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L'ESPERIENZA DI ROMA
NELLO STUDIO DEL DIRITTO (1)
di Antonio Guarino
In: Pagine di Diritto Romano, I, ed. Jovene, Napoli, 1993,
pp. 109 - 120.
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1. Tutti sanno quanto profondo e importante sia
stato l'apporto del diritto romano, sopra tutto del ius
privatum, alla formazione dei diritti positivi delle
nazioni civili ed a quella della coscienza giuridica dell'evo
contemporaneo. Ancora sino alla fine del sec. XIX dire «
romanista » equivaleva, il piú delle volte,
a dire « civilista » o « dogmatico »,
in quanto lo studio degli ordinamenti giuridici privati
moderni non era ritenuto separabile da quello del diritto
romano. E ciò valeva principalmente per la Germania,
sede di una scuola giurisprudenziale particolarmente illustre,
largamente apprezzata e seguita in Europa e nel mondo, per
il motivo che l'Impero tedesco tuttora considerava come
pienamente vigenti, salvo piú o meno late modificazioni
apportatevi con successive Novelle, i testi del cd. Corpus
iuris civilis di Giustiniano.
Senonché, nel 1900 avvenne che anche l'Impero tedesco,
dopo lunga elaborazione, finí per darsi un codice
civile, il quale abrogò la legislazione giustinianea
e si offrí come testo autonomo di interpretazione
e di studio alla giurisprudenza. La conseguenza di questo
avvenimento fu che, non soltanto in Germania ma, per riflesso,
in ogni altro paese del mondo, i « civilisti »
presero ad allontanarsi sempre di piú, ed in modo
definitivo, dai « romanisti »(2).
Questi, liberi da ogni residua preoccupazione di adattamento
dei testi giuridici romani alle mutate condizioni dei tempi
moderni, ripresero lo studio di quelle fonti da un punto
di vista squisitamente critico ricostruttivo, giungendo
in breve tempo, attraverso l'applicazione di un metodo di
indagine sempre piú raffinato, alla costruzione di
interessantissime, se pur complesse, visuali prospettiche
dell'evoluzione giuridica romana dal periodo arcaico a Giustiniano.
A loro volta, i civilisti (dal cui seno piú tardi
uscirono i principali cultori della cd. teoria generale),
assorbiti dalla cura dei nuovi testi legislativi, non tanto
obliarono le vecchie nozioni romanistiche, quanto evitarono,
salvo eccezioni, di seguire con serietà e diligenza
gli immensi progressi che la romanistica veniva intanto
realizzando. Si continuò, questo sí, da loro
e da tutti (salvo che in Germania, nella parentesi nazionalsocialista
del 1932 1945), a far grandi dichiarazioni di omaggio
al diritto romano, padre dei diritti moderni, monumento
insigne di civiltà e via dicendo, ma ci si guardò
bene dall'interessarsene in modo effettivo, nulla o quasi
si fece per seguire gli sviluppi della sua palingenesi storiografica
attraverso l'opera delle nuove scuole romanistiche.
La situazione odierna delle materie romanistiche nel mondo
è, dunque, di essere in ogni dove circondate da molta
reverenza formale, ma di essere sostanzialmente assai trascurate
dagli studiosi dei diritti moderni e della teoria generale
del diritto. Può anche darsi che, andando di questo
passo, il Diritto romano scomparirà dalle facoltà
giuridiche, per riaffiorare eventualmente nelle facoltà
letterarie, a lato della Storia e della Letteratura romana,
se non addirittura come un capitolo della prima di queste
due discipline didattiche.
È stato appunto paventando questo destino che un
grande romanista tedesco, Paolo Koschaker, in piena Germania
nazionalsocialista, ha coraggiosamente parlato di una «
crisi del diritto romano » e della necessità
di superarla, per il bene della civiltà europea.
Ma sia detto sinceramente che il rimedio proposto dal Koschaker
altro non era che un inefficiente palliativo, trattandosi,
per usare i suoi stessi termini, di « attualizzare
l'insegnamento romanistico », e cioè di ridurre
la lezione di diritto romano alla esposizione di quei soli
argomenti privatistici, i quali potessero ancora avere interesse,
causa i loro addentellati con i diritti vigenti, per gli
studiosi di questi ordinamenti giuridici (3).
Per vero, a me pare di dover dar ragione al romanista italiano
Odoardo Carrelli, il quale replicò al Koschaker,
e a quanti altri raccolsero il suo grido di allarme, che
la famigerata crisi, almeno come crisi scientifica del diritto
romano, non esiste, perché quello che occorre a una
scienza per sussistere non è già l'interessamento
del grosso pubblico ai suoi risultati, ma l'interesse intrinseco
dei suoi problemi e il rinnovarsi continuo dei suoi cultori.
Comunque, se lo scadimento di interesse degli uomini della
strada o dei cultori dei diritti moderni verso il diritto
romano dovesse essere considerato davvero come sintomo di
una crisi del medesimo, è chiaro che il limitarsi,
da parte dei romanisti, a scrivere capitoli introduttivi
di carattere storico alle monografie relative al diritto
moderno, finirebbe ben presto per diventare un'attività
pedissequa e stereotipa, priva della possibilità
di sopravvivere a lungo(4).
La scienza del diritto romano, essendo una scienza, non
può e non deve, secondo me, subire limitazioni opportunistiche
di nessun genere. Essa deve rimanere quella che è,
libera di riversarsi su ogni problema, quale che sia, che
le si pari dinnanzi. Se essa finisse per essere del tutto
negletta e trascurata nello studio dei diritti moderni e
della teoria generale del diritto, sarebbe, sí, il
momento di parlare di « crisi », ma non di crisi
del diritto romano, bensí di crisi della coscienza
giuridica moderna, come coscienza unitaria dello sviluppo
giuridico universale.La crisi della unitarietà della
coscienza giuridica moderna è una crisi, reale e
paurosa, che, non essendo ancora manifestamente scoppiata,
si ha la colpa, in genere, di non avvertire. 1 pochi che
la presentono e la temono hanno, d'altro canto, il torto,
secondo me, di propugnare dei mezzi di superamento del tutto
inefficaci, quali il potenziamento della comparazione giuridica,
il fondamento di una scienza universale del diritto o la
moltiplicazione delle conferenze internazionali di unificazione
giuridica. La comparazione giuridica è una disciplina
scientifica che ha da fare con un campo di osservazione
troppo vasto, per poterlo abbracciare realmente tutto; la
cd. scienza universale del diritto, intesa come scienza
dei concetti logico giuridici universali, è
disciplina che si riduce a troppo esiguo numero di concetti
generalissimi, per poter esercitare una reale azione direttiva
della coscienza giuridica mondiale; infine, le conferenze
internazionali di unificazione giuridica sono, come tutte
le conferenze internazionali, troppo difficili a riunirsi
e troppo vaghe nelle conclusioni, perché possano
essere prese, salvo casi eccezionali, in seria considerazione.
Orbene, io sono convinto che, se un mezzo ancora rimane,
quanto meno per arrestare o frenare il rovinoso processo
di disgregazione della coscienza giuridica moderna, con
il conseguente progressivo allontanamento fra i vari diritti
positivi nazionali, questo mezzo consista proprio nel ritorno
concorde alla radice comune degli ordinamenti giuridici
moderni, vale a dire nel ritorno al diritto romano. Ed anzi
il diritto romano, nel poliedrico assetto di esso, che i
moderni studi critici vengono ponendo in luce, è
in grado, forse, di fare qualcosa di piú: non solo
di agire da remora, ma addirittura di donare ai legislatori
contemporanei tesori tanto insospettati, quanto inestimabili
di esperienza giuridica, sia privatistica che pubblicistica
(5).
Di qui la particolare benemerenza di ogni iniziativa di
noi romanisti, qualora avremo presenti, nello svolgimento
e nella esposizione delle nostre ricerche, quei problemi
generali del diritto, che, stricto iure, non saremmo
tenuti ad affrontare.
2. Giova ribadire che l'ordinamento giuridico
romano non determina soltanto problemi di carattere strettamente
storiografico. Ancor piú ed ancor meglio di qualunque
altro diritto positivo presente o passato, l'ordinamento
giuridico romano si presta ad essere studiato sotto l'angolo
visuale della dogmatica, e piú precisamente sotto
l'angolo visuale della teoria generale. Né potrebbe
essere diversamente per un diritto che, come quello di Roma,
oltre ad una straordinaria ricchezza ed eccellenza di materiale,
offre all'osservazione dogmatica la singolare fortuna di
una parabola evolutiva completa, della durata di ben tredici
secoli (6).
In verità, si noti, non esistono problemi storiografici,
che non siano nel contempo problemi dogmatici, cioè
di valutazione e di inquadramento generale; né esistono
problemi dogmatici, per quanto elevati, che non siano nel
contempo problemi storiografici, cioè di ricostruzione
paziente dell'« id quod accidit ».
Infatti, se per « dogmi » giuridici si intendono,
come devono intendersi, i principi giuridici generali, determinati
attraverso un processo di deduzione e di astrazione dalla
realtà mutevole della vita giuridica, è chiaro
che l'attività volta a determinarli altro non è
che attività di storiografia, sia pur da denominarsi
« sublime ». Quando, dunque, si discorre di
problemi storiografici distinti da quelli dogmatici, si
vuole, in realtà, distinguere tra problemi strettamente
storiografici, cioè specificamente legati a un momento
o periodo o evo storico, e problemi storiografici in senso
lato o universale, ossia afferenti ad una pluralità
di evi storici e di ambienti concreti, e appunto perciò
prescindenti da ogni nota specifica dei fenomeni considerati.
La impostazione, la discussione e la soluzione dei problemi
dogmatici del diritto, nel senso ora precisato, esula, a
rigore, dalla sfera di interessi degli storiografi in senso
stretto o proprio, i quali dovrebbero limitarsi a costruire
la dogmatica dello specifico ordinamento giuridico, morto
o vivente, che studiano, evitando anzi con ogni cura di
lasciarsi influenzare da preconcetti dogmatici di qualunque
genere. I problemi dogmatici generali formano, invece, l'oggetto
di una scienza assai giovarle e già notevolmente
rigogliosa, la cd. teoria generale del diritto, di cui la
funzione propria sarebbe quella, appunto, di distillare
categorie giuridiche generali (onnivalenti o, almeno, polivalenti)
sulla base dei risultati, che le scienze storiografiche
in senso stretto le offrono.
Purtroppo, la vastità e la gravezza del compito,
che per tal guisa si impone agli studiosi di teoria generale,
non disgiunta da una certa qual diffusa tendenza di questi
ultimi a surrogare troppo facilmente la deduzione dei concetti
con 1'immaginazíone subbiettiva delle categorie generali,
fanno sí che assai spesso avvenga di imbattersi in
« sistemi » giuridici generali, che, mentre
pongono in luce le eccellenti qualità intellettuali
dei loro autori, tuttavia svelano anche, ed assai facilmente,
le lacune ed i vizi, davvero inammissibili, della documentazione
che dovrebbe sorreggerli. I cultori di teoria generale del
diritto sono ancora ben lontani dall'aver costruito solide
basi storiografiche su cui erigere i loro sistemi dogmatici;
e il male è, a quanto pare, che essi sembrano sempre
piú alieni dal convincimento di doverle, per la serietà
della scienza, costruire(7).
Ebbene, considerata questa riluttanza dei cultori di teoria
generale a seguire le moderne ricerche storiografiche (e
cioè sia le ricostruzioni degli ordinamenti positivi
passati, sia quelle stesse dei vari ordinamenti positivi
vigenti), io penso che non sarà male se, di tanto
in tanto, qualche storiografo di buona volontà si
sobbarchi, nei limiti delle sue forze, ad effettuare, per
dir cosí, la consegna a domicilio o addirittura,
diciamo, la semi lavorazione dei suoi materiali, per
agevolare lo studio di quanti si occupano di teoria generale
del diritto(8).
3. Posta l'utilità di una partecipazione
dei romanisti alla discussione dei problemi generali del
diritto, bisogna, peraltro, sottolineare ancora una volta
che un'attività di tal genere costituisce, a rigore,
un fuor d'opera dell'attività romanistica, e che,
pertanto, non si deve assolutamente pensare a subordinare
la ricerca romanistica a quelle che sembrano le esigenze
della teoria generale. Occorre, anzi, aggiungere, contro
ogni possibilità di equivoco, cbe nessuna prevenzione
di dogmatica moderna, nessun preconcetto di teoria generale
deve accompagnare lo storiografo del diritto di Roma nel
suo lavoro specifico di ricostruzione. Ne perderebbe la
storiografia romanistica, priva della necessaria spregiudicatezza
di indagine, e non ne guadagnerebbe la teoria generale,
priva della possibilità di un contributo romanistico
di revisione e di superamento.
A proposito dell'uso delle categorie dogmatiche moderne
nello studio del diritto romano, esiste tuttora una grave
polemica dottrinaria, cui non può farsi a meno di
accennare. Il sasso è stato gettato, per cosí
dire, da un valente romanista, che è anche un eccellente
dogmatico, Emilio Betti, il quale, partendo dalla premessa
filosofica che non è possibile fare una storiografia
«obbiettiva », ma che lo storiografo non può
fare a meno di portare nella ricostruzione la sua complessa
esperienza di uomo moderno, è giunto, a titolo conseguenziale,
ad affermare che lo storiografo del diritto romano deve
applicare al suo oggetto di studio le categorie dogmatiche
moderne (9).
L'affermazione, giova riconoscerlo, è stata mitigata
dal Betti, col dire che le moderne categorie dogmatiche
non devono considerarsi un inesorabile letto di Procuste
della materia romanistica, ma che esse hanno funzione soltanto
di orientamento, vanno applicate con una certa elasticità
di criteri, devono considerarsi valide sino alla prova contraria,
che l'indagine romanistica eventualmente fornisca (10).
Comunque, a parte l'autorevole adesione del Grosso e di
qualche altro, la teoria bettiana ha prevalentemente destato,
nel nostro mondo di studi, un acceso e concitato coro di
reazioni, il cui contenuto è stato riassunto dal
De Francisci nella formula che al diritto romano deve corrispondere
esclusivamente la dogmatica giuridica romana. Un coro di
giuste reazioni, come dirò subito, ma di reazioni
che letteralmente stupiscono in molti di quegli oppositori,
dato che essi sembrano legati a preconcetti dogmatici moderni
né piú né meno di quanto vi sia legato
lo stesso Betti.
A mio avviso, la premessa filosofica della teoria bettiana
è certamente impeccabile, né credo che alcuno
possa seriamente illudersi che una ricostruzione storiografica
sia qualcosa di diverso da una rappresentazione subbiettiva
(diciamo pure una « mise en scène») di
fatti piú o meno accertati: è evidente cioè,
a mio avviso, che lo storiografo non possa prescindere dalla
qualità di uomo del proprio tempo, dalle esperienze
rimessegli da quanti lo hanno preceduto, nel valutare gli
avvenimenti del lontano passato. Ma, se giusta è
la premessa, eccessiva è, secondo il mio modo di
vedere, la conseguenza che il Betti ne trae, per il motivo
che le categorie dogmatiche moderne sono categorie certamente
raffinatissime, ma create in tempi moderni per i diritti
moderni, anzi per singoli e determinati diritti moderni,
di modo che non è lecito presumere, nemmeno sino
alla prova del contrario, che esse debbano adattarsi ad
un diverso ordinamento giuridico, nella specie all'ordinamento
giuridico romano. Può darsi, ed è anzi probabile,
che l'indagine romanistica porti alla conferma ed alla precisazione
di molti dogmi giuridici moderni, ma mettersi in campagna
tra i frammenti dei Digesta già con l'orientamento
segnato da questi dogmi significa, per nostro conto, procedere
con un paraocchi straordinariamente dannoso per le scoperte
della scienza. La sicurezza dei risultati diminuirebbe e
molti aspetti del fenomeno giuridico romano finirebbero
per essere trascurati.
D'altro canto, come già ho detto, quel che sorprende
in molti avversari del Betti è che anche essi
non si fanno scrupolo di subordinare le proprie indagini
storíografiche a preconcetti dogmatici di origine
moderna, per esempio a quello della normatività
del diritto, o a quello della subordinazione della consuetudine
alla legge o a quello notissimo della distinzione tra meri
atti e negozi giuridici. Se in qualche cosa essi si differenziano
dal Betti e dai suoi seguaci, è nel vincolarsi a
dogmi un po' piú antiquati, e piú precisamente
a quelli elaborati dalla Pandettistica tedesca del sec.
XIX. E sorge il dubbio, talvolta, che il Betti, da quel
fine conoscitore dei progressi dogmatici che è, abbia
voluto, piú che altro, reagire contro l'usuale applicazione
al diritto romano di poche e invecchiate categorie
dogmatiche del secolo scorso.
Ad ogni modo, la formula buona è, a mio parere, che
al diritto romano deve corrispondere solo ed esclusivamente
la dogmatica giuridica romana. Formula che, peraltro, non
deve intendersi nel senso, in cui molti tuttora l'intendono,
che i romanisti abbiano a limitarsi alla ricostruzione
dei pochi e rudimentali sistemi giuridici creati dalla giurisprudenza
romana classica e post classica. Formula che, viceversa,
sta a significare che, subordinatamente all'accertamento
degli istituti giuridici positivi romani, i romanisti hanno
il compito di procedere, con spirito di assoluta indipendenza
da qualsivoglia preconcetto antico e moderno, alla costruzione
dei dogmi piú atti a rappresentare e riassumere l'esperienza
giuridica romana.
E auguriamoci che giunga presto il giorno, in cui una sola
teoria generale del diritto, comprensiva dei dogmi supremi
sia maroni che moderni, abbia a coronare gli sforzi, che
alla sua determinazione siano stati da ogni parte dedicati.
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© Antonio Guarino
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Note:
1 Schema
di una conferenza pronunciata il 29 aprile 1955 nell'Academia
Matritense del Notariado. Pubblicato in Diritto e Giurisprudenza
70 (1955) 273 ss. 2
Per le idee espresse in queste pagine, cfr. già GUARINO,
L'ordinamento giuridico romano (1949) 9 ss.; Storia del
diritto romano2 (1954); Pro/ilo di diritto privato romano3
(1954) c. II VI. Altre opere, di varia ampiezza e impostazione,
che gioverà aver sempre presenti sono: ALBERTARIO,
Introduzione storica allo studio del diritto romano giustinianeo
(1935); ALVAREZ SUAREZ, Horizonte actual del derecho romano
(1944); CHIAZZESE, Introduzione allo studio del diritto
romano3 (1948); D'ORS, Presupuestos criticos para el estudio
del derecho romano (1943); GROSSO, Premesse generali al
corso di diritto romano3 (1954); GROSSO, Problemi generali
del diritto attraverso il diritto romano (lit. 1948); ORESTANO,
Introduzione allo studio storico del diritto romano (lit.
1953); SANCHEZ DEL Rio, Notas sobre los temas generales
del derecho romano (1955); SCHULZ, I principii del diritto
romano (tr. it. 1946).
La letteratura sul distacco tra romanisti e civilisti e
sulla «crisi» del diritto romano è sterminata.
Il grido di allarme più alto (ma non il primo: cfr.,
sul punto, ORMANNI, L'eredità classica nel mondo
moderno, in Labeo 1 [1955] 98 ss.) fu lanciato
dal KOSCHAKER, Die Krise des römischen Recbts und
die romanistiscbe Wissenschaft (1939): per una puntualizzazione
del « clima » in cui il saggio del Koschaker
fu concepito e scritto, può essere utile qualche
cenno in GUARINO, L'Europa e il diritto romano, in
Labeo 1 (1955) 207 ss. V. ancora: KOSCHAKER, Europa
una das römische Recht (1947, rist. 1953),
ove si ribadisce il programma dell' « attualizzazione
» , espresso altresí mediante il motto «
zurück zu Savigny! » (« torniamo al diritto
romano come lo praticava, ai primi del secolo scorso, il
fondatore della Scuola storica tedesca, Federico Carlo v.
Savigny! »). Sarebbe vano citare la vastissima serie
di articoli adesivi sollevata dagli scritti del Koschaker.
Bisogna riconoscere al Carrelli il merito di aver per primo
reagito a questa impostazione: v. infra nt. 3.
3 In
particolare, la celebrata opera del Koschaker dal titolo
Europa und das römische Recht (v. nt. 2) altro
non rappresenta che lo sviluppo della Krise del 1938.
Serenità vuole che si dica che fu un'opera indubbiamente
di largo e profondo respiro, di vasta e signorile dottrina,
ma priva o quasi di una sua propria fisionomia, di una sua
chiara e definita ragion d'essere. E altissimo merito
del Koschaker l'aver ribadito la grande importanza avuta
dal diritto romano come coefficiente dell'unità spirituale
europea, ma non è per questo, non è affatto
per questo che si giustifica la tesi, che pur condivido,
della opportunità di studiare storicamente il diritto
romano, cioè di ricostruirlo nella sua evoluzione
millenaria da Romolo a Giustiniano. Questa tesi ha, invece,
un « ubi consistam » del
tutto autonomo: il diritto romano merita di essere studiato
storicamente per l'intrinseco interesse che esso offre,
e può essere utile in questa guisa a contribuire
non solamente all'unità spirituale europea, ma a
quella mondiale. Perché si studia la grammatica latina,
perché si studiano i neutroni, perché si studiano
le geometrie non euclidee? Perché non sarebbe possibile,
agli Ulissidi che noi siamo, rinunciare al loro studio?
Ecco le vere ragioni che giustificano (accanto a ogni altra
ricerca veramente scientifica) anche la ricerca storiografica
del diritto romano. Ed ecco, dunque, perché l'Europa
del Koschaker (di cui, ripeto, sarebbe vano contestare
la profonda dottrina) tanto ha detto e dice agli uomini
di cultura in genere e agli storiografi del diritto intermedio
in particolare, ma tanto poco, siamo sinceri, ha detto
e dice ai romanisti in quanto tali.
4 Cfr.
CARRELLI, A proposito di crisi del diritto romano, in
SDHI. 9 (1943) 1 ss. (si tratta della prolusione
che il compianto romanista avrebbe dovuto pronunciare,
ma non pronunciò, per la contingenza bellica, a Messina
nel dicembre 1940). Alla reazione del Carrelli si uni chi
scrive nella sua prolusione catanese (gennaio 1943): GUARINO,
Il problema dogmatico e storico del diritto singolare,
in Ann. dir. comp. 18 (1946) 1 ss. V. ora in
questo senso, con vasta impostazione, ORESTANO, Introduzione
(nt. 1) passim e 228 ss.; ID., Diritto romano,
tradizione romanistica e studio storico del diritto, in
RISG. 4 (1950) 156 ss. (La reazione dell'Orestano
è tanto rigida che egli, Introduzione cit.
237 s., critica anche me, per quel che affermavo in Ord.
giur. rom. cit.: « di tutti i propositi di ritorno,
che piú volte sono risuonati nei secoli, indubbiamente
il piú antistorico è quello lanciato da queste
correnti della moderna romanistica, perché, se veramente
si ritenesse che le soluzioni del nostro presente noi dovessimo
andare a cercarle nel diritto romano . . ., con ciò
si verrebbe ad annullare . . . lo svolgimento della storia
giuridica dal Corpus iuris ai nostri giorni ».
Ma, per vero, a me proprio non sembra di aver voluto dire
e di aver detto quanto 1'Orestano ha creduto d'intendere).
Per la piú recente letteratura, v.: BIONDI, Crisi
e sorti dello studio del diritto romano, in Conferenze
romanistiche Univ. Trieste 1 (1950) 11 ss.; ID., Esistenzialismo
giuridico e giurisprudenza romana, in Jus 1 (1950) 107
ss.; ID., Scienza giuridica come arte del giusto, in
Jus 1 (1950) 145 ss.; ID., Universalità e perennità
della giurisprudenza romana, in L'Europa e il dir.
romano (1954) 2. 381 ss.; BISCARDI, Il diritto romano
e l'ora presente, in Jus 2 (1951) 287 ss.; BRANCA, Considerazioni
sulla dogmatica romanistica in rapporto con la dogmatica
moderna, in RISG. 4 (1950) 131 ss.; D' ORS, La crisi
attuale del diritto nell'impostazione romanistica, in
Jus 2 (1951) 341 ss.; ID., Jus Europaeum?, in L'Europa
e il diritto romano (1954) 1. 447 ss.: tutti questi
autori concordano in un punto, nel propugnare un ritorno
ai metodi ed alla spirito della giurisprudenza romana, aliena
da inutili astrazioni. Cfr. anche: HORVAT [Il diritto
romano e i nostri studi giuridici], rassegnato in Iura
3 (1952) 483; WENGER, Um die Zukunft des römischen
Rechts, in Festschr. Schulz (1951) 2. 364 ss.;
BADER, Aufgaben und Methoden des Rechtshistorikers, in
Recht und Staat 162 (1951); BRASIELLO, Lo studio
storico del diritto romano in rapporto al diritto moderno,
in AG. 141 (1951) 58 ss.; BIONDI, La terminologia
romana come prima dogmatica giuridica, in Studi Arangio Ruiz
2 (1953) 73 ss.; GIOFFREDI, Dommatica e sistematica
nello studio del diritto romano, in SDHI. 18
(1952) 248 ss.; ALBANESE, Rc. a Orestano, Introduzione,
in Iura 5 (1954) 249 ss.; KUNKEL, Paul Koschaker
und die europäische Bedeutung des römischen Rechts,
in L'Europa e il dir. rom. (1954) 1. III ss.;
WIEACKeR, Ueber Aktualisierung der Ausbildung im römischen
Recht, ivi 1. 513 ss.; RICCOBONO, La
universalità del diritto romano, ivi 2, 1 SS.;
IGLESIAS, El estudio actual del derecho romano, ivi 2.
301 SS.; PARADISI, I nuovi orizzonti della storia
giuridica, ivi 2. 307 ss.; BURDESE, Considerazioni
preliminari in merito allo studio del diritto romano, in
Studi De Francisci (1955) 4. 359 ss., special. 368
ss.
5 Val
la pena di rilevare che, contrariamente ad ogni aspettativa,
si va verificando in questi anni un risveglio degli studi
romanistici anche nei Paesi comunisti. Ovviamente, il diritto
romano viene studiato ivi secondo i criteri del cd. materialismo
storico: metodo pienamente legittimo e fecondo di interessanti
(anche se non sempre convincenti) risultati, di cui ha fatto
e continua a fare impeccabile applicazione tra noi il DE
MARTINO, Storia della costituzione romana 1 (1950), 2
(1954 55). Senonché, dilettantistiche e
poco meditate, se non altro, sembrano invece enunciazioni
come quelle di BARTOECK, Rc. a Cosentini, Studi
sui liberti, in Iura 1 (1950) 461 ss.; ID., Come
si dovrebbe studiare attualmente il diritto romano, in
Studi Arangio Ruiz (1953) 1. 317 ss.; BARDACH,
Perspektiwy rozwoju nauki historii panstwa i prava, in
Czasopismo Prawno historyczne 3 (1951) 1 ss.
Cfr. al proposito: GROSSO, Rc. a Studi Arangio Ruiz,
in Tura 4 (1953) 419; ID., Premesse (nt.
1) 16 s.; BIONDI, Diritto romano e marxismo, in Jus
4 (1953) 130 ss.; IGLESIAS CUBRÌA, Materialismo
bistórico y Derecho romano, in In/ormación
juridica 105 (1952) 133 ss.
6 Di
fondamentale importanza per la comprensione dei rapporti
tra la storia e la cd. teoria generale del diritto è
DE FRANCISCI, Punti di orientamento per lo studio del
diritto, in RISG. n.s. 3 (1949) 69 ss. (cfr.
anche Annali Sem. giur. Catania 4 [1950] 1 ss.),
su cui cfr. GUARINO, in Iura 2 (1951) 320 ss. Col
De Francisci mi sembra necessario concordare nel ritenere
che la cd. teoria generale del diritto altro non sia e non
possa essere che la «scienza metastorica del diritto»,
cui compete la determinazione, sulla base delle varie esperienze
giuridiche, dei dogmi costanti, se non eterni, del diritto,
e che, quindi, «conduce sino alle porte della filosofia».
Sostanzialmente a questa conclusione perviene anche, se
non erro, la lunga analisi di ORESTANO, Introduzione
(nt. 1), ove si trovano altre indicazioni bibliografiche.
Cfr. inoltre: ORESTANO, Il diritto romano nella scienza
del diritto, in Jus 2 (1951) 141 ss. Ma, a questo
proposito, non sarà male sottolineare che occorre
mettersi d'accordo con la terminologia, dato che molte incomprensioni
tra gli studiosi derivano, per quanto mi sembra, da diversità
di linguaggio e non da diversità di pensiero. La
storia del diritto (di cui la storia del diritto romano
è un capitolo) viene qualificata da taluni «scienza
del diritto» o elemento integrante della scienza del
diritto: così, ad esempio, ORESTANO, Introduzione
108 ss. e art. cit., per il quale ogni studio
storico, in quanto studio dell'esperienza giuridica, è
manifestazione della scienza del diritto; cosí pure
DE FRANCISCI, Punti di orientamento cit., secondo
cui l'unica e vera scienza del diritto è la storiografia
giuridica, mentre la dogmatica giuridica altro non è
che tecnica; cosí ancora GROSSO, Problemi e visuali
del romanista, in Jus 1 (1950) 322 ss., e in L'Europa
e il diritto romano (1954) 1. 498 ss. Altri, forse piú
esattamente, nega la identificazione della storiografia
giuridica (che è null'altro se non una ripartizione
della scienza storica) con la scienza del diritto e identifica
in quest'ultima la cd. dogmatica giuridica o giurisprudenza:
BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio,
in Riv. trim. dir. e proc. civ. 4 (1950) 342
ss.; ID., Teoria della scienza giuridica (lit. 1950)
201 ss. (cfr. GUARINO, in Tura 2 [1951] 320 ss.).
Altri, infine, e sembra tuttora essere l'opinione più
diffusa, vede nella scienza del diritto una sorta di «
sintesi dell'esperienza giuridica totale »: così
testualmente GIOFFREDI, Rc. a Guarino, Ordinamento cit.,
in Iura 1 (1950) 485 (ma v. già, prima di
lui, tra gli altri, PUGLIESE, Diritto romano e scienza
del diritto, in Ann. Macerata 15 [1941]).
7 Valga
per tutti 1'esempio del Carnelutti, il quale, per dar forza
alla sua concezione del diritto come legame o vincolo, ha
riesumato la parentela etimologica di «ius »
con 1'ètimo « iug », che è
la radice di « iugum », «
iungo », « coniugium » ecc.:
CARNELUTTI, Di là del diritto, in RISG.
1 (1947) 108 ss.; ID., « Ius iungit»
, in Riv. dir. proc. 1949, 57 ss. Ma v. contra
la secca replica, in nome della filologia, del DEVOTO,
« Ius ». Di là dalla grammatica, in
RISG. 2 (1948) 414 ss. Con diversa consapevolezza
la tesi della derivazione di « ius »
da « iug » è stata ripresa dal
GIOFFREDI, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche
romane (1955) 49 s., il quale si rifà particolarmente
al TRIER, Beiträge zur Geschichte des deutscben
Sprache und Literatur 66 (1942) 232 ss. e Gött.
gel. Anz. 203 (1941) 423, sostenendo che il ricollegamento
non va operato attraverso parole di senso astratto (legame,
vincolo), ma attraverso parole con il significato materiale
di ciò che è chiuso, circoscritto, «
quindi l'assemblea in forma di cerchio, il tribunale, ciò
che è stabilito nel tribunale ». Tesi, peraltro,
parimenti fantasiosa e poco convincente.
8 Il
GIOFFREDI (nt. 5) osserva che « il Guarino avrebbe
dovuto rifarsi anziché alla teoria generale del diritto
» alla « scienza del diritto », ed aggiunge
che «quest'ultima, essenziale e unitaria, gli avrebbe
permesso di far apparire il diritto romano non in funzione
di subordinazione o di affrancamento, ma come forma storica
di un fenomeno universale, mentre la teoria generale del
diritto, concetto più scolastico e ristretto nel
suo territorio, lo ha costretto a ritrattare parte di ciò
che aveva coraggiosamente affermato ». Questa critica
non mi sembra giusta. Parlando, in Ord. giur. rom., di
teoria generale del diritto, non mi sfuggiva l'istanza di
una scienza suprema e unitaria del diritto, ma ne rifuggivo
per i motivi e con le stesse parole (sfuggite, evidentemente,
al mio critico), che possono leggersi retro n. 1.
Non ci vuol molto a « far apparire » il diritto
romano come « forma storica di un fenomeno universale
», quello della scienza, tanto piú che è
una lapalissiana verità, ma il nostro problema era
e vuole essere quello di coordinare tra loro branche autonome
della scienza: branche che non possono non essere considerate
autonome, se si vuole che siano coltivate con il necessario
approfondimento. In questo senso ho detto, e ripeto, che
per il romanista lo studio della branca scientifica denominata
« teoria generale » è, a stretto rigore,
un fuor d'opera (infra n. 3): nello stesso senso
in cui l'avrei detto, e comunque lo affermo, anche per la
storiografia dei diritti non romani.
9 Le
interessanti vedute del Betti sulla interpretazione dei
cd. diritti storici, e del diritto romano in specie, hanno
formato oggetto di una lunga serie di saggi e monografie,
nel corso della quale l'autore ha avuto modo sia di approfondire
e allargare il suo campo di indagine, che di rivedere alcune
sue affermazioni e di attenuarne, comunque, le troppo rigide
formulazioni iniziali. Cfr. Diritto romano e dogmatica
odierna, in AG. 99 (1928) 729 ss., 100 (1928) 27 ss.;
Methode und Wert des heutigen Studiums des römischen
Rechts, in Tijdschr. voor Rechtsgesch. 15 (1937)
137 ss.; Le categorie civilistiche dell'interpretazione,
in RISG. 2 (1948) 34 ss.; Interpretazione
della legge e degli atti giuridici (1949); Forma
e sostanza dell'interpretatio prudentium, in Atti
Congr. Verona 2 (1951) 103 ss.; Jurisprudenz und
Rechtsgeschichte vor dem Problem der Auslegung, in L'Europa
e il diritto romano (1954) 2. 441 ss.; Zur Grundlegung
einer allgemeinen Auslegungslehre: ein hermeneutisches Manifest,
in Festschr. Rabel (1954) 2. 79 ss. (ivi
ampi richiami alla letteratura sopravvenuta); Teoria
generale della interpretazione (1955), particolarm.
§ 36. Tra coloro che hanno pienamente aderito
è GROSSO, Premesse (nt. 1) 34 ss., il quale,
peraltro, ha anche convenientemente sottolineato la necessità
di moderazione nell'uso delle categorie dogmatiche moderne.
Vivace, forse troppo, è stata invece la replica del
DE FRANCISCI, Questioni di metodo, in Studi Riccobono
1 (1926) 1 ss.: replica che ha fortemente influenzato
la dottrina romanistica, ingenerando qualche radicale incomprensione
della teoria del Betti. In che limiti io accolgo la tesi
bettiana risulta dalle pagine di testo, le quali proprio
non mi sembra che giustifichino il secco giudizio di incomprensione
che il Betti mi irroga (Teoria generale 1. 575 nt.
2): v. comunque GUARINO, Una teoria generale
dell'interpretazione, in Labeo 1 (1955) 301 ss.
10
« La messa a profitto della dogmatica per lo studio
storico non va concepita quale applicazione ab extra,
o sovrapposizione meccanica di concetti già belli
e pronti, ad un mondo destinato a rimaner loro intimamente
estraneo e refrattario », ma « il giurista interprete
deve conservare alle categorie che usa quel grado di elasticità
e di forza dinamica, che le renda atte a stringere piú
da presso gli istituti studiati»: cfr. Teoria generale
(nt. 8) 580 s.
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