1.
Certo potrà apparire strano che io abbia atteso più di
dieci anni dall'uscita del mio corso sulla plebe (1)
per rispondere ai miei critici. Ma ho qualche motivo di
giustificazione.
In
un primo tempo sono stato trattenuto dal farlo sùbito
soprattutto per evitare che la mia risposta potesse assumere
toni risentiti o polemici, cosa che sarebbe facilmente
potuta avvenire se si tiene conto che una delle due
recensioni che il libro ha ricevuto sembra appartenere più
alla letteratura pamphlettistica che a quella scientifica.
Poi l'attesa si è prolungata non tanto per meglio meditare
contenuti e toni delle risposte da dare, quanto per la
speranza, rivelatasi quasi del tutto vana, che alle due
recensioni si aggiungesse, negli anni successivi, qualche
ulteriore presa di posizione relativa al mio lavoro, presa
di posizione da mettere a profitto o da discutere: insomma,
mi attendevo (perché negarlo?) che la mia ricerca sulla
plebe ottenesse maggiore risonanza ed attenzione da parte
dei Colleghi (e non parlo certo di consenso, giacché di
questo avevo poche aspettative).
Del
resto, attacchi anche violenti mi erano stati predetti da un
romanista tanto insigne quanto esperto quale Gian Gualberto
Archi che, riconsegnandomi il dattiloscritto che Egli aveva
accettato in lettura, aveva pronosticato critiche feroci
dalle quali avrei faticato a difendermi. Ed invece, una
volta tanto, il professore Archi si sbagliava. Pochi
critici, pochi giudizi, ma piuttosto quello che si usa
ironicamente definire un "fragoroso silenzio".
Ora,
quando un lavoro, del quale tutto si potrà dire tranne che
non sia innovativo, provoca reazioni così contenute (e
l'aggettivo è senza dubbio eufemistico), la cosa non può
essere casuale. Io ho fatto al riguardo qualche ipotesi,
alcune delle quali sono talmente malevole da non potere
nemmeno essere scritte; infine ne ho scelta una che non è
necessariamente la più credibile, ma che almeno mi consente
di sopravvivere alla sua formulazione (e di fare
sopravvivere il mio lavoro) e di "rilanciare".
Citerò, per spiegarmi forse poco rapidamente ma in maniera
(spero) efficace, il brano di un libro che tutti conosciamo
per averlo letto o nella nostra infanzia o (come è il mio
caso) in età giovanile: Il Piccolo Principe.
Il
Piccolo Principe vive su un minuscolo corpo celeste del
quale Antoine de Saint-Exupéry scrive: «Ho una serie di
ragioni per credere che il pianeta da dove veniva il piccolo
principe è l’asteroide B 612. Questo asteroide è stato
visto una sola volta al telescopio da un astronomo turco.
Aveva fatto allora una grande dimostrazione della sua
scoperta a un Congresso Internazionale d'Astrologia. Ma in
costume com'era, nessuno lo aveva preso sul serio». (2)
Bene.
Io ho il sospetto che il mio lavoro sia stato nella sostanza
ignorato dai più semplicemente perché preso poco sul
serio. Forse sono stato immaginato calcare in testa il fez
(o altro folcloristico copricapo) durante la sua stesura per
celare la mia vistosa calvizie; forse, uscendo di metafora,
il tono piano, lo stile scevro di neologismi, talune
consapevoli semplificazioni (e certo altre inconsapevoli), i
testi riportati in (sola) (3)
lingua italiana, l'assenza di riferimenti bibliografici
(tutte cose rese consigliabili dalla sua destinazione ad un
pubblico di studenti della fine degli anni 80) sono state
interpretate (insieme all'indubbia arditezza delle idee
avanzate) come manifestazioni di disimpegno intellettuale.
Se
così, affannarsi ad assicurare che le cose scritte sono
state pensate (forse male, certo in modo non
sufficientemente approfondito e comunque adeguato
all'importanza del tema, ma pensate) non ha molto senso. La
sola cosa che posso per ora fare è rispondere a chi del mio
lavoro si è interessato, sperando che questo
"rilancio" possa, in un futuro non troppo remoto,
suscitare qualche risposta.
È
quanto passo immediatamente a fare.
2.
In due pagine (il mio libro ne conta oltre cinquecento, ma
molte sono occupate da citazioni di testi, in particolare di
Livio e Dionigi di Alicarnasso, sui quali non cade il
dissenso) Giovanni Lobrano pronuncia su Plebe Genti Esercito
una condanna senza appello. Di tutte le affermazioni che il
libro contiene, una sola egli condivide: quella secondo la
quale la ricerca è solo agli inizi (4)
. Naturalmente il significato che Lobrano ed io attribuiamo
a questa affermazione è assai diverso, sicché questo (sia
pur minimo) punto di accordo è soltanto apparente: il
dissenso tra noi è totale.
Ma
i conti cominciano subito a non tornare: una recensione di
due pagine in totale dissenso con l'opera recensita che, di
pagine, ne conta qualche centinaio, o è il frutto di
sovrumane qualità di sintesi del suo autore o viene meno
(nei confronti del lettore e dell'autore recensito) a quello
che io ritengo (ma Lobrano deve essere evidentemente di
diverso avviso) il primo e più elementare dovere del
recensore dissenziente: quello di motivare adeguatamente il
proprio dissenso (5)
.
Posto
che, pur senza difettare di capacità di sintesi, Lobrano
non ne possiede nella misura ipotizzata, io ho la sensazione
di trovarmi di fronte ad un prodotto letterario assai
discutibile il cui autore, lungi dall'avere raffrontato (nel
modo più equanime possibile) le proprie idee con le mie, si
è limitato a bocciare alcune delle mie osservazioni (quelle
che costituiscono il risultato di tutta l'indagine)
stimandone non raggiunta la dimostrazione (meglio:
stimandole semplicemente assurde), senza fornire nemmeno una
minima giustificazione o, per meglio dire, senza fare un
accenno, sia pur minimo, al "percorso" da me
seguito per giungere a quelle conclusioni.
In
tutta franchezza, io non ritengo che questo sia un modo
corretto di fare una recensione: Lobrano, a mio avviso,
avrebbe potuto dare sfogo alla propria riprovazione ed al
proprio stupito dolore (6)
per le cose che si è trovato costretto a leggere solamente
dopo avere messo in luce l'erroneità di tutta una serie di
interpretazioni da me date alle testimonianze
storico-letterarie. Più concretamente, la tendenza
centrifuga della plebe ed il separatismo che ne consegue, il
separatismo gentilizio, l’unionismo per converso
professato da un terzo ceto (identificato, pur con una certa
oscillazione terminologica, ne convengo, con quello
militare), in ordine ai quali Lobrano ha pronunciato la
propria condanna inappellabile e la propria disapprovazione
più che severa, non costituiscono il frutto di divagazioni
oniriche o di fugaci impressioni di lettura (anche se il mio
recensore mostra e scrive di ritenere il contrario (7)
). Ad esse sono pervenuto dopo avere letto (e meditato: mi
creda Lobrano) fenomeni quali la secessione plebea del
494-3, la vicenda di Spurio Cassio, l'impresa dei Fabi al
Cremera, il decemvirato legislativo, l’episodio della
fanciulla di Ardea del 443 a.C., il periodo del cosiddetto
tribunato militare, il decennio che sfocia nel compromesso
licinio-sestio, i plebisciti Genuci (tanto per citare i
passaggi più importanti della mia ricerca). Non è lecito a
nessuno (ed ha errato Lobrano quando ha ritenuto che per lui
lo fosse) valutare i risultati della mia ricerca senza
valutare preliminarmente, assumendo in relazione ad essi una
posizione motivata, gli episodi sopra esposti. Dopo (ma solo
dopo) avere fatto questo, Lobrano avrebbe potuto pronunciare
la severa condanna che la pronunciato: ed allora sarei stato
lieto e onorato di discutere con lui. Ma prima non ha alcun
diritto di farlo. Questo a me è stato insegnato e ritengo
che questo sia un atteggiamento al quale un recensore non può
sottrarsi.
Detto
ciò, preciso subito (anche se dovrebbe essere superluo
farlo) che io sono ben lontano dal ritenere inattaccabili i
risultati del mio lavoro: anzi, penso esattamente
l’opposto. Lo ho affermato in prefazione e in conclusione
del Corso (dando a Lobrano l'occasione per fare sfoggio di
sarcasmo), riconoscendone la prematura pubblicazione e la
provvisorietà e l'aleatorietà dei risultati. E in quelle
sedi mi domandavo come Lobrano avrà letto, se c'erano
studiosi disposti sì a criticarmi, ma anche a suggerirmi e
consigliarmi. Se dovessi giudicare solo dalla risposta che
il romanista sassarese mi ha dato, dovrei concludere che si
rinviene facilmente chi è disposto a svolgere la prima
attività, ma non le altre.
3.
La seconda (ed ultima, a mia scienza) recensione dedicata al
mio lavoro porta la firma di Elio Dovere (8)
, allora studioso giovanissimo e allievo del mio stesso
Maestro.
Anche
Dovere non mi risparmia critiche (della cui costruttività e
del cui garbo lo ringrazio) ma, al contrario di quanto ha
fatto Lobrano, cerca pure di motivarle; non soltanto: Dovere
affronta anche, ed era la prima cosa che si doveva fare la
questione metodologica: con lui è quindi possibile una
discussione pacata e franca, anche se al termine di essa
ciascuno di noi resterà (ma questo importa ben poco) della
propria idea.
La
questione metodologica, dicevo. È questo il grande (non
l’unico, certo) nodo da sciogliere prima di passare al
considerazione dei problemi specifici. Ecco in merito il
pensiero di Dovere relativo alla mia sfiducia nelle fonti
storiche, o, per meglio dire, all'idea da me espressa
secondo la quale motivazioni fornite dagli storici agli
accadimenti narrati divergerebbero ampiamente da quelle
reali.
Prima
ancora che un dato di ragione, la fiducia nelle fonti (e il
loro non essere "ipotesi di storia", così come io
stesso ho scritto) è un dato di necessità; ché, in caso
contrario, "su cosa mai, allora, lo studioso moderno
potrebbe esercitare i propri strumenti critici e, quindi,
l’attitudine all'analisi e i tentativi di sintesi? Certo
non su avvenimenti reali, ma su fantasie, ‘falsi
d'autore’! Cadrebbe dunque ogni ragione di ‘fare
storia’; anzi, quest'attività, fra le più concrete
dell'ingegno umano, qualora trovasse ancora qualche cultore,
si trasformerebbe nell'ipotizzare su ipotesi... Orbene,...
partendo dunque da una supposizione così radicalmente
negativa (si negano, appunto le "linee generali' delle
antiche referenze), sarebbe maggiormente opportuno
manifestare un non liquet piuttosto che proporre
nuove ipotesi .... Per quel che riguarda il mio pensiero...
non credo sia consentito discostarsi proprio da quelle
"linee generali" che Zamorani, invece, ritiene
semplicemente ipotesi". Qui, per il momento, mi
arresto, malgrado il discorso di Dovere che segue sia
inscindibilmente legato a quanto precede: ma lo faccio solo
per comodità di esposizione.
Io
noto anzitutto che, ove si giungesse a "scoprire"
(ma il termine è certamente troppo "forte":
diciamo "a nutrire qualche sospetto") che le
motivazioni di quanto ci è pervenuto attraverso le
narrazioni degli antichi storici relative alla prima
repubblica sono opinabili, potrebbe (anzi: dovrebbe) con
ancor maggiore alacrità continuare a ‘farsi storia’. E
una indagine che ponesse in discussione e si discostasse
dalle linee generali delle antiche narrazioni non sarebbe
una storia apocrifa, inventata, eretica, basata su fantasie
o ‘falsi d'autore’:sarebbe (anzi: è) una storia con
dignità del tutto pari a quella delle opere che seguono la
falsariga delle narrazioni antiche, se è vero (come è
vero) che entrambe le metodologie di studio hanno di mira il
raggiungimento di uno stesso fine ultimo. E all'amico Dovere
che non ritiene sia lecito discostarsi dalle linee generali
delle narrazioni antiche, io suggerisco di rileggere quali
sono le linee generali delle narrazioni sovietiche coeve al
periodo staliniano, di quelle tedesche coeve al periodo
del nazismo, di quelle che i ragazzi delle scuole italiane
nel periodo del "ventennio" leggevano sui loro
libri di scuola e relative alla conquista delle terre
africane o a talune di quelle (drammaticamente vicine) degli
"anni di piombo" italiani. Anche queste (almeno
rapportate ad oggi) potrebbero dirsi narrazioni
"antiche": ma non sarà forse lecito (doveroso,
direi) discostarsi da talune (o molte, o tutte) di esse? (9)
Ancora: Dovere è certo al corrente che, negli Stati Uniti
ed in Germania, vi sono studiosi (e non tutti di scarso
rilievo) che pubblicano lavori che revocano in dubbio la
storicità dell'olocausto del popolo ebreo. Non sarà
legittimo, io mi domando, rifiutare queste
"storie"? E la legittimità del rifiuto di molte
di esse non poggia forse sul compimento di un'indagine
storica? Non è anche questo impegno (meglio:
particolarmente questo impegno) un ‘fare storia’?
E
tuttavia, forse alla base di quanto ha scritto Elio Dovere
(e altri hanno pensato) sta un equivoco, equivoco del cui
sorgere mi addosso ogni responsabilità, ma che una
interpretazione meno letterale delle mie parole avrebbe
forse potuto evitare; d'altro canto, lo stesso prosieguo
della recensione di Dovere smentisce nella sostanza che
categoricamente egli rifiuti quanto sopra riportato. Io ho
scritto, a proposito delle storie di Dionigi e di Livio, che
esse sono "ipotesi di storia": debbo essermi
evidentemente espresso male, ma che non intendessi affermare
che le opere degli antichi autori siano mere fantasie,
`falsi d'autore' (così come interpreta Dovere), risulta
ampiamente dall'impostazione metodologica chiarita al
capitolo III del mio Corso, che pure Dovere ha letto con
attenzione e conosce assai bene. Qui io ho impostato, forse
un po' rozzamente (10)
- ne convengo - , la distinzione fra "fatto" e
"spiegazione del fatto" (altri ha preferito
parlare, certo con maggior eleganza, di "elementi
strutturali" ed "elementi sovrastrutturali"
della narrazione): ebbene, non credo di dire cosa azzardata
o provocatoria, ma il mio corso è quasi certamente (e
malgrado possa apparire esattamente il contrario) uno dei
lavori più conservativi della tradizione storica comparsi
negli ultimi anni. E non dico questo per desiderio di essere
paradossale o provocatorio: nel mio lavoro gli episodi la
cui storicità viene negata (e ricollegata all'invenzione di
qualche annalista) sono pochissimi. Non ho creduto
all'esistenza di un plebiscito Canuleio del 445 (11)
, ma ho ammesso che un tribuno di nome Canuleio, di tendenza
unionista, abbia potuto operare allo scopo di far venire
meno il disposto di quella legge valerio-orazia che (secondo
la testimonianza di Diodoro) aveva tolto il conubium con
la plebe ai patres; non ho creduto alla dittatura di
Camillo del 368 a.C., ma bisogna ammettere che essa ha
ottime probabilità (indipendentemente dalla mia tesi) di
essere il prodotto di un atteggiamento agiografico. Insomma,
e malgrado il rimprovero che da entrambi i miei recensori mi
viene mosso (e cioè di avere, in sostanza, riscritto la
storia di Roma) io ritengo al contrario di avere assunto nei
confronti degli episodi che gli autori antichi riportano un
atteggiamento molto rispettoso: do fiducia praticamente ad
ogni aspetto della tradizione, anche là dove altri
(ritenuto assai più rispettoso e conservativo di me) si
comporta diversamente. Anche qui cito solo pochi esempi: ho
creduto ai due decemvirati, laddove dell'esistenza del
secondo si dubita; ho creduto a tutti i plebisciti Genuci,
di cui Livio dice di avere rinvenuto menzione solo in certi
annali; ho creduto all'esistenza di personaggi che, dalle
fonti, emergono con contorni quasi leggendari, quali
Coriolano e Spurio Cassio; e potrei citare molti altri casi
di questo genere.
Il
campo dove ho molto spesso (meglio: quasi sempre) esercitato
la vasta e radicale critica che mi viene rimproverata è
quello delle motivazioni e delle cause di questi fatti.
Debbo qui ripetere (anche se per sommi capi) cose già
scritte nel Corso di lezioni (12)
.
Noto
dunque quanto segue.
a)
Il modo attraverso il quale gli annalisti (e penso
evidentemente ai primissimi annalisti, Fabio Pittore in
testa) avevano notizia degli avvenimenti antichi era, nel
migliore dei casi, la consultazione degli Annales Maximi;
la tradizione orale, oltre ad essere assai più
inaffidabile, ha anche un maggior grado di manipolabilità;
b)
ancorché noi sappiamo benissimo (perché ce lo dicono gli
autori antichi) qual era il modo in cui gli Annales venivano
redatti (e a questo scopo si veda in particolare Cic. de
orat. 2.12.52-53) (13)
, evitiamo da ciò di trarre la necessaria conseguenza; e
cioè che, per quanto riguarda l'epoca più antica (e quindi
anche i primi due secoli della repubblica, per i quali,
oltretutto, manca pure l'ausilio della storiografia greca)
le motivazioni degli accadimenti, le cause dei
"fatti" dovettero per necessità di cose essere
elaborate degli annalisti. Ciò non sta, ovviamente, a
significare che, di conseguenza, l'annalistica più antica
abbia sempre dato motivazioni erronee o tendenziose,
ma piuttosto che esiste la possibilità (se non addirittura
la probabilità) che esse non siano veritiere;
c)
se poi si tiene conto del fatto che la storiografia romana
nasce, con Fabio Pittore, all'insegna della propaganda
politica estera, dovendosi presentare Roma ai popoli del
bacino del Mediterraneo dove l'Urbe si apprestava a
sostituire Cartagine come potenza egemone (e quindi in una
dimensione "unificante"), io non vedo perché
Fabio Pittore non abbia potuto, indirizzandosi a non Romani
con i suoi annali scritti in greco, liberarsi dello scomodo
"scheletro nell'armadio" costituito dal
separatismo plebeo che per oltre un secolo e mezzo aveva
caratterizzato le vicende di Roma e di quello gentilizio,
per la verità assai più breve, e fornire una narrazione
che, pur non stravolgendo i "fatti", ne forniva
una spiegazione diversa e sostituire al Leitmotiv delle
lotte plebee per mantenere la propria autonomia politica
(che evidentemente non poteva essere narrato a quanti ci si
apprestava a sottomettere) quello dei tentativi plebei di
elevarsi al livello dei migliori Romani, che era quanto Roma
prometteva; del resto, chi (per spirito nazionalistico o
pigrizia mentale) fosse colto dalla tentazione di affidarsi
ciecamente al modello di storia che, per comodità, chiamo
semplicemente "fabiano", farà bene a leggere e a
meditare quanto del senatore romano scriveva Polibio in
3.9.1-514 (14)
;
d)
ribattere che Fabio, in questa operazione, sarebbe stato
facilmente sbugiardato da altri autori (a lui successivi e
non assillati dai fini pratici che l'opera sua si proponeva)
è fin troppo facile; se l’esempio fabiano poté trovare
in patria numerosi continuatori, opere diversamente
orientate "debbono" esservi state ché, in caso
contrario, noi non saremmo in grado di rinvenire, in
particolare nell'opera liviana, numerosi accenni ad esse
riconducibili. Non posso qui ripetere cose già scritte (15)
, ma Liv. 6.39.1-2 non può, a mio sommesso avviso, risalire
alla stessa corrente di pensiero che Livio solitamente
segue: qui, subito dopo (affermazione che i progetti di
Licinio e Sestio incontravano fra la plebe grande favore, ci
viene detto che il concilio della plebe, posto di fronte ai
tre progetti di legge (rectius: plebiscito) elaborati
da Licinio e Sestio, è disposto ad approvare le due
disposizioni di contenuto economico ma non quella di
contenuto politico. E questo atteggiamento non denota - come
pure è stato scritto – indifferenza e disinteresse della
media e bassa plebe verso la questione consolato plebeo che,
in fin dei conti; riguardava solo i primores: se così
fosse stato, il concilio avrebbe, proprio perchè
disinteressato, approvato rapidamente anche la disposizione
di carattere politico, pur di vedere alleviate le condizioni
economiche del ceto plebeo. Se il concilio, ove gli fosse
stato permesso, avrebbe respinto la lex de consule
plebeio, ciò può essere dovuto solo alla circostanza
che, al console plebeo, era contrario.
e)
io non so dire in quale percentuale le due diverse
ricostruzioni della storia romana fossero seguite in Roma;
nella mia ipotesi, ho concluso che esse hanno convissuto e
che a noi sono pervenute le storie di autori appartenenti al
filone "fabiano". La storia di Livio, in
particolare, mi è parsa costruita su due piani, non
tuttavia nel senso che esista una storia più antica (prefabiana)
cui si è sovrapposta quella di ispirazione fabiana (questa
sì sarebbe pura fantasia); quanto: piuttosto nel senso che,
qua e là, a causa del metodo di lavoro di cui lo storico
patavino fa uso, hanno modo di introdursi nella sua
narrazione elementi estranei che - se così posso esprimermi
- "forano" il coerente modello seguito e si
offrono alla nostra conoscenza.
In
ogni caso, questo breve excursus sulle fonti mi è
stato utile per rendere manifesto che ogni tentativo di
accordo o di mediazione fra la mia ipotesi e quella
dominante è destinato a naufragare dal momento che nessuno
si dichiara disposto a mettere in discussione
l'inquadramento tradizionale, che viene rifiutato in base a
vaghe (e per me piuttosto oscure) considerazioni da Lobrano
e, per quanto concerne Dovere sulla base di una vera e
propria impossibilità.
Ma
soffermiamoci ancora sulla mia "incauta" frase,
secondo la quale le antiche narrazioni che hanno per autori
Livio e Dionigi di Alicarnasso sarebbero mere “ipotesi di
storia”. Neppure per un attimo, credo, dalla lettura del
mio corso si potrà ricavare l'impressione che io ponga
sullo stesso piano quello che scrivo io e quello che hanno
scritto gli storici antichi. Vero è anzi il contrario:
tutto quello che io affermo ha come punto di partenza la
testimonianza delle antiche fonti (fatti salvi casi assai
rari, dove il loro conforto mi mancava del tutto); dalle
fonti antiche ho sempre preso le mosse, magari per poi
discostarmene, cercando di fornire una spiegazione per me più
soddisfacente. Se veramente (ma come avrei potuto?) avessi
considerato tutta la storia di Livio un'ipotesi, che
senso avrebbe avuto procedere nel modo sopra descritto? Ma,
più in generale, che senso avrebbe avuto procedere? È
evidente che quella che io chiamo ipotesi liviana è
qualcosa di ben diverso dalla mia ipotesi. Che poi, come
scrive Dovere, le ipotesi “antiche siano i veri fatti
dell’Urbe” non è affermazione che io sia disposto a
condividere. Prendiamo ad esempio Liv. 4.7.2 ove lo storico
ci informa che, secondo altri storici antichi, al tribunato
militare si sarebbe fatto luogo per l'insufficienza numerica
dei consoli a fare fronte al grande numero di guerre; di
conseguenza, questi storici non conoscevano una richiesta
plebea di partecipazione ai potere né, tanto meno, una
legge che la rendesse possibile. Come è noto, Livio non
discute l’idea dell'origine militare del tribunato e
imbocca risolutamente, senza più abbandonarla, la via della
spiegazione "politica". Posso io non essere
sfiorato dal dubbio che, nella fattispecie, la
"ragione" stia dalla parte degli ignoti autori (e
questo soprattutto quando ho già altri motivi per dubitare
che la plebe agognasse la condivisione del potere con i
patrizi)? Allora, senza immediatamente sposare la tesi che
maggiormente mi "fa comodo", sono molto scorretto
se metto a confronto la testimonianza liviana con la
variante che lo stesso Livio mi fa conoscere e le considero entrambe
due ipotesi da verificare? A me francamente non pare. E
poiché di alternative del genere la storia di Livio ne
offre più di una (e taluna di importanza addirittura
capitale) sarà forse irriverente, ma non arbitrario, dare
natura ipotetica alla storia (ma meglio direi alle
motivazioni addotte) di Livio.
Quando,
dunque, con "espressione forte", qualificavo
"ipotesi di storia" l'opera liviana (o, quanto
meno, la narrazione relativa ai primi due secoli della
repubblica), il termine di paragone con cui intendevo
confrontarla non era tanto la "mia" ricostruzione,
quanto quel che dalla stessa opera liviana traspare e che
lascia intendere l'esistenza, in Roma, di opere storiche
diversamente orientate. La sostanza delle cose non cambia,
lo so: il dubbio nei confronti del racconto liviano continua
ad essere radicale; ma, almeno per quel che appare da alcune
frasi di Dovere, vorrei non far sorgere il dubbio in chi mi
legge che io mi consideri una sorta di “moderno Livio”:
in realtà, io mi sono solamente riproposto di dare voce a
quelle storie che non sono entrate, proprio perché non in
linea con quanto la comunità romana voleva sapere di sé, a
far parte del monumento storico liviano. Dovere descrive
assai bene il clima politico e culturali nel quale le opere
storiche di Livio e Dionigi furono scritte: tanto bene, che
io non trovo di meglio che citarlo testualmente: “Le opere
di Livio e di Dionigi, negli anni in cui si andavano
componendo, rispondevano ad alcune esigenze alllora
intimamente e generalmente sentite; non a caso, per esempio,
l'opera liviana veniva pubblicata man mano ch'era composta,
per gruppi di libri, e sviluppantesi secondo il ritmo di
vita e di progresso dei cives romani. In quel tempo
esisteva, tangibile, la sensazione che un'epoca della storia
umana fosse definitivamente chiusa, e che, dunque, l'avvento
del principe consigliasse di stendere un bilancio
conclusivo: Livio si occupava a una storia di Roma, ma così
pure faceva per gli anni fino alla prima guerra punita il
greco Dionigi; Diodoro di Agirio preparava una storia
universale in lingua greca, altrettanto realizzava, in
latino, Pompeo Trogo (né va dimenticata l'opposizione
culturale, per il vero assai incerta, dello storico greco
Timagene o quella delle Historiae scritti Caio Asinio
Pollione.
D'altro
canto vi era la necessità che la vitalità romana, uscita
miracolosamente indenne dal grande sconquasso delle più che
ventennali guerre civili, avviasse una ricerca proprie
radici per capire il presente. In sostanza, e nonostante le
deformazioni poetiche, le antinomie politiche delle
posizioni assunte dagli autori, gli ‘errori’ sin troppe
volte evidenziati dalla critica moderna, le opere degli
annalisti ‘augustei’ rispecchiavano con fedeltà quanto
i Romani fossero consapevoli d'appartenere a un grande
organismo, che in tanto viveva in quanto risultato di
tutte le generazioni che erano già state. Livio e Dionigi,
ma anche i cosiddetti storici minori (e quindi, in
definitiva, i ceti dirigenti), furono in tutto e per tutto
uomini del loro tempo. Quand'anche non si rifecero
strettamente al documento, rifiutando un certo gusto
antiquario, non poterono che sentire le esigenze coeve e
vivere lo spirito del tempo, tanto diverso da quello a noi
contemporaneo e, certo (nonostante i dubbi sollevati in
quest'occasione da Zamorani in base alla lettura di Polyb.
3.9.1-5), assai più vicino a quello presente negli
avvenimenti narrati nelle loro opere.
Ebbene,
se questi antichi operatori culturali, pur con tutti i
limiti che si vogliono, rappresentano (esperienza della loro
epoca poiché denotano lo sforzo di porre in luce, per il
tramite dei fatti riferiti, un solo vero personaggio,
Roma, si delinea la distanza, incolmabile, fra le loro
"ipotesi" e quelle moderne. Queste ultime è
sicuro che siano tali, le altre, invece, quelle antiche,
sono i veri ‘fatti’ dell’ Urbe”.
Fino
all'ultimo capoverso di questo brano io potrei sottoscrivere
quanto molto bene quanto Dovere scrive: incolmabile è invece
la diversità che mi separa dal mio recensore quando egli
scrive l'ultimo periodo. Dalla consapevolezza di appartenere
a un grande organismo quale Roma, dall'essere uomini del
loro tempo (del tempo, cioè, in cui Roma intraprese
l’opera più sublime di celebrazione di sé stessa) io
traggo conclusioni diametralmente opposte a quelle che trae
Dovere: la storia che Livio e Dionigi scrivono è
esattamente quella che i ceti dirigenti romani avrebbero
voluto leggere. Nulla di strano, in questa luce, che i due
grandi storici li abbiano accontentati.
Dato
questo contrasto, per così dire, pregiudiziale, la pur
accurata ed analitica esposizione del contenuto del mio
volume che Dovere fa, scema grandemente di importanza: ed io
pure convengo che molte delle mie conclusioni sembrano
piuttosto gratuite se con me non si ammette la (possibilità
di una) vasta alterazione concernente i motivi che stanno
alla base degli accadimenti storici, alterazione che la
natura fondamentalmente propagandistico-celebrativa che
l'opera storica poteva avere in Roma rese possibile.
Peraltro, vorrei qui compiere anche qualche precisazione in
ordine a talune (non gravi) distorsioni del mio pensiero che
Dovere fa.
Così
Dovere (16)
mi rimprovera di avere abbassato troppo (alla metà del IV
secolo) la data a partire dalla quale si trovano plebei
aventi interessi comuni con i patrizi: per la verità non ho
mai detto questo. Ho indicato la data (convenzionale, ne
convengo) del 366 a.C. come quella in cui comincia a
formarsi la nobilitas plebea (e Dovere chiaramente lo
riporta), ma (pur senza essermi interessato in modo
dettagliato della questione) ho accettato come genuina la
composizione del secondo decemvirato, che contava tra i suoi
membri tre plebei secondo Dionigi, cinque addirittura
secondo me. Ottime quindi le precisazioni di Dovere, ma non
ho mai pensato che "la indubbia divisione esistente
all'interno dell'ordine plebeo intorno alla metà del quarto
secolo [sia] un evento recentissimo (17)
". Anch'io ho citato (dando loro anzi ampia rilevanza
perché particolarmente significativi a sostegno della mia
ipotesi) i brani in cui i principes plebis, i primores
lamentano di non essere sostenuti dalla plebe in
occasione delle elezioni (18)
.
Mi
spiace un poco che Dovere riporti in modo così succinto la
mia analisi del racconto liviano del compromesso
licinio-sestio, nonché degli eventi successivi allo stesso,
in particolare la rivolta del 342 a.C. ed i suoi esiti
normativi e la legislazione di Quinto Publilio Filone. Ho
trattato questi argomenl all'inizio del corso (sconvolgendo
il criterio rigidamente cronologico) proprio perché
ritenevo (e tuttora ritengo) di disporre per i temi in
questione di argomenti particolarmente solidi: impressione
che è stata successivamente confermata dall'approfondimento
da me fatto nei pochi contributi usciti successivamente al
Corso. La circostanza che, dei risultati di questa parte
dell'indagine, non si dia conto colloca su basi assai
fragili la parte successiva.
Trovo
per la verità un po' singolare questo periodo di Dovere (19)
: "... a me par senz'altro fuori di dubbio che, nel
367, a uscire con la palma della vittoria dal celebre
compromesso dovessero essere i patres e i prìncipi
della plebe; l'entusiasmo delle giovani leve patrizie,
attestato dalle fonti, ne costituisce la conferma
incontrovertibile (...). Tuttavia sul fatto che esistesse in
ogni momento, e insanabile - per così dire in maniera
‘endemica’ - una spaccatura all'interno della plebe non
mi pare ci possa essere altrettanta certezza..."
Al
che noto. Può ben essere che, tutto proteso nel tentativo
di trovare conferme alla mia ipotesi, io abbia qua e là (o
addirittura spesso) accentuato un contrasto interno alla
plebe che potrebbe invece avere avuto toni più sfumati. Può
essere, ripeto. Però quel che Dovere nota e condivide (la
vittoria dei patres unitamente a quella dei primores
plebis) ha un necessario corollario: e cioè la
sconfitta di chi, fra i plebei, ai primores non
appartiene. Proprio nell'episodio che Dovere esamina ve ne
è traccia, giacché la gioia dei giovani patrizi è
preceduta dal rifiuto degli edili plebei di contribuire alle
spese per l'indizione dei giochi. E come poteva non crearsi,
allora, una spaccatura interna alla plebe? E come poteva
questa spaccatura, che verteva su una questione di
fondamentale importanza come la partecipazione della plebe
al consolato, essere, per così dire, episodica? Non voglio
fare parlare Dovere pro domo mea, ma quando
egli non ha difficoltà a riconoscere (citando il contrario
parere di De Martino) che a vincere fu, accanto alla plebe
ricca, anche il cosiddetto patriziato (e questo malgrado
tutto quello che Livio scrive), non dice cosa dissimile da
quella che io ho scritto nel mio Corso.
Tralasciando
i punti per i quali Dovere manifesta apprezzamento per
quanto scrivo, mi soffermo (com'è naturale) su quelli in
ordine ai quali egli esprime il proprio dissenso. Fra questi
punti c'è la mia affermazione secondo la quale Livio e
Dionigi ci presenterebbero due tradizioni diverse in ordine
alla secessione del 494-3 (20)
: Livio, a mio avviso, parla di una secessione-ricatto (una
sorta di sciopero generale, è stata anche scritto), laddove
Dionigi presenta la secessione come (il progetto di) una
migrazione di massa. Anche in questo caso, naturalmente, non
è possibile a Dovere vagliare analiticamente tutte le mie
argomentazioni, sicché egli si limita al solo racconto dei
due storici. E qui, mi pare, siamo in presenza di una
radicale diversità di "sentire" il racconto: se,
malgrado i frequentissimi accenni nell'ampio racconto di
Dionigi alla volontà della plebe di andarsene
definitivamente da Roma e di trovare accoglienza presso
qualche popolo vicino, Dovere preferisce scorgere in ciò
una diversità di contenuti solo "parziale", ma
soprattutto una diversità di "tinte" rispetto al
racconto liviano, io non posso che ribadire le mie
posizioni, che mi sono sforzato di rendere attendibili
adducendo tre esempi di fenomeni migratori (in senso lato)
aventi come meta Roma di comunità ostili ai Tarquini, cui
farebbe da contrapposto la migrazione da Roma della
filotarquinia plebe (ma più precisamente si dovrebbe dire
di strati della plebe "urbana"). Del resto, che lo
stesso Dionigi avverta che le tradizioni sono diverse, lo si
evince dalla "conversione" che egli fa compiere
alla plebe, allorché a Sicinio si sostituisce Lucio Giunio
Bruto (21)
. Né intendo contestare l'efficacia delle secessione come
strumento di lotta, tanto che, osserva Dovere, essa venne
ripetuta anche nell'anno 449 a.C. (e questa
"secessione" non è certo un tentativo di
migrazione): sennonché, a me pare che, quello del 449 a.C.,
sia comportamentc assai diverso rispetto a quello del 494-3.
In quest'ultima occasione, infatti, la plebe non
"cerca" nessuno all'interno della città, laddove,
quarantacinque anni dopo, vuole l'incontro con i due
personaggi con i quali, durante l'intero arco della vicenda
decemvirale, ha stabilito un solido rapporto di
collaborazione: Valerio ed Orazio.
Successivamente
alla secessione, Dovere passa ad esaminare la mia
ricostruzione delle vicende di Cneo Marcio Coriolano e di
Spurio Cassio. Quanto al primo argomento (22)
, non ho difficoltà a riconoscere che, mentre sembra
francamente impossibile aderire al racconto fatto dai nostri
storici (lo scrive anche Dovere) (23)
, è peraltro del tutto congetturale quanto scrivo io:
appigli nelle fonti che lo suffraghino direttamente non se
ne trovano. Forse sarebbe stato meglio chiudere gli occhi di
fronte a tanta oscurità e passare oltre: io non ne ho avuto
il coraggio. Peraltro, ricercare un "solido aggancio
nelle referenze antiche" dopo aver convenuto che "è
senz'altro possibile condividere le conclusioni circa
(inattendibilità dei racconti annalistici" (24)
mi pare un po' contraddittorio.
Per
quanto concerne la mia ricostruzione dell'anno 486 a.C. e
del progetto di Spurio Cassio (25)
, dal breve resoconto che ne dà Dovere traspare la sua
incredulità: in realtà, qui come in altri luoghi, non sono
riferite quelle che sono le rationes dubitandi del
racconto tradizionale, sicché la mia ricostruzione appare,
ancora una volta, quasi dettata da un innato spirito di
contraddizione piuttosto che basata su non superficiali
riflessioni. Io trovo troppo strano per prestarvi fede che
la plebe (filomonarchica, si ricordi) rifiuti l'offerta di
terra di Spurio Cassio perché preoccupata delle mire
tiranniche del console o perché a partecipare alla
spartizione sarebbero state chiamate altre popolazioni (cosa
che suscita in me - e non soltanto in me - molti dubbi (26)
); trovo troppo strano che, già l’anno successivo, la
plebe inizi a rimpiangere Spurio Cassio e, con (andare degli
anni, finisca per ritrovarsi accanto quelle gentes che
le erano state al fianco nel respingere il progetto cassiano
(due esponenti delle quali, anzi, avevano fisicamente
eliminato Spurio Cassio); trovo troppo strano che,
favorevole alla plebe e alla sua richiesta di terra, si
schieri anche la gens Emilia, i cui legami con la
Fabia non necessitano di essere sottolineati; trovo poi
strano (ma altamente indicativo) che, allorché la plebe
ottiene il territorio anziate (tramite la cosiddetta
"deduzione della colonia di Anzio") vengano a
cessare le sue richieste di terra (circostanza che mi fa
ritenere che la plebe se ne ritenga soddisfatta, malgrado
quel che scrive Livio). Insomma, una molteplicità di indizi
mi induce a ritenere che, dal 485 a.C. in avanti, quel che
la plebe chiede non sia la realizzazione del progetto
cassiano del 486, ma piuttosto la realizzazione di quello
migratorio del 494-3 e che in questa posizione, come si era
trovata a fianco le grandi gentes nel contrastare il
console del 486, se le ritrovi ancora a fianco fino al 467
a.C., cosa che mi fa ritenere che il separatismo plebeo
cerchi (trovandola) l'alleanza del separatismo gentilizio
nelle occasioni in cui si tratta di ottenere qualcosa di
gradito per entrambi i ceti, ovvero di contrastare qualcosa
ad entrambi sgradito.
Un
esempio macroscopico di questa alleanza fra plebe e gentes
si ha in occasione della loro comune lotta al
decemvirato (stando alle fonti, al solo secondo
decemvirato). Ecco: il decemvirato (27)
.
Sono
giunto a quello che considero il vero baricentro di tutta
l'indagine; al punto in cui, a mio sommesso avviso, trovano
conferma molte affermazioni che parevano avere natura del
tutto arbitraria. E tale conferma è tanto chiara che io
provo veramente difficoltà ad accettare che un cumulo di
argomentazioni di tale chiarezza sia tenuto in non cale.
Mi
domando: si può negare che, malgrado tutto quel che scrive
Livio (che, tra l'altro, non "può" scrivere
diversamente) il senato sia sostenitore del decemvirato? Non
si è forse notato che esso lo sostiene in ogni occasione
(contro Valerio e Orazio nel corso della prima seduta
senatoria, convocata per risolvere le difficoltà create
dalla guerra portata da Sabini ed Equi; contro Virginio, il
cui ritorno a Roma si tenta di bloccare; contro Icilio e
Numitorio, i cui aneliti rivoluzionari il senato vorrebbe
soffocare; nuovamente contro Valerio e Orazio - pur se si
tratta di un sostegno "postumo"; poiché il
decemvirato è ormai caduto - cui si nega il trionfo: e
Valerio e Orazio sarebbero dovuti essere innalzati sugli
scudi per essere stati fra gli artefici della cacciata dei
tiranni!) ? Non si è riflettuto sull'episodio della
fanciulla di Ardea del 443 a.C. (28)
, episodio che ricalca perfettamente quello di Appio Claudio
e Virginia e che scopertamente depone per la scelta
endogamica (e perciò, nel mio linguaggio, separatista)
della plebe ardeate, allorché i tutori (plebei) della
ragazza (plebea) preferiscono il candidato plebeo perché
sono in ea quoque re partium memores (29)
? E che dire della legislazione valerio-orazia (30)
, il cui carattere fortemente separatista è in modo assai
chiaro sottolineato (tra le altre cose) dal plebiscito del
tribuno della plebe Duilio, che si affianca alla lex de
prouocatione, ribadendone il contenuto per i destinatari
plebei? (31)
Potrei
dilungarmi nell'elencazione di punti meritevoli di
discussione (e che certo non potevano essere discussi
nell'ambito di una sia pur vasta recensione) ma finirei,
fatalmente, per ritrovarmi di fronte allo stesso muro
insormontabile: (incredulità che la storia della prima
repubblica romana nella narrazione di Livio (e di Dionigi, e
di quanti seguono il loro indirizzo) abbia potuto subire lo
stravolgimento da me ipotizzato. E sto cominciando a
realizzare che, nella fattispecie, non si tratta tanto di
una questione di scienza, ma piuttosto di fede. Mi riesce un
po' oscuro perché io, secondo Dovere (32)
, avrei sottovalutato il dettato di Liv. 3.55.13 (33)
: ma il mio recensore è un po' laconico sul punto ed io non
sono riuscito a spiegarmi la sua frase.
Il
dettagliato (e preciso) resoconto di Elio Dovere continua
con un accenno al tribunato militare con potestà consolare,
alla vicenda di Spurio Melio in occasione della carestia del
440-439 a.C. (ove si può rinvenire una delle pochissime
inesattezze di cui si rende responsabile il mio recensore,
solitamente assai attento, allorché (34)
attribuisce alla "strategia politica unionista" la
nomina di Spurio Melio a "prefetto dell'annona"
plebeo - io penso esattamente il contrario (35)
) e alle vicende della presa di Velo e della conseguente
migrazione plebea nella città etrusca in seguito
all'invasione gallica. Con riferimento a quest'ultimo punto,
in particolare, a me pare francamente difficile negare che
ci si trovi di fronte ad un movimento migratorio (36)
in piena regola, per fare accettare il quale si assiste ad
un minuzioso lavorio annalistico teso ad avvalorare l'idea
di (come l'ho chiamata) una "follia collettiva". A
me pare veramente singolare come gli storici (anche quelli
più critici) accettino senza battere ciglio il cumulo di
incongruenze che la narrazione liviana propina: a chi presta
fede al "misterioso terrore" che si sarebbe
impossessato dei soldati romani all'avvicinarsi
dell'esercito dei Galli, posso solo ribattere che esso
durerebbe il non breve periodo di sette mesi (da luglio a
febbraio dell'anno successivo) e che i rapporti fra due
tronconi dell'esercito (quello stanziato a Veio che pare
lietissimo di trovarsi nella città etrusca e neppure
sfiorato dall'idea di portare aiuto agli assediati - e
quello asserragliato nella rocca capitolina) i rapporti
sembrano essere tutt'altra che amichevoli (vedi il caso
delle vestali che portano a Cere, e non a Veio; le cose
sacre che non sarebbe stato prudente tenere a Roma (37)
).
Questi,
e molti altri punti ancora, mi sarebbe piaciuto discutere
con i Colleghi che mi hanno recensito o ai quali è capitato
di leggere il mio lavoro. Mi sono invece troppo spesso
trovato di fronte alla pregiudiziale secondo la quale Livio,
in linea di massima, dice il vero. E, con questo
presupposto, ogni discussione è destinata ad una fine
scontata.
4.
Ho scritto sopra di avere la sensazione che il mio lavoro
non sia stato preso molto sui serio: i critici più benevoli
ne hanno apprezzato (a voce) alcune "originalità",
taluno ne ha sottolineato (a voce) il contenuto
"provocatorio", ma quanto a credibilità esso è
stato giudicato (per iscritto) al di sotto di un livello
accettabile. Questa sostanziale sottovalutazione di un
contributo che, malgrado i dubbi di Lobrano, è frutto di
molte riflessioni e non dell'improvvisazione (anche se
taluni suoi aspetti formali, già sopra messi in luce,
contribuiscano a presentarlo sotto una luce forse un po'
dimessa) è certo la cosa che più mi spiace fra i giudizi
che esso ha provocato; se a ciò si aggiunge che, fra quanti
mi sono parsi sottovalutare la mia fatica, vanno annoverati
due Maestri napoletani degni della stima e dell'ammirazione
di tutti (alludo a Francesco De Martino e ad Antonio
Guarino) si potrà comprendere il mio imbarazzo nel tentarne
la difesa.
La
segnalazione che Guarino fece di Plebe Genti Esercito nel
Tagliacarte di Labeo (38)
lasciava per la verità presagire un maggiore interesse
dell'autore nei confronti del mio lavoro: a parte la critica
per avere io riportato i testi di Livio e Dionigi in sola
lingua italiana (rilievo al quale ho risposto non appena mi
è stato possibile) (39)
, Guarino pareva quanto meno interessato alle molte novità
che il Corso presentava, se è vero che lo qualificava
espressamente «un libro tutto da leggere». E tuttavia,
l'incitamento di Guarino non pare essere stato raccolto, se
è vero che non soltanto il mio volume non è stato ritenuto
dai più «un libro tutto da leggere», ma nemmeno «un
libro da leggere tutto». Lo stesso Guarino, per di più,
dalla cui presentazione era lecito attendersi un
atteggiamento, se non di approvazione, almeno di attenzione,
dà un saggio di come ci si passa "liberare" con
la consueta arguzia, ma con inconsueta levitas, di
una delle mie affermazioni che giudico maggiormente fondata.
L'osservazione
è quella secondo la quale la lex Publilia. Philonis de
auctoritate, che rese preventiva l'auctoritas patrum alle
delibere del comizio centuriato da successiva che era,
costituì un rafforzamento del potere del senato e che, cosa
che qui ci interessa, essa non fu il frutto di un
atteggiamento antisenatorio del dittatore del 339 a.C. Per
dimostrare l'assunto facevo uso di diversi argomenti (40)
, uno dei quali era costituito dall'innegabile constatazione
che, successivamente all'emanazione di questa legge,
l'atteggiamento del senato nei confronti di Publilio Filone
fu tutt'altro che ostile, anzi fu di aperto sostegno (egli
divenne, con l'esplicito appoggio del senato, il primo
pretore plebeo (41)
nonché, ancora per desiderio del senato, il primo
magistrato che ebbe prorogato il comando militare (42)
): questi "favori" (43)
, scrivevo, non si spiegherebbero ave Publilio avesse
privato il senato di un potere di controllo della
legislazione di straordinaria efficacia, rendendolo privo di
pratica rilevanza (44)
. Se è vero che questa argomentazione non è una
"prova", è altrettanto vero che la risposta di
Guarino (45)
per aggirarla è una semplice battuta di spirito. Il
constatare che i "favori" non si fanno solo agli
"amici" (e che pertanto ben sarebbe potuta esservi
inimicizia grave fra il senato e Publilio Filone, malgrado
le decisioni senatorie a quest'ultimo favorevoli) non
scalfisce l'argomentazione, ma sembra quasi tradire una
certa "ansia" di Guarino di evitare una risposta.
Ed
anche qualora valore di "risposta" le si volesse
attribuire, rimangono in ogni caso in piedi gli altri
argomenti che io adducevo, da uno dei quali, almeno mi pare,
sono da trarre ovvie e neppure tanto implicite conseguenze.
Si
tratta di Cic. Brut. 14.55: Possumus M. Curium (suspicari
disertum) quod is tribunus plebis, interrege Appio Caeco,
diserto homine, comitia contra legem habente, cum de plebe
consulem non accipiebat, patres ante auctores fieri coegerit:
quod fuit permagnum, nondum lege Maenia lata.
Per
il commento a questo testo rimando al mio già citato (46)
articolo; in questa sede posso ripropormi l'interrogativo
che già mi ponevo allora: si può negare che la prestazione
di un'auctoritas preventiva consenta a Manio Curio
(e, cosa che qui ci interessa, ai patres) di
realizzare ciò che decine di prestazioni di auctoritas
successive non avrebbero consentito?
Continuo
a sperare che qualcuno mi aiuti a trovare una risposta
all'interrogativo.
Anche
Francesco De Martino non è stato certo tenero nella
valutazione della tesi di fondo di Plebe Genti Esercito. Ma
non è di questa durezza che mi lagno. Lo ripeto: attendevo
critiche dure e, soprattutto, attendevo critiche, perché è
compito dei Maestri esercitare la propria opera di
correzione delle idee che essi giudicano errate. Una
precisazione però vorrei farla. De Martino ha scritto (47)
: «Nel corso di questa lotta si forma uno strato più
elevato nel seno della plebe, che partecipa effettivamente
al governo e dà vita alla nobiltà patrizio-plebea,
subentrata all'antico monopolio patrizio. Questo non
rappresenta una sconfitta storica della plebe, come si è
sostenuto, ma la sua piena integrazione nella città-stato».
Ebbene,
io mi domando: è questa una vittoria plebea, ovvero (e non
è la stessa cosa) la vittoria di uno strato fortemente
minoritario della plebe, che agisce in stretta relazione con
i ricchi patrizi? Perché (e non si deve dimenticarlo) gli
uomini della plebe che "partecipano attivamente al
governo" non hanno ormai più nulla di plebeo: e che
vittoria può mai essere, allora, quella plebea se, in séguito
ad essa, il grosso della plebe si ritrova ad essere dominato
non più solo dai cosiddetti patrizi, ma da una nobilitas
mista patrizio-plebea? Perché proprio questo accade: ed
è sufficiente considerare l'operato del console plebeo Caio
Marcio Rutilo in occasione della rivolta plebea dell'anno
342 a.C. per cominciare ad avere dubbi che l'ottenimento del
posto di console da parte dei ricchi plebei abbia potuto
significare per gli altri un miglioramento politico o
economico (48)
; ed ancora: un sereno esame (49)
dell'operato del console plebeo Quinto Publilio Filone
dovrebbe portare ad escludere, malgrado le parole di Livio,
che la sua legislazione dell'anno 339 a.C. sia secundissima
plebi, aduersa nobilitati; ed infine è sufficiente
valutare cosa accade al tribunato della plebe (50)
dopo la asserita "vittoria" dei plebei (quando
questi ultimi vengono espropriati della loro magistratura,
che tutela ormai gli interessi del senato) per placare gli
entusiasmi e ridimensionare la visione ottimistica che Livio
tramanda. La plebe (il grosso della plebe, intendo dire: la
sua parte economicamente più debole, ma politicamente più
significativa) fu sconfitta nella sua lotta e proprio la sua
"piena integrazione" nella città-stato ne è il
sintomo: non sono forse stati pienamente integrati nella
città-stato altri nemici di Roma dopo la loro sconfitta? (51)
Infine,
in chiusura di questo che, più che una risposta a
recensioni e rilievi, comincia sempre più ad assomigliare a
un cahier de doléance (e la cosa non mi piace),
vorrei citare una circostanza un po' buffa che può,
tuttavia, costituire una significativa testimonianza del
rifiuto che le mie opinioni hanno suscitato nei Colleghi,
tanto da spingerli ad una inconsapevole opera di
"rimozione". Gabriella Poma ha studiato i
provvedimenti normativi conseguenti alla rivolta dell'anno
342 a.C. e i suoi studi (apprezzabilissimi) hanno trovato
espressione in quattro (altrettanto apprezzabili) lavori (52)
; anch'io, in PGE, avevo affrontato con una certa ampiezza
questi temi. E, dal momento che i quattro articoli sono
tutti successivi al mio Corso, esso risulta citato e
garbatamente criticato in taluno dei lavori della Collega,
che preferisce spiegazioni diverse dalle mie. Nulla da
eccepire, ovviamente.
Mi
lascia però perplesso quanto scrive (53)
, a proposito del plebiscito Genucio relativo al divieto di
iterazione intradecennale di una magistratura, Gabriella
Poma, allorché prende in esame le osservazioni di Münzer
circa l'operatività di detto plebiscito (54)
: «L'elemento di maggior rilievo è tuttavia un altro. Le
iterazioni, di cui si è visto, riguardano consoli patrizi;
in un solo caso, quello di Caio Plauzio, si ha per un plebeo
l'iterazione del consolato in violazione dell'intervallo
decennale (347 e 341). Ma anche il caso, che rappresenta
l'eccezione per i plebei, del console Caio Plauzio può
avere una sua giustificazione, se si ipotizza che i comizi
consolari per il 341 fossero già avvenuti all'atto del voto
dei plebisciti, ipotesi che può trovare la sua conferma
nella anomala conclusione dell'anno consolare. Livio (VIII,3,4-5)
segnala come la coppia consolare fu invitata abdicare se
magistratu prima della normale scadenza.»
La
perplessità è dovuta al fatto che io avevo scritto (55)
: «Dalle sopra riportate tabelle (scil. di Miinzer)
si deduce... una circostanza di ben maggior peso: dal
342 al 330 (ma il periodo potrebbe essere allargato fino a
ricomprendere il 321) mentre taluni patrizi iterano il
consolato entro il decennio, nessun plebeo (se si esclude
Caio Plauzio, cos. 347 e 341) lo fa. Il che sta a
significare, mi sembra, che solo i plebei osservavano il
plebiscito, il quale, pertanto, solo essi riguardava. Il
caso di Caio Plauzio, poi, potrebbe non costituire affatto
una eccezione a quanto testé affermato: è ben vero,
infatti, che Livio afferma che i plebisciti furono approvati
nel 342, tuttavia essi non dovettero riuscire ad esplicare
la loro efficacia che a partire dalle elezioni consolare per
il 340, come la lista dei consoli plebei pare confermare. È
sufficiente infatti supporre che, allorché furono votati i
plebisciti Genuci, fosse già stata eletta la coppia di
consoli per il 341, della quale il plebeo è appunto un
Plauzio, cioè un appartenente ad una delle quattro stirpi
che, sole, avevano espresso i consoli nel periodo 355-342. Né
la cosa sarebbe stupefacente, posto che, di norma, si
procedeva alla nomina dei nuovi consoli assai per tempo
rispetto all'uscita di carica dei vecchi. Questa coppia
consolare del 341, comunque (e, segnatamente il console
plebeo), in quanto espressione di un compromesso ormai
superato, non dovrebbe avere avuto vita facile nella
conduzione dello stato. E non è certo casuale, allora, che
la coppia consolare del 341 sia stata costretta a dimettersi
prima della scadenza della carica...»
Nella
sostanza, i due periodi sono perfettamente identici.
Speranzoso ho ricercato, nel lavoro della Collega bolognese
(che pure, come ho sopra scritto, ben conosce il mio corso
sulla plebe), un consolatorio rinvio bibliografico ad esso.
Ma di esso non vi è traccia.
Dimenticanza?
Rimozione inconscia, come sopra scherzosamente ipotizzavo?
O, Dio non voglia, damnatio memoriae?
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