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                                          ANTONIO GUARINO


                                       TRUCIOLI DI BOTTEGA

                                                                             

                                                                  **
                                                          Napoli, 1999





SOMMARIO

I.             L'IO VIRTUALE

II.           IL «MY COUNTRY»

III.         SETTE NOTE

IV.          LA SCENEGGIATA

V.           «UTI LEGASSIT»    

 VI.  IL MERIDIANO DEL CAFFÉ

 

 

I. L'IO VIRTUALE

 

Agli amici e agli allievi convenuti per festeggiare il suo novan­tesimo compleanno Claude Lévi- Strauss, classe 1908, ha detto, nel suo breve discorso di ringraziamento, alcune parole degne della sua alta (e, per fortuna, ancora pienamente viva) intelligenza. (Parole riferite da G. Mariotti sul Corriere della Sera del 30 gennaio 1999).

«Per me esiste oggi un io reale, che è un quarto o la metà di un uomo, e un io virtuale, che serba un'idea dell'intero. l !io virtuale met­te a punto il progetto di un libro, abbozza l'organizzazione dei capito­li e dice al mio io reale: 'Ora tocca a te continuare. E il mio io reale, che non può, replica al mio io virtuale: 'Càvatela da solo. Sei tu che hai la visione dell'intero'. È in questo dialogo che si consuma la vita mia».

È il quadro, direi quasi clinico, di chiunque pervenga, dopo decenni spesi in ricerche e riflessioni piú o meno apprezzabili, ad un'età molto avanzata senza aver perduto, o del tutto perduto, le sue capacità intellettive. Ma se ci si bada meglio, è anche la rappresenta­zione impietosa di un vegliardo largamente stimato e onorato, forse anche amato, ma lasciato sostanzialmente solo con se stesso, o al piú pazientemente frequentato e ascoltato nei suoi ammonimenti e nei suoi buoni consigli alla guisa della sproloquiante Nestore di molti ben noti episodi, spesso venati di benevola ironia, che si leggono nell'Iliade di Omero.

lo non so se Claude Lévi-Strauss sia solingo per sua orgogliosa elezione. Non credo. Forse anch'egli, come vari altri ricercatori meno famosi di lui, è un solitario perché i discorsi virtuosi e rétro che fluisco­no dalla sua bocca prevalgono, nell'opinione frettolosa degli amici e degli antichi allievi, sulle idee originali e guizzanti che ancora spri­giona talvolta il suo io virtuale. A lui, e cosí ad altri come lui, capita forse di gettar semi che il suo io reale non è piú in forza di mettere a coltura, ma che i suoi discepoli, o i discepoli dei suoi discepoli, sareb­bero facilmente in grado di raccogliere, di secernere e di utilizzare per il progresso della scienza e per la loro stessa carriera di studiosi.

Invece no. La noia di star vicino a certi veterani si maschera nobilmente (spesso, anche in piena buona fede) di timor reverentialis e fa si che quei duri a morire si riducano stancamente ai dialoghi quotidiani tra l'io virtuale e l'io reale. «En àttendant Godot».

 


 

II. «MY COUNTRY»

 

1. Io detesto la retorica. Beninteso, non intendo la retorica nel senso di disciplina della manifestazione efficace del proprio pensie­ro, ma alludo alla retorica nel senso improprio, peraltro tanto diffu­so da essere diventato ormai prevalente, di «atteggiamento dello scrivere o del parlare, o anche dell'agire, improntato ad una vana e artificiosa ricerca dell'effetto»: definizione che traggo dal Dizionario italiano di Giacomo Devoto e di Gian Carlo Oli.

Siccorne non ci si controlla mai abbastanza, sopra tutto quan­do certe situazioni della vita (ringraziamenti, elogi mortuari, repli­che a caldo, arringhe defensionali eccetera) piú o meno vi ci trasci­nano, non posso vantarmi affatto di essere stato sempre esente dal peccato. Posso solo dire che, quando mi sono reso conto di averlo commesso, me ne sono pentito. E posso aggiungere che in certi casi non ho mancato di pentirmi di qualche eccesso di antiretorica, an­ch'esso deplorevole in quanto, tutto sommato, retorico.

 

2. Credo che sia conseguenza di questa ritrosia all'enfasi il mio frequente ricorso all'ironia o, per converso, al paradosso: due ma­scheramenti di un «moi méme» che non mi piace mettere a nudo. E penso che a questa riluttanza si riconnetta una mia curio­sa incapacità: quella di tenere integralmente a memoria gli inni na­zionali italiani e le arcifamose canzoni napoletane (non parliamo delle altre).

Per le canzoni napoletane passi. Niente e nessuno mi ha mai obbligato a cantarle, sebbene debba rivelare che non di rado ha de­stato sorpresa, in amici e conoscenti stranieri, il fatto che orecchiassi bene (questo sí) le note di «'O sole mio» o di «Funiculí funiculà», ep­pure non riuscissi (proprio io, il «napoletano») ad andare con la

memoria oltre qualche verso dei relativi ritornelli. Il brutto è stato per me, nella mia lontana vita militare, che io non fossi capace di stare a paro con i miei commilitoni durante l'ora del canto corale e in occasione delle marce e di altre manifestazioni.

Mi si creda. Da militare, ce la feci a conoscere perfettamente tutte le sei parti del fucile e tutte le altre sei parti del relativo mecca­nismo di caricamento e sparo, imparai tutte e dodici le battaglie dell'Isonzo (con relativi morti, feriti e dispersi), mi resi esperto di molti altri dettagli e nomenclature, ma per gl'inni e per le marcette al di là di sparsi spezzoni di strofa, intervallati da muti movimenti di labbra (fortuna che eravamo in molti a far coro), non sono mai riuscito ad andare. E dire che quando partecipai al «corso allievi uf­ficiali», fui proprio io a gettar giú le parole, retoriche, dell'inno del «battaglione allievi». Ma è cosa, quest'ultima, di cui parlerò in altra occasione.

 

3. Anche Giovinezza, cioè l'inno del regime fascista sotto cui ho vissuto gli anni della mia gioventù? Ebbene sí, ho sempre ignorato anche buona parte di quell'inno, le cui roventi parole proprio non mi entravano in testa. E a chi mi domandasse se ero, per caso, anti­fascista risponderò ancora una volta, l'ennesima (sincerità anzi tut­to), che no, non lo ero.

Per la mia generazione il fascismo era un «dato di natura», dai piú accettato senza entusiasmo o con falso entusiasmo, principal­mente perché non ci constavano (o ci venivano abilmente nascosti dal regime) gli eventualmente preferibili termini di paragone. Indubiamente i convinti fascisti non mancavano (e non vedo per­ché non si debba rispettarli nel nostro ricordo), ma un grande nu­mero di coloro che si proclamavano fascisti, erano fascisti, come si dice, «fasulli». O perché avevano fatto carte false (cosa non difficile) per figurare come partecipanti alla «marcia su Roma» (quella del 28 ottobre 1922). Oppure perché avevano fatto carte ancora piú false per gabellarsi come fascisti «antemarcia» o addirittura come «prefascisti», anche detti «sansepolcristi» per essersi accalcati a mi­gliaia in una saletta di piazza San Sepolcro a Milano (una saletta capace al massimo di due o trecento persone) nella quale si era deci­so di fondare il movimento. (Ai miei occhi, per essere completa­mente sincero, i falsi «ante» del fascismo di allora erano, piú o meno, equivalenti ai falsi «post» del comunismo che pullulano al giorno d'oggi disinvoltamente trasformati in liberali e affini. Molti di loro sono giunti a rivestire cariche altissime, ma sono e restano, direbbe Sciascia, dei «quaquaraquà»).

La maggioranza dei fascisti, per tornare a bomba, era costituita da coloro che erano iscritti al partito allo scopo di mantenere od ottenere il posto,o comunque la quiete sociale. Al servizio di quello scopo pagavano il modico prezzo di partecipare in camicia nera (o in piú sofisticate divise, generalmente corredate dagli scomodi stivaloni da cavallerizzo) alle frequenti, ma non frequentissime, «adu­nate», e di applaudire a scroscio i «gerarchi» che vi parlavano, can­tando in coro ogni tanto Giovinezza ed altri inni della «rivoluzione».

 

4. E gli «antifascisti», a quei tempi, c'erano o non c'erano? Per Giove, se c'erano, anche se erano in numero molto, ma molto infe­riore a quello di coloro che, caduto il regime, si proclamarono a gran voce antifascisti perché liberali, socialisti, cattolici, comunisti e via dicendo.

C'erano, gli antifascisti, e si dividevano, per quanto ho potuto constatare, in tre categorie. La prima era costituita da quelli, i piú, che erano rimasti in Italia e che avevano conosciuto i tempi anterio­ri alla «rivoluzione» del 1922, ma che non sapevano poi spiegare in modo convincente l'eccessiva acquiescenza dimostrata, in parlamento e fuori, nei confronti delle «squadre» fasciste formatesi (violente e minacciose, non vi è dubbio, ma estremamente esigue nel numero) durante il periodo 1919 - 1922, e magari avevano anche finito per iscriversi al partito. La seconda categoria era costituita da quelli che erano riparati all'estero, i cosí detti «fuoriusciti», non molti, di cui avevamo notizie scarse e spesso, tramite i giornali francesi (che, per verità, circolavano da noi abbastanza liberamente), notizie poco esal­tanti, cioé di oppositori in tutto ed a tutto, ma puramente verbali e non sempre di accordo tra loro. La terza categoria era, infine, costi­tuita da quelli, ancora piú pochi, ch'erano stati mandati in carcere o al confino di polizia nelle isole, i quali ci venivano dipinti dalla pro­paganda fascista come fior di mascalzoni o di esaltati che avevano attentato al bene sacro della nazione.

Siccome gli esponenti della prima categoria si «esponevano» nei fatti assai poco, limitandosi ad incessanti parlottii e sussurri, che li rendevano alla fine meno credibili di quanto meritassero ed an­che un po' noiosi, è spiegabile che molti tra noi giovani fossimo portati al conformismo, tanto piú che ciò che si vedeva in giro era, alla fin dei conti, apprezzabile (i treni «arrivavano in orario») e che

ciò che si sapeva da fuori circa la valutazione della nuova Italia e del suo «duce» sul piano internazionale era, diciamocelo chiaro, con­fortevole. Piú confortevole, certo, dello scarso apprezzamento riscos­so dai nostri governi del primo ventennio del secolo: i governi trop­po inclini alle politiche delle «mani nette» (leggi: del non contare un tubo) e dei «giri di valzer» (leggi: del non tener fede alle allean­ze).

 

5. Il conformismo dei giovani divenne lentamente meno acri­tico nel seno dei «gruppi universitari fascisti», i «Guf». Questi si av­viarono, infatti, ad essere centri di indipendenza, o addirittura di mascherata (ma nemmeno troppo) dissidenza, particolarmente a causa dell'istituzione (molto incauta da parte del regime) degli an­nuali «littorali della cultura e dell'arte» e dai connessi «prelittoriali» selettivi. I quali furono, come si è visto poi, un terreno di coltura delle idee sociali e politiche che dilagarono piú tardi, a crollo del fascismo avvenuto. (In proposito, val la pena di dare una scorsa, tra gli altri, al libro onesto di Maria Addis Saba su La gioventù italiana del Littorio, 1973).

Per alcuni anni, a partire dal 1932, alle iniziative del Guf napoletano partecipai attivamente anch'io, che provenivo da Milano e sentivo un forte bisogno di avere sul posto altri amici in luogo di quelli del liceo milanese in cui avevo studiato. Mi occupai, via via, per essere piú preciso, di tre cose: dapprima della complessa orga­nizzazione dei prelitoriali e dei littoriali, piú tardi dei problemi di sistemazione dei neo-laureati e diplomati, infine della edizione dei non pochi corsi universitari in dispense litografate o a stampa che ci erano affidati (dietro pagamento dei diritti di autore, ma con rinun­cia da parte nostra profitto, quindi con prezzo di copertina molto basso) da vari docenti di tutte le facoltà.

Ma lasciamo andare. Conformista, quanto al fascismo, lo fui dunque, quietamente, anch'io per vari dei miei anni verdi. Lo fui almeno sino al 1938, cioè sino a quando in Germania, a Berlino, entrai in contatto quotidiano con la sgradevole (e non lo si neghi, diffusissima e sentitissima) realtà del nazismo. E sino a quando, negli ultimi mesi dell'anno, avvenne l'inaspettata «svolta» razzista e antiebraica del regime fascista.

 

5. La svolta razzista del 1938 mi sconvolse (lasciamo da parte i sentimenti elementari di civiltà) perché tra le mie caratteristiche (o forse tra i miei difetti) vi è l'amore, direi quasi l'ossessione, per la coerenza, indipendentemente da ogni altra considerazione.

Sarà mancanza di fantasia, ma per me, se il presupposto A im­plica la conseguenza B, è incoerente che si passi a sostenere che la conseguenza di A è C, o addirittura che il presupposto A non è mai esistito. La storia umana (questo lo sapevo sin da allora anch'io) è piena di incoerenze e uno storiografo fa male a sdegnarsi (o a com­piacersi) quando le registra. Tuttavia chi ha accettato il presupposto A sul piano religioso, sociale, politico, etico e via dicendo non può negare da un momento all'altro la conseguenza B, oppure, quando si risolve a favore di C, non può tacere a se stesso e a tutti che ha cambiato opinione, insomma che è stato incoerente.

Mentre ad alcuni la «svolta», quando pure l'ammettono come tale, viene facile, a me no, la svolta viene difficile. Segue ad un lungo travaglio ed è accompagnata dal bisogno di darne atto, di sottoline­arla, di «confessarla» pubblicamente e senza possibilità di equivoci. Ora, a parte il fatto che il razzismo e l'antisemitismo mi ripugnava­no, e mi erano divenuti ancora piú ripugnanti durante il soggiorno berlinese, avvenne che nel 1938 un amico genuinamente e onesta­mente fascista (credo che si chiamasse Ballarati e ricordo che faceva parte di una «élite» denominata «Scuola di mistica fascista») fu in­viato a Berlino e in altri centri tedeschi non solo per rivelare a noi giovani, che colà ci perfezionavano negli studi, la svolta razzista del fascismo, ma anche e sopra tutto per «dimostrarci» che la svolta non era una svolta e che il fascismo era stato razzista ab origine, prima ancora del nazismo.

 

6. Fu la volta che non riuscii a trattenermi. Testi alla mano (prin­cipalmente, facendo leva sulla articolata voce «Fascismo», redatta per l'Enciclopedia italiana da Giovanni Gentile e firmata, con qualche ri­tocco, nientemeno che da Benito Mussolini), feci presente, nel con­vegno berlinese, l'assoluta inconciliabilità della dottrina fascista con le tesi del razzismo nazionalsocialista, segnalai che tra i «littori» de­gli anni precedenti vi erano molti camerati ebrei e ricordai, per buo­na misura, che una legge fascista aveva ammesso alla nostra cittadi­nanza persino larghe categorie di arabi della Tripolitania, divenuti in tal modo gli Italiani della «Quarta sponda».

Quando poi tornai poco piú tardi in Italia, comunicai al segre­tario del mio Guf di voler sollevare la questione (di volermi «mette­re a rapporto», come si diceva) con le gerarchie superiori del regime. Molto coraggioso, se non fosse stato solo un fuoco di paglia. Il se­gretario del Guf napoletano, che era un mio amico d'infanzia e mi voleva bene, mi convocò a colloquio privato, mi fece presente che ormai le cosí dette «leggi razziali» erano state approvate e che persi­no al senato del Regno, ove sedevano con nomina a vita Benedetto Croce ed altri autorevoli antifascisti, nessuno le aveva contraddette, e concluse che l'unico e solo risultato che avrei ottenuto con le mie rimostranze sarebbe stata l'esplusione dal partito fascista. L'espulsione, quindi l'inammissibilità ai concorsi statali (per partecipare ai quali occorreva la «tessera») e in piú l'allontanamento dalla magi­stratura, in cui ero appena entrato con le funzioni di «uditore giudi­ziario». Breve: mi propose di strappare in mille pezzi la mia petizio­ne e di considerare non avvenuto l'incidente.

Io rimasi interdetto, esistante, preoccupato per il «mio particulare», ma alla fine accettai. Prova non dubbia (lo penso ancora oggi) di viltà. Una viltà che cercai di dimenticare (se fossi un personaggio di Dostoevskij, ma non lo sono, parlerei di espiare) estraniandomi anche dagli amici del Guf ed ingolfandomi negli anni seguenti in un lavoro frenetico come magistrato, come professore incaricato a Napoli, come ufficiale in guerra, piú tardi come profes­sore di ruolo a Catania. Finché (erano i primi di luglio del 1943), portata a termine sotto incessanti bombardamenti nemici la sessio­ne estiva di esami, mi allontanai molto frettolosamente dalla Sicilia (ove gli anglo-americani sbarcarono, per la precisione, il 10 luglio) e riparai ad Atrani, che era allora una frazione di Amalfi, lontano dal­la bombardatissima Napoli, unitamente a mia moglie in attesa del nostro primo figlio.

 

7. A Catania feci ritorno, sacco in ispalla e con mezzi di fortu­na, solo a gennaio del 1944, dopo che la quinta armata americana aveva effettuato (settembre 1943) uno sbarco a Maiori, cittadina a due passi da Amalfi, ed aveva, cautamente avanzando, conquistato Napoli e proseguito di qui verso Roma, che sarebbe stata occupata peraltro solo a giugno. («Sei moscio come la quinta armata», usava­no dire ingenerosamente, a quei tempi, i mie concittadini quando volevano redarguire taluno per essere un tiratardi).

Ricordo sempre con piacere, della Catania «occupata» dalle forze del generale Montgomery, il capo della sezione incaricata dell'«Education», che era un garbato gentiluomo inglese, tal colonello Gayre (nella vita borghese anch'egli, suppongo, un uomo di scuo­la), i cui modi poco o punto militareschi si adattavano molto ai miei gusti. Gayre non mancò di sottopormi, prima di suggerire ai suoi capi se riammettermi o meno in Università, ad un interrogatorio molto rigoroso (cosí come aveva fatto, credo, per gli altri miei colle­ghi) circa la mia carriera, il mio passato politico e militare, le mie idee sulla guerra e sull'invasione. Quando gli risposi, come è nel mio carattere, in tutta franchezza, notai che si meravigliò alquanto per il fatto che io non dichiarassi, come altri, di essere stato sin da lattante un acceso antifascista occulto e che non proclamassi di esse­re pertanto al colmo della gioia per una guerra perduta e per una «liberazione» che era, in fin dei conti, un'occupazione militare non esente da ovvie, direi quasi inevitabili, sopraffazioni e brutalità.

Disapprovare, come disapprovavo (e vivamente), la campagna antiebraica, l'alleanza con i nazisti, il nuovo giro di valzer che ci aveva messo in guerra nel 1940 contro gli alleati francesi e britanni­ci di appena vent'anni prima, era una cosa. Tuttavia apprezzare la disfatta, esser fiero di aver piantato in asso il nuovo (sia pur detesta­to) alleato germanico, far festa a quei fuoriusciti italiani che si erano accodati alle armate angloamericane per partecipare all'invasione della nostra terra, beh, era un'altra cosa. Un'altra cosa che mi faceva allora e mi fa tuttora vergogna.

8. Concludo. Il colonnello Gayre capi abbastanza bene che non ero persona incline a salire entusiasta, come invece molti miei con­cittadini, sul carro dei vincitori, ma che in compenso non ero un volgare patriottardo. Mi invitò anche a cena e, contro il mio solito, accettai. Dopo di che non andai piú a fargli visita.

Quando ci congedammo, mi disse cortesemente che, a suo pa­rere, a me si adattava un algido motto inglese che, per verità, non conoscevo: «right or wrong my country», giusto o sbagliato è il mio paese.

Ci ho riflettuto su varie volte. Direi proprio che questo motto mi sta bene anche oggi. Se in quei termini ed entro quei limiti ci si può dire patrioti, ebbene sorridete sotto i baffi e mettete in lista an­che me. Io sono un patriota.


 

III. SETTE NOTE

 

1. «Publica patrimonia iuris». - Vi è un passaggio dell'orazione Pro Caecina (scritta, come si sa, unificando tre diverse arringhe pro­nunciate prima del 67 a. C., forse intorno al 69) che costituisce il pilastro delle argomentazioni addotte da Cicerone davanti ad un collegio di recuperatores per convincere questi ultimi a dargli ragione nell'intricata controversia tra Aulo Cecina e Sesto Ebuzio in ordine al fondo che il primo aveva avuto in eredità dalla moglie Cesénnia. È un passo (26.73-75) che Mario Bretone (I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura [1998] 3 ss.) giustamente ammira e che (aggiungerei io) chiaramente sembra ispirato da Aquilio Gallo, il quale di Cicerone fu in questa causa, almeno sino a un certo mo­mento, consigliere (cfr. 27.77). In esso si esalta il ius civile, «quod neque inflecti gratia neque perfringi potentia neque adulterari pecunia possit», e si perviene alla conclusione che esso è un patrimonio pub­blico, il cui valore prevale e deve prevalere di gran lunga su ogni interesse privato («quapropter non minus diligenter ea quae a maioribus accepistis, publica patrimonia iuris quam privatae rei vestrae retinere debetis rell.»).

 

 2. Le parole sono bellissime, d'accordo. Ma è inevitabile la doman­da se esse siano pronunciate «pro veritate» o non pitittosto
«pro Caecina», cioè al servizio della tesi che per questi Cicerone sostiene. Ed  mio avviso la seconda risposta è ovvia. Ce la conferma a chiare
lettere proprio Cicerone quando, subito dopo aver concluso il suo elogio dicendo che «ius (civile) amitti non potest sine magno incommodo civitatis», passa bruscamente al pratico e dice (sintetizzo): pur se è vero che l'interdictum «unde vi armata» invocato da Cecina non ne tutela, ove sia letteralmente interpretato, la richiesta di entrare nel
fondo posseduto da Ebuzio, si renda omaggio alla maestà del ius civile ed alle esigenze dell'equità, che sono tutte a favore della pretesa di Cecina («iuris, rem et aequitatem plurimum valere oportere, libidinis
verba ac littera ius omne intorqueri»). La solita vecchia storia dello spirito del diritto che deve prevalere sulla lettera (sprezzantemente denominata cavillo). Argomento cui ricorrono spesso ancor oggi gli avvocati
(lo attesto anche per mia diretta esperienza) a titolo di «extrema ratio».
Non è dato sapere come abbia reagito Gaio Calpurnio Pisone, l'avvocato di Ebuzio. Probabilmente avrà replicato: «parole, parole, parole». Probabilmente avrà ancora insistito sull'inesistenza di un «deicere», come richiesto dall'interdetto de vi armata. Tuttavia biso­gna pur tener conto del fatto che Ebuzio, anche a prescindere da come lo dipinge Cicerone, era effettivamente un grande antipatico. Basta por mente ai puri fatti di causa ed a quel ricorso da parte sua ad una banda di «gangsters» armati di tutto punto per impedire a Cecina l'ingresso nel fondo ove si sarebbe dovuta svolgere, ai fini dell'instaurazione del petitorio, la rituale deductio moribus di que­st'ultimo, cioè la sua espulsione «pro forma» dal fondo stesso (cfr. Caec. 7.20 e passim, nonché pro Tull. 8.20).

Cicerone fu molto intelligente a intuire che la dotta tirata sui «publica patrimonia iuris» sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso a suo favore. Se non gli fosse convenuto (Dio mio come sono malevolo), chi sa se avrebbe tanto magnificato il ius civi­le. Avete a mente l'orazione pro Murena?

 

2. Catilina e don Rodrigo. - Credo sia presso che impossibile dire qualcosa di originale a proposito di Catilina e della sua congiu­ra (se congiura vi fu) smascherata da Marco Tullio Cicerone (v., per tutti: N. Criniti, Bibliografia catilinaria [19711; id., «Catilina» e «catilinario», in Contrib. Ist. St. antica Un. Cattolica 3 [1975] 121 ss.). Presso che impossibile è anche dire qualcosa di nuovo a proposito de I promessi sposi (1840), romanzo storico di Alessandro Manzoni commentato e analizzato per oltre un secolo (oggi quasi non piú) da turbe di esegeti sopra tutto italiani. Comunque ci provo, anche se temo fortemente di essere stato preceduto da chi sa quanti diligentissimi «manzoniani» (parola che mi viene malvolentieri alla penna dal ricordo di una poesia del Carducci, Davanti San Guido v. 70-71 e 83-84, peraltro, di là da certi sarcasmi, molto bella).

Il brano che evoco è quello del sallustiano Bellum Catilinae (c. 31-32), là dove si parla di Catilina che, «furibundus» per l'effetto provocato nei suoi colleghi senatori dalla veemente (la prima) ora­zione pronunciata contro di lui da Cicerone, «ex curia domum proripuit» e quivi, «multa ipse secum volvens», decide di fuggire in pie­na notte da Roma col seguito di pochi uomini e passa ad attuare questo prudente proposito non senza aver prima incitato i congiu­rati rimasti in città a preparare gravissimi sfracelli in attesa del suo ritorno alla testa di un grande esercito («sese propediem cum magno exercitu ad urbem adcessurum»).

Ebbene, a me sembra chiaro che a questo passaggio di Sallustio debba aver pensato il Manzoni, nel cap. XXV della sua opera, con rife­rimento al ribaldo don Rodrigo, quando questi ebbe notizia del fallimento delle sue mire sulla giovane Lucia a causa dell'inaspet­tata conversione, tra le braccia pietose del cardinale Federico Borromeo, di quel ribaldo ancora piú ribaldo («appaltatore di delitti»), l'Innominato, cui aveva chiesto il favore di rapire per lui la contadinella.

Si sa che la conversione era avvenuta mentre il cardinale Federigo era in giro di visite pastorali in quelle regioni e che ormai era imminente il suo arrivo anche nel paese ove don Rodrigo aveva il suo palazzotto. Che fare per sottrarsi, se non alla morte, quanto meno all'umiliazione? «Per levarsi da un impiccio cosí noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del sole, ... parti come un fug­gitivo, come (ci sia un po' lecito di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando, e giu­rando di tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette».

 

3. «Lex edicta». - Non so se avrò tempo e modo di vedere la fine del volume seminariale che Tullio Spagnuolo Vigorita va pubblican­do a puntate dal 1997, sotto il titolo Casta domus (cfr. Hor. Carm. 4.5.21), in relazione alle leggi matrimoniali augustee. A tutt'oggi ho sotto gli occhi le prime due puntate (1998) e le segnalo quale esem­pio pregevole di accuratezza di informazione e di chiarezza di espo­sizione (quest'ultima precipuamente a servizio, come è doveroso che sia, dell'apprendimento da parte dei lettori studenti).

Concordo con l'autore (p. 33 ss.) nel ritenere «quanto meno probabile» che già da qualche anno prima del 18 a.C. Ottaviano abbia avuto in mente ed abbia altresí pubblicamente manifestato il pro­posito di avviare, nel quadro di una restaurazione dei costumi re­pubblicani, qualcosa di sostanzialmente simile alla lex Iulia de maritandis ordinibus. Non trasformerei peraltro questa probabilità in «certezza» (come fa invece subito dopo lo S. V.) di fronte ai versi di Properzio (2.7), là dove questi, in un anno che deve essere stato il 28 o piú verosimilmente il 27, si dice certo che l'amata Cinzia esulti perché è stata «sublata» una «lex edicta» che lo avrebbe costretto al matrimonio (con altra donna), impedendogli di saziarla con i suoi vigori amorosi («Gavisa es certe sublatam, Cynthia, legem / qua quondam edicta flemus uterque diu rell.»).

Personalmente sarei alquanto restio non solo a credere che Properzio accenni ad una lex publica prima pubblicata e poi abroga­ta, ma ancor piú a supporre che egli si riferisca ad una rogatio legis non sottoposta poi alla votazione dell'assemblea. Diamine, è un poeta che parla. È un poeta che allude con quel «quondam edicta (lex)» ad una pura e semplice «voce» durata a lungo («diu»), certo piú del trinundinum che separa la pubblicazione della rogatio dal voto, e che comunque non si è realizzata. Egli non farebbe le ipotesi che passa a fare («nam citius paterer caput hoc discedere collo / quam possem rell.») per il caso che la diceria non fosse sfumata.

Si trattasse di Labeone e dei suoi versi d'amore (per la moglie di Capitone?), potremmo anche arrischiare conclusioni diverse. Ma sta in fatto che fonti fededegne su questa e su consimili tresche (mi duole di deludere qualche giusromanista di mia conoscenza) pur­troppo ancora non se ne sono trovate.

 

4. I primatisti. - In un articolo di qualche anno fa (Riv. dir. civ. 42[1996] 2.690 nt. 1), riferendomi all'affermazione di Vittorio Frosini secondo cui Giorgio Federico Hegel sarebbe «il massimo fi­losofo del diritto del mondo moderno», ebbi a scrivere che «certe graduatorie di sapore olimpionico non si confanno al mondo degli studiosi». Lo stesso scrissi piú tardi (in Labeo 44 [1998] 145) relati­vamente all'affermazione di Tomasz Giaro (in Rechtshistorisches Journal 16 [1997] 231 ss.) per cui il Ròmisches Privatrecht avrebbe elevato Max Kaser «zur fraglosen Nummer Eins der internationalen Romanistik».

Naturalmente (ci vuole ben poco a capirlo per chi mi conosca e mi rispetti) non ce l'avevo né con Hegel né con Kaser, né (tanto meno) con Frosini o con Giaro, dei quali avevo letto le pagine con lo scrupolo che mi è consueto. Era solo che, almeno a mio avviso, nel mondo scientifico si ha il dovere di dire, dopo averci pensato, ciò che si pensa.

Chiuso l'incidente (se tale lo si può definire), non avrei mai supposto che avrei avuto occasione di tornare sull'argomento in questo fine millennio, nel quale si è aperta su giornali e riviste una gara convulsa per stabilire quali siano i dieci personaggi piú eletti del duemila, anzi per identificare il primatista assoluto, la «Nummer Eins» del lunghissimo evo. San Tommaso, Napoleone, Leonardo, Kant, Dante Alighieri, Hegel (ancora lui), nonché ovviamente Goethe, Shakespeare, Raffaello, Carlo V e via continuando? Tutti in lizza, questi sommi, ed è consolante. Ma quali e quante assenze nella pur lunghissima lista, Dio mio. Per esempio, manca Alessandro Manzoni, o per lo meno mancava il Manzoni sin quando Giorgio De Rienzo (in Corriere della sera 15 gennaio 1999) ne ha segnalato l'omissione e si è iscritto, per ora unico, tra i suoi «venticinque lettori».

Al De Rienzo (il cui pezzo, oltre tutto, è molto gustoso) mi aggiungerei volentieri io stesso, che de I promessi sposi, sono sin dal­l'infanzia un lettore e rilettore deliziato, se l'oblio che ha colpito in quest'ultimo mezzo secolo Alessandro Manzoni e la sua opera mas­sima non fosse, in certo senso, meritato: non dal Manzoni, sia chia­ro, ma dai devotissimi «manzoniani» di cui ho già fatto cenno. I quali, non diversamente dai «dantisti» o dai «proustiani» (e chi piú ne ha piú ne metta), hanno fervorosamente costretto moltissime generazioni di studenti a sillabare i Promessi sposi molto prima del­l'età necessaria per intenderne il senso e l'ironia, con l'effetto quan­to meno di banalizzarli, sí da renderli prima odiosi e poi indifferenti alle persone di cultura media (una cultura che oggi, di­rei, è alquanto piú denutrita ed esangue che non ieri e ieri l'altro).

Mi auguro vivamente che anche questa oscura notte passi, ma tra i venticinque lettori del Manzoni io non mi ci sono messo per due motivi. Primo, perché anche un uomo di modesta levatura come me deve obbedire al bisogno di non incoraggiare un'iniziativa idiota. Secondo, perché i venticinque lettori di cui parla il Manzoni nei Promessi Spo­si («Pensino ora i miei venticinque lettori etc.», cap. IX) hanno dato luogo anch'essi ad imperdonabili idiozie dei «manzoniani».

Si legga, a tal proposito, l'attentissimo saggio dedicato da Sal­vatore Nigro a La tabacchiera di don Lisander (1996, p. 33 ss.). Da esso apprendiamo sinanche che vi fu uno studioso, il De Gubernatis, il quale suppose, nel 1879, che don Alessandro si riferisse al totale degli amici cui aveva sottoposto via via in lettura il romanzo nella fase di preparazione. Ed apprendiamo eziandio che dieci anni dopo il figliastro del Manzoni, Stefano Stampa, smentí autorevolmente, iure adgnationis, la sprovveduta congettura.

 

5. Sulpicia. - La dolce Sulpicia, autrice di sei epigrammi elegiaci del Corpus Tibullianum, è incappata anch'essa (come poteva essere diversamente ?) nelle escogitazioni di innumerevoli professoroni che sul suo conto, e sul conto dell'amato Cerinto destinatario dei suoi versi, hanno detto tutto e qualcosa di piú (basta una scorsa, in pro­

posito, ad E. Bréguet, Le roman de Sulpicia, 1946). Non turberei an­ch'io la sua pace, se non avessi tra le mani una scheda, tratta da On. Guarino 3 (1984) 1455 ss., di cui voglio assolutamente liberarmi.

 

La scheda è relativa ad un'elegante nota di Detlef Liebs, il qua­le non dubita che Sulpicia fosse il vero nome della poetessa e sup­pone essere stata costei una parente del giurista Servio Sulpicio Rufo. Siccome talune ragioni (che qui tralascio di riferire) lo inducono ad escludere che di Servio essa sia stata la figlia, egli pensa piúttosto ad una nipote ex filio, e piú precisamente a quella Sulpicia S. f. che, se­condo un'epigrafe riportata in ISL. 3103 (= CIL. 1.987, 6.361), dedi­cò un altare a Giunone Lucina «pro Paulla Cassia f(ila) sua». Questo ardito smascheramento di Sulpicia porterebbe anche a svelare il vero nome del Cerinto cui la poetessa alludeva: evidentemente un mem­bro della gens Cassia con il quale Sulpicia fini felicemente con lo sposarsi e avere quanto meno una figlia.

La conclusione del Liebs (Fine Enkelin des Juristen Servius Sulpicius Rufus, p. 1457) è: «Móge dieser Enttarnungsversuch dem ... Neapolitaner Gelehrten Vergnúgen bereiten». Ora io non ho rémore a dire che il « Versuch» mi piace, anche perché è nello stesso spirito di fine disincanto che ha indotto il Liebs a riprodurre in capo al suo Rómisches Recht (1987, nuova ediz. 1993) un quadro surrealista (sulla leggenda dei secoli) di René Magritte. Ma dire che mi convinca non saprei. E non, per carità, a causa della spericolata acrobazia epigrafistica, ma a causa dei sentimenti che provoca, almeno in me, l'elegia in certo modo conclusiva (o suprema) del tenero romanzo i Sulpicia: «Tandem venit amor, qualem texisse pudori / quam nudasse alicui sit mihi fama magis.../ Exsolvit promissa Venus .... /Non ego signatis quicquam mandare tabellis, / ne legat id nemo quam meus ante, velim; / sed peccasse iuvat, vultus componere famae / taedet; cum digno digna fuisse ferar». In questi versi vi è tutto, salvo che la banalità del matri­monio finale e il superamento di un'improbabile differenza sociale tra i due (i Sulpicii erano patrizi e i Cassii plebei, d'accordo, ma ambedue le famiglie erano di rango nobiliare). Noi non possiamo che fermarci al sopravvenuto amor, al divino intervento di-Venere, al misterioso (ambiguo?) peccasse che Sulpicia non vuole rivelare in tabellae prima che l'amato sappia (ed approvi?), all'incuranza sua di mantenere il segreto, alla sua certezza (speranza?) che la gente poi dica che i due sono stati degni l'una dell'altro.

È qui che finisce, nelle sfumature dell'indefinito, tutto. Se una fonte esplicita e dettagliata ci rivelasse i dati anagrafici di Sulpicia e Cerinto, ci ponesse dinanzi agli occhi l'atto del loro matrimonio e ci elencasse tutta la loro figliolanza, sarebbe davvero un peccato. For­tunatamente questa fonte non c'è.

 

6. L'«Index». - Qualche tempo fa, discorrendo con un giovane collega in occasione di un congresso internazionale, mi venne fatto di citare l'Index interpolationum quae in lustiniani Digestis inesse dicuntur. Mi guardò rispettosamente sorpreso. Ebbi netta l'impres­sione che egli l'Index non l'avesse mai neppure visto e che io non sapessi, povero vecchio rudere che sono, che 1'Index interpolationum è da decenni fuori uso, alla stessa guisa dell'Index librorum prohibitorum istituito nel 1557-59 dal papa Paolo IV e abolito nel 1965 dal papa Paolo VI. Cercai di nascondere ciò che pensavo di lui e dei giusromanisti allo stato fetale come lui, e passai ad altro argomento.

L'episodio mi è rimasto impresso, non tanto perché mi fa pen­sare a certi virginei colleghi secondo cui (e alcuni lo hanno anche scritto) l'interpolazionismo è finito e le interpolazioni non vi sono piú, quanto perché mi induce a ribadire la viva deplorazione del fatto che l'Index fondato nel 1929 da Ernst Levy e da Ernst Rabel non sia stato portato avanti, almeno fino al 1950, dopo il fascicolo del 1935. (Vedi, in proposito, Labeo 13 [1969]129 s. = mie PDR. 1[1993] 430 ss.).

Perché, a mio avviso, la cosa è da deplorare? Non solo perché, la critica esegetica è ancora ben viva nei giusromanisti di buona lega, pur se le conclusioni che da essa si traggono non sono piú, invaria­bilmente, quelle dell'emblema giustinianeo o del glossema postclassico-pregiustinianeo. Ma anche perché l'Index avrebbe potu­to utilmente estendersi alla registrazione delle principali «anticritiche» espresse dalla dottrina in ordine ai singoli passi, ma­gari cambiando il proprio titolo in Index interpretationum o in qual­cosa del genere.

Se non mi illudo, queste finalità di informazione sono state in qualche modo salvaguardate, a partire dal 1950, dalla «Rassegna» annuale di Tura e dallo «Schedario» quadrimestrale di Labeo: due coserelle cui è stato bene che qualcuno abbia tempestivamente pen­sato e che qualch'altro abbia dato una valida mano a portarle avanti sino ad oggi. Ma è piú che probabile che, se l'Index di Levy e Rabel fosse riattivato (e perfezionato e ampliato) là dove è rimasto in tron­co, gli studi storici del diritto romano ne trarrebbero grande giova­mento. Sempre che non si decida, dati i tempi che corrono, di chiu­dere bottega e di non parlarne piú.

7. I «Sicutennosse». - L'espressione napoletana «sicutennosse», che si incontra nell'antica (forse settecentesca) Canzone del Guarracino (elaborazione letteraria Cottrau, 1829), sta indubbiamente ad indi­care una percossa inferta con la mano. Tra i non pochi autori che l'hanno studiata il piú recente (e gustoso) è Renato de Falco, nel suo opuscolo sulle 83 denominazioni e specie delle percosse manuali napoletane intitolato Mazzate 'e cecate (=botte da orbi) e pubblicato a Napoli nel 1993. Il de Falco (pg.37) inserisce il «sicutennosse» tra le percosse a mano chiusa ravvisandone la derivazione da un passo del Pater nosler ('sicut et nos dimittimus debitoribus nostris'...); ipotesi oggi avallata dalla dottissima ricerca linguistica di G. L. Beccaria (Sicuterat [1999]84) sulle volgarizzazioni dialettali delle preghiere latine.

Quanto alla spiegazione, a me sembra probabile che «sicutennosse» sia un «transfert» sarcastico, voglio dire non invo­lontario, del «demittere debitori bus nostris». La figura giuridica cui la preghiera cristiana si riferisce è indubbiamente quella della remis­sione del debito: «demitte nobis debita nostra», dice il debitore rivolto al Signore, proponendosi di comportarsi allo stesso modo (cioè ri­mettendo i debiti loro) con i propri debitori. Senonché questo è il punto. Il latino della preghiera è un po' confusionario (non fa capi­re chiaramente che debitoribus nostris si rimettono i debito loro, non certo i nostri) e il «demittere» (in luogo di «remittere») ha una carica ambigua di violenza.

Chi, litigando con un altro, riceve da costui delle percosse manuali (tale il caso della canzone del Guarracino) non si sente per­ciò creditore soddisfatto, ma si sente debitore delle stesse (o di altrettali percosse) verso l'avversario. Il suo sacrosanto dovere è di restituire pugno a pugno, ripristinando la legge del taglione. I com­petenti di pugilato parlerebbero, credo, di «diretti di rimessa»

 

IV. LA SCENEGGIATA

1. «Quel colloquio vivo con le 'matricole' che un Maestro dei nostri tempi ha paragonato ad una 'sceneggiata' provocando grave scandalo, quasi un'offesa, tra i Colleghi». Sono parole che si leggo­no nella Premessa della seconda edizione del volume di Vincenzo Giuffrè (Napoli 1998) avente a titolo Il diritto dei privati nell'espe­rienza romana, e a sottotitolo I principali gangli.

Sarebbe di cattivo gusto dedicare cenni di critica, sia pure in senso elogiativo, a questo corso di lezioni, che nel contenuto (non nel modo di esposizione) corrisponde in gran parte ad un mio ma­nuale di Diritto privato romano pervenuto, a sua volta, all'undicesima edizione (Napoli 1997). Qualche imbecille (nel nostro ambiente non ne mancano mai) potrebbe facilmente pensare alla soddisfazione di chi prende atto dell'accoglimento di molte sue strutture espositive, o viceversa al fastidio di chi registra sul mercato librario l'entrata di un altro concorrente. Nulla di tutto ciò. Se scrivo questa nota, è per­ché nel «Maestro dei nostri tempi» (maestro con la «m» maiuscola) i lettori non possono non aver ravvisato, conoscendo la nota benevo­lenza del Giuffré, la mia persona (e chi altri, se no?). Ed è perché (uscendo dallo scherzoso) riconosco di aver spesso detto «inter amicos» e forse scritto da qualche parte, che la lezione universitaria è una recita dalla cattedra, è addirittura una «mise en scène» per la quale bisogna anche sforzarsi di avere «le physique du ròle» (alme­no quanto a volume di voce, ad uso esperto dell'eventuale microfo­no, ad opportuna varietà e vivacità di discorso e tutte queste cose).

Tutto ciò lo ammetto. Ma tengo a precisare che bisogna inten­dersi circa il tipo ed i limiti della cosí detta «sceneggiata». Anzi, che bisogna anche intendersi circa l'opportunità di riprodurre in iscritto (oppure in cassette o in dischi audio o video) le lezioni eventual­mente stenografate o registrate dal vivo. Anzi, che bisogna anche intendersi circa la differenza che esiste e deve esistere tra il manuale scritto per un pubblico «assente» e le lezioni pronunciate (recitate) «ex cathedra» ad un pubblico presente.

Che i miei «colleghi seriosi» si siano scandalizzati o addirittura offesi, avendo notizie di certe mie divagazioni (almeno cosí come le riferisce il Giuffré), è cosa che mi importa sino ad un certo punto (tanto resta al di fuori di ogni dubbio che ci detestiamo reciproca­mente). Mi importa invece, e molto, che io, essendo una persona tremendamente (temo, esageratamente) seria (non «seriosa»), pur quando mi rilascio a metafore e ad iperboli nell'esprimermi tra per­sone con cui sono in stretta confidenza, sembri ai miei amici, ed ai colleghi di cui ho stima, il giocherellone che davvero non sono e non sono mai stato. Veniamo a noi.

2. «Sceneggiata» (cominciamo da questa) è parola che non ap­partiene alla lingua italiana, ma è tipica della lingua o, se si preferi­sce, del dialetto partenopeo. In senso proprio essa (si legga nel Voca­bolario dello Zingarelli) designa un genere teatrale nato a Napoli sul finire dell'Ottocento e costituito da un'esile partitura in prosa che culmina, al terzo atto, in una canzone di successo cui si ispirano il titolo e l'intreccio generale di tutta quanto l'azione.

Oggi come oggi, almeno da una quarantina d'anni, di sceneggiate non se ne compongono e recitano quasi piú, ed è molto dubbio che uno studentello dei tempi attuali ne abbia notizia. In­fatti la grande canzone napoletana (quella che va da Marechiaro a Munasterio 'e Santa Chiara) è pressoché morente, superata, almeno nella diffusione, dal diluvio di versi e musica (talvolta pregevoli) dei cantautori italiani e stranieri, sicché i cinema-teatri popolari di una volta quaggiù piú non esistono o, se ancora esistono, piú non si industriano ad attirare il pubblico con le sceneggiate. Resistono an­cora (ma, purtroppo, ad esaurimento) alcuni vecchi gladiatori, come Mario Merola, che portano non tanto sui palcoscenici napoletani della periferia, quanto nei locali periferici del mondo («Little Italy» avanti tutto), là dove è tuttora incandescente la nostalgia degli oriundi italiani del Mezzogiorno, l'addolorata trama di 'O zappatore, che è poi qualcosa di analogo a La traviata verdiana.

Pensate. Inviato a Napoli dal padre contadino, «zappatore», per studiare e laurearsi, il giovane figlio s'innamora di una vezzosa ame­ricana e, vergognandosi delle sue umili origini, lascia Napoli per una città del Nord, mi pare per la nostra «big Apple» di Milano. La ma­dre, dopo tanti sacrifici fatti per mantenerlo ai da lui negletti studi ed ai da lei deplorati bagordi, muore di disperazione. Ma il vecchio padre, piú duro ed efficiente di Germont, va in cerca del giovinastro, lo trova e implacabilmente gli canta, nel mezzo di una festa, tutta la commovente storia di tanto abbominio, culminando nell'invito au­stero ad inginocchiarsi davanti a lui ed a baciargli rispettosamente la mano: «Addenòcchiate, e vàsame 'sta mano». Non solo il senti­mento filiale, ma anche lo schiamazzo immancabile del pubblico in sala, inferocito per tanta ingratitudine, inducono il nostro Alfredo a prostrarsi, a fare le valigie ed a tornare con la coda tra le gambe al borgo natio.

 

3. Guardiamoci nel bianco degli occhi. Ha nulla a che vedere la sceneggiata in senso proprio, di cui ho parlato testé, con una le­zione universitaria, sopra tutto se fatta (come a volte mi è capitato) dinanzi ad un numero di studenti superiore, diciamo, a quaranta o cinquanta?

Assolutamente no. A prescindere dall'uso del dialetto locale, a prescindere dalla canzone cosí detta «di petto», a prescindere dall'orchestrina di accompagnamento, manca nella lezione univer­sitaria (salve eccezioni rarissime su cui non mi soffermo) il «pathos» della vicenda. Dov'è il figliuol prodigo? Dov'è l'americana formosa? Dov'è il brindisi «nei lieti calici»? Dov'è il cattivo, il cattivo verace, il cattivissimo (per il pubblico napoletano, «'o malamente») con il quale prendersela e sul quale infierire? In fondo, tutto si riduce ai requisiti della stipulatio o agli errori del professor Pagenstecher. E la forma, anche se talvolta un po' concitata, è solo quella di un racconto, di un insegnamento, di un ammonimento.

Obbiettività vuole che aggiunga che a Napoli si pratica anche una sceneggiata «impropria», dilettantesca, almeno quando vi è la persona in umore e in grado (cosa rara) di recitarla. E a tal proposito la memoria mi offre l'exemplum, peraltro difficilmente imitabile, del modo «chic», lievemente «dégagé» e un tantino «démiurgique», in cui il mio compianto amico don Salvatore Gaetani di Castelmola rivelava talvolta, vivamente pregato dagli amici, come si procede all'elaborazione del «ragù» napoletano (pietanza piú complessa del pur succolento «ragout» francese).

Con gesti lenti e misurati il signore di Castelmola diceva grave­mente agli astanti: «Si prenda una coscia di maiale e se ne tragga dal centro quel nodulo muscoloso, di peso non superiore ai due chili, che usa dirsi volgarmente 'gallinella'. Il resto si getta». E dopo aver seguitato che analogamente ci si deve comportare anche per i modi­ ci quantitativi di strutto, di olio di oliva vergine, di passato di po­modoro, di conserva dello stesso eccetera, estratti'ciascuno da un recipiente aperto a bella posta, concludeva ammonendo: «Infine si versi sul tutto, da una bottiglia di Cabernet «sauvignon» stappata due ore prima, non piú di un cucchiaio, o al massimo due, di buon vino. Il resto si getta».

Ovviamente, il Castelmola, era il primo a sorridere internamen­te, senza alterare i tratti severi del viso, della sua ricetta. E poi il suo non era un asciutto monologo, perché gli amici (Napoli è sempre Napoli) usavano ironicamente intervallarlo, a mo' del coro greco, con dei «davvero?» o con dei «Gesú, Gesú» di meraviglia e di ammi­razione.

Ditemi, comunque, se si può fare a lezione una sceneggiata pari a quella di cui si rendeva protagonista il mio nobile amico. Eviden­temente no. Manca al docente l'agio di dire che, presa una piccola parte dell'ususfructus o dell'emptio venditio, «il resto si getta». Gli stu­denti, è ovvio, non aspettano altro in vista degli esami.

 

4. Sceneggiata, dunque, no. Assolutamente no. «Recita» invece, come ho già detto, sí.

Recita che si svolge davanti ad un pubblico di giovani per chia­rire loro i problemi connessi ad un certo argomento e per ottenere la loro congrua attenzione. Recita da effettuarsi, senza esagerare, con le stesse modalità essenziali che sono dell'attore teatrale, ma che (eccoci alle difficoltà dell'operazione) non può totalmente improv­visarsi e non deve, per contro, aderire lettera per lettera ad un testo preconfezionato. Recita, in altri termini, da portare avanti «a sogget­to», approssimativamente secondo le modalità di quella «comme­dia dell'arte» che fiori in Italia e dilagò in Francia e altrove nei secoli XVI e XVII.

Mi spiego. Lasciamo da parte quei miserandi pseudo docenti (ahinoi, sempre piú numerosi) che fanno lezione «a braccio», come gli viene gli viene, senza riconnettersi alla lezione precedente, senza seguire un «filo» rigoroso, senza astenersi da divagazioni da quattro soldi e da facezie a tanto la dozzina, senza curarsi di essere intesi (voglio dire: capiti) dalla media dell'uditorio e senza dubitare di essere, per il solo fatto di esistere, ammirevoli. Lasciamoli da parte, come ben fanno generalmente gli studenti, i quali sono abbastanza avveduti per accorgersi che si tratta di cianciatori assolutamente inu­tili. Gli altri, cioè i docenti impegnati e rispettabili, si attengono ri­gorosamente ad un programma generale e lo svolgono attraverso lezioni connesse tra loro ed opportunamente preparate, proprio come quelle teatrali.

Con questa avvertenza, però. La loro recitazione non può svol­gersi «a copione», con quando si mette in scena l'Amleto di Shakespeare o i Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello. Tanto varrebbe, per gli studenti, andarsi a leggere direttamente i testi (pro­pri o altrui) da cui quei docenti attingono, essendo scontato (e direi anche auspicabile) che la loro dizione e la loro postura nel parlare non sia tale da giungere o da voler giungere a quei vertici espressivi dell'interpretazione teatrale che rendono, ad esempio, lo stesso Amleto fortemente diverso a seconda degli attori che lo impersona­no (e dei registi che lo mettono in scena). Sicché al buon docente non rimane che recitare la sua lezione sulla base di una «scaletta»: termine tecnico, nel linguaggio teatrale, per designare appunto la recitazione «a soggetto».

5. Cosa tanto difficile, la recitazione a soggetto, in quanto si tratta di un monologo, di un «to be or noi to be», che il docente deve portare avanti per tre quarti d'ora. Tre «quarti accademici» nei quali egli agisce senza la compartecipazione dialogante di altri do­centi, senza la pausa di respiro di un appartarsi in silenzio o di un assentarsi ogni tanto dal palcoscenico, senza l'aiuto nemmeno di una «spalla» che gli porga la battuta, o del coro greco (degli «assi­stenti»?) che lo incoraggi. Anzi al contrario. Anzi col timore incom­bente che a qualche sua curiosa «papera», o a qualche suo esitante silenzio per vuoto di memoria, o a qualche sua qualunque altra ca­duta di tensione faccia da spalla, o da coro, ma in ben altro senso, il pubblico studentesco con mormorii di fastidio o con peggiori segni di intolleranza.

La sua «maschera» di base è pressoché invariabile ed è (per re­stare nel linguaggio dell'«arte») quella un po' tediosa del dottor Balanzone (spiace aggiungerlo: anche in versione femminile). La sua esposizione è condizionata severamente dal «soggetto» da spiegare e dalla scaletta da seguire. L'unica sua libertà sta nella parola (sempre nel linguaggio tecnico, essa sta nelle «battute»), ma questa è forse la cosa piú difficile.

Le battute non sono predisposte e non si possono preparare a memoria. Occorre che rivestano l'ossatura del discorso in relazione al pubblico che fisicamente ascolta in aula, in relazione al momen­to storico in cui sono pronunciate, in relazione agli eventuali avve­nimenti dei giorni in cui si fa lezione. Occorre insomma che si ade­guino al reale e al presente, cioè a quanto di piú variabile vi è nel passaggio da una generazione all'altra, anzi da un anno accademico all'altro. La parola o la frase latina, di cui in altri tempi la compren­sione si dava per scontata, devono essere oggi accortamente svolte in traduzione. Il riferimento letterario che una volta era facilmente capito (mettiamo, don Abbondio) oggi casca nell'incomprensione e deve essere opportunamente mutato (mettiamo, Tex Willer). L'avve­nenza che anni or sono era di Marylin Monroe o di Sofia Loren oggi è quella di Julia Roberts o di Anna Falchi (ed anzi, per il dovuto riguardo alle «pari opportunità» del pubblico femminile, non va ta­ciuto il fascino di un Arnold Schwarzenegger o di un Leonardo Di Caprio). E poi non dico gli episodi della prima guerra mondiale, ma anche quelli della seconda, della Corea, del Vietnam sono svani­ti nel nulla, mentre vale al piú (sin che dura) la recente guerra del Golfo. Ne volete ancora? Ebbene, in passato c'era Frank Sinatra, oggi c'è Zucchero (o chi altri si aggira per le piazze), che però già sta per cedere il posto ad un diverso cantautore. E chi si ricorda della Bugatti o dell'Alfa Romeo «Mille miglia», quando impera (ancora per poco) la Ferrari? E il «Witz», la barzelletta di ieri, pulitina pulitina, diverti­rà ancora quest'oggi? E, se ripetuta l'anno prossimo, non andrà in­contro ad un annoiato «sapevamcelo»?

Vi è di piú, vi è. Anche il «soggetto» deve essere ogni tanto ri­toccato perché il diritto (compreso il diritto romano) si evolve in­cessantemente nell'interpretazione, se non sempre anche nelle sue fonti di produzione o di cognizione, e le «battute» in cui il soggetto si riversa devono essere fresche, tempestive, di giornata. Possibile che non ce se ne renda conto?

6. Ecco uno dei motivi per cui, in cinquanta e piú anni di inse­gnamento della «storia» e delle «istituzioni» di diritto romano (per non parlare del resto), io non ho mai dato forma editoriale, e tanto meno veste di manuale, alle numerose registrazioni che delle mie lezioni sono state fatte e mi sono state presentate dagli studenti. Ho ascoltato quelle registrazioni anche ripetutamente, prendendo nota delle manchevolezze che denunciavano o degli spunti di novi­tà che offrivano. Ma, quando si è trattato di redigere (e di rivedere) i miei due manuali (buoni o cattivi che siano), ho preferito seguire la via (o se si vuole il viottolo, il sentiero, il tratturo) della paziente scrittura o riscrittura a penna. A penna dico. Proprio io, che non so quanti articoli di giornale li ho rapidamente battuti, senza difficol­tà, sulla macchina da scrivere (la leggendaria «Lettera 22» della Olivetti), o magari li ho direttamente dettati, tenendo d'occhio gli appunti predisposti, al registratore o al telefono.

I «corsi di lezioni», se sono davvero tali (cioè davvero basati sulla raccolta «dal vivo» di una o piú serie di lezioni), fanno un tan­tino pensare, direi, al ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (The Picture of D. G., 1891): segnano implacabilmente i difetti e l'invec­chiamento dei loro autori man mano che gli anni si susseguono. Comunque, non è solo e non è tanto per questo motivo wildiano (valevole, in modi attenuati, lo riconosco, anche per certi manuali che, una volta editi, non si rivedano o si rivedano poco ed affrettatamente), non è tanto a causa del fattore Dorian Gray che io diffido dai corsi «registrati» (per non parlare dalle «lezioni raccolte» da uno studente o da un assistente, che magari è piú intelligente di te, ma che appunto perciò difficilmente ti capisce e ti esprime per quel che veramente sei e che veramente dici). Piuttosto è perché gli studenti, almeno secondo la mia esperienza e la mia ormai indefettibile convinzione, hanno bisogno non soltanto delle lezioni del docente, ma anche, e prima ancora, di un testo di base che sia, a dir cosí, «categorico». Hanno bisogno, gli studenti, di un manuale che fissi senza apparenti incertezze le «tavole della legge», cioè le linee essenziali della materia. Hanno bisogno di un manuale (ad uso anche dei molti assenteisti alle lezioni) il quale dia della mate­ria un'immagine semplice, o piú esattamente (siamo sinceri) sem­plificata, che si imprima con faciltà nella mente del lettore, lascian­do alla voce del docente, ad altre letture, a successive riflessioni la presa di coscienza di quanto vi è di complesso, di cangiante e di elastico dietro gli schemi scheletrici contenuti nel manuale.

 

7. Perché questa è appunto, sempre a mio avviso sommesso, la delicata funzione del docente.

Egli ha il compito di far «vivere» le formule fredde del «manua­le» (generalmente a stampa, ma anche, se si vuole, audio o video­registrato nei modi opportuni) al quale si riferisce, come a una bus­sola, nel suo insegnamento. Ha il compito di porre in luce i proble­mi che i manuali in prima approssimazione nascondono o danno per risolti, di ammorbidirne e sfumarne le rigidità, di rimpolparli con riferimenti (non esagerati e non riconoscibilmente politici) ai fatti del giorno, proprio del giorno stesso in cui parla. Ha sopra tut­to il compito di invitare gli studenti ad esaminare criticamente i te­sti su cui studiano, a meditarvi su con occhio vigile, ad accettarli col beneficio del dubbio, a riservarsi la possibilità di rifiutarli, in parte od in tutto, anche con l'aiuto di ulteriori letture e con l'esperienza che acquisiranno mediante lo studio successivo di altre discipline previste dall'ordinamento universitario. Il che, devo aggiungere, de­riverà non soltanto dall'impegno che il docente porrà nel «misura­re» le sue lezioni di cattedra (cioè nel riferirle costantemente al te­sto-base da illustrare), ma anche, e non meno, dal corredo di eserci­tazioni e di seminari e di spiegazioni (possibilmente pazienti) che egli e i suoi assistenti (linfa vitale, questa, di un buon insegnamen­to) metteranno a disposizione personale, immediata, duttile degli studenti durante un anno accademico speso seriamente al servizio di questi ultimi.

L'anno accademico (tutti dobbiamo essere d'accordo nel bia­scicare un «purtroppo») non può non concludersi con rigorose pro­ve di esame. Prove a carattere colloquiale, e non di quelle a concise domande e risposte o, peggio ancora (non ne parliamo nemmeno), a «quiz», le quali siano non tanto intese ad esaltare i buoni studenti (ed a graduarne la bravura nelle votazioni positive), quanto ad al­lontanare e ad invitare persuasivamente a rinnovati studi ed a mag­giori approfondimenti (per essere chiari, a «bocciare») gli studenti che abbiano poco o punto seguito il corso o che comunque (abbia­no o non abbiano frequentato) non siano entrati a sufficienza nella comprensione della materia, trascurando l'imperativo della Beatri­ce dantesca (Paradiso 5.40-41): «non fa scienza,/ senza lo ritenere, avere inteso». È vero, infatti, che l'ingrata faccenda degli esami di profitto è stata inventata (su ispirazione di lontane pratiche cinesi), ohibò, dai gesuiti (si legga, al riguardo il lucido libro del Drago, La nuova Maturità,1999), ma non mi si venga a dire che «la ratio studiorum» gesuitica del 1559 sia priva, perché gesuitica, di senso e di opportunità.

 

8. Occorre dire che questo mio modo di intendere l'insegna­mento universitario esclude in via assoluta la possibilità del cosí detto «insegnamento a distanza»? Sí, forse occorre. Non solo per ribadire cose già dette, ma anche per aggiungere qualche considerazione nuo­va in ordine a certe recenti «ottimizzazioni» (in realtà, neologismo per neologismo, «pessimizzazioni») del metodo.

Cose già dette sono quelle che ho pubblicate (da ultimo, nelle mie Pagine di diritto romano 1[1993] 265 ss., 267 ss.) sulle lezioni televisive e su quelle impartite per corrispondenza o per invio di testi registrati. Manca ad esse quell'elemento vitale della spiegazio­ne «ad personam» che solo i docenti possono dare in aula o in istitu­to. Inoltre il momento dell'esame finale acquista, con questo meto­do didattico, una carica eccessiva di rischio a causa dell'irreparabilità preventiva di ogni possibilissima incomprensione.

Cose da aggiungere sono quelle che vengono, almeno a me, piuttosto facilmente sulla punta della lingua quando apprendo che professori di indiscutibile rispettabilità progettano o addirittura già praticano corsi di lezione via «internet», cioè attraverso connessione di «computer» con i loro allievi residenti a distanza, intrecciando con loro anche colloqui via telefono (in «chat-line») o col mezzo elettronico («e-mail»), e quando leggo che, in virtú di questi nuovi mezzi di comunicazione, i professori di cui sopra potrebbero giun­gere ad essere dispensati, volendo, persino dal controllo degli esami finali «a vista» (molto interessante, in proposito, l'articolo di Guido Martinotti, Insegnamenti senza limiti di tempo e spazio, pubblicato da Il sole - 24 ore del 10 gennaio, 1999, p. 40).

Della possibilità tecnica delle lezioni a distanza, ovviamente, non dubito. Dubito molto, invece, della possibilità di veri e intensi colloqui personalizzati, e dubito sopra tutto della buona fede che il metodo esige. Non della buona fede dei docenti, Dio guardi, ma di quella dei discenti. Sulla quale nessun allibratore offrirebbe (a voler largheggiare) più di 10 contro 1.

Mi si faccia il favore, mi si faccia. Chi garantisce agli entusiasti professori via etere di cui ho parlato che dall'altra parte della rete vi sia, a ricevere le lezioni ed a porre sedule domande e questioni di­mostrative del suo assiduo interesse, veramente ed esclusivamente lo studente destinatario, e non piuttosto un esperto, o anche un esper­to, che sostituisca e aiuti il destinatario per amicizia oppure per vile moneta? Chi assicura loro che tutto il marchingegno che essi caldeg­giano altro non sia se non la trasfigurazione postmoderna del vec­chio e sospettabilissimo «compito a casa»? E chi dà loro sicurezza, quando anche gli esami vengano integralmente surrogati dalla regi­strazione dei colloqui a distanza, che l'«allievo a distanza» non sia sostituito in tutto, e non solo (anzi non piú) nelle frustate, da un umile e ben preparato «wipping boy», con una sorta di ritorno a certe tradizioni (vuoi mettere?) delle nobili scuole inglesi di una volta?

 

V «UTI LEGASSIT»

 

I. Non sono un profeta e non ho nulla a che vedere con Gere­mia. Solo, di tanto in tanto, qualche previsione facile e lieta. Per esempio, quella che formulai nel 1983 (in Labeo 29.357 = PDR. 4 [ 1994] 137) dando notizia degli Hommages à Robert Schilling pubbli­cati in quello stesso anno. Dopo aver constatato che nella raccolta erano inclusi due nuovi saggi sul versetto «Uti legassit .... ita ius esto» di XII tab. 5.3 nella ricostruzione Dirksen-Schóll, conclusi i cenni ad essi relativi (ch'erano, per la precisione, uno di lean Gaudemet, a p. 109 ss., ed uno di André Magdelain, a p. 159 ss.) dicendo: «perso­nalmente penso (e non mi fa affatto dispiacere) che con queste ulti­me due le ipotesi sugli enigmatici versetti sono tutt'altro che esauri­te».

Ecco infatti, se non me ne sfugge qualcun'altra, ben quattro nuove ipotesi avanzate nel giro degli ultimi quindici anni. Autori: M. Humbert, in Crawford, Roman Statutes (1996) 635 ss.; C. A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, 1. Dalle origini all'opera di Labeone (1997) 85 ss.; M. Bretone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura (1998) 26 ss., 246 ss. (ma v. già Sesto Elio e le XII tavole, in Labeo 41 [1995]70 ss.); B. Albanese, Osservazioni su XII tab. 5, 3 («Uti legassit..., ita ius esto»), in AUPA. 45.1(1998)35 ss.

Mentre per la valutazione dei primi due contributi mi rimetto integralmente alle convincenti repliche dell'Albanese (di cui si ve­dano particolarmente la p. 51 e la nt. 27), un paio di parole, o poco piú, ritengo necessario dedicarle alle considerazioni del Bretone e, appunto, dell'Albanese.

 

2. Prima di tutto i termini del problema. Le fonti di cui dispo­niamo sono pressoché concordi nell'informarci che le XII tavole pre­sero in esplicita considerazione l'ipotesi delle ultime volontà di un paterfamilias e stabilirono che esse fossero giuridicamente vincolan­ti per tutti ricorrendo a queste parole: «Uti (paterfamilias) legassit ..., ita ius esto». Ma qual'era il «referente» (si scusi l'anglicismo) del lega­re, della dichiarazione di volontà (orale o scritta che fosse) emessa dal paterfamilias per dopo la propria morte? A tal proposito le varianti che colmano la lacuna indicata

poc'anzi con alcuni puntini sospensivi sono, stando sempre alle fonti, essenzialmente tre: a) «suae rei» o «de sua re» (cfr. Gai 2.224, Pomp. D. 50.16.120, 1. 2.22 pr., Par. I. 2.22 pr., Nov. I. 22.2 pr.); b) «super pecunia tutelave suae rei» o «super pecuniae tutelaeve suae» (cfr. Ulp. 11.14, Paul. D. 50.16.53 pr.; c) «super familia pecuniaque (o pecuniave) sua» (cfr. Cic. de invent. 2.50.148, Auct. ad Herenn. 1. 13.23).

La prima variante è stata ultimamente accolta dal Bretone, che ha visto in essa il testo probabilmente riportato da Sesto Elio nei Tripertita, che non dubita essere «sua res» l'espressione arcaica del patrimonium e che qualifica come «forme secondarie», equivalenti l'una e l'altra alla prima, le varianti seconda e terza. La seconda va­riante è quella generalmente accettata in dottrina (cfr. FIRA. 1. 37 s.), anche perché sembra comprendere per esplicito la possibilità di disporre in ordine alla tutela impuberum e mulierum. La terza variante è quella in favore della quale mi sono cautamente espresso sin dal 1944 io (v. ora «Familia pecuniaque», in PDR. 4 [1994]132 ss.). Quan­to all'Albanese, egli fa seguire ad una serrata critica delle varianti prima e terza l'accoglimento della variante «super pecunia tutelave suae rei», cui dà però il senso di legem dicere o «su somme di danaro ed oggetti mobili (pecunia) da destinare a terzi» oppure, in alternativa, sull'intero patrimonio (sua res) affidato in «tutela» ad un amico che provveda alla sua sorte (verificandosi, insomma: nel primo caso un testamento comiziale o un testamento in procinctu, nel secondo caso un embrione di testamentum per aes et libram).

 

3. Nessuno può seriamente dubitare che io abbia molta consi­derazione per il Bretone e per l'Albanese e che, in qualche piú ridot­ta misura, anche il Guarino non mi dispiaccia. Ma a questo punto mi sento costretto ad affermare che i tre giusromanisti ora nominati mi fanno un po' pensare, quanto alle loro «ricostruzioni» del verset­to «Uti legassit», a don Chisciotte in battaglia con i mulini a vento. Il che mi viene dal cosí detto «senno di poi» trasfuso da ultimo in uno scritto del 1997 (L'esigenza giurisprudenziale della sintesi e la sua storia generale, in La codificazione del diritto dall'antico al moderno [1998] 1 ss.), che conferma e corrobora un dubbio esposto e argomentato sin dal 1991 (Una palingenesi delle XII tavole?, oggi in PDR. 4[1994] 77 ss.)

Ed infatti l'accertamento del testo esatto, o quasi esatto, di un versetto delle tavole decemvirali è pura illusione perché manca a noi ogni possibilità di risalire con sicurezza alla lingua, ai precisi conte­nuti ed al sistema (se un sistema organico vi fu) di quelle tavole cosí lontane nel tempo. Il massimo che ci è consentito, a rigor di meto­do, è di avvicinarci al contenuto (essenzialmente privatistico e processualprivatistico) dei Tripertita, pubblicati da Sesto Elio piú di due secoli dopo, ma a noi malauguratamente non pervenuti nem­meno attraverso attendibili trascrizioni parziali: il che significa che, nell'ipotesi di molteplici versioni di una certa disposizione, cioé nell'ipotesi che qui ci occupa, il piú che ci è lecito è di congetturare quale sia stata la sostanza delle notizie date da Sesto Elio ed even­tualmente il linguaggio da lui usato. E siccome è da presumere che Elio si sia espresso in un linguaggio coerente (esteriorizzando cioè ogni concetto in un unico modo linguistico), può anche aggiungersi questo. Se un certo filone di informazioni è riconducibile a Sesto Elio, la terminologia ivi usata è da utilizzare sul presupposto della coerenza; in particolare, sul presupposto che «familia» abbia sempre un certo senso e che «pecunia» abbia sempre un certo altro senso.

Dunque, mettiamo la ricostruzione «ad litteram» dei testi decemvirali nel libro dei sogni e diamoci piúttosto da fare per la ricostruzione «ad sensum», nella presumibile recensione eliana, de­gli stessi.

 

4. Se il mio modo di vedere le cose è inattendibile, non ne parliamo piú. Pace. Non mi sento di fare il «Rottweiler» con studiosi preparati e sagaci della levatura di un Bretone o di un Albanese.

Se invece il mio modo di vedere le cose è attendibile, nulla quaestio circa il riferimento di «res sua» al patrimonio, alla res privata del pater familias che fa il testamento: il Bretone ha ragioni da ven­dere, purché conceda che l'espressione è ragionevolmente attribuibile solo a Sesto Elio, oppure a qualche altro giurista di epoca coeva o successiva. Meno convincente è invece l'Albanese nel sottovalutare che la parola «tutela» è riportata da Ulp. 11.14 proprio nel senso di tutela e che l'alternativa basata sull'enclitica «ve» di «pecuniave» è, per ragioni che egli stesso non si nasconde, quanto meno sorpren­dente.

Resta da sistemare il Guarino con la sua ipotesi che «super familia pecuniaque sua» sia una locuzione decemvirale, cioé una locuzione che «rappresenti il sistema delle XII tavole molto meglio delle va­rianti a noi note». Ebbene, d'accordo, quella locuzione non è per nulla certo che sia decemvirale. Tuttavia è probabile, molto proba­bile che sia eliana (o, all'estremo, di conio analogo). Perché? Perché essa fa pensare molto da vicino al «familia pecuniaque» dei testamen­to per aes et libram (un modo testamentario che all'epoca di Sesto Elio era già saldamente affermato). E perché nel linguaggio delle XII tavole, secondo la presumibile versione eliana, «tout se tient»: la «res sua» del paterfamilias è costituita dalla somma di un quid denomina­to «familia» e di un quid (eventuale) denominato «pecunia»; la suc­cessione ab intestato degli ingenui e dei liberti è relativa alla sola «familia» (e non anche alla «pecunia»); il curator del paterfamilias furiosus (nonché, presumibilmente, anche quello del paterfamilias prodigus) è titolare di una potestas «in eo pecuniaque eius» (e non an­che sulla «familia eius»).

Si spieghino e si sviluppino questi dati linguistici come meglio si crede (e sia chiaro che io, avendolo diffusamente fatto in altre sedi, non intendo qui dilungarmi sul punto). Ma si ammetta che la probabilità di gran lunga vincente è che Sesto Elio abbia parlato di «res sua» solo nell'interpretatio del testo decemvirale a lui noto, ed abbia invece trascritto di questo testo le parole o locuzioni (ciascu­na con suo proprio valore semantico) «familia», «pecunia», «familia pecuniaque». In particolare, per ciò che attiene alla successione testa­ta, la versione da lui tenuta presente come decemvirale è stata, con ogni probabilità: «Uti legassit super familia pecuniaque sua ita ius esto».

 

 

 

VI. IL MERIDIANO DEL CAFFÈ

PREMESSA - L'ho già raccontato altre volte. Nei primi anni Cin­quanta fui indotto da un complesso di circostanze ad occuparmi di radiofonia, sia come dirigente provvisorio della redazione giornali­stica della sede RAI di Napoli, sia come radiocronista e come «documentarista sul campo». In questa funzione assunsi il nome d'ar­te di Antonio Federici per non rendermi riconoscibile a chi sapesse della mia attività principale e stabile, quella del professore universi­tario.

Tra i documentari radiofonici che ho curato vi è stato uno, dal titolo Lettere dal passato, sulle tavolette cerate ercolanesi relative, purtroppo in modo incompleto, al processo di libertà di Petronia Giusta, del quale si è largamente occupato Vincenzo Arangio-Ruiz. Di esso la Facoltà giuridica di Teramo, preside il collega e amico Francesco Amarelli, ha pubblicato la registrazione nel 1988 in un elegante fascicolo di edizione Jovene. Dato che ho sotto mano altre analoghe trascrizioni, ne riproduco qui, riassumendola in parte, una del documentario sui caffè di Napoli (durata trenta minuti primi) andato in onda (Secondo Programma) il 16 gennaio 1954. L'argo­mento non è giusromanistico, ma non è detto che sia meno interes­sante, tanto piú che ne tratta, fra gli altri, una personalità davvero impagabile, della quale ho già avuto occasione di parlare poc'anzi a proposito del ragú, il duca di Castelmola.

Prima, però, un'indispensabile precisazione. Il documentario, nella realizzazione del quale mi fu di prezioso aiuto il tecnico del suono Angelo Elefante, non era un documentario «televisivo», aven­te ad elemento preponderante le immagini. Era un documentario esclusivamente «radiofonico» (specie giornalistica ormai pressoché estinta) e per di piú «di costume», attinente ad usanze ed a modalità di essere tipicamente napoletane. Esso cioè consisteva in una sequen­za nella quale tutti gli effetti di comprensione erano rimessi ai suo­ni, alle parole, ai rumori di ambiente, ai «mixaggi», ai commenti del documentarista, agli stacchi musicali.

Piatto forte (è ovvio): le dichiarazioni di un certo numero di persone intervistate. Ma tali dichiarazioni non sempre sono suffi­cienti, in un documentario radiofonico, anche perché non mancano coloro che, posti avanti ad un microfono, si disuniscono per il ner­vosismo e perciò fanno discorsi sconnessi oppure dicono frasi smozzicate o addirittura tacciono impauriti. Pertanto il mio perso­nale accorgimento (per carità, non voglio atteggiarmi a Bertolt Brecht o ad Elia Kazan) è stato, in questo e in altri documentari parimenti di costume: da un lato, quello di ridurre al minimo le mie parole di descrizione e di commento; dall'altro, quello di evitare al massimo certe detestabili falsificazioni consistenti nell'indurre le persone in­tervistate a recitare una parte predisposta dallo stesso documentarista, se non addirittura nel far figurare come intervistati veri degli attori astutamente istruiti. Meglio secondo me, surrogare queste noiosità, e particolarmente queste finzioni, con battute e scenette di rifinitura chiaramente, riconoscibilmente artificiali. (Al limite, nel documen­tario che qui presento, si incontrerà il «fuoricasa» Luigino Carrese, assolutamente incapace di esprimere in modo coerente la sua pur interessante storia, che legge meccanicamente quest'ultima, senza possibilità di equivoci, da un testo scritto).

Qualche parola, infine, sulle voci, su ambienti e sulle musiche di questo documentario.

  Le voci sono le seguenti:

ANTONIO FEDERICI, radiocronista: presentatore e voce-guida.

GIULIETTA DENOZZA, commessa del Bar Duomo: altra voce-guida (l'attrice Giulia Melidoni).

LUIGI PERCUOCO, fidanzato della signorina Denozza: altra voce-guida (l'attore Oreste D'Amato).

SALVATORE GAETANI DI CASTELMOLA, gran signore ed erudito.

CLAUDIO FERRI, avvocato e professore un po' attempatello.

DON LUIGI GILIBERTI, proprietario del Bar Duomo.

DON PIETRO MIGNONE, banconista del Bar Duomo.

LUIGINO CARRESE, «fuoricasa» del Bar Duomo.

NICOLA PUTHOD, giornalista stenografo dai tempi di Scarfoglio

BALDO FIORENTINO, giovane giornalista con avvenire.

ASSUNTA CORTIELLO, venditrice di sigarette e, formalmente, di gomma da masticare.

AURELIA CIFARIEI.LO, proprietaria dell'osteria dell'Eremita sul Vesuvio.

TONINO CAPEZZUTO, capocameriere sul piroscafo «Capri».

UGO SINISCALCHI, giornalista mondano.

NINO TARANTO, popolarissimo attore napoletano verace.

CAVALIER CARMINE MARRA, pensionato dall'occhio vispo.

UN AVVENTORE DI BAR: l'attore Agostino Salvietti.

UN ALTRO AVVENTORE: l'attore Giulio Fernandez.

UN ALTRO BANCONISTA: l'attore Arturo Criscuolo.

IL RAGIONIER BERRUTI, torinese che non apprezza la sintesi: l'attore Giacomo Adami. IMPIEGATI: GLI attori Fernandez e Scateni.

 

 

 

Ambiente-base è il Bar Duomo, a Napoli, in via Duomo.

Le voci-guida del documentarista e delle coppia Denozza - Percuoco (nomi di fanta­sia, ma personaggi fondamentalmente veri perché osservati a lungo in un bar diverso dal Bar Duomo, nel quale non è stato possibile trasferirli fisicamente) trasportano di volta in volta in altri ambienti, quali: il Circolo Nazionale dell'Unione ( vi parla il duca di Castelmola), il Circolo Canottieri Italia (vi parla l'avvocato Claudio Ferri), l'ufficio (immaginario) del ragionier Berruti.

 

II commento musicale è costituito dal ritornello della canzone napoletana «'A tazza 'e cafè» di Capaldo e Fassone, cantato ed eseguito in modo diversi: da un tenore di grazia, da un tenore di petto, da una «sciantosa», da una fisarmonica, da un'orchestrina, da un mandolino, da un clarinetto. - All'inizio una breve fantasia di musiche napoletane. - Qua e là alcuni tagli ironici: «Di quella pira...», «Noi siamo quelli dello scì scì...», «Songo frangese e vengo da Parigi!...»

 

 

 

 

 

Sale in primo piano un ambiente affollato, un bar. Vocio caratteristico di avventori e banconisti. Dalla strada giunge il suono di un pianino che esegue il ritornello della «Tazza 'e cafe». Impastata in quell'ambiente, senza potersi nettamente distinguere, si svolge la scenetta che segue.

      AVVENTORE: Giovanotto, datemi un caffè caldo e ben zuccherato! Qua sta la marchetta e queste sono le cinque lire. (Si ode il rumore della moneta sul banco di alluminio).

         BANCONISTA: Mi dispiace, signore, ma non possiamo servirvi. Qua caffè non ne abbiamo!

AVVENTORE:: Come, non avete caffè? E che mi date allora?

BANCONISTA: Possiamo darvi un ... documentario sul caffè!

AVVENTORE: Che avete detto?

BANCONISTA: Si, signore. Un documentario sulla tazza di caffè!

AVVENTORE: (esitante): Ma sarà corto e ben zuccherato?...

BANCONISTA: Ben zuccherato, non so. Ma sarà corto, cortissimo! ... (volgendosi fuori campo) Ciccì,'nu documentario corto al signore!...

 

Su questa battuta, che conclude l'assurda scena che precede, esplode la musica con una fantasia rapidissima di motivi napoletani: 3". Mentre la musica sfuma, l'annuncio.

 

ANNUNCIATORE: Il meridiano del caffè...

ANNUNCIATRICE:...documentario di Antonio Federici.

  A piena orchestra si ode il ritornello della «Tazza 'e cafè»: 3': Quando la musica sfuma, prende a parlare il radiocronista.

FEDERICI: Il meridiano del caffè passa per Napoli. Piú esattamente, il me­ridiano di Napoli segna la longitudine base in materia di caffè. Che significa questo?... Significa, tanto per fare qualche esempio, che Greenwich... si trova a 15 caffè di longitudine est... che Instabul si trova a 25 caffè di longitudine ovest... e Parigi...

AVVENTORE: (interrompendo vivacemente): Parigi? Ma faciteme 'o piacere!... là 'o cafè nun 'o ssanno proprio fà! Figuratevi che a Parigi non conoscono ancora oggi, in pieno secolo ventesimo, tanto 'e mac­chinette napoletane quanto 'e macchine dell'espresso! ... Ma voi sapete come fanno 'o cafè a Parigi? Mettono due chili di caffè dint' 'all'acqua bullente a 'nfonnersi... Poi, a mano a mano aràpono il rubinetto e... sciii! (esegue onomatopeicamente)... e te regneno 'a tazza 'e chella cefèca!

ALTRO AVVENTORE: (fra stupito sarcastico): Overo, overo?

AVVENTORE: E questo è niente! Quelli ci mettono pure il latte dentro!... E sapite comme 'o chiammano? «cafè au lait» (naturalmente, l'attore pronuncia «olé»).

ALTRO AVVENTORE: (stomacato): Io po' nun capisco che ce sta da divertirsi ppè dicere pure «olé»!

AVVENTORE (senza raccogliere): Che ci volete fare, quelli i francesi sono spe­ciali. Qualunque cosa fanno subito 'a commedia!... 'O sapíte comme fanno quanno s'assettano, 'a 'o cafè? (gonfiando il petto e agitando verosimilmente le mani) Garsòn... s'il vu plé... on cafè olé... uì... me uì... on cafè... olé... olà ...chiú chiú, chiú chià...

FEDERICI: (riprendendo il discorso di prima): Dunque, soltanto a Napoli il caffè è veramente caffè. E ce lo ha confermato, in una sala dell'ele­gantissimo Circolo dell'Unione, un dotto e raffinato gentiluomo napoletano, conoscitore esperto dei caffè di mezzo mondo, Sal­vatore Gaetani di Castelmola.

Il signore di Castelmola è indubbiamente un aristocratico, ma è anche un gentiluomo che impiega i suoi ozi negli studi piú severi di letteratura ita­liana e di storia napoletana. Sostanzialmente dice (la voce grave scende un po' dall'alto, ma ben presto cortesemente si adegua) che il caffè napo­letano è, oltre tutto, un caffè di antico lignaggio. E a conferma di ciò, dottamente ci apprende che il famoso impresario Barbaja, avendo allestito nel ridotto del Teatro San Carlo anche un tavolo di baccarat, mandò una volta (ora è piú di un secolo) uno opuscolo dal titolo «Manuale dell'ama­tore del buon caffè» al celebrato tenore Lablache per consolarlo delle forti perdite subite nel suo ridotto. Ecco il motivo, conclude Gastelmola, per cui il caffè napoletano trionfa oggi nel mondo e per esso trionfa la famosissi­ma macchinetta napoletana del caffè.

 

Si ode improvviso il grido dei vecchi caffettieri napoletani ambulanti, i quali accompagnavano con un fischietto metallico la voce «Caffè, caffè... 'o caffettiere ch'è ghiuorno». Conclude un prolungato fischio.

FEDERICI: Fino ad una ventina di anni fa, la macchinetta napoletana che tutti ben conoscono, percorreva all'alba le strade di Napoli. Il caf­fettiere ambulante svegliava con un fischietto i dormiglioni e i pigri. Nei pubblici esercizi, poi, si vedevano di quella macchina certi esemplari giganteschi da 50 tazze e piú... Delle vecchie abi­tudini di Napoli in materia di caffè e di questi vecchi caffe napo­letani ci ha parlato, con sottile nostalgia, l'avvocato Claudio Ferri.

Claudio Ferri, avvocato e libero docente di economia politica, è un napo­letano anch'egli di stampo antico, che è stato sempre critico del fascismo al potere. Di lui si potrebbe dire che è signore sin sulla cima dei capelli, se non fosse da qualche anno completamente calvo. Con la sua voce pacata, ma calda, egli rievoca gli ultimi 50 anni di caffè napoletani sino alla seconda guerra mondiale. «La vita di Napoli degli ultimi 50 anni - egli dice - è rappresentata infatti, da alcuni suoi caffè.» E cosí Ferri parla del Gambrinus, ove si davano convegno i letterati e gli snob; del caffè dei Tribunali, ove apparivano giornalmente le vecchie glorie del Foro e, agli inzi del secolo, alcune giovani speranze dell'avvocatura napoletana, che si chiamavano Giovanni Porzio, Gennaro Marciano ed Enrico De Nicola; del «Caffettuccio» alla Riviera di Chiaia, ove la jeunesse dorée portava a notte alta le «sciantose», provenienti dal Salone Margherita; del caffè Vacca, in Villa Comunale, ove, negli anni dal '30 al '40 usavano cautamente riunirsi, dando un certo quale fastidio alle coppiette in amore, i rappre­sentanti dell'antifascismo napoletano, tra cui Gennaro Fermariello, Ma­rio Palermo e lui stesso.

 

Alla rievocazione del Caffè Vacca si sovrappone un suono di mandolini che esegue, manco a dirlo, il ritornello della «Tazza 'e cafè».

 

FEDERICI: Il Caffè Vacca in Villa fu distrutto da un bombardamento. Non è stato piú ricostruito... Ormai anche a Napoli, i caffè con le sale interne sono scomparsi... Trionfano i bar, rilucenti di vetri, mar­mi e cromature. Se ne incontra uno ogni 50 metri, in media... Dietro la cassa, a sinistra entrando, vi è sempre una graziosa com­messa. E se non è graziosa ... in quel bar non c'entra nessuno!...

Il microfono si introduce nell'ambiente di un bar affollato, e si piazza (per motivi di servizio) vicino alla commessa. Si ode in primo piano il trillo di un telefono. La commessa Denozza alza il ricevitore e risponde. Appren­diamo che siamo nel Bar Duomo. Telefonano dalla Calzoleria Parascandolo per quattro caffè in tazza. La commessa depone il ricevitore e passa l'ordi­nazione al banco alzando congruamente la voce. Indi si rivolge al radiocronista, che, naturalmente sempre per ragioni di servizio, si trova col microfono davanti a lei.

 DENOZZA: Signore mio, se sapeste che vita dietro a questo banco!... Tele­fonate in continuazione di gente che vuole il caffè. Soldi che van­no e soldi che vengono, conti che non tornano, 'mbruoglie! ... E poi ci stanno quelli che quando devono pagare non si trovano le trenta lire spicce! ...

AVVENTORE: (interrompendo ingenuamente): Signorina, mi cambiate diecimila lire?

DENOZZA: 'O ví Ilocol... No, signore, non ho spicci.

AVVENTORE: Nemmeno due da cinquemila?

DENOZZA: Se vi ho detto che non ho spicci! ... Rivolgetevi al Banco di Napoli.

AVVENTORE: Va bene, signorina, sia come non detto!...

DENOZZA: Ecco, questi sono i clienti!...

PERCUOCO: (interrompendo): ... per non parlare di quelli che tengono 'a Capa fresca e vogliono fare conversazione con la commessa!

DENOZZA (riparando la gaffe): Non lo dice per voi, signore. Lui è il mio fidanzato.

PERCUOCO: (presentandosi): Permettete? Percuoto, impiegato privato... At­tualmente sono senza lavoro e perciò vengo a passare qualche ora presso la mia fidanzata, signorina Denozza.

DENOZZA: Si, purtroppo il mio fidanzato Luigino sono tre mesi che è un impiegato disoccupato... lo speravo che il padrone se lo pigliasse in questo locale come una specie di direttore di esercizio... anche per dar tono all'ambiente... Ma quello, Don Luigi Giliberti, il pro­prietario, pur essendo una bravissima persona, è un tipo assoluti­sta! Vuole essere lui solo a dirigere e a interessarsi di tutto... Ve­detelo là! Andategli vicino. Basta che lo pregate e quello subito si mette a parlare...

 

Don Luigi Giliberti, proprietario del Bar Duomo, è assolutista anche negli argomenti. Il suo argomento esclusivo è il caffè. Per il caffè, egli dice, non basta una qualunque polvere di caffè da mettere nella caffettiera. E' una questione di miscela e di tostatura. Gli inesperti tostano il caffè a «manto di monaco», ma il caffè va tostato assai piú, a «tonaca di prete» («non so se capite la differenza!»). Poi, c'è la miscela, la quale costituisce un mi­stero che non è lecito rivelare. Comunque, a prescindere dalla parte segre­ta, don Luigi acconsente a dire grosso modo le qualità della miscela che egli adopera. «La mia miscela è questa: due terzi di Santos extra prime, un terzo di San Domingo, e poi ancora un terzo di Moka Aden».

 

Don Pietro Mignone, il banconista, che evidentemente è stato tutto questo tempo a pendere dalle labbra di don Luigi Giliberti, nel sentire la ricetta, si permette una osservazione.

 

MIGNONE:Don Luì, ma due terzi, piú un terzo e piú un terzo fanno quat­tro terzi!

GILIBERTI: (severamente): Don Pié, statevi zitto. È proprio questo il buono della miscela napoletana: che è fatta di quattro terzi di caffè!

DENOZZA: (interviene, anche per rimettere in palla Don Pietro Mignone, cui don Luigi si è rivolto con eccessiva ruvidità): Don Luí, ma il caffè non è fatto solo di miscela. E' fatto anche di lavorazione alla macchi­na. Perché non fate parlare don Pietro Mignone qua presente, che è il vostro banconista?

 

Pietro Mignone spiega la tecnica della macchina espresso «a vaporiera»: una tecnica che solo a Napoli si conosce e si pratica e che permette al­l'espresso napoletano di essere assolutamente diverso da quello di qualun­que altro paese del mondo. «'O vapore adda trasí e adda ascí. Se voi non fate in questo modo, non esce un buon espresso, ma 'na tazza di brodo!».

GILIBERTI: (ritenendo che don Pietro Mignone abbia parlato abbastanza, si in­tromette con un'ultima importante precisazione): E poi, al giorno d'oggi il caffè il piú delle volte viene servito fuori esercizio, perché lo chiedono dalle case, dagli uffici, dai negozi. Quindi un bar bene attrezzato ha bisogno anche del «fuori casa», che un ra­gazzino specializzato nel trasporto rapido di tazze di caffè a do­micilio... Il fuori  casa deve essere una cosa speciale, deve essere un velocissimo che sa portare in equilibrio una guantiera con taz­ze, piattini e cucchiaini... Io tengo un ragazzino che me lo sono cresciuto! Va e viene in un momento, e non rompe mai niente!

 Fragore improvviso e lacerante di tazze, piattini e bicchieri che cascano a terra rompendosi in mille pezzi. La voce di don Pietro Mignone fa: «Guagliò, che hai cumbinato?». Piangendo risponde il ragazzino: «So' caduto, se sò rotte tutte 'e tazze!»...

 DENOZZA (conciliante): Quelli i ragazzi sono dispettosi per natura! Quan­do vi possono far fare la figura del busciardo non gli pare vero! . . . Ma Luigino è'nu bravo guaglione... Luigi, vieni qua, di al signore chi sei e come ti chiami. Breve, succinto e compendioso!

LUIGINO (leggendo faticosamente un sommario delle sue precedenti dichiara­zioni): Mi chiamo Luigino Carrese. Faccio il ragazzo di bar da due anni. Mi trovo benissimo. Pure mio padre faceva il ragazzo di bar. Adesso non fa piú il ragazzo. Mio nonno poi era ragazzo al Caffè Molaro alla Posta. Lo conoscevano tutti. Adesso è fuorì servìzio perché tiene 90 anni...

 

Accordi di fisarmonica che eseguono il ritornello della «Tazza 'e caffè».

 

DENOZZA (riprendendo): Voì non mi crederete. Ma ci sta ancora il vecchio Caffè Molaro alla Posta, e tutti i vecchi caffè napoletani. Ecco là, lo vedete? Quello è il signor Puthod, giomalista che fa lo stenografo al «Mattino». Mò si è fatto 'nu poco vecchiariello perché tiene piú di 70 anni. Ma non li dimostra... Signor Puthod, venite qua, parlate un po' a questo sìgnore dì queì caffè notturni di una volta...

 

Nicola Puthod è un uomo che da cinquant'anni vive soltanto di notte del suo lavoro di giornalista stenografo. Egli non si fa pregare e rievoca con parola facile e persuasiva i vecchi caffè dell'epoca d'oro del giornalismo napoletano. Parla del Caffè Corfirio, luogo di incontro di giornalisti, viveurs e strozzini. Parla del Caffè Croce di Savoia, che rimaneva aperto tutta la notte e non aveva mai chiuso i battenti dalla rivoluzione del '48. Conti­nua rievocando quei bei tempi lontani in cui alle 4 di mattina, terminato il lavoro ai giornali o intorno ai tavoli da gioco, si facevano ancora quat­tro chiacchere e magari le gare per un sonetto in un quarto d'ora.

 

PERCUOCO (interrompendo): Signor Puthod, e Benedetto Croce frequenta­va anche lui quei caffè?

Puthot: Dico la verità, non mi risulta che don Benedetto úbbia mai fl e­quentato i caffè. Forse sarà stato di passaggio per un caffè qualsiasi... Avrà anche sorbito una tazza di caffè... Ma in questi locali, dove convenivano giornalisti, artisti, bohémiens, nobili, giova­notti eccetera, ...lui, don Benedetto Croce, non si è visto mai!... Don Benedetto se la faceva con i libri e con la biblioteca. E poi, dopo di che, non guardava in faccia a nessuno!

Improvvisa interruzione. È un altro giornalista che parla, il dottor Baldo Fiorentino del «Roma». Ma non è un giornalista «dei tempi di Scarfoglio». Di anni ne ha 25.

FIORENTINO: Signori, buon giorno. Tenete una schedina del Totocalcio?

DENOZZA: Eccola a voi, dottor Fiorentino!

PFRCUOCO (pensando che il giorno dopo avrà luogo la partita Napoli-Juventus): Dottò, Napoli-Juventus, che segnate? X?

FIORENTINO (austeramente): No, segno 1. Dobbiamo vincere. Se Jeppson non segna, gli scasso la testa... (dilegua).

  DENOZZA (riprendendo): Eh, signore mio, erano altri tempi quelli in cui nei caffè si scrivevano le poesie! Mò ci occupiamo di sport!
PERCUOCO: Li sapete i versi che don Salvatore Di Giacomo scrivette per le
figlie di un caffettiere?

Una voce (quale voce, se non quella del duca di Castelmola?), evocata dalle parole di Percuoco, emerge in primo piano e recita i versi digiacomiani.

 

Dinto 'a lu vico delli Scuppettiere,

addò se fanno scuppette e pistole,

sotto all'arco ce sta 'nu caffettiere...

Tene per figlie tre belle figliole!

Stò piglianno cafè senza sparagno,

cinque o sei vote dint' alla jurnata! ...

Stò piglianno cafè e nun me lagno,

stò facenno 'na vita disperata!...

 

PERCUOCO (dolcemente): Chi sa che buon sapore dovevano avere le figlie del caffettiere.

DENOZZA, (piccata): Statte zitto; spiritoso!... E quanto era bella quella canzone antica...  'A tazza 'e cale... E chi s' 'a scorda cchiù?

 

Una voce di tenore di grazia esegue in primo piano, con accompagnamen­to appena distinguibile di pianoforte, il ritornello della canzone

 

Cu chisti modi 'oj Briggeda,

'na tazza 'e cafè parite:

sotto tenite 'o zucchero

ma 'ncopp' amara site.

Ma io tanto ch'aggia vutà

 e tanto ch'aggia girà

ca 'o ddoce 'e sotto 'a tazza

fino a 'mmocca m'add'arrivà.

PERCUOCO: Che volete, quando un popolo paragona l'amore alla tazza di caffè, segno è che alla tazza di caffè ci tiene assai!... lo, per esem­pio, tanto per dirne una, sapete  perché perdetti l'ultimo posto che avevo?

DENOZZA: (nostalgica):... Un posto di prim'ordine! Avventizio di se­conda categoria nella filiale di un'azienda torinese. Figuratevi che avevamo già cacciato le carte per sposarci...

PERCUOCO: Già, ma il diavolo volle che di punto in bianco venisse da Torino, come nuovo direttore, il ragionier Berruti!... Noi, in uffi­cio, avevamo la buona abitudine di ci pigliare una tazza di caffè ogni tanto, che ci facevamo venire dal bar vicino. E un giorno, proprio mentre stavamo pigliando il caffè, si apre la porta ed en­tra il ragioniere Berruti....

 

Scenetta rievocativa di un episodio vero. Il ragionier Berruti, inequivocabilmente torinese, chiede che faccia lí in ufficio il ragazzo del bar. Un impiegato gli risponde che è il ragazzo del bar vicino che ha appunto portato il caffè, come tutti i giorni.

 

BERRUTI: Ah, voi pigliate il caffè tutti i giorni?!

PERCUOCO: Tutti i giorni feriali, naturalmente...

BERRUTTI Quindi, per prendere il caffè, adoperate le ore di ufficio!

UN IMPIEGATO: Capirà, fuori dalle ore di ufficio, noi qui non ci siamo...

PERCUOCO: Comunque, è cosa che dura pochissimo. Giusto il tempo per bere questo caffè e fumarci sopra una sigaretta...

BERRUTI: Ah, ci fumate sopra anche la sigaretta?! ...

PERCUOCO: Capirà, signor direttore, il caffè senza la sigaretta non ha significato. Bisogna operare la «sintesi», come si dice...

BERRUTTI: (realizzando finalmente di trovarsi a Napoli, ma non rassegnandosi a questo destino): E voi operate la sintesi qui in ufficio? Signori miei, sapete che cosa vi dico?  Per oggi lascio correre, ma un'altra volta che vi trovo a bere caffè in ufficio saranno stangate! (Si allontana indignatissimo borbottando tra sé e sé): Urca... basta là... cosa mi  deve capitare di vedere... la sintesi... ma guarda un po'...

La scenetta sfuma e Percuoco con naturalezza riprende a conclude il racconto.

PERCUOCO: La verità è che il ragionier Berruti ci scoperse almeno altre cinque o sei volte. Poi un giorno io gli risposi male... e fu cosí che perdetti il posto.

DENOZZA: Questo, signore mio, vi dimostra che a Napoli, per noi napole­tani il caffè è tutto. Persino durante la guerra noi continuammo ad averlo. Era poco, si, ma era sempre buono!... Non vi dico poi quando ci fu l'occupazione americana! Voi la vedete quella don­na là fuori, che vende sigarette e gomma masticante ('o «ciuingàm», sapete)? È donna Assunta Cortiello... Donn' Assú, venite qua, rac­contate a questo signore quando facevate il caffè per gli america­ni...

 

Assunta Cortiello è una donnetta tutta lingua. Parola facilissima. Rac­conta di quei tempi calamitosi, della guerra e dell'immediato dopoguerra, in cui, tra l'altro, mancava quasi del tutto il caffè. Trenta chicchi valeva­no un capitale. Poi vennero gli americani, con quelle loro scatole di caffe da due chili l'una, e per donn Assunta fu la fortuna. No, donn Assunta non fece «schifezze» con gli americani. Niente Mala parte nel suo conte­gno. Il suo sistema fu molto semplice e onesto. Sua sorella era a servizio di un ufficiale dell'Oregon e le due donne presero l'abitudine di «ritostare» di nascosto il caffè delle scatole. Con questo sistema, bastava la metà del caffè di prima per far contento l'americano, e cosí l'altra metà passava allegramente nel «basso» di donn Assunta. «Ma poi il caffè non mancò piú - conclude donn'Assunta - ed io dovetti darmi ad altri commerci!».

 

La fisarmonica attacca il ritornello della «Tazza 'e cafè», ma poi il ritor­nello (alle parole «e tanto ch'aggia girà»...») continua cantato da voce femminile piúttosto sguaiata di «sciantosa».

PERCUOCO: No, effettivamente Napoli è la città del buon caffè. Comun­que lo prepariate, col gas, con la legna, col carbone, con l'elettrici­tà, viene sempre buono... Sopra al Vesuvio ci sta donn'Aurelia Cifariello, la proprietaria della trattoria dell'Eremita, che scalda il caffè addirittura sopra il fuoco del vulcano.

 

Improvvisa e violenta la voce di un tenore: «Di quella pira l'orrendo foto...». Sfuma. Dopo di che parla donn'Aurelia. Sì, effettivamente il caffè lei lo scalda al calore delle fumarole del Vesuvio. Fu una ricetta che le diede il Cavalier Matrone, il cosí detto «parente del Vesuvio», che passò tutta la sua vita lì sopra a sorvegliare il vulcano. Indubbiamente, a questo modo, il caffe viene meglio, piú energico. Cosí almeno assicura donn Amelia, la cui voce viene sopraffatta da quella del tenore che conclude «... tutte le fibre m'arse e avvampò». Si spegne di colpo.

DENOZZA : E pensare che ci sta gente cui il caffè, cosí forte e zucoso come lo si fa a Napoli, non piace! Ve ne potete fare un'idea parlando con Tonino Capezzuto, capocameriere sui vaporetti di Capri... Tonino Capezzuto, sapete?, è una di quelle persone che si vedono passare sotto gli occhi tutto lo scibile umano: Farùc, Rita Aiuòrt, Brusadelli, americani, inglesi, certe femmene francese...

Stacco musicale violento: «Songo francesa e vengo da Parigi...». Sfuma ed emerge la voce di Tonino Capezzuto, il quale parla male in molte lin­gue, ivi compreso l'italiano. Narra della strana gente di ogni paese del mondo, che gli tocca di servire sui vaporetti di Capri. Gente che, magari, chiede un whisky a prima mattina e un latte a mezzanotte. Bisogna essere preparati a tutto con questi stranieri. Fra l'altro, non apprezzano il caffè napoletano. Lo trovano troppo violento. E appunto per loro che Tonino e i suoi collaboratori hanno inventato una sbobba, che chiamano «lo sciacquettone». La ricetta è semplice: far uscire dalla vaporiera la tazza di caffè regolare e berla (Tonino e gli altri), poi il resto, la colatura, servirlo rispettosamente al cliente, che lo gusterà compiaciuto.

 

Stacco musicale: un pianino esegue il ritornello della «Tazza 'e cafè».

DENOZZA: E non vi dico che cosa va facendo la gente chic, quella del bel mondo, per copiare americani e inglesi! ... Per farvene un'idea, andate dalle parti di via Partenope e di Piazza dei Martiri, dove ci stanno gli «american bar», che poi (tra parentesi)... non sono bar, perché ci manca il caffè..., e non sono nemmeno americani, per­ché il barista si chiama Totonno o Vincenzino... Se ci andate ver­so l'una dopo mezzogiorno, ci troverete il dottore Ugo Siniscalchi, che fa il cronista mondano in un giornale di Napoli....

 

Ugo Siniscalchi parla un po' strascicato, proprio come deve parlare, si dice, un giornalista mondano. Ma in fondo è chiaro che «posa»; il suo è un abito professionale. Il caffè? Ma il caffè non esiste piú, tra la gente chic! Oggi ci sono i drinks! E Siniscalchi li enumera sicuro, dal tea mat­tutino all'aperitivo delle 11, al cocktail del tardo pomeriggio, allo champagne «nature» del pranzo, al cognac tre stelle della sera. Fra tutti questi beveraggi, per il caffè non c'è posto!... Sì, ma sta di fatto che il caffè è una buona cosa e che i napoletani non possono farne a meno. Nemmeno Siniscalchi sa farne a meno. Lui, come tanti altri personaggi del bel mondo, lo beve quasi di nascosto.

DENOZZA: (esplodendo): Uh, quante storie e quanti sotterfuggi! Viva la raz­za dei napoletani veraci (Nino Taranto, per esempio), che 'o cave s 'o jettano ppè faccia!...

Nino Taranto, napoletano verace, entra prontamente in discorso. Lui di caffè ne beve a litri. Lo prende per calmarsi, figuratevi!... Ma il caffè, egli spiega, deve avere le tre «c», per essere veramente buono: caldo, carico e cremato... E sopra tutto deve essere caldo, caldissimo, scottante, ma cosí scottante, che chi lo piglia deve esclamare: «Come caspita coce stu cafè!».

Sulle ultime parole di Nino Taranto interviene il tenore di petto ed esegue la prima parte del ritornello della «Tazza 'e cafè». Conclude il ritornello (ma tanto ch'aggia vutà...») la fisarmonica con un a solo.

PERCUOCO: (conclusivo e sentenzioso): Signore mio, la nostra è una città che... non faccio per dire... dove noi ci contentiamo di poco. Forse è per questo che siamo tanto affezionati, noi napoletani, a quella minuzia, a quella quisquilia, a quella piccolissima cosa che è la tazza di caffè... La tazza di caffè, noi napoletani, ce la beviamo con divozione... perché non ci sta al mondo una consolazione che costi meno di trenta lire, piú cinque per la mancia!...

DENOZZA (confermando): Eh, si, signore mio... Voi lo vedete quel signore un po' anziano che sta entrando adesso? E' il cavalier Carmine Marra. Dal portamento non lo dimostra, ma forse è il piú vecchio frequentatore di bar di Napoli! ... E voi sapete perché vive ancora e perché deve campà altri cient'anne con buona salute? Per nu paro 'e tazzulelle 'e cafè, che si prende qua dentro tutti i giorni!. .. proprio cosí... Cavalié, venite qua, parlate voi!... Questo è il mi­crofono. 'Mpustàteve!

Il Cavalier Carmine Marra, pensionato della Previdenza sociale, è un vecchietto minuto e arzillo. Veste con ricercatezza, ma sono abiti che han­no una storia. Cappello a lobbia, leggermente calcato sulle ventitré. Oc­chiali a stanghetta, dietro ai quali i suoi occhi non stanno fermi un minu­to e indagano incessantemente le persone che passano, specialmente se di sesso femminile. Il lupo perde il pelo...

 

CAVALIER MARRA (parla con sapienti interruzioni e variazioni di frequenza, gu­stando lui per primo il suono delle sue parole): La mia pensione molte opportunità non ne fornisce, ma mi dà quella di andarmi a pren­dere ogni giorno le mie tazze di caffè... e se non le pigliassi mi sentirei male!... Io piglio una pensione che... sapete quant'è?... A vostro dispetto! ... Settemilacinquecento lire al mese!... E quel­le 7500 lire al mese mi servono in gran parte... ed esclusivamente per le mie tazze di caffè... Il guaio sarebbe il giorno in cui io non mi troverei nelle condizioni di poterle pigliare! La mia passione è quella!... Vado al bar due volte al giorno: la mattina verso mezzo­giorno e la sera dopo le cinque... E ci vado con piacere, perché parlo con la cassiera, con i baristi, col proprietario e con gli amici che vengono... E parliamo di tante e tante cosette...-Cose galanti, cose frizzanti, cose piacevoli... Spesso succede che qualche ami­co, vede passare qualche signorina, e me l'addita... Io la guardo con gli occhi spalancati, l'ammiro,... ammiro il portamento, am­miro la sagoma, il vestito... Ma poi, data la mia età (in parentesi, 77 anni)... stregno 'o musso... e canto 'a canzuncella che dice (canta con voce un po' roca): «vint'anne io nun 'e tengo cchiú, vint'anne 'e ttiene sulo tu ... »

 

Il clarino esegue lentissimo, malinconico, il ritornello di «Tazza 'e cafè».

FEDERICI: E va bene, cavaliere, che ci vuol fare? Beviamoci sopra... 'na tazzulella 'e cale.

Ritornello della Tazza 'e cafè» eseguito a piena orchestra. Poche battute e si spegne di colpo.

ANNUNCIATORE: Avete ascoltato...

ANNUNCIATRICE:...Il meridiano del caffè...

ANNUNCIATORE:...documentario di Antonio Federici.