'Arcaria), ma tutti dobbiamo convenire, credo, che il significato
basale di «forma» è quello di aspetto esteriore, di manifestazione, di
dichiarazione nei riguardi di un contenuto che può spaziare dalla
volontà negoziale privata alla volontà ordinativa o anche normativa
pubblica. La «forma a praefecto
praetorio data» non può essere dunque intesa che nel senso
generico di «disposizione autoritativa» (concetto ben noto ai
giuspubblicisti) in base ai poteri riconosciuti o accordati dal princeps
al prefetto. Se Alessandro Severo in una costituzione che tutto fa
pensare essere stata pubblicata dalla cancelleria imperiale (le solite
lungaggini della burocrazia) poco dopo l'avvento al potere di Massimino
Trace, ha risposto a Restituto (non ha molta importanza appurare chi
questi fosse) che è equo osservarla «et si generalis
sit», ciò significa che la disposizione di un prefetto del
pretorio era per lui valida, anche quando non fosse specialis», cioè relativa ad un caso specifico, ma fosse relativa
ad un «genus» di casi (quando avesse cioè carattere
normativo), sempre che, beninteso, si mantenesse entro i limiti fissati
dalle leggi e dalle «constitutiones principales».
Attribuire a Giustiniano l'interpolazione di «et si generalis
sit» significherebbe, a mio avviso, privare di attendibilità la
domanda ad Alessandro Severo da parte di Restituto, il quale non poteva
certo nutrire dubbi circa il dovere di obbedienza almeno agli ordini e
istruzioni prefettizi di carattere specifico. Piuttosto, l'«aequum
est» induce a ritenere, come già intravvisto da altri studiosi (in
ultimo dal Pastori, I prefetti del pretorio e l'arresto dell'attività giurisprudenziale, in
SU. 19 11950-511 39 ss.), che una «potestà normativa» non fu
espressamente «concessa» ai prefetti del pretorio né da Alessandro
Severo né dai suoi predecessori, ma germinò, spontaneamente, a poco a
poco, nella prassi dei praefecti
praetorio (e cosí pure di altri funzionari imperiali) a titolo di
conseguenza ovvia dell'importanza sempre crescente attribuita alla
loro carica. Insomma Alessandro Severo si limitò a riconoscere autorevolmente
l'equità della prassi (una prassi probabilmente materiata in edicta).
Cosí almeno direi. 5. Dittatura e
democrazia. - La biografia dedicata da Luciano Canfora a
Giulio Cesare (Roma -
Bari, 1999, p. XV-505) è
poco meno che l'ennesima e vede la luce in un fiorire di altre
biografie, delle quali ho solo notizia, ma non ho esperienza di lettura.
Non importa. Il mio intento non è
di darle un posto in una classifica che sarei assolutamente incapace
di fare, anche perché di classifiche non vedo la serietà sul piano
scientifico. Il mio desiderio è solo di segnalarne la puntualità di informazione filologica, la
scioltezza dell'esposizione, l'equilibrio (per quanto umanamente
possibile) dei giudizi. Quel Giulio Cesare che a Bertolt Brecht non è riuscito di portare a termine, forse anche a causa della
prevenzione che Brecht nutriva per i suoi «affari», è riuscito a Canfora
di scolpire in tutto tondo (e in dimensioni aliene dal ciclopico)
proprio perché l'autore, pur se con qualche comprensibile sforzo, da
prevenzioni di ogni genere è riuscito
valorosamente a prescindere. Leggete il libro (a vostra volta, senza
pregiudizi) e ditemi se non ho ragione. Su un solo punto intendo qui molto brevemente
fermarmi: sulla qualificazione di Cesare, già nel sottotitolo, come «il
dittatore democratico». Francamente, non capisco. Caro alle masse popolari?
Sincero amico delle stesse? Fautore, in visione strategica, di un regime
(dittatoriale) benefico per l'intera comunità repubblicana? Fruitore
di una larga e ben attizzata popolarità di maggioranza al fine di
schiacciare l'oligarchia senatoria? Tutto questo di lui può dirsi e
si è detto (naturalmente da opinionisti diversi). Ma non mi sembra
che sia utilizzabile per qualificare il suo primato politico (la sua «dittatura»,
nel senso oggi corrente della parola) come democratico. Il fatto è
che sul concetto di democrazia non ci si decide mai ad
intendersi. Da secoli. Quanto meno a cominciare dall'antico Platone,
ognuno ha il suo proprio concetto di democrazia (a volte come di cosa
pregevole, a volte come di cosa spregevole) e, senza pòr tempo in
mezzo, lo attribuisce o lo nega alla situazione sociale o al personaggio
politico di cui si interessa. Atene si, Sparta no; Grecia sí, Roma no;
Mario sí, Silla no; eccetera eccetera eccetera. E quando io (in due
saggi del 1947
e del 1967, oggi pubblicati
in PDR. 3 [1994] 428 ss., 437, nonché in un breve volume del 1979) mi sono posto il
problema de La democrazia in Roma (tale il titolo del libretto) ed ho proposto
di non trascurare un certo angolo di osservazione, quello
giuridico-costituzionale, mi sono visto, fatta qualche ridotta eccezione,
o ignorato dai piú (particolarmente dai cosiddetti «storici-storici»)
o messo sollecitamente da altri (forse anche, e ringrazio, «pietatis causa»)
in un fondo polveroso di scaffale. Ora non è che in questa sede io voglia cogliere
l'occasione per ribadire le tesi (meglio, le ipotesi) che ho enunciato
in precedenza. Voglio solo permettermi il rilievo che la democrazia,
comunque la si voglia intendere nei suoi tratti specifici, ha di sicuro
e di innegabile questa caratteristica essenziale: di essere la negazione
dell'autocrazia, cioè del potere costituzionalmente riservato in
esclusiva ad un individuo, ad una famiglia, ad un gruppo sociale, non
solo nel presente, ma anche nella sua continuazione futura (cioè nella
scelta dei suoi continuatori). Se ciò è vero, un «dictator», anche se non a
termine (diciamo: per soli sei mesi) ma a vita (diciamo: « perpetuus»),
è sempre, sul freddo piano giuridico-costituzionale, «democratico».
A qualificarne gli aspetti politico-sociali è meglio (anzi, secondo
me, doveroso) far uso di altri terminii e di altri concetti. Ma vedo che il discorso mi sta portando troppo in là.
Da un lato, al rifiuto della corona regia proclamato da Cesare in
occasione dei I.upercali (15 febbraio) del 44. Dall'altro, all'adozione
(giuridicamente valida?) di Ottavio rivelata, dopo le Idi di marzo
dello stesso anno, dall'apertura del suo testamento. "Tanto piú
che la questione del testamento dettato da Cesare il 13
settembre 45 (cfr.Suet. Caes.
83.1) mi porterebbe a dilungarmi su un tema recentissimamente ripreso
da L. Schumacher (Oktavian und das
Testament Caesars, in ZSS. 116
[1999149 ss.), ritengo
sia meglio, come si dice?, «glisser».
V. IL BARBONCINO 1. Gli avvocati, si sa, sono tutti dotati del dono
della parola (ho conosciuto qualche avvocato afono, ma di avvocati muti
non ne ho conosciuti mai). La lingua è indubbiamente per essi un ferro
del mestiere. Tuttavia alla professione avvocatesca l'eloquenza, cioè
la parola forbita e scorrevole, non è indispensabile affatto. Accanto
ad avvocati stupendamente eloquenti (penso tuttora all'allucinante
incisività delle arringhe di Alfredo De Marsico) vi sono avvocati poco
o punto oratorii, eppure altrettanto egregi, che affidano il successo
delle loro difese all'acutezza delle intuizioni, alla profonda conoscenza
del diritto, alla vasta esperienza della vita, alla bravura negli
interrogatori incrociati, all'abilità della schermaglia con l'avversario,
alla chiarezza delle comparse e delle memorie scritte. Guai, anzi, se le virtù oratorie non sono integrate
da tutte queste altre doti e facoltà. L'avvocato «trombone», oggi
che sono fortunatamente scomparsi in Italia i giurati dalle corti di
Assise, è buono solo per un certo pubblico che ne ascolta i vocalizzi
alle spalle. Ma per i giudici che gli stanno di fronte, credetemi, anche
se parla sei giorni sudando camicie su camicie, è solo un buono a
nulla. Noioso, per giunta. 2. Il punto cui volevo arrivare è proprio questo.
Spesso, troppo spesso l'avvocato è costretto o indotto a parlare, oltre
che per i giudici, per il pubblico stanziato in aula, e in particolare
per i clienti. Ma tutto ciò che si dice a beneficio del pubblico serve
assai poco alla causa, anzi talora è controproducente perché
l'attenzione del giudice anziché mantenersi in tensione, viene meno e
il successo della difesa è posto in pericolo. Lo posso confessare per esperienza personale, avendo
avuto l'onore, in un lontano periodo della mia vita, di far parte della
magistratura. In un'aula del tribunale penale di Roma (eravamo un presidente
e due giudici) ascoltavamo noi tre, ricordo, per ore, oltre ai brevi e
densi interventi di avvocati veramente egregi, le lunghe chiacchiere*di
molti professionisti meno provveduti. E se anche v'era un senso nelle
pieghe dei discorsi di questi ultimi, il guaio era che non ci riusciva
di coglierlo. Inevitabilmente passavamo a pensare ad altro, sotto la
maschera della piú riguardosa attenzione. No, lo ripeto, il buon avvocato deve parlare solo per
i giudici e deve studiarsi, parlando loro, di non sommergerli con l'onda
del suo eloquio, di non illudersi di insegnargli o inculcargli qualcosa.
Deve studiarsi di stare rispettosamente al loro fianco per aiutarli a
capire la questione ed a risolverla nel migliore dei modi. Chi alza
smisuratamente la voce e batte il pugno sul tavolo, chi tira in ballo
citazioni di filosofi e letterati (spesso conosciuti di scorcio il
giorno prima) per «épater» il buon giudice che lo ascolta, chi tratta
il giudice con la sufficienza del docente universitario illustre (si
fa per dire) che impartisca lezioni ai suoi studenti, tutti coloro che
non si avvicinano al giudicante, che non collaborano con lui, che non
gli danno una mano, in realtà polemizzano. E quindi psicologicamente
creano un'atmosfera che, nella migliore delle ipotesi, si può
definire dell'incomunicabilità. 3. Certo, l'attenzione dei giudici bisogna anche
saperla sollecitare e concentrare possibilmente sulla propria tesi a
detrimento dell'avversario. Ma anche in quest'opera le parole valgono
poco. Molto piú valgono le buone maniere e la simpatia che nei giudici,
uomini anch'essi, si riesca a determinare. Del resto, su quest'argomento
delle buone relazioni tra giudici e avvocati esiste un'opera ormai
classica, che fu scritta e riveduta in successive edizioni, come
frutto di un'esperienza acquisita in lunghi anni di memorabili difese,
da un avvocato tanto egregio quanto (lui fortunato) simpatico: Piero
Calamandrei. Questo è il motivo (uno dei tanti motivi) per cui
io, lo confesso, ho sempre detestato, e detesto, quel gran
concionatore di Marco Tullio Cicerone, in ciò adeguandomi al giudizio
autorevolmente manifestato, tra gli altri, da Teodoro Mommsen. Le
orazioni giudiziarie di Cicerone (per limitarmi ad esse) ridondano
troppo per essere vere, per essere state veramente pronunciate di fronte
ad una giuria popolare; ed infatti (come tutti sanno) vere non sono, ma
sono tutte piú o meno ampiamente riscritte, rimpolpate e abbellite,
in sede di edizione, ad uso di un pubblico colto sul quale l'autore
vuoi far presa con le sue qualità positive e solo con quelle. Nè il
male ciceroniano sarebbe tanto smisurato quanto è, se il nostro mondo
occidentale (particolarmente il nostro amato paese) non rigurgitasse di
ammiratori dello stile di Cicerone e di suoi cattivi imitatori. Si
limitassero questi ultimi alle aule giudiziarie, alle sale di
conferenze, alla camera dei deputati e al senato, «all right» (cosí
si espresse Al Capone quando i suoi uomini eseguirono la strage di San
Valentino del 14 febbraio 1929). Il fatto è che non sta bene, che sta
molto male che essi esorbitino da queste sedi e si inseriscano
proditoriamente nelle trasmissioni teleradiofoniche, giornalistiche e
non giornalistiche, culminando in quei messaggi alla nazione che nel
decennio novanta un nostro capo dello Stato (ottima persona per tutto il
resto) si sentiva in dovere (e in piacere) di propinarci a reti
unificate l'ultimo giorno dell'anno. Non nego che l'esasperazione del
San Silvestro 1998 mi abbia indotto a proporre pubblicamente, su un
giornale napoletano, una modifica dell'articolo 81 della Carta
costituzionale, nel senso che ai requisiti per diventare presidente
della repubblica sia aggiunto quello di «essere muto o perlomeno
cacaglio» (parola, quest'ultima, che designa in lingua napoletana le
persone accentuatamente balbuzienti). 4. Basta. Torniamo al tema degli avvocati, eloquenti
e non eloquenti che siano. Se mi è concesso di rifarmi alla mia
personale esperienza di avvocato dei nostri tempi, la buona resa di un
patrocinatore in dibattimento è in rapporto diretto con tre elementi:
la semplicità dell'eloquio, l'aderenza al fatto di cui si tratta, la
rispettosa cordialità nei confronti del giudice o dei giudici. La semplicità dell'eloquio consiste in ciò che ho
già detto: nell'evitare il «ciceronismo» e nel concentrare le
proprie argomentazioni in frasi brevi, limpide e fra loro connesse. Non
si può parlare di tutto, ma si deve parlare dell'essenziale, o meglio
di ciò che si desidera che i giudici siano portati a ritenere essere
l'essenziale. La puntigliosità, sia nel difendere le proprie ragioni
sia nel replicare alle deduzioni avversarie, non paga. Anzi mette a
repentaglio l'attenzione e la memoria di chi giudica. L'aderenza al fatto di cui si tratta non risiede (è
ovvio) nel narrarlo minuziosamente per come è accaduto, ma sta nel
presentarlo opportunamente per come va interpretato al lume del diritto
vigente, nell'additare e nel mettere in evidenza le valenze giuridiche
che piú gli si addicono o che piú è opportuno, entro i confini del
verosimile e del ragionevole, attribuirgli. Se si accompagna la
ricostruzione con l'indicazione della pagina degli atti processuali in
cui sono registrati i particolari che man mano si indicano, non è raro
che il giudice si segni quei numeri, i quali lo aiuteranno nella
rilettura degli atti (che sono di solito una valanga di carte mal
scritte) e lo influenzeranno, entro i limiti del giusto, nel decidere. Vi è infine l'importante parametro della rispettosa
cordialità. Di regola, l'avvocato parla in piedi di fronte al giudice
seduto (si fa eccezione solo nei dibattiti in camera di consiglio), e ciò
indubbiamente significa che gli deve rispetto. Ma rispetto non
significa umiltà, non vuol dire star sull'attenti, soldatescamente,
davanti al magistrato. Una chiara e franca e cordiale atmosfera di
collaborazione, se non addirittura di temperata simpatia reciproca, si
può creare anche quando non si abbiano le doti innate di Piero
Calamandrei, delle quali ho fatto cenno poc'anzi. Riuscire nell'intento
è molto importante, non dico per ottenere i favori del giudicante, il
quale difficilmente si lascia influenzare da simpatie e antipatie nella
sua delicata funzione, ma per evitarne la musoneria o quando meno la
noia il tedio. Mi sento di dire qualcosa di piú. La dote numero tre
del buon avvocato facilita, se giunge a buon fine, l'esercizio e la
rilevanza delle doti numero uno e numero due. Ma attenzione a non
peccare per eccesso. I rischi che si corrono non sono da sottovalutare. A proposito di che, eccovi, caldo caldo, un episodio
di molti anni fa che avrò raccontato finoggi non piú di una ventina di
volte. 5. La causa era difficile e si discuteva davanti alla
prima sezione civile della Corte di appello di Napoli. Il mio
avversario ed io ci eravamo scambiate voluminose comparse e memorie,
sviscerando un'infinità di cose che erano, o che forse non erano tutte,
da sviscerare. Tra le mie preoccupazioni vi erano appunto le
sovrabbondanti comparse e memorie dell'avversario, il quale era un
collega dottissimo, devoto ammiratore di ancora piú dotti, ancorché
defunti, trattatisti italiani e tedeschi. Possibile che i consiglieri si
lasciassero impressionare da questi ultimi e dalla loro fama indiscussa? Nel dubbio, chiesi, com'era mio diritto, un
dibattimento orale che precedesse la decisione. Mi fu concessa, come era
nell'uso della Corte, la discussione in camera di consiglio, cioè nella
stanza stessa con cui il collegio avrebbe poi dovuto decidere. Prima
avrei parlato io, l'appellante, poi l'avversario: andata. Fedele ai miei
principi, lasciai deliberatamente da parte le disquisizioni teoriche,
in cui si sarebbe sicuramente ingolfato il mio sapiente collega, e
puntai tutto sul «fatto». E, non dimentico dell'importanza del fattore
cordialità, esordii dicendo qualcosa di questo tipo: «Il caso è
veramente complesso ed io non presumo affatto di riuscire a chiarirlo.
Anzi confesso candidamente che mi pare, in questo momento, di essere
come un tosacani cui sia stato affidato un pelosissimo barboncino col
compito di metterne allo scoperto il capo. Io mi proverò in questa
delicata impresa. Ma non posso escludere che il mio sforzo di portare
alla luce la testa del barboncino fallisca, o per meglio dire sortisca
l'effetto contrario». I consiglieri sorrisero divertiti, mi seguirono con
molta attenzione ed ascoltarono, ovviamente, con altrettanta (almeno
apparente) attenzione i fitti argomenti esposti dall'eminente collega
che mi stava processualmente contro. Fatto sta che, dopo che noi «parti»
uscimmo dalla loro presenza, parlottarono a lungo, ma infine rinviarono
la decisione ad altra riunione collegiale. Piccolo successo per me, ma
del tutto provvisorio. Il seme del dubbio era stato gettato, ma quale
sarebbe stata la futura decisione? La futura decisione ritardò parecchio. Pareva (erano
gli uscieri a rivelarlo) che nemmeno in successive camere di consiglio
l'accordo fosse stato trovato. Finalmente (sempre a dire degli
uscieri) la conclusione fu raggiunta, ma con l'impegno di un grandissimo
riserbo, da mantenersi fin che il relatore non avesse steso l'abbozzo
della complessa motivazione. Non succede spesso, ma succede. Fu allora che io, avendo occasione di incontrarmi per
un altro processo con uno dei membri di quel famoso collegio, gli chiesi
se potesse confermarmi che la decisione, non importa se in un senso o
nell'altro, fosse stata finalmente conseguita. «Quale causa?», esitò il giudice. «Quella di Tizio contro Caio», precisai. Siccome il magistrato era ancora perplesso, gli
descrissi sommariamente la questione giuridica che era stata
dibattuta. Silenzio. Allora gli ricordai che vi era stata discussione in
camera di consiglio. E finalmente si illuminò. «Ora sí, che ricordo»,
disse. «La causa del barboncino».
VI. LA CASSAFORTE 1. «J'ai plus de
souvenirs que si j'avais mille ans» Questo verso, che apre una delle liriche dedicate
allo «spleen» nei Fleurs du mal di
Charles-Pierre Baudelaire, è tanto vero, è tanto proprio a noi tutti
che nemmeno l'accanito moralista Ernest Pinard ha addotto la lirica, nel
processo penale del 1857, a
sostegno della requisitoria intesa alla condanna dell'autore e degli
editori del libro. Vi era di peggio, dal punto di vista del solerte
magistrato parigino, per bollare di immoralità la raccolta. Tanto che
il Pinard, mentre nel gennaio di quello stesso anno era stato
sconfitto per un pelo nell'analogo processo relativo a Gustave Flaubert
ed alla Madame Bovary, in
questa causa una consistente rivalsa la ebbe. Ottenne la condanna degli
editori ad una pena pecuniaria e lo stralcio dalla raccolta di quelle
sei composizioni che solo nel 1866,
due anni prima della morte del poeta, sarebbero state incluse tra Les
Épaves. (Sempre poco, è vero, di fronte a quanto sarebbe
riuscito a realizzare, sotto la toga di lui, il famoso predecessore
Antoine-Quentin Fouquier Tinville, peraltro defunto sin dal 1795. Bisogna accontentarsi). Bene. Vogliamo andare avanti nella lettura del
componimento? li poeta vi esprime, dopo il verso iniziale, un
malumore, un disprezzo, un disgusto per i suoi infiniti ricordi che
pochi tra noi, augurabilmente, sentono in pari misura. Per quanto mi
riguarda, sarò franco. Non mi manca l'inferno delle memorie amare,
anche se in gran parte riesco a rimuoverle. Tuttavia è da escludere che «mon triste cerveau» nasconda
esclusivamente i segreti di «un gros meuble à tiroirs encombré de
bilans, / de vers, de billets doux, de procès, de romances, / avec de
lourds cheveux roulés dans de quittances». Quella cassettiera, se io l'avessi, non la odierei
come l'odia Baudelaire e non la terrei in quel disordine e in quella
sporcizia. Piuttosto la ridimensionerei scendendo dai livelli
baudelairiani a quelli che mi sono propri, riducendoli alla piccola e
modesta cassaforte di cui parla una canzone napoletana intitolata «'A
casciaforte». Una canzone che feci ascoltare nel dicembre del 1965,
durante una riunione al Circolo canottieri Savoia, davanti allo
specchio d'acqua di Santa Lucia, a molti colleghi ed amici venuti a
Napoli con le loro famiglie per il simposio su «Gaio nel suo tempo». 2. II congresso, affollatissimo, andò avanti a
meraviglia. La relazione introduttiva dell'allor giovane Franco
Casavola fu eccellente. L'organizzazione dei lavori e dei
festeggiamenti, in cui ci impegnammo tutti, fu molto lodata anche (mi
risulta di certo) alle nostre spalle. Ottima fu la trovata dell'allora
giovanissimo Luigi Labruna di «giocare di anticipo» su una scontata
etichetta di noialtri napoletani, offrendo agli intervenuti
un'elegante raccolta fototipica di vecchie stampe sette-ottocentesche
col titolo Il mangia-maccheroni. Conservo
ed uso ancora tutt'oggi una delle eleganti borse di pelle che
Francesco Guizzi riuscì ad ottenere per tutti da una grande industria
di accorte simpatie socialistiche. Le discussioni (talune molte vivaci)
furono tutte contenute nel clima di tolleranza e di bonaria ironia che
è proprio degli ambienti colti napoletani. Infine il primo premio
internazionale Vincenzo Arangio-Ruiz (un premio che ha avuto vita tanto
luminosa quanto, purtroppo, breve) fu assegnato, nell'occasione, all'«opera
prima» dell'indimenticabile Gérard Boulvert. Tutto bene, insomma. Ma il «clou» di quelle
giornate fu costituito dalla serata al Savoia e dalla rivelazione
delle canzoni napoletane dal '200 ad oggi che ci fu data, cantando a
mezza voce e accompagnandosi con i tocchi discreti della sua chitarra,
da Roberto Murolo. Il quale è interprete tra i piú sinceri e raffinati
di un genere musicale che molti (troppi) altri cantanti svociazzano
invece sguaiatamente e che alcuni celebri «tenori di petto», a volte
riunendosi, gli sciagurati, anche a tre, si son messi a portare giro per
il mondo sfigurandolo con gorgheggi e sovracuti. 'A
casciaforte, guarda
caso, fu scritta nel 1928 (con accompagnamento musicale di Nicola
Valente) proprio dal padre di Roberto Murolo, Ernesto, poeta e
commediografo dialettale (1876-1939) di largo successo. Ed è una
canzone «sussurrata» alla maniera (posso osare di dirlo?) de «Les
feuilles mortes» di Jacques Prévert. Non malinconica, però. Tutt'al
piú con qualcosa (ma senza eccedere) di rassegnato e, nel contempo,
di autoironico, insomma di napoletano «verace». In essa, infatti, il
protagonista confessa che «va truvanno» (cioè che desidera di
rinvenire e di avere tutta per sé) una cassaforte, ma aggiunge subito
che non vuol stiparvi i titoli finanziari e gli oggetti di valore dei
quali è assolutamente privo. Vuol solo mettervi al sicuro i suoi
piccoli e cari ricordi di vita, che altrimenti andrebbero dispersi. «Ce haggi' 'a mettere /tutt' 'e lettere / che m'ha scritto Rusina mia, / nu ritratto (formato visita) / d' 'a bbuonanima 'e zi' Sofia, / 'nu cierro 'e capille, / 'nu corno 'e corallo, / ed il becco del pappagallo / che noi perdemmo nel ventitré». Non passo alle varianti del secondo «refrain». Mi
basta questo per dare l'idea. 3. L'idea di che? L'idea di quelli che sono i ricordi
che anche a me piacerebbe di non perdere, e di poter mostrare di tanto
in tanto, ora questo ora quello, ai sempre piú pochi amici che mi
restano. Veramente, di amici, almeno di quelli sbaciucchiosi,
non ne ho mai avuti molti. Ritroso e vagamente misantropo come sono (ben
diverso cioè di quello che cerco di apparire nei miei scritti a stampa),
ho concentrato i tre quarti della mia vita attiva (un quarto essendo
stato dedicato, almeno per un certo numero di anni, all'«auri sacra
necessitas» della professione di avvocato), li ho concentrati, dicevo,
in due attività. Nell'insegnamento agli studenti di Catania e di Napoli
e nel contatto quotidiano (in Università, a casa, per istrada,
dovunque) con i non pochi giovani studiosi (anche non locali, anche di
materie non romanistiche) che hanno avuto la fiducia (e la pazienza) di
frequentarmi. Qualche altro dato segnaletico. Opinioni sociali e
religiose abbastanza precise ed intense, ma forte ripugnanza per la
loro manifestazione e propaganda e rispetto assoluto degli ideali
altrui. Ambizioni politiche o di altro tipo nessuna. Ho fatto il
parlamentare vent'anni fa, durante una sola legislatura, prestando il
mio nome (e non me ne pento) ad un disegno nobilissimo che si è
rivelato peraltro un'utopia e che pertanto è andato fallito. Qualche
anno prima di allora, l'unica volta in cui mi si è offerta la
possibilità (volendosi superare un convulso scontro di candidature
proposte da vari partiti) della nomina presidenziale ad un'alta
magistratura costituzionale, mi sono rifiutato di rendere
l'indispensabile «visita di calore» ad un presidente della repubblica
che disistimavo (e che d'altra parte, non credevo e non credo avrebbe
mai nominato proprio me). Sono diventato accademico dei Lincei (dignità
alla quale, sí, ho sempre aspirato) solo, cadute molte tenaci
avversioni, ad ottanta anni suonati. Un paio di lauree «ad honorem».
Onorificenze? Mi sembra proprio di no (peraltro gradirei tanto, per
ragioni sentimentali di entusiasta stendhaliano, la «légion
d'honneur»). Qualcuno penserà, forse, che questa mia vita
laboriosissima, ma cosí scarsa di parentesi mondane sia stata avara di
occasioni per consistenti ricordi sia amari sia dolci. Si sbaglia. Ne è
stata abbondantissima, anche a causa della vorace curiosità che ho
sempre avuto, nascosta sotto l'apparente algore dei modi («Píccadilly»,
così mi chiamava Giuseppe Branca), nei riguardi di cose, di ambienti,
di vicende, di tipi umani estranei alle mie materie di studio ed alle
mie incombenze professionali. Curiosità, quest'ultima, di cui le radici
profonde sono state proprio quelle che mi hanno portato ad essere uno
storiografo, mentre le motivazioni piú immediate sono consistite
nell'intesa attività giornalistica (piú precisamente, nell'intensa
attività di divulgatore del diritto e di notista del costume sociale)
che ho sempre svolto ai margini dello studio storiografico e del relativo
insegnamento accademico. 4. Di tutti i miei ricordi gradevoli i primi, e forse
i piú preziosi, che metterei in cassaforte sono quelli legati alle
decine e decine di migliaia di studenti che ho avuto tra Napoli e
Catania. Ma sono una quantità tale che mi ci vorrebbe, a narrarli, un
volume. E un libro di memorie, che alcuni mi hanno suggerito di
scrivere, è un manufatto (ho già detto altra volta) che non ho voglia
di assemblare: primo, perché sarei in dovere di dedicare spazio in
abbondanza anche a molti episodi implicanti l'evocazione di svariate
persone (tra cui, ehm, ehm, alcuni colleghi) che sarebbe ingeneroso
portare al proscenio; secondo perché sono convinto che i libri di
memorie, per la struttura romanzesca che assumono, comportano
inevitabilmente un tasso troppo elevato di deformazioni e menzogne. Mi limiterò quindi a due pennellate: l'una relativa
al Guarino degli inizi (o quasi), l'altra relativa al Guarino di oggi. Quando, dopo aver vinto il concorso a cattedra di
Storia del diritto romano, presi servizio a Catania era il novembre o
dicembre del 1942. Nel corso del successivo 1943 il regime fascista fu
travolto per le ragioni che taluni ben sanno, la Sicilia fu occupata
dagli anglo-americani e le Università siciliane si riempirono di
studenti reduci dalle zone di guerra. Nessuno piú di me, reduce a mia
volta del fronte sovietico, si rendeva conto dell'esasperazione di
questi studenti. Tuttavia a parecchi tra loro, che reclamavano
addirittura le approvazioni senza esame (o peggio, con esami di pura
forma), io ed altri giovani colleghi della facoltà giuridica (ricordo,
in particolare, Sanfilippo, Auletta e Puleo) ci opponemmo
risolutamente. «Ragionevole fermezza» (in sigla, RF) fu il nostro
motto. Ma ci costò scontri molto aspri con i piú esaltati. Fino al
punto che un certo giorno (era di prima mattina ed io definii piú tardi
l'episodio col titolo famoso di «Le jour se lève», o «Alba tragica»)
il nostro gruppo (cinque o forse sei, tra professori e assistenti),
sbucando in piazza dalla via Etnea ed avviandosi ad entrare in Università,
vide il portone ostruito minacciosamente, con accompagnamento di grida
sediziose, dalle Facce Feroci. Ci guardammo tra noi un poco sgomenti
ma subito dopo qualcuno disse agli altri: «Forse questi ci menano, ma
dobbiamo fingere coraggio ed entrare». Gli Oglala rimasero compatti
sin che arrivammo a due o tre passi da loro. Poi, per fortuna, si
disunirono e fecero ala mugugnando «augh». Venti anni dopo (o qualcosa di piú), proprio come
per i quattro moschettieri di Dumas padre, avvenne che io, che
dell'antico gruppo RF ero, per età e per vivacità di carattere, una
sorta di d'Artagnan, incontrai a Napoli uno dei capintesta piú
scellerati degli studenti reduci. Ci misurammo con l'antico sguardo.
Sorpresa. Un simpaticone. A parte il fatto che si era rassegnato a
studiare le materie e che si era onorevolmente laureato, il coriaceo
fuori corso del passato (era di un anno piú vecchio di me) aveva fatto
carriera ed era diventato colonnello del corpo di polizia detto «La
celere». Da buoni commilitoni dei tempi della «naja», ci demmo del
tu. Congedandosi, fu persino sul punto di commuoversi. Gli dissi: «Non
tutto il Guarino viene per nuocere». Sorrise. Di parole di nostalgia e di ringraziamento ne ho
udite dire molte, ma proprio molte, da ex-studenti catanesi e
napoletani che mi hanno fermato e che mi fermano tuttora per strada,
sopra tutto da quando sono andato universitariamente fuori dai piedi e
sono divenuto visibilmente sempre piú inoffensivo. Spesso ho
sospettato che sia mia moglie a reclutare riservatamente tanti uomini e
donne, molti dai capelli ingrigiti, che mi bloccano sul marciapiede e
che rievocano le mie impareggiabili lezioni «di allora», magari
addirittura mi ringraziano per averli bocciati due o tre volte. Mia
moglie però mi ha giurato sulla testa dei nostri figli che non è vero,
che lei non c'entra affatto e che tutte queste effusioni di antichi
dinosauri sono sicuramente spontanee. In fondo mi piace crederle e le
credo. 5. Ma torniamo al circolo Savoia. Ì: importante per
passare al tema dei giovani studiosi. Il Savoia è un circolo
canottieri, con belle sale ed ottima cucina, del quale sono stato socio
per oltre mezzo secolo. Come altri due o tre circoli di questo tipo,
esso dava e dà ai suoi membri non solo la possibilità di intrattenersi
piacevolmente a conversare, ma anche il comodo di «uscire per mare» su
una delle sue imbarcazioni a vela o a remi, oppure di invitare persone
amiche a gustosi e non costosi pranzetti serviti («voilà») in guanti
bianchi. Di queste possibilità e di questi comodi io ho
modicamente usufruito, in qualche ora libera delle mie giornate, per la
coltivazione del fisico e, non ci crederete, per quella dello spirito.
Mi limiterò allo spirito. Anche per non confessare della prima volta in
cui, ottenuta l'abilitazione a guidare da solo un «cutter» di sei
metri, mi allontanai baldanzosamente, bordeggiando di controvento, in
direzione di capo Posillipo, ma poi, al rientro nel porticciolo di
Santa Lucia, sbagliai due volte la difficile manovra imposta dal giro
del Castel dell'Ovo e dalle strettoie dell'imbocco. Solo al terzo
tentativo riuscii nell'intento, senza peraltro sfuggire al lacerante
coro di pernacchie indirizzatomi dagli amici del Savoia e, per buona
misura, da quelli del contiguo circolo Italia. D'altronde, questo è
il bello, a mio avviso, dei circoli canottieri napoletani. Ne fanno
parte persone di tutti i ceti, compreso l'ammiraglio comandante della
Base navale e il rettore dell'Università, ma tutti indistintamente
lasciano nel guardaroba dell'ingresso i loro cappotti e i loro titoli
sociali. Nelle sale e sulla terrazza del molo vige sovrano il principio
dell'« egalité», con facile rischio di sfottò e, al limite, di
pernacchie per chiunque. Dunque, al Savoia ci sono andato per anni, due o tre
volte al settimana, a trascorrervi un'ora, non piú, come fine della
giornata lavorativa, prima di tornare a casa per la cena. Non
chiacchieravo un gran che. Di solito mi sedevo in un angolo appartato
con in mano una bibita, curando peraltro di stare sufficientemente
vicino ad un gruppo di soci stanziali e di ascoltarne la conversazione.
Mi serviva da «lavaggio del cervello», nel senso buono che hanno la
doccia fredda o la sauna. Parlavano infatti scanzonatamente, ma con
vivace intelligenza, di tutto: oggi della circolazione stradale e
domani del rapporto tra Noumeno e Fenomeno. L'aíre soleva darla, in
mancanza di occasioni contingenti, un vecchio colonnello, reduce dalla
prima guerra mondiale e mutilato di un braccio, che aveva avuto in
eredità i trenta o quaranta volumi dell'Enciclopedia
italiana e di essi scorreva con militaresca attenzione quasi ogni
giorno una «voce» a caso. Non vi dico che libere discussioni, che
osservazioni sagaci, che tolleranza reciproca dei diversi punti di
vista. Una vera e propria scuola del pensiero, credetemi. Appunto a titolo di provvisoria e saltuaria «dépendance»
del cosí detto pensiero giusromanistico napoletano io scelsi il Savoia,
nel corso degli anni cinquanta e sessanta, come luogo di frequenti
incontri conversativi e culinari degli allor giovani o giovanissimi studiosi
che risiedevano o convenivano a Napoli. Per carità, non voglio insinuare che si trattasse
solo di allievi miei. La maggior parte (Amirante, Casavola, Ormanni,
Mozzillo, Bretone, Bove, cosí come piú tardi Grelle e Amarelli) erano
stati scoperti da quell'insuperabile «talent scout» che è stato
Mario Lauria (il quale, poiché non tutte le ciambelle riescono col
buco, era stato responsabile, anni prima, anche di aver scoperto me).
Tutti erano pienamente liberi di propendere per Solazzi, per
Arangio-Ruiz, per De Martino, per Betti, per Orestano, magari anche per
me. Ma fatto sta che del loro «quotidiano», per un motivo o per
l'altro, mi occupavo fiduciariamente soltanto o quasi soltanto io. E
fatto sta che al Savoia né Lauria né De Martino, pur essendo miei
invitati permanenti, vi misero mai piede: il primo per motivi
caratteriali che non mi sento personalmente di analizzare e che forse
Bove o Casavola potranno un giorno spiegare, se vi riusciranno, in mia
vece; il secondo, piú semplicemente, perché a Roma era assorbito dalla
politica e nei giorni napoletani di ogni settimana era preso, lezioni a
parte, dalla stesura (un vero prodigio di concentrazione, di acume ed
anche di resistenza fisica) della sua Storia della costituzione romana. In cambio, ci onorarono, sopra tutto a pranzo, non
pochi docenti italiani e non italiani. (Uno per tutti, ricordo Max
Kaser quella volta in cui un mio giovane adepto gli chiese dove tenesse
la provvista di tutta la sua vastissima erudizione bibliografica, ed
egli, toccandosi con l'indice della destra la fronte, rispose
laconicamente: «Hier»). 6. Vi è un personaggio secondario (un «caratterista»)
del «vaudeville» napoletano che si chiama il signor Scardéca
(accentare sulla penultima, prego), uomo molto attento e giudizioso in
cui io sono solito identificare idealmente tutti coloro che mi fanno
osservazioni meravigliate e mi danno suggerimenti, dirò cosf,
superflui. (Un tipo amabile il signor Scardéca, intendiamoci.
Tanto per illustrarlo, lo ricordo in una farsa degli anni trenta nelle
vesti di un compositore di musica che aveva operato un opportuno ritocco
alla Bohème di Puccini. Là
dove Mimi, nell'atto primo, si presenta a Rodolfo e termina con le
parole «altro di me non le saprei narrare, / sono la sua vicina / che
la viene fuor d'ora a importunare», il maestro Scardéca aggiungeva
un «pardon»: il che non era soltanto squisitamente cortese, ma era
altresí molto efficace per la chiusura a tempo pieno della frase
musicale). Eccomi dunque a Lei, caro Scardéca. Suppongo, anzi
son certo che un poco la scandalizzerà che io portassi spesso e
volentieri fuori dal tempio di Minerva i catecumeni che mi frequentavano
negli anni dal '50 al '70. Giusto rilievo, egregio amico. Ma deve sapere
che nel primo quindicennio dopo la seconda guerra l'istituto di diritto
romano si riduceva, in Università, ad un paio di stanze mal messe,
nel quadro angusto degli Istituti giuridici «unificati». Quando,
intorno al 1960, fondammo il Centro giusromanistico internazionale che
sarebbe stato dedicato piú tardi a Vincenzo Arangio-Ruiz e passammo a
convivere in poco maggior numero di locali (tutti rimessi a nuovo, con
somma pazienza, da Franco Casavola) lo spazio a nostra disposizione restò
sempre insufficiente. Come direttore curai abbastanza bene il
completamento e l'aggiornamento a fulmine del settore libri, ma per il
resto non potei o non seppi fare altro (si tratta di cose per cui non
sono proprio tagliato). Solo a partire dal 1980, costituitosi un
autonomo «dipartimento» di Diritto romano e Storia della scienza
romanistica, la solerzia ed il gusto del suo primo direttore, Luigi
Labruna, con l'appoggio un po' malandrino del preside «pro tempore»
della Facoltà (cui si deve il reperimento della nuova ed ampia sede e
la sua occupazione con un memorabile «Blitz» stile Rommel), compirono
il prodigio di sfondare muri, di riportare alla luce e restaurare
eleganti strutture del '700, di creare un ascensore interno e un
auditorio con impianti di traduzione simultanea, insomma di mettere
insieme l'attuale ed efficiente sede di ricerche, di meditazioni e di
incontri scientifici che sorge nell'antico Cortile delle Statue, con
ingresso alle spalle della figura in tutto tondo del pensoso Pier
delle Vigne. Professori, ricercatori e studenti vi si aggirano dall'alba
al tramonto come svelte formichine industriose. Come ce la facemmo, qui a Napoli, a studiare e a «produrre»,
nell'attesa che sorgesse l'odierno formicolante Pensatoio? Ce la facemmo,
caro il mio Scardéca, con il sistema della cosí detta Scuola di Atene
(non si sforzi a pensare all'Accademia o al Liceo: si limiti a
ricordarsi del dipinto di Raffaello nella Stanza della Segnatura). Ce la
facemmo, cioè, non tanto e non solo chiudendoci negli angusti locali
universitari, ma anche, e non meno, passeggiando al di fuori di essi e
sostando per discutere serenamente (o per litigare nobilmente:
specialità, questa, peculiare di Angelo Ormanni e di Mario Bretone) là
dove meglio ci convenisse: in un'aula di lezioni, nel salotto
provvisoriamente deserto della Presidenza, in qualche trattoria
periferica scovata dal fiuto infallibile di Atanasio Mozzillo, o infine
(e spesso) al Savoia. Fu proprio al Savoia, dieci anni prima del convegno
gaiano, che decidemmo la fondazione e il piano (ma l'ho già narrato
altra volta) della rivista Labeo, la
quale prese avvio nel 1955. Ci confortavano la simpatia e il sostegno
morale di Arangio-Ruiz e di Solazzi, di Lauria e di De Martino, questo
è vero. Ma sul terreno, a misurare metro a metro le zolle e a
predisporre struttura e funzionamento, fummo fisicamente in sei: Lucio
Bove, Mario Bretone, Franco Casavola, Atanasio Mozzillo, Angelo Ormanni
ed io. E fu ancora al Savoia che festeggiammo piú di una volta le «nostre»
libere docenze e le «nostre» vittorie in concorso, al ritorno dai
viaggi che avevamo fatti per l'occasione a Roma in cortei di automobili
cariche di «supporter» e di libri: cortei solitamente aperti
dall'automobile mia, ove ospitavo il candidato di turno. Destino voleva che in questi viaggi ci rimettessi
ogni volta qualcosa. Per Franciosi mi spari nel nulla un prezioso
ombrello di Brigg. Per Casavola mi scomparve il cappotto (in un
gelidissimo gennaio) dal guardaroba del teatro Valle. Per Giuffrè (o fu
per Melillo?) andò rotta una pipa (e si trattava di una Dunhill). Per
altri non ricordo. Ricordo solo che per Labruna fui costretto a mandare
alla lavanderia Papoff un paio di pantaloni. Avendo io riportato il
trionfatore sin sotto casa, scese a farci festa tutta la famiglia, ivi
compreso il cane, che mi prescelse per un'abbondante pipi. Non continuo per non dilungarmi, ma forse anche perché
è sconveniente, a un duro come me, emozionarsi. 7. Un duro. Sí, sono (o, piú precisamente, sono
stato) un duro. Anzi di piú: un rigoroso, esigente, esasperante,
incontentabile docente per i miei studenti e, in misura elevata al
quadrato, per i giovani studiosi (di qualunque etichetta ed origine)
che hanno lavorato con il mio interessamento e con il mio aiuto. Ma non
mi si venga a dire che sono stato un cattivo. lo sono un mite. Se
vi è qualcuno che ha il fegato di negarlo, è un mentitore. Lo strozzo. La verità è che, quanto agli studenti, non ho mai
visto la ragione per cui, con tutto il fiato speso per loro da me e
dai miei assistenti (ricordo per tutti la generosa e materna Gloria
Galeno, oggi, ahimé, immaturamente scomparsa), essi prendessero sotto
gamba le materie giusromanistiche, magari anche mandando centinaia di
pagine a memoria, ma non penetrando a sufficienza il senso di quelle
pagine e non rendendosi conto del valido e concreto contributo
costruttivo che lo studio della storia giuridica porta alla
comprensione, in ogni sua parte, di quel fenomeno eminentemente storico
che è il diritto. Quanto poi ai vogliosi di diventare a loro volta,
come me e meglio di me, ricercatori, scrittori di storia del diritto
romano pubblico e privato, docenti universitari eccetera, ho la
coscienza di averli aiutati sul piano umano in tutti i modi, ma senza
pietismi, favoritismi e lassismi. Perché sullo studio scientifico
(alludo, alludo) non si transige. Perché il metodo (alludo, alludo)
ha le sue inderogabili esigenze. E perché (ecco uno dei miei «slogan»
favoriti) la scienza storica non sa che farsene delle persone
intelligenti o addirittura dei genii, se non hanno (o sin quando non
hanno) la pazienza di procedere con ragionamento rigoroso e coerente dal
grezzo dei fatti al fino della plausibile interpretazione degli stessi. Esigevo molto? Può darsi. Forse è per questo che
alcuni si sono stancati o hanno perso fiducia, abbandonandomi, con mio
vivissimo dispiacere, lungo la strada (penso in particolare ad Atanasio
Mozzillo, passato ad altre ricerche, e ad Agostino Elefante, diventato
oggi alto magistrato). Tuttavia, prima di darmi addosso, leggete con me
questa lettera che il grande, grandissimo Flaubert indirizzò, nel
1875 o giú di lí, al suo giovane allievo Guy de Maupassant, quando
questi si dispendiava in donne, canottaggio e bravate da taverna, senza
essersi ancora deciso alla svolta che lo portò a diventare
Maupassant. «Trop de putains! trop
de canotage! trop d'exercice! Oui, monsieur, il faut,
entendez-vous, jeune homme, il faut
travailler plus que ça. Tout le reste est vain. Foutez-vous cela
dans la boule.... Ce qui vous manque, ce sont les principes
.... Pour un artiste, il n'y en a qu'un: tout sacrifier à l'Art. La
vie doit étre considérée par lui comme un moyen, rien de plus, et la
première personne dont il doit se foutre, c'est de lui-meme». Cielo, non è che i miei «poulains» siano stati mai
eccessivi come il Maupassant «avant la lèttre» di Gustave Flaubert, e
non è nemmeno che io, pur nei momenti di maggiore indignazione, mi
sia espresso con loro nelle forme aggressive dell'impietoso
scarnificatore di Bouvard e Pécuchet. Da un lato, io tendo piú ai
pizzicati ironici, dall'altro mi sono sempre preoccupato di non giungere
mai al punto di scoraggiarli e avvilirli. Peraltro i rimproveri
scritti, da leggere e rileggere con sofferenza, non sono mancati a
nessuno. Né sono mancati, per tutti, miriadi di appunti, suggerimenti
e dubbi, riversati sui caratteristici fogliettini scritti rapidamente a
mano e siglati succintamente «G». Se si mettessero insieme, quei
foglietti volanti costituirebbero un corposo e pepato volumetto. Ma
sono sicuro che i destinatari dei miei bigliettini (in certe occasioni
piú gravi sostituiti da lettere collettive che essi chiamavano, mi
riferiscono, le «pastorali») quei frustuli li abbiano, dopo averli
assimilati, opportunamente e intelligentemente distrutti. (Sia detto in un orecchio, confido molto in questa assenza di feticismo. Non è immaginabile il senso di pena che mi procurò nel 1952 un'intervista che feci, per conto del Giornale Radio, a tre amici devoti di Benedetto Croce in occasione della morte dello stesso. 1 primi due erano Federico Chabod e Giovanni Pugliese Carratelli, che mi parlarono da pari loro, pur se con sincero dolore, delle luci e delle ombre del grande scomparso. Il terzo, di cui non ricordo il nome, era uno studioso di minor livello che si professava di Croce il piú fedele «allievo», avendolo quasi quotidianamente visitato in casa e accompagnato nel passeggio in strada a guisa, come si dice da queste parti, di «vaccariello», cioè di vitellino attaccato strettamente alla madre. Fra molti piccoli e interessanti particolari di tanti anni di fedeltà l'intervistato mi rivelò compiaciuto di aver anche accuratamente conservato tutte, ma proprio tutte le note manoscritte ricevute dal «Maestro». Ivi compresi i bigliettini contenenti l'invito a ritirare un certo volume da un certo libraio, o quelli del tipo: «Passando dalla drogheria Paracolli, vedete se hanno ancora di quelle caramelle d'orzo che mi hanno fatto tanto bene alla gola»). 8. L'ultima «pastorale» ai giusromanisti napoletani
(quelli, particolarmente, che sono stati da me direttamente o
indirettamente seguiti nella loro formazione scientifica) l'ho inviata
nel settembre 1998. È stata un'epistola piuttosto concisa ed esplicita,
probabilmente non molto gradevole e non molto gradita (posso
rendermene conto) a «giovani studiosi» che sono ormai di età tra
poco piú dei quaranta e poco meno dei settant'anni. Ma era una
pastorale lungamente maturata, e pertanto non ho esitato a scriverla. In relazione ad un radicale ed insanabile dissenso
circa l'interpretazione di alcuni passi del Pentateuco, ho reso noto
formalmente ai destinatari ciò che già si era andato verificando
pian piano nella sostanza: il mio distacco spirituale da un ambiente
che non sentivo piú come mio e il mio ritiro dall'amatissima rivista Labeo. Francesco De Martino (l'amico che, con me, fu
definito da Arnaldo Momigliano uno dei due «dioscuri» della
giusromanistica napoletana) mi ha cordialmente invitato a recedere da
questa decisione. Ma io, una volta tanto, non ho seguito i suoi
consigli. Il fatto è che la commedia umana oltre un certo
numero di atti non può andare. Al terzo, al quarto, magari al quinto
atto i personaggi devono sparire dalla scena e il sipario deve
abbassarsi sulla loro vicenda. Se non sono ancora morti, ebbene che
partano per terre lontane, che si arruolino nella legione straniera, che
si ritirino in romitaggio, ma basta che con loro e con le loro (se pur
vi sono) invecchiate «Eigenschaften». Il pubblico non ne può piú, ed
è umano che sia cosí. Incombono altre commedie da mettere in regia.
Altre commedie con altri personaggi piú giovani, piú moderni,
diversi. Capito? Credo di averlo capito. Se non fosse cosí, temo che
direi, ripeterei, accentuerei con noiosa (ed inutile) insistenza
giudizi troppo amari (e forse ingiusti) sull'attuale situazione dello
studio e dell'insegnamento del diritto romano, o di quel che ne resta,
in Italia, anche in Italia. Meglio tacere e prendere atto delle
delusioni subite. Anzi disinteressarmi di tutto. Non voglio uscire di scena come una vecchia sfinge
trascurata che ulula ferocemente ai raggi del tramonto («un vieux
sphinx ignoré du monde insoucieux, / oublié sur la carte, et dont
l'humeur farouche / ne chante qu'aux rayons du soleil qui se couche»).
Preferisco essere, molto piú banalmente, un vecchiazzuolo pieno di
muffiti rimpianti che chiude queste pagine proponendosi di riporre
nella desiderata (e ancora non trovata) «casciaforte» della sua
vita, che altro? Solo e modestamente (cosí il secondo ritornello) «una coda di cavalluccio / che mi ricorda la meglia età». |