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       ANTONIO GUARINO

TRUCIOLI DI BOTTEGA        

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  Napoli, 2000

   

SOMMARIO

I.    PARTITA CHIUSA

II.   SETTE NOTE

III.  UN FUTURO PER IL DIRITTO ROMANO?

IV.   SPIGOLATURE ROMANISTICHE

V.    MOTIVAZIONI TRASPARENTI

VI    DA  MOMMSEN  A   SARDANAPALO

 

I.   PARTITA CHIUSA

1. Era tempo che la smettessi col discorso sgradevole ed inascoltato sulla decomposizione delle Università in Italia e sulle «riforme» che da trent'anni a questa parte (all'incirca, partendo dal famoso '68) si fanno, si disfanno e si rifanno per adeguare il sistema, con provincialesca soddisfazione, a certi ordinamenti universitari europei ed extra-europei molto lontani dalla nostra tradizione nazionale. Era un discorso, il mio, che era venuto in uggia anche a me stesso per i suoi inevitabili toni da querimonia. Pertanto col di­cembre 1999, dopo gli ultimi tre o quattro guizzi polemici pubblicati sotto forma di «lettere al direttore» su un quotidiano di Napoli, il Corriere del Mezzogiorno, mi sono finalmente detto «basta».

Basta, sí. Ma non senza aver concluso l'ultimo pezzo, esatta

mente in data 30 dicembre, con queste parole: «La cruda verità è che la riforma universitaria è stata gettata giú (anche per l'impulso di certe lobbies oscuramene interessate) con la stessa, identica leggerezza con cui si è decretato (o tentato di decretare), su direttiva o raccomandazione (pare) dell'Unione Europea, la riforma della pizza na­poletana. Senza mozzarella di bufala e senza cottura in un forno a legna, figuratevi. Seguirà, se il Governo otterrà il prossimo voto di fiducia, la riforma del culatello emiliano».

                  

2. Dato che ormai, per me, siamo alla «partita chiusa», mi sono presentato al Duemila col proposito, cui cercherò fermamente di essere fedele, di non parlar piú, né in pubblico né in privato, delle meraviglie di una riforma che è stata avviata con estrosa fantasia dal ministro Luigi Berlinguer ed è stata portata pressoché a termine, con chiusa determinazione, dal suo successore Ortensio Zecchino.

Se la vedano i miei colleghi in attività di servizio (molti dei quali, del resto, torbidamente assenzienti) con le piacevolezze del nuovo sistema detto del 3 piú 2: tre anni (almeno) per diventare BA (Bachelor of Arts) e altri due anni (almeno) per diventare MA (Master of Arts), con in piú la possibilità, per gli studenti piú bravi, di assur­gere, in capo a qualche altro anno di studi, al livello di PhD (Philosophy Doctor). Se la vedano loro con l'insegnamento del diritto romano e della storia giuridica successiva ridotto a pillole, anzi ad innocui «placebo», di cui già si vedono in libreria le prime confezioni. Se la vedano loro con tutto il resto. Io taccio.

Tuttavia, siccome il ministro Zecchino, nel difendere la riforma sui giornali (da ultimo, in Corriere della Sera del 9 gennaio 2000), ha persino replicato alle mie osservazioni critiche con una lettera al Corriere del Mezzogiorno, ritengo opportuno riportare in sintesi, qui di séguito, la mia controreplica, pubblicata il 14 dicembre 1999 (pa­gina 1) col titolo «Lo stratagemma numero 38 di Schopenhauer».

 

3. Il Ministro Zecchino, punto sul vivo da una mia precedente esortazione a rileggersi Baudelaire (là dove questi scrive, nello Spleen de Paris, che bisogna sempre essere ubriachi: di vino, di poesia o di virtù), ribatte invitandomi a leggere a mia volta Schopenhauer, se­condo il quale (egli dice) «il modo più facile per demolire le idee altrui è colpire la persona che le formula». Egli, peraltro, subito dopo ammette che io non ho fatto uso, nella mia «raffinatezza», dell'arte di insultare di cui discetterebbe il filosofo tedesco.

Potrei accontentarmi di quest'ammissione un po' contraddittoria, se non fossi punto dalla vanità di rendere noto che il volumetto dal titolo L'arte d'insultare (Milano, Adelphi, 1999) è solo una raccolta arbitraria di frasi irose o maligne che si riconnette ad un volumetto precedente, questo si genuinamente schopenhauriano: un piccolo «pamphlet» che conosco bene e che ho recensito sin dalla prima edizione italiana del 1991 nella rivista di diritto romano Labeo, anno 1992, pagine 390-391. Si tratta di un gustosissimo scritto del 1830-31, trovato fra gli inediti del filosofo (privo di titolo, ma soli­tamente noto come L'arte di ottenere ragione), nel quale si elencano ben 38 «stratagemmi» dialettici utilizzabili in una discussione. Di essi l'ultimo ed estremo, in mancanza di ogni altro argomento, è  appunto quello di coprire di insulti l'avversario, come si fa talvolta in Parlamento e altrove.

Bene, egregio signor Ministro (anzi, se Lei ricorda, caro Collega), a prescindere dalla mia opinabile «raffinatezza», non occorre arrivare allo stratagemma numero 38, quello degli insulti, per criticare (in buona parte, certo, non al cento per cento) la Sua riforma.

Anzi non occorrono stratagemmi. Basta l'amara realtà che Ella ci ha posti di fronte ad una riforma bell'e fatta, o quasi. Prendere o lasciare; anzi, per dirla schietta, prendere. Sia pure con qualche aggiusto dell'ultimo momento (il momento peggiore per decidere serenamente), prendere, prendere, prendere.

Che dice? Lei mi chiede se io la riforma veramente la conosco? Certo che la conosco. Non da Lei. Non da certi ex colleghi universitari «in carriera» che non amano chiedere consigli a chi ha qualche esperienza di queste cose. Non dai pacati e pubblici dibattiti preventivi che io, proprio io, ho vanamente invocato nella mia precedente lettera che tanto Le dispiace. Queste cose le so dai giornali e dai miei quattro nipoti esperti di Internet e di altre diavolerie del genere, i quali mi hanno colmato di notizie anche sulla riforma universitaria del Guatemala (nonché, per errore, sulle dimensioni «seno-vita-sedere» di tal Sabrina Ferilli). Le so da varie fonti ufficiose, ma non dal Ministro. Al quale mi tocca di ricordare che mezzo secolo fa un suo predecessore di alto sentire democratico, Guido Gonella, quando volle attuare una riforma universitaria (che poi andò in fumo per caduta del ministero), riempi di «questionari» atenei, accademie e istituzioni culturali di ogni tipo, giú giú sino ai minuscoli Guarino di allora e di oggi.

Insulti, dunque, no. lo non ne sono capace e il ministro Zecchino è «uomo d'onore» che non li merita, anche se stranamente si adonta di essere stato qualificato da me «persona tendenzialmente in buona fede». Discuterne invece sí, purché lo si faccia seriamente, senza tener conto di destra o di sinistra, senza farsi trascinare dagli estri del suo predecessore e mentore Berlinguer, ma sopra tutto senza prendere per oro di coppella gli arguti consigli di certi universitari che ciabattano quasi quotidianamente per i corridoi del mini­stero e si insinuano cordiali ora in questo ed ora in quell'ufficio.

Già, ma vi è ancora tempo e modo (oltre che voglia) di discutere seriamente dell'Università? Temo proprio di no. Ormai siamo al punto di non ritorno. Incalza il varo dei provvedimenti annunciati. Dopo di che «todos profesores» (anche i ricercatori, gli assistenti, forse i tecnici laureati). Dopo di che la funzione didattica tradotta in ore di lavoro (cinquecento, comprese le pause per fare pipi). Dopo di che la laboriosità dei docenti affidata a mutui controlli periodici («tu me dai 'na cosa a me, io te do 'na cosa a te»). Dopo di che cento duecento trecento università di campanile in libera concorrenza tra loro per il conferimento (con sconti prevedibilmente sempre piú generosi) di un titolo di studio privo di valore uniforme e reale.

Tempo pochi anni e vedrà, signor Ministro. La Sua riforma sarà tutta da riformare. (Una «reformatio in melius», credo. «In peius» non sarebbe possibile).

 

 

II. SETTE NOTE

1. Il signor Biedermeier. - L'anno Duemila, anticamera del terzo millennio, si apre con la resurrezione del signor Biedermeier: resurrezione tanto piú miracolosa in quanto il signor Biedermeier non è mai esistito.

Crearono il personaggio di questo poeta filisteo, conservatore al quadrato e amante del «chi va piano va sano», due arguti giornalisti dei Fliegende Bliitter per segnalare in lui, attraverso le rime che gli attribuivano, il tipo umano della «restaurazione » ottocentesca (1815 -1848) nelle sue inclinazioni politiche, letterarie, artistiche: tutte a base di temperanza, comodità, sicurezza e denaro ben speso. Da questa «scoperta» quasi involontaria derivò lo «stile Biedermeier» dei nostri trisavoli della Mitteleuropa, l'inconfondibile stile «senza stile» che dilagò per tutto il mondo e che nessun evento posteriore, a cominciare dalla rivoluzione borghese del 1848, è riuscito mai a togliere completamente di mezzo e ad evitare che, venuta meno la vigilanza, qua e là rifiorisse.

Nel campo della giusromanistica, passata l'età dell'interpolazionismo (molte volte semplicistico, ma molte altre volte di raffinatezza «Bauhaus»), il Biedermeier sta diventando, nei cauti libri di parecchi nostri giovani, sempre piú diffuso. Nulla di male, è innocuo. Anzi favorisce la ristrutturazione dei vecchi argomenti (sempre quelli, sempre quelli) secondo i canoni di una vasta bibliografia, di una accurata ripulitura degli angolini piú riposti, di una minutissima analisi del pensiero dei giuristi sino ai Severi e di una prudente astensione da ipotesi fuori moda di alterazioni testuali post-classiche, anzi no, chiedo scusa, tardo-antiche. Una «messa a nuovo» di vecchie costruzioni pandettistiche delle quali sarebbe disonesto dire male, pur se viene stenta la voglia di dir bene. (In fondo, sono libri comodi e con tutti i «servizi» al bacio. C'è anche l'utilissimo l'ascensore, voglio dire l'Indice delle fonti. E allora?).

2. Il centenario. - Un giornale napoletano ricco di storia, Il Mattino, ha avuto la felice idea di riprodurre, durante il primo mese del 2000, i numeri corrispondenti del gennaio di un secolo prima. Quattro fittissime pagine di robusta prosa del suo fondatore e diret­tore, Eduardo Scarfoglio (firmato «Tartarin»), di rubriche vivaci por­tate avanti (con firme e sigle varie) tutte dall'inesauribile Matilde Serao, moglie e socia d'impresa dello Scarfoglio, ma principalmente di notizie locali ed estere, molte delle quali giunte (tale era il massimo livello dell'epoca) a mezzo telegrafo. Una lettura utile e talvolta anche gustosa (per esempio, nella rubrica delle «risposte ai lettori», là dove «Gibus», vale a dire la Serao, rivolgendosi ad un improbabile innamorato straniero, gli dice, traducendo dal napoletano: «Cherchez sa main à ses parents, et voilà tout»; oppure nella «corri­spondenza privata a pagamento», che è piena di risparmiosi «adoroti», «troverommi» e «stupiscimi»).

Tra le corrispondenze telegrafiche del 5-6 gennaio 1900 figurava la primizia di un largo sunto del discorso tenuto a Berlino del Kaiser Guglielmo Il per l'inaugurazione dell'anno e, stando alla dif­fusa opinione «volgare», anche del secolo XX. Mi sono ovviamente affrettato a scorrere il pezzo presumendo che l'imperatore si sarebbe fatto vanto dell'entrata in vigore di quel monumento di civiltà e di sapienza che è stato ed è tuttora, decorsi cent'anni da allora, il BGB, il «Burgerliches Gesetzbuch» germanico. Nulla di tutto questo. Solo reboanti dichiarazioni politico-militaresche, concluse con l'esaltazione di un detto di Federico Guglielmo 1: «Quando uno a questo mondo vuole contare qualcosa, a nulla serve la penna se non è sostenuta dalla spada». Infatti.

 

3. «I care». - Il Corriere della Sera del 6 gennaio 2000, a pagina 9, ha pubblicato un corsivo a proposito dello «slogan» (io direi «motto») adottato per il congresso torinese del partito oggi detto della Quercia e anticamente denominato comunista. Il motto è «I care», locuzione anglosassone ben nota ai lavoratori italiani, usi come sono a procurarsi le automobili in «leasing» per andare con le stesse a fare «shopping», dopo accurato «screening» dei «goods ori hand», nei vari «shops» (o «stores») che assiduamente frequentano per impiegare la loro «ready money», la quale è sempre cosí tanta. Forse però, dice il titolo del corsivo, «un disoccupato di Napoli non capisce»: non capisce, l'incolto, che «I care» significa «io vigilo», «io sto attento», «io tengo l'uocchie aperti».

Ed è cosí, è cosí. Un disoccupato di Napoli (o perché no?, di Reggio Calabria, di Palermo, di Sassari, perfino di Milano) non può intendere la carica culturale che sta dietro il motto. Di piú: quando gli si dica, pazientemente tradotta, l'anglica locuzione, il disoccupa­to di Napoli (e di ogni altra città d'Italia) può darsi che si senta pre­so in giro, che diventi un po' alterato («pissed off») e che indirizzi al mittente una risposta del tipo «fuck you».

Io, francamente, non mi sentirei di condannarlo, tutt'altro. Non solo per il rispetto dovuto ai disoccupati (e aggiungo: ai lavoratori) di Napoli e di tutta Italia, ma anche per il sorridere che mi fanno certi puerili tentativi di mascheramento delle proprie pur onestissi­me origini (quelli di cui parla, ad esempio, il Manzoni dei Promessi sposi, cap. IV, a proposito di tal Ludovico, prima che divenisse fra Cristoforo) e, ad ogni modo, per la nausea che mi producono certi culturalismi da «cabaret» (francesismo, questo, anche della lingua inglese).

So bene anch'io che il motto «I care» era prediletto da Martin Luther King, ma King era un americano che parlava agli americani. So bene anch'io che il verbo inglese è stato ripreso nel 1965 da don Lorenzo Milani, ma occorre avere la sensibilità di un ippopotamo per non rendersi conto della sferzante e irripetibile ironia polemica con cui questo grande e vero amico degli umili e dei diseredati lo ha scagliato contro il bersaglio giusto. Che «I care» diventi lo «slogan» di un congresso di lavoratori italiani mi sembra solo il segno di un inguaribile provincialismo culturale, cioè (cito il dizionario Devoto-Oli) di un'arretratezza associata ad una certa ingenuità, con in piú piccineria e goffaggine.

Hai voglia di ripeterlo e di atteggiarti a democratico americano. Troverai sempre sulla tua strada, caro Ludovico ex comunista, chi, incontrandoti, alteramente ti dirà: «Per i pari vostri la diritta è sempre mia».

 

4. Per la saga di Gradenwitz. - È inutile nascondersi che anche sulle persone e sui fatti del nostro piccolo mondo dei giusromanisti non mancano, o addirittura abbondano, le «saghe», cioè i racconti piú o meno deformati (ma involontariamente) dall'immaginazione di coloro che hanno recepito notizie incomplete e perfino dall'am­mirazione (o dalla disistima) di coloro che sono stati diretti testimoni. Ecco qui due contributi (modesti, ma non si sa mai) che ritengo utile apportare, in termini di saga fortemente influenzata dalla simpatia, alla figura del grande Otto Gradenwitz (1860 -1935). Contributi, lo avverto, di seconda mano, non avendo io avuto l'onore di conoscere personalmente l'autore delle (si voglia o non si voglia) fondamentali Interpolationen in den Pandekten (1887).

Il primo episodio è quello del primo incontro con Gradenwitz di Mario Lauria. Non me ne ha mai parlato Lauria, ma me lo ha raccontato il suo allievo, di me molto piú giovane, Francesco Amarelli, che a sua volta l'aveva appreso da lui. Dunque, negli anni Venti il catecumeno Lauria fu mandato da Vincenzo Arangio-Ruiz a studiare per qualche tempo a Friburgo in Bresgovia, nella cui Uni­versità insegnava niente meno che Otto Lenel. Desideroso di far co­noscenza anche di Gradenwitz, un bel giorno Lauria si mise in viaggio per la favolosa città di Heidelberg. Ma quando giunse nel tardo pomeriggio all'Università gli dissero che il professor Gradenwitz si era allontanato da poco per tornare a casa.

«Non si preoccupi», lo rassicurò un bidello. «Se si darà un po' di fretta, lo raggiungerà facilmente dalle parti del Ponte Vecchio». Detto fatto, Lauria si avviò a passo di bersagliere in direzione della «Alte Brücke» e ben presto chi scorse, affacciato al parapetto che dava sul Neckar? Scorse un attempato signore, dall'aria inconfondibile di professore tedesco, che a piena gola cantava, con voce peraltro ben intonata: «Questa o quella per me pari sono / a quante altre d'attor­no mi vedo (eccetera, eccetera)».

Dopo aver lasciato rispettosamente che il duca di Mantova por­tasse a termine l'aria, Lauria gli si presentò balbettando nervosamente in tedesco e mise mano alle lettere commendatizie. «Non importa», lo interruppe Gradenwitz in buon italiano. E traendo prestamente dal portafoglio la foto di un vecchio tanto emaciato quanto capellu­to, aggiunse: «Se lei studia diritto romano, mi deve dire chi era questo signore». «Mommsen», rispose pronto Lauria, evitando di cadere nella trappola che l'immagine fosse quella dell'abate Faria. «Benissimo, e allora mi accompagni a casa. Leggeremo insieme qualche fram­mento del Digesto».

Gradenwitz non era, peraltro, solo un conoscitore e ammirato­re entusiasta dell'opera lirica italiana. Era anche, come molti altri studiosi germanici, un uomo che apprezzava divertito (divertito e non sprezzante) le molte particolarità italiane della commedia uma­na. Stando a ciò che mi ha narrato Cesare Sanfilippo, che ebbe con lui rapporti frequenti quando veniva giú a Palermo ospite del Seminario giuridico e di Salvatore Riccobono, l'attraversamento dell'Italia dalle Alpi alla Conca d'Oro lo riempiva ogni volta di nuove sen­sazioni, e non soltanto dotte. E fortemente lo impressionò, a quanto pare, l'iniziativa dell'industriale Cobianchi, sagace inventore di una rete di attrezzatissimi «Alberghi diurni» contrassegnati col suo cognome. Ne sorgevano in varie città d'Italia, tutti nei pressi della stazione ferroviaria (salvo che a Napoli, ove l'istituzione, sia pure allocata in un sotterraneo, fu piazzata con «nonchalance» nel pieno centro della città, tra il Palazzo Reale ed il Teatro San Carlo). Vi si entrava stanchi, imbrattati e depressi anche nell'anima, ma se ne usciva, dopo averne utilizzato le articolate comodità, completamente rimessi a nuovo e pronti ad affrontare la vita. Miracolo.

Forse i Diurni Cobianchi non avrebbero inciso tanto nell'ani­mo suo, se Gradenwitz non avesse scoperto, leggendo a pieno la scritta delle insegne, che il commendatore Cobianchi si chiamava Cleopatro. Questo nome maschile (piú unico che raro, credo) lo esaltò, gli richiamò alla mente la regina d'Egitto e tutto il resto, gli fece forse anche supporre come sarebbero andate diversamente le cose ad Azio se la flotta egiziana guidata dal possente Cleopatro avesse strappato l'iniziativa ad Antonia, comandante fragile e insicura delle forze navali romane. Cleopatro era un organizzatore troppo intelligente ed efficiente per farsi metter nel sacco da chiunque, sia sul piano tattico sia su quello strategico. Avrebbe non vinto, ma stravinto.

Bando alle fantasie. Una cosa è certa: che, preso dal fascino del commendator Cobianchi, Otto Gradenwitz introdusse nella lingua italiana il neologismo «cobiancare». Di cui faceva uso ogni tanto, nelle riunioni del Seminario giuridico palermitano, per alludere di­scretamente alle ragioni di un suo momentaneo allontanamento.

 

5. Pinocchio malandrino. - Enzo Di Mauro, poeta e critico lette­rario siciliano, ha dato alle stampe (Liberal libri, Firenze, 1998, p. XXV-234) un volume di piccolo formato ma denso di pensiero, in cui presenta una scelta quasi sempre felice di brani, di autori prevalentemente «letterari», relativi al diritto e al processo (sia pur riduttivamente identificati con la «Legge» e solitamente col processo penale): volume che ha per titolo Il giudice e il suo scriba, Narratori davanti alla legge. Dovrebbero leggere il libro anche e sopra tutto i giuristi e gli storici del diritto, allo scopo di rendersi conto delle reazioni (spesso di incomprensione o di rigetto) che hanno gli «al­tri» di fronte alla complessità dell'ordinamento giuridico, di fronte (per dirla con l'autore) a «questa gigantesca astrazione gravida di concretezza».


Nella speranza che il mio consiglio non resti inascoltato, segnalo qui una citazione del grande Collodi (Carlo Lorenzini) e delle sue Le avventure di Pinocchio (1880), le quali sono un libro per l'in­fanzia di cui si incomincia a capire il sensoo profondo non prima dei quaranta o cinquant'anni (età in cui però quasi nessuno si sogna piú di rileggerlo). Il brano è quello in cui si narra del burattino Pinocchio che «è derubato delle sue monete d'oro e, per castigo, si busca quattro mesi di prigione». Non lo segnalo per il fatto che il nostro ingenuo eroe cadde vittima, nella città di Acchiappacitrulli, della furberia della Volpe e del Gatto. Nemmeno lo segnalo per il fatto che un giudice benevolo, dopo averlo attentamente ascoltato, lo fece mettere in manette dai «giandarmi» con l'impeccabile moti­vazione: «Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione». Lo segnalo per la sua conclusione che fa pensare, tali e quali, ai tempi nostri in Italia.

Ai tempi nostri vigono in Italia una «legge Gozzini» del 1986 ed una «legge Simeone» del 1998, le quali aprono tali e tanti spiragli di libertà non controllata, o almeno non seriamente controllabile, a coloro che hanno subito una condanna a pena detentiva, da potersi dire (il che, purtroppo, non equivale a potersene tempestivamente accorgere) che noi altri onesti (o quasi onesti), per poco che si cam­mini per strada, ci imbattiamo ogni due per tre in deliquenti minori e maggiori che beneficiano di riduzioni per buona condotta, di permessi diurni, di licenze premio, di condanne condizionali, di im­probabili arresti domiciliari eccetera, pur non essendo sicuramente ravveduti e veramente privi di pulsioni delittuose. lo non conosco il deputato Simeone, che suppongo peraltro essere una persona rispet­tabilissima, ma conoscevo bene il senatore Mario Gozzìni, ch'era uomo di grande tensione morale e di fervida fede cattolica temprata ai fuochi (o alle fiammate?) del Concilio Vaticano secondo. Le loro due leggi furono approvate, in parte per demagogia, a larghissima maggioranza in Parlamento e sono indubbiamente lastricate di buone intenzioni; ma è da escludere che abbiano sufficientemente funzio­nato sul piano della rieducazione sociale e morale dei malviventi, anziché sul piano della loro ipocrisia e della loro interessata buona condotta esteriore (come spesso avviene, del resto, quando si ricorre al sistema delle indulgenze). Siccome la demagogia (quella stessa di una volta) ha indotto e induce i nostri legiferanti a non modificare le due leggi dopo che ci si è resi conto del male che hanno involontariamente determinato, e siccome le «gride» piuttosto fanciullesche del Ministro degli Interni affinché se ne controlli con rigore l'appli­cazione, sono appunto soltanto «gride» alla spagnola (del Seicento) e null'altro, le strade italiane sono sempre piú affollate di gente che procede, a cosí dire, contro mano.

E’, possibile tutto ciò? Possibilissimo, purtroppo. Basta essere deliquenti ma furbi, cioè finti ravveduti, falsi buoni in condotta, ac­corti collezionisti di indulgenze, sottili profittatori delle periodiche ondate di «buonismo» della pubblica opinione. Basta e avanza. Pinocchio, che deliquente non era ma furbo lo era finalmente diventato, quando l'imperatore di Acchiappaci trulli proclamò un'amnistia per i malandrini in prigione si fece avanti per approfittarne. E al carceriere, che si opponeva perché egli era un onesto, replicò: «Domando scusa, sono malandrino anch'io».

««In questo caso avete mille ragioni», disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli apri le porte della prigione e lo lasciò scappare».

 

6. Guglielmo Nocera. - Ai primi di febbraio di questo Duemila è venuto meno, in avanzatissima età, Guglielmo Nocera. Non voglio dedicargli un necrologio, non saprei farlo. Non mi riesce di veder morti, finiti per sempre, gli amici e colleghi (di nemici fortunatamente, per ciò che riguarda i miei sentimenti, non ne ho) con i quali ho avuto consuetudini di vita. Posso dire soltanto che, pur colpito qualche decennio fa da una gravissima sciagura familiare, Nocera ebbe ammirevolmente la forza di reagire, se non proprio di ridiventare quello di prima.

L'ultima volta che ci incontrammo fu qualche anno fa a Perugia, in occasione di un convegno dell'Accademia Costantiniana. Ricordo che una sera (una sera di gelido vento) eravamo lui, io ed una caris­sima e austera studiosa fiorentina mentre risalivamo a braccetto (Nocera in mezzo, noi altri due ai fianchi, stringendoci a lui per resistere al freddo) dalle bassure di Palazzo Gallenga sino alle alture di non so quale ristorante a lato di corso Vannucci, con lauto banchetto in attesa. Per rompere il silenzio egli iniziò un parlare modi­camente scanzonato, ma la collega fiorentina, temendo il peggio, lo bloccò fermamente sin dalle prime battute con un: «Professore, La avverto che io non tollero i discorsi scollacciati».

Di discorsi «scollacciati» (ma come parlano bene questi tosca­ni) ne avevamo fatti tra noi, per verità non pochi, molti anni prima, nell'ottobre-novembre del 1942, mentre eravamo in attesa degli esi­ti del concorso alla cattedra di Storia del diritto romano. Ci incontravamo a Roma, ogni sera, anche con altri partecipanti ad altri concorsi, nella Galleria di piazza Colonna, davanti alle vetrine della (allora) Libreria Hoepli. In attesa che qualche amico marpione ci por­tasse dall'Università, ove erano riunite le commissioni, le ultime notizie (o, per meglio dire, le voci), sgranocchiavamo per riscaldarci le prime caldarroste della stagione, alternandole con parole forti che indirizzavamo ai commissari (beninteso, a quelli che ciascuno di noi credeva gli fossero avversi). Nocera, che era allievo di De Francisci, a quell'epoca grande notabile del regime fascista, poteva dirsi sicu­ro. Ma in realtà proprio sicuro nemmeno egli era, anche perché le sue idee politiche, per quanto cautamente represse, erano agli antipodi del fascismo e De Francisci le aveva probabilmente intuite.

Basta. Con quel difficile concorso di Storia (rimesso eccezio­nalmente al giudizio di ben sette membri e non dei soliti cinque) tutto andò nel migliore dei modi. Nocera meritava di vincerlo e vin­se, mentre De Francisci si confermò nei suoi confronti il grande gentiluomo che era.

Gentiluomo anche, e non meno, Nocera. Il quale, crollato il fascismo e venuto alla luce del sole ch'egli era comunista, si com­portò verso il maestro, caduto in disgrazia politica, con la devozione e la fedeltà di sempre, sí come si conviene a un allievo (quando capita che sia un gentiluomo, è ovvio).

 

7. «À suivre». - Il volume dei Mélanges en l'honneur de C. A. Cannata (1999, p. XXIII - 448) è ricco di contributi resi, credo, ancora piú interessanti dal fatto di aver tutti gli autori obbedito alle rigorose, ancorché cortesissime, disposizioni di brevità emesse dal cura­tore della raccolta, Roland Ruedin. Dopo aver dato una scorsa piuttosto annoiata ad un trattamento di meticoloso sadismo praticatomi a p. 73-90, non importa da chi, per certe idee che ho in passato espresso e che tuttora candidamente confermo in ordine alla forma del testamento romano, mi sono, per mia fortuna, imbattuto nelle pagine (105-122) dedicate poco piú in là da Felix Wubbe ad Afr. D. 19, 2, 33 de Hoetink à Cannata. Pagine redatte con tale garbo e con tanta affabilità da avermi indotto a provare vergogna dell'impulso fugace che mi era venuto, da vecchio bizzoso quale inevitabilmente sono diventato, di rispondere per le rime al vecchio stizzoso (eh sí, ormai anch'egli vecchiotto, direi) che mi aveva servito poc'anzi, almeno a suo credere, di barba e capelli. Trattandosi di uno studioso molto stimabile, ho tenuto per me le contro-argomentazioni e i sarcasmi, e ciao.

Il fine perseguito dal Wubbe, nel suo articolo, non è quello di prospettare una nuova soluzione del temibile problema del «periculum emptoris», ma è quello di «narrare» (la parola non è usata a caso) la vicenda delle discussioni che si sono svolte sul tema dal 1928 (data della tesi di dottorato pubblicata in argomento da 14. R. Hoetink) al 1998 (data del lucido libro sul Problema della responsabi­lità nel diritto privato romano pubblicato da C. A. Cannata): settant'anni durante i quali, variamente reagendo alle (provvide) impostazioni «rivoluzionarie» di F. Haymann del 1919-20, hanno parlato di que­ste cose, a prescindere dal Cannata, molti, ma molti giusromanisti, tra i quali si segnalano A. Wacke (1976), H. Ankum (1980) e M. Talamanca (1993, 1995, 1998). Una conversazione pacata e distesa, quella del Wubbe, che mette sopra tutto in risalto la personalità (da parecchi tra noi non ben conosciuta) di quel ricercatore di grande buon senso che fu il suo maestro, H. R. Hoetink, al quale si deve quel ritorno «coi piedi sulla terra» che è stato alla radice di quella che ancor oggi può dirsi, nel suo nocciolo, la «communis opinio».

Ma è chiuso l'argomento dopo tanto discutere? Mai no. «Nous pouvons ètre surs qu'il n'y aura pas de point final». Questo è il bello della vita scientifica, se intesa come civile competizione. «C'est comme un roman feuilleton fascinant: à suivre».

III. UN FUTURO PER IL DIRITTO ROMANO?

I. Potrei dirmi, se non soddisfatto, almeno tranquillo con la mia coscienza per quanto ho scritto (e, nel mio piccolo, anche fatto), nel corso della mia lunga carriera di studioso e di docente, in difesa dello studio e dell'insegnamento del diritto romano pubblico e privato, se non mi trovassi, tra la fine del secondo e gli inizi del terzo millennio, ancora in grado, più o meno, di essere e di pensare. Va bene, mi dico (ricorrendo ovviamente ad un modo di dire), l'ul­timo baluardo della nostra scienza, quello del ruolo di riguardo che essa aveva nelle università italiane, è praticamente caduto. Va bene, mi dico ancora (sempre e ovviamente facendo cosí per dire), anche se molti colleghi non se ne accorgono (o fingono di non accorgersene, o nascondono a se stessi di avervi messo mano), siamo ormai al «day after», alla situazione di quel film di Nicholas Meyer che fece tanto scalpore nel 1983. Va bene, mi dico (stavolta me lo dico per infondermi ottimismo), «domani è un altro giorno», dunque non piangiamo sul latte versato e seguiamo l'esempio dell'indomabile Scarlett O' Hara di «Via col vento». Il diritto romano, mi consolo, è piúttosto malconcio, si, ma non è proprio morto. Dunque ha un futuro. Chi sa, un terzo millennio tutt'intero di futuro (per ora non pensiamo ai millenni successivi). Quale sarà, quale potrà essere al­lora questo futuro del diritto romano?

Per rispondere a questa domanda, per dire ciò che io penso al riguardo, e naturalmente per provocare le reazioni (in senso contra­rio o parzialmente contrario, oppure in senso adesivo o parzialmen­te adesivo) che il mio pensiero merita, non posso fare a meno di citarmi, rinviando in particolare a quattro miei recenti scritti molto brevi (ma forse, chi li legga con attenzione, laboriosamente sintetizzati) muniti di titoli apparentemente fantasiosi (ma forse, chi corte­semente ci badi, scelti non a caso): Diritto del presente e diritto del passato (in Labeo 44 [1998] 102 ss.); Il dito sulla piaga, n. 6: Tommaso e Bartolomeo (in Labeo 44 [1998]253 ss.); Lettera in una bottiglia (in Trucioli di bottega 1 [1999] 35 ss.); Il secolo breve della giusromanistica contemporanea (in SC. 9-10 [1997-98, ma 1999] 33 ss.). Scritti, quelli ora indicati, i quali fanno capo (come è naturale) ad altri miei piú corposi libri, elaborati e piú volte rielaborati in precedenza, che lí sono citati e che, pertanto, qui non è il caso di ricordare.

Tanto premesso, ecco i miei punti di vista.

 

2. Primo: la riduzione dell'insegnamento giusromanistico ad una sola materia «obbligatoria», o comunque «essenziale», nel qua­dro delle discipline professate nelle facoltà di giurisprudenza (o nei dipartimenti interessati allo studio del diritto) è sempre meglio (ot­timismo, ottimismo) della sua abolizione, o anche dei suo esilio in scuole umanistiche che siano esenti da prevalente concentrazione sui valori giuridici. Essa non solo garantisce soddisfazione agli stu­diosi e docenti che già esistono, ma assicura una modica continua­zione della giusromanistica nei discepoli. Se non vi fossero studenti della materia, non vi sarebbe la possibilità pratica di selezionare tra gli stessi gli studiosi ed i futuri docenti (creatori a loro volta di altri studiosi e via seguitando). h ingenuo, infatti, direi puerile, immagi­narsi che (salvo casi del tutto eccezionali) la «fruttificazione» del diritto romano come scienza storico-giuridica (e di qualunque altra disciplina scientifica) possa realizzarsi senza l'humus degli studenti e senza una seria messa a coltura di questo humus.

Tuttavia la limitazione degli iugera da coltivare (il dover racco­gliere in un solo insegnamento ius publicum, ius privatum, iurisprudentia e tecnica esegetica) comporta un'«intensificazione» dell'attività di coltura affidata al docente: comporta che il docente, al pari di qualunque agricoltore dedicato seriamente alla coltivazione intensiva, sia particolarmente esperto e moltiplichi e ammoderni i suoi sforzi per ottenere un raccolto soddisfacente. Ed è qui che si profila un doppio pericolo: il pericolo della fiacca di troppi docenti «ancien régime» ed il pericolo dell'incapacità di troppi docenti giovani ma «immaturi». Gli uni (che già erano parecchi prima della riforma) potranno cedere alle diversioni della politica, dei con­sigli di amministrazione, delle professioni libere, degli interessi per altri rami culturali, dell'ozio, col risultato di banalizzare i loro corsi, di ridurli (ancor piú di quanto già da alcuni si è fatto) ad epitomi di nozioncine e di curiosità, inducendo gli studenti a non capire il per­ché dello studio del diritto romano, quindi a considerarlo come un'avventura di viaggio da dimenticare distrattamente, pur dopo aver­lo memorizzato alla lesta. Gli altri, pervenuti all'insegnamento con eccessiva agevolezza, potranno seguire l'esempio dei primi (molti dei quali si compiacciono di essere chiamati anche in questo i loro maestri) oppure, peggio, potranno «inventare» argomenti e metodi sconsiderati di insegnamento innestandoli sulle loro ancor scarse esperienze di studio (esperienze che poi scarse rimarranno prevedibilmente per tutta la vita).

Se i pericoli ora accennati non saranno presi in allarmata considerazione e non saranno validamente osteggiati dai docenti, diciamo tosi «buoni» (ancora ce ne sono, anche se pochi: sia ringraziato il Signore), l'esito dell'insegnamento giusromanistico non potrà non essere, in futuro, infausto. Già si è verificato in passato, a maggior ragione si verificherà in avvenire. Sarà molto facile che gli studenti, tediati dalla «incomunicabilità» tra il diritto romano ed il diritto vivente, si allontaneranno dall'insulso o bizzarro turismo giusromanistico e che i docenti delle materie di diritto vivo ancora una volta li appog­geranno in massa. Appena svoltato l'angolo vi è il rischio (e, in questo caso, per ragionevoli motivi di provata inutilità della disciplina) che si proceda, nelle sedi decisionali competenti, alla «soluzione finale».

 

3. Secondo: posto che i docenti del diritto romano nel futuro si diano congruamente da fare per non abbandonarlo a se stesso e per non banalizzarlo, quindi per ottenere interesse degli studenti e stima dei colleghi «modernisti», si è avanzata da piú parti, sopra tut­to in Germania, la proposta di considerare (e di utilizzare) il diritto romano come propellente, in una con il «ius commune», dell'espe­rienza giuridica moderna, sopra tutto in ordine al diritto privato ed a qualche settore del diritto penale dei paesi europei. La proposta ha dato luogo, nel giro di pochissimi anni, ad una letteratura molto abbondante, ma anche molto varia, ed a tentativi di denominazione unitaria non tutti graditi a tutti i suoi sostenitori: da «neo­pandettismo» a «usus modernus Pandectarum» (per non parlare del termine «postmoderno», oggi tanto di moda, da me maliziosamente fatto balenare una volta, nel tentativo di non essere da meno di altri amabili studiosi). Di piú. Stante la recente realtà dell'Unione Europea, che anno dopo anno è (per ora) in felice crescita, si è formulato da alcuni la tesi che il diritto romano sia particolarmente giovevole alla formazione di un «diritto europeo» (mi limito a citare, per tutti, R. Knútel, L'unité du droit en Europe et le droit romain, in Rev. d'hist. des Facultés de droit et de la science juridique 19 [1998] 125 ss., con l'ampia appendice bibliografica curata da J.-P. Coriat).

A parte quanto mi riservo di sostenere nel successivo n. 4 a proposito dello studio del diritto romano, non vedo chi possa dubi­tare dell'opportunità di far capo, nel risolvere casi pratici e nel rego­lare questioni sociali, all'esperienza giuridica romana, a quella del ius commune, nonché a quella (perché no?) del diritto attico, di quello della Cina orientale o di quello delle isole Samoa. Non vedo perché queste ed altre esperienze non possano essere tenute presenti, dai giudici e sopra tutto dai legislatori, anche in materia di diritto pub­blico. Non vedo questo «perché», ma ovviamente ad una condizio­ne inderogabile: che i giudici non violino l'ordinamento dello stato nel cui nome emettono le loro sentenze e che i legislatori non violino i principi e le norme delle relative costituzioni scritte o non scritte. Quanto al «diritto europeo», non mi sfugge che esistono trattati internazionali in base a cui i paesi d'Europa (comprese Gran Bretagna e Irlanda) si sono «uniti» e vanno «unendosi» in numero sempre maggiore, anche se di uno stato federale europeo, o anche di una confederazione, non è ancora il caso di parlare (in questo senso, ben giustamente, la corte costituzionale tedesca con una sentenza del 12 ottobre 1993). Ma vogliamo riflettere un po' piú cautamente prima di procedere a precipizio lungo questa strada?

A riflettere un po' piú cautamente, non soltanto vien da chiedersi se l'Unione Europea sia un bene, particolarmente se si verificherà l'ipotesi auspicata dai molti «europeisti» del tempo presente di un suo sfocio in uno stato federale o addirittura in uno stato delle regioni (sul punto, in senso adesivo, v. il mio omonimo G. Guarino, Verso l'Europa ovvero verso la fine della politica (1997] 179), ma viene anche da chiedersi se sia un bene la formazione di un diritto europeo e addirittura se tale processo formativo sia concretamente realizzabile. lo, per quanto mi riguarda, ritengo fermamente di no (e rinvio al mio articolo intitolato Capitale Amaurote, in Riv. Dir. Civ. 44 [1998] 157 ss., ricordando a chi l'avesse dimenticato che Amaurote era la capitale della repubblica di Utopia). Non contesto l'opportunità di trattati e convenzioni internazionali, dentro e fuori d'Europa, per il regolamento uniforme di certi settori del diritto (come tutti sanno, si è già cominciato con la vendita di beni mobili e si sta proficuamente lavorando per accordi in ordine alla responsabilità cosí detta extracontrattuale e in ordine ai diritti reali), ma ho fatto e faccio tuttora presente che i diritti di tradizione romanistica sono molto difficilmente armonizzabili con quelli anglosassoni e che è male forzare a beneficio di un'unità formale certe radicate tradizioni nazionali. Mentalità, la mia, nazionalistica? Sicuro. Ma mentalità di un giurista convinto che alle radici di ogni ordinamento giuridico debbano esservi e debbano essere rispettate al massimo (prima di essere per un'utilità superiore contrastate) le istanze che vengono dalla comunità di base nei suoi usi e costumi e nelle sue aspirazioni di fondo. Mentalità, aggiungo in tutta franchezza, di una persona che deplora in modo assoluto le manifestazioni razzistiche e incivili di un signor Haider (o di chiunque altro in Austria, in Germania o altrove la pensi o si esprima come lui), ma di una persona che pro­prio non vede con quale fondamento giuridico l'Unione Europea possa intromettersi negli affari interni di uno stato sovrano che ab­bia puntualmente assolto tutti gli obblighi assunti per trattato (obblighi tra i quali non figura quello del silenzio o dell'ipocrisia).

4. Terzo: lo studio e l'insegnamento del diritto romano avran­no in futuro possibilità di sopravvivenza, e connessa possibilità di rendersi realmente giovevoli al progresso giuridico, esclusivamente se saranno orientati verso una visione globale dell'esperienza giuri­dica di Roma, se si manterranno assolutamente autonomi rispetto allo studio ed all'insegnamento di ogni altra disciplina giuridica e se adotteranno, nei limiti del possibile, il linguaggio della moderna «teoria generale del diritto».

L'accorpamento in una sola disciplina didattica, ove si voglia vedere le cose (come qui cerco di fare) «in positivo», ha questo di buono: che la storia del diritto pubblico e della giurisprudenza non sarà piú involontariamente considerata (dagli studenti e, diciamo­lo, anche da molti studiosi) come storia distinta, se non proprio diversa, da quella del diritto privato. Pur rispettando le note diffe­renze tra ius privatum (nocciolo duro dell'esperienza giuridica romana) e tutto il resto (là dove la consistenza del giuridico è spesso minore, anche perché i confini con la politica sono meno sicuri), gli studiosi e i docenti potranno creare ed augurabilmente creeranno nuovi punti di osservazione (da angoli visuali diversi e più aperti) della vastissima materia, traducendoli in nuovi sistemi espositivi. T impresa che già è stata provvidamente iniziata da almeno una cin­quantina di anni per quanto riguarda il rilievo della giurisprudenza, oltre che della giurisdizione, nei processi di sviluppo del ius privatum. Si tratta, dunque, non di innovare in tutto, ma di andare avanti lungo una strada già aperta (e qui vale la pena di segnalare che un mo­destissimo tentativo in questa direzione mi sono sforzato di compierlo anch'io trasformando, in tre edizioni tra la sesta 1984 e l'ottava 1994, il mio succinto Profilo di diritto privato romano in un Profilo del diritto romano, sia pubblico che privato).

Andare avanti su una strada che, in fondo, è già aperta (non da decenni, ma addirittura da secoli) si deve e si può anche quanto al «linguaggio», cioè al modo di organizzare concettualmente e di esprimere modernamente la materia. Quanto studiamo e insegnamo il diritto romano è inevitabile, anche se non vogliamo rendercene conto, che noi «traduciamo» il linguaggio esterno e interno di allora (anzi delle varie fasi successive di quell'«allora» durato tredici secoli) in linguaggio di oggi (un linguaggio, si badi, che è sicuramente diverso da quello di un secolo fa ed è presumibilmente diverso da quello che correrà tra cento anni), ed è altresí inevitabile che la no­stra traduzione, sopra tutto nei confronti degli studenti che ci ascoltano e leggono, sia una traduzione fedele, fedelissima, ma «a senso», cioè espressa, oltre che in «lingua viva» (italiano, francese, tedesco, inglese, spagnolo e via dicendo), in significati attuali, cioè attualmente correnti e comprensibili. Gli studiosi puri possono even­tualmente prescindere da quella esigenza (tanto essi tra loro si capi­scono, o a volte non si capiscono ed a maggior ragione fieramente polemizzano), ma da questa esigenza non si può prescindere quando ci si rivolga al pubblico degli studenti e, si aggiunga, all'ambiente dei laici e dei colleghi che si occupano di diritto moderno. E’ dal­l'incomprensione del linguaggio arretrato e astruso (anche se non addirittura in lingua latina e greca) di molti tra noi giusromanisti che è dipesa (l'ho già detto e ripetuto innumerevoli volte) la nostra progressiva devalutazione agli occhi dei giuristi del moderno e che potrà dipendere, se insistiamo scioccamente nell'errare, l'estinzione della nostra specie. Dunque, la nostra deve essere una lingua sempre aggiornata: non piú quella ormai parzialmente (non totalmente) superata della «pandettistica» e delle sue impalcature concettuali (lo dice bene, da ultimo, U. Vincenti, in Diritto e società 1999, p. 529), ma la lingua, per sua natura in continua evoluzione, della «teoria generale del diritto» (lingua rapportata e da rapportare non solo alle moderne esperienze giuridiche del continente europeo, ma anche, quanto meno, alle esperienze giuridiche del mondo anglosassone).

Ad ogni modo, nulla varrà, a mio avviso, a salvare in futuro lo studio e l'insegnamento del diritto romano dalla completa estinzione, se essi (e in particolare l'insegnamento) non saranno rigorosamente autonomi. Non voglio sostenere, si badi bene, che il giusromanista debba studiare o insegnare solo il diritto romano, chiudendosi come in una monade leibniziana ad ogni altra esperienza giuridica antica e moderna. Al contrario, è augurabile che egli non si chiuda, ma si apra, ed io posso attestare, per quanto mi riguarda, che ho tratto grande giovamento dall'aver insegnato, separatamente dalla mia materia giusromanistica, per cinque o sei anni il Diritto processuale civile e per due o tre anni le Istituzioni di diritto privato. Il male da evitare è la commistione in un insegnamento unico del diritto romano con altre materie. t un sistema adottato in altri paesi esterni all'Italia (per esempio, in Germania ed in Austria), ma è un sistema che fatalmente conduce: o a sacrificare una delle due discipline commiste tra loro (nel qual caso temo che il sacrificio tocchi, il piú delle volte, al diritto romano); oppure a creare nella mente degli studenti un indigesto pastrocchio e, in certi casi, sui quali volutamente non mi fermo, ad indurre taluni giovani e diligentissimi studiosi a dare alla luce opere classificabili con disappunto solo nella categoria dei «monstra» o, se si preferisce, degli «ircocervi».

No, se si vuole che il diritto romano sia veramente utile alla disamina della casistica moderna ed al progresso della scienza giuridica contemporanea, lo si mantenga (studiandolo e insegnandolo) allo stato puro e lo si utilizzi, nella sua straordinaria ricchezza di dati molto vecchi ma di spunti sempre nuovi, in sede di «compara­zione diacronica». Ma come? Come fosse un «diritto straniero»? Proprio così: come un diritto straniero, oltre che da secoli e secoli definitivamente morto, il quale (al pari del «ius commune», intendiamoci) non rileva e non deve rilevare per il fatto di essere stato proavo (dicono) di questo o quell'ordinamento giuridico contemporaneo.


IV. SPIGOLATURE ROMANISTICHE

1. «Vol  de  nuit  ». - Per i giuristi austeri l'espressione «vol de nuit» è univoca ed indica il furto commesso di notte. Ma vi sono anche gli anomali come me, ai quali è difficile non ricordare che il sintagma connota anche un celebre profumo di Guerlain ed ha stavolta un senso (di furto o di volo?) fascinosamente ambiguo. Ad ogni modo, acqua passata. L'aggravante del furto, «s'il a été commis de nuit», prevista sino al 1992 dal codice penale francese, è stata eliminata dalla riforma di quest'ultimo. Quanto al profumo, anch'esso è spa­rito da anni, non si sa bene perché. Fortuna che vi è sempre il «Numéro Cinq» di Chanel.

Ma fermiamoci al furto di notte. Al Vol de nuit ha dedicato un lungo ed elaborato articolo Soazik Kerneis in RHD. 1999, pag. 281 ss., sottotitolandolo, a scanso di equivoci, L'abrogation de l'article 382­ . 3 du Code pénal ou la fin d'un «document de droit primitif». Lettura interessante, se non fosse che l'autore, almeno a mio giudizio, enfatizza un po' troppo (adeguandosi ad una tendenza molto suggestiva, ma non altrettando persuasiva, di certa giusromanistica fran­cese) il senso misterico della notte che avrebbe presieduto alla formulazione del versetto decemvirale (X11 tab. 8.12): «si nox furtum faxsit, si im occisit, iure caesus esto» (testo desunto da Macrob. Saturn. 1.4.19, in cui «factum sit» è qui emendato secondo il suggerimento del Cuiacio accolto da FIRA. 12.57 s.).

Come mai i decemviri legibus scribundis accordarono alla vittima di un'azione intesa al furto (o, come semplicisticamente si usa dire, al derubato) il diritto di uccidere il ladro (o presunto tale) colto sul fatto? Come mai questa reazione violenta nei secoli successivi fu variamente limitata e condizionata (in modi che qui non interes­sano) ma non fu mai abolita? E come mai sino ai nostri giorni (o quasi) è rimasta esplicita, in qualche codice penale, la «minorata difesa» (non piú punita con la morte, per fortuna) implicata dalla notte?

Rispondere a queste domande ispirandosi alla fantasia che per i Romani, specie per quelli piú antichi, durante la notte il diritto dorme, oppure che esso di notte non ce la fa a farsi valere, oppure che nelle ore notturne esso provvisoriamente abdica (sul che si è diffuso, peraltro in un bell'articolo, l. Charbonnier, Nocturne, che cito da Mél. Lévy-Bruhl (1959 345 ss.), rispondere cosí, mi si consenta, è poesia, magari alata poesia, non prosa. La realtà quotidiana solitamente è prosa, e prosastica deve essere, sino ad evidenza contraria, la valutazione dello storico e del giurista. Sicché in ordine alla fattispecie del furto notturno io (come quelli chi mi hanno autorevolmente preceduto) altro banalmente non vedo che l'incertezza, il timore, lo sconvolgimento tipici della città (o della campagna) che manca di illuminazione e che comunque riposa; quindi la particolare facilità di ricorrere, per difendersi da un pericolo di cui non si «vedono» esattamente le dimensioni, ad un'azione scomposta e talvolta spropositata, sopra tutto nella mancanza (quasi come al giorno d'oggi, guarda guarda) di un adeguato servizio di vigilanza notturna, cui in Roma si cominciò a pensare, e in termini molto appros­simativi, solo dopo (parecchio dopo, direi) l'incendio gallico (e qui è doveroso rinviare, per ulteriori approfondimenti, all'eccellente mo­nografia di C. Cascione sui Tresviri capitales, 1999). Posto che le XII tabulae, checché si opini intorno al loro carattere e al loro contenuto (faccio grazia al lettore di richiamare le mie tesi personali in materia), furono strappate faticosamente dalla plebe al patriziato, e posto inoltre che il loro fine essenziale fu quello di realizzare un sufficiente livello di «certezza del diritto», ebbene è presumibilissimo, addirittura ovvio che nei confronti del furto, delitto tra i piú vecchi ed esecrati del mondo, esse si siano preoccupate di precisare che la reazione dei derubati (o sedicenti tali) potesse spingersi sino all'uc­cisione del ladro flagrante (o asserito tale) solo ed esclusivamente nei casi dell'azione delittuosa perpetrata (o tentata) di notte e di quella portata avanti, giorno o notte che fosse, con le armi in pugno o sfoderando le armi di fronte alla reazione della vittima.

Questo è tutto. Nessuno può o vuole contestare che in Roma, vi fossero riti religiosi notturni (come ve ne sono anche nelle reli­gioni moderne) e che i funerali vi si svolgessero prevalentemente di notte (mentre nel mondo moderno sono notturne solo le veglie funerarie ed all'inumazione si procede, per ben note ragioni amministrativistiche, prevalentemente di giorno). Nessuno può o vuole mettere in dubbio che i magistrati romani (come oggi, d'altronde) esercitassero normalmente durante le ore diurne i loro sva­riati uffici (cfr. Gell. 3.2.10), né che il tramonto del sole fosse la «suprema tempestas» dei processi (cfr. XII tab. 1.9). Ma fermiamoci qui. Non poniamoci il problema del perché le partite di calcio a Roma non si svolgessero di notte: problema, d'accordo, anacronistico, ma non meno di quanto lo era il filosofo Favorino (stando al famoso passo di Aulo Gellio 20.1) nel porsi ai tempi di Adriano (dunque, nel secondo secolo d.C.) certi quesiti in ordine ai tempi delle Dodici Tavole (dunque, ai tempi di quattro o cinque secoli prece­denti la nascita di Gesù Cristo).

E mi si conceda, visto che mi ci trovo, di compiere un piccolo «vol de nuit» (con «vol» inteso nel senso di volo) passando ad occuparmi di sfuggita di un'attività magistratuale romana che solitamente si ritiene ed assevera si svolgesse integralmente di notte. Mi farebbe gioco opporre alla teoria dell'abdicazione notturna del diritto il fatto che, viceversa, per nominare il magistrato supremo, quelle ra­rissime volte in cui non provvidero alla sua «creatio» i comizi centuriati (cfr. Liv. 22.8 e 22.31 ), il console, uno soltanto dei due consoli, «oriens notte silentio dicit dictatorem», e ciò «ut mos erat» (sul punto: Mommsen, Staatsr. 2.1.151 ss., con indicazione delle fonti; da ultimo, L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, in Index 15 [1987] 289 ss.). Tuttavia sono il primo a gettare acqua sul fuoco di questo procedimento che si ritiene comunemente avesse a testimoni soltanto i pipistrelli. In primo luogo, il console non poteva prendere gli auspici se non fosse trascorsa la mezzanotte, cioè se non avesse avuto inizio il nuovo giorno; in secondo luogo, era ben difficile che gli auspicia irnpetrativa, per quanta fretta avesse il console, potessero sortire effetti concreti molto prima dell'alba, dal momento che, ove non intervenissero prodigiosamente «caelestia auspicio», per gli «auspicio ex avibus», per quelli «ex quadrupedibus» e per quelli «ex tripudiis» occorreva dar tempo agli animali interessati di svegliarsi ben bene senza troppo forzare le loro abitudini, le quali erano dettate (Galileo mi perdoni) dal movimento del sole. Dunque, sull'alzataccia di notte del console sí, d'accordo; ma sul compimen­to del rito necessariamente prima dell'alba, no; tanto meno sulla successiva immediata «dictio» del magister equitum da parte del dictator e sulla precipitosa convocazione dei comizi curiati (ridotti a trenta disponibili littori) per una lex de imperio cumulativamente relativa al primo e al secondo. Si tratta di supposizioni rispettabili, ma solo di supposizioni.

Non voglio allungare un discorso divenuto ormai troppo lun­go con ulteriori disquisizioni. Solo un suggerimento ai futuri studiosi della dittatura (istituto che, a mio parere, merita tuttora altri approfondimenti). Sappiamo tutti che, nei tempi storici, la nomina del dittatore era deliberata, in pratica, dal senato e che i consoli vi si adeguavano quasi sempre senza batter ciglio. Sappiamo tutti che gli auspici non potevano essere assunti da entrambi i consoli in una sola volta, ma dovevano esser presi singolarmente dai magistrati. Ciò che si può supporre quanto alla dictio del dittatore da parte di uno solo dei consoli è: primo, che in antico al comando dell'exercitus centuriatus, composto da un'unica legio, vi fosse un console, uno soltanto (ma questo l'ho sostenuto io, in altre sedi, e può essere sbagliato); secondo, che quando le legioni dell'esercito divennero due e, per conseguenza, due divennero i consoli il console che avesse deciso (assenziente o non assenziente il senato) di nominare il dittatore si precipitasse agli auspicia e alla dictio per evitare che l'altro, se presente in Roma, lo precedesse nello scegliere un altro dittatore oppure ne paralizzasse l'iniziativa mediante una tempestiva «intercessio» (atto «interruttivo» del procedimento, di cui vi è chi sostiene che nel caso del dittatore non fosse ammissibile, ma vorrei sapere perché). Tutto va pazientemente riesaminato, insomma, sotto il profilo della competizione dei consoli nella corsa al dittatore ed alla luce, aggiungo, dei non frequenti casi in cui il dittatore «dictus» da uno dei consoli fu sgradito a parte della popolazione (si trattasse di plebei o di patrizi, di popolari o di nobili) e fu, per coincidenza talora un po' strana, contestato sul piano religioso dagli auguri.

E’ un riesame, quello da me suggerito, che non mi risulta sia stato mai fatto. Ma il buon metodo esige che tutte le possibili ipote­si, siano, ad una ad una, diligentemente esaminate prima che si prescelga quella piú attendibile. E spero di non scandalizzare nessu­no (al di fuori di certi irriducibili bigotti, o tartufi, che in verità non fanno nessun onore alla nostra scienza), se mi richiamo, per finire, ad un profumo citato all'inizio di questa nota ed al metodo severo e concentrato con cui lo scelse la grande Coco Chanel: cosa che ho appreso dal libro delizioso di H. Munzi e D. Downie, Un'altra Parigi (Milano,1995, p. 39 ss.). Dunque, nel 1921 «Madamoiselle» si rivolse al grande esperto Ernest Beaux e gli disse: «Voglio un profumo di una regalità discreta che sintetizzi il mio stile e faccia come da alone ai miei abiti. Qualcosa di astratto, di unico». Beaux lavorò a lungo e preparò cinque miscele diverse. Seduta sul canapé del suo «atelier» al secondo piano di rue Cambon 31, Coco fiutò a lungo e ripetutamente le prime quattro fiale. Giunta alla quinta, la fiutò una volta sola ed esclamò semplicemente «Voilà». (Come chiamare il nuovo ­profumo? Tutti i poeti di Francia, vivi e morti, erano a disposizione per la difficile impresa. Ma Coco disse: «Per un profumo col mio nome non occorre altro. Basta il numero che contrassegnava la fia­la. Fu cosí, amici giusromanisti, che venne « dictus» lo Chanel Numéro Cinq, il «dictator perpetuus» dei profumi nel mondo).

 

1. G li argomenti del giudice. - Il giudice romano in affari civili, monocratico o collegiale che fosse, corredava il «dispositivo» (il dicatum) della sua sententia con un'adeguata «motivazione» ( come meglio si dovrebbe dire, con un'adeguata «argomentazione»).

A questa domanda Matteo Marrone ha risposto, in un recente articolo (Contributo allo studio della motivazione della sentenza nel dito romano, in C.A. Cannata [1999] 53 ss.), che quella di motivare sentenze ha tutta l'aria di essere stata «una prassi costante» e che forse, «almeno da un certo momento» (periodo classico avanzato?), trattò di «un vero e proprio obbligo giuridicamente qualificato anche se, come pare, privo di sanzione)». Un passo avanti, quello relativo all'obbligo giuridicamente qualificato, rispetto alle incertezze della dottrina che egli cita (Viski, Scapini, Pugliese, Kaser-Hackl: per i dettagli v. pag. 53 nt.1), ed un gradito (pur se parziale) appogioa ad un autore che egli non cita, cioè ad A. Guarino, Dir. priv. ro­mano11 [1997] n. 19.7.2 e 21.5.

Per quanto mi riguarda, do atto al Marrone che alcuni dei testi e egli trascrive (in aggiunta a quelli già indicati da altri, e particolarmente dal Viski; amplius, sul tema, Murillo, La motivación de la sentencia en el proc. civ. rom., 1995) serbano tracce abbastanza evidenti di una spiegazione sommaria con cui il giudice appoggiava la sentenza. Mi permetto però di osservare che il problema relativo al giudizio civile romano non è quello della motivazione mancante: è presumibile, infatti, che il iudex unus o i recuperatores il «perché» della ­o delle loro decisioni (interlocutorie o definitive che fossero) alle parti in causa non lo nascondessero né potessero nasconderlo (basti pensare al carico di questioni che gravava sulle loro spalle nei iudicia bonae fidei). Il problema è quello della normale, o addirittura doverosa, integrazione del «dispositivo» con una «motivazione» che ne spiegasse, sia pur sobriamente, le ragioni fondanti. E a tal proposito (divergendo in parte anche da Kaser-Hackl 371, 485) ho laconicamente, ma chiaramente affermato: a) che la sententia del proce­sso formulare (di cognizione) era un «atto complesso» costituito da un «parere» sulla controversia contestata emesso dal giudicante privato a conclusione della sua cognitio e da un conseguente «provvedimento» di condemnatio, di adiudicatio o di absolutio (cfr. n. 19.7 nel testo); b) che la «motivazione» di tale parere (a volerla intendere in senso moderno, cioè di argomentazione dettagliata) «non era ne­cessaria» (cfr. ivi in nota); c) che invece nei processi extra ordinem (classici e postclassici) la sentenzia «era pronunciata dal giudice in pubblica udienza, dopo essere stata redatta e "motivata" per iscritto» (cfr. n. 21,5 nel testo). Siccome ho rimeditato l'argomento, anche in vista di un'eventuale riedizione del mio DPR. (cfr. n. 11.7 e 13.5), passo qui di séguito ad articolare brevemente il mio punto di vista.

In primo luogo, chiarisco che ciò che ho detto per la sententia del processo formulare è ipoteticamente estensibile anche alle procedure per legis actiones, non essendovi, che io sappia, prove o indizi contrari e dovendosi tenere il debito conto del fatto che i sistemi processuali dell'ordo iudiciorum privatorum erano geneticamente col­legati tra loro. Tanto precisato, ribadisco che le sentenze dell'ordo non avevano carattere oracolare (di un «mihi paret» o di un « mihi non paret»), ma sortivano da contestazioni e da «incidenti» spesso vivaci e defluivano in pareri spesso inevitabilmente nutriti di argomenti (si pensi ai già ricordati iudicia bonae fidei e si pensi inoltre alle delibere di inofficiosità dei testamenti pronunciate, col rito delle legis actiones, dai centumviri). Dunque, non è pensabile che in molti casi i giudicanti potessero bellamente tacere alle parti le ragioni da cui erano stati orientati nel decidere.

In secondo luogo, sempre quanto alle sententiae dell'ordo iudiciorum privatorum, sono indotto a ritenere tuttora che una vera e propria «motivazione» (completa e dettagliata) delle stesse non fosse necessaria o doverosa dalla riflessione che i relativi processi (so­pra tutto quelli formulari) si svolgevano apud iudicem con modalità accusatorie. Queste modalità (ancor piú accentuate di quelle che avevano portato in iure alla formulazione della litis contestatio) comportavano (piú o meno, alla pari di quelle che ci sono maggiormente note, dalla lettura delle fonti disponibili, per le quaestiones criminali) parità tra attore e convenuto, oralità del dibattimento, contestazione articolata quanto alle prove, interventi continui ed espliciti delle parti e del giudicante (la cui libertà di valutazione non era e non poteva essere arbitraria). Tutte caratteristiche che, come in una partita di calcio dei giorni nostri, davano limitatissimo spazio a esiti che non divenissero via via abbastanza chiaramente comprensibili sulla base del dibattimento. Alla fine del gioco (non uso a caso questo termine) quasi null'altro restava al giudicante, se non di trarre le ovvie conclusioni dalla «partita» in cui i contendenti (ed i loro patroni) si erano impegnati, oltre tutto alla presenza del pubblico. E dato che i giudici, malgrado avessero giurato solennemente di comportarsi bene, erano controllati passo passo (su segnalazioni e reclami delle parti, è ovvio) nel loro operare dal magistrato che li aveva nominati (al punto che quest'ultimo poteva intervenire a destituirli e a cambiarli); dato che le sentenze, una volta emesse, potevano essere variamente contestate non solo per motivi di nullità, ma anche (se valide) sotto il profilo del dolo processuale di cui il giudicante fosse stato indirettamente vittima (onde il provvedimento pretorio di in integrum restitutio litis: Lenel, EP. par. 45) o sotto il profilo del delitto commesso dal iudex «qui litem suam fecit» (Lenel, EP. par. 59); tutto ciò dato, si capisce come e perché non fosse prevista anche l'impugnazione della sentenza davanti ad un magistrato superiore e fosse anche perciò praticamente inutile la stesura di una dettagliata «motivazione» della stessa.

In terzo luogo, nelle procedure «extra ordinem» di età classica e di età postclassica fu sempre più accentuato il cedimento (anche se non ve ne fu mai una completa abolizione) delle modalità accusatorie rispetto alle modalità inquisitorie. Sorvolando su altri punti ben noti, mi limito a segnalare che l'introduzione dell'appellatio al princeps (ed alla sua organizzazione) e il rispetto dovuto ai «precedenti» emersi in sede di sentenze imperiali (o comunque in veste di constitutiones speciali) non poterono non implicare che il giudicante, tanto piú poiché giungeva alle sue conclusioni utilizzando vasti poteri inquisitorii, giustificasse con una congrua motivazione la sua sententia: che la giustificasse non solo di fronte alle parti (il cui ruolo era diventato sempre meno attivo), ma anche di fronte alle istan­ze superiori (il cui ruolo era quello di esaminare criticamente il ra­gionamento che egli aveva fatto).

In quarto ed ultimo luogo, se si pensa che, almeno nell'ipotesi di appellatio, il giudice «a quo» era tenuto a rimettere la sententia e i fascicoli di causa al giudice «ad quem» accompagnandoli con una relazione scritta («litterae dimissoriae»), e se si tien conto del cautelosissimo uso (almeno prima di Giustiniano, che poi lo vietò) della «consultatio ante sententiam», ricorrendo alla quale il giudice «a quo» sottoponeva al prevedibile giudice «ad quem» lo schema della sentenza che si proponeva di pronunciare, il convincimento di cui sopra si consolida sino al punto di assumere la consistenza di un'ipotesi molto ma molto probabile. Ipotesi ancora piú salda di quella formulata dal Marrone. (Al quale suggerirei di non parlare di un obbligo «giuridicamente qualificato» ma «privo di sanzione», rap­portando questa concezione a chi ha del diritto un'idea approssimativamente «fattuale», bensí di chiedersi se non vi sia qualche parvenza di attendibilità nella ricostruzione «istituzionale», e quindi indi­rettamente sanzionatoria, del diritto romano così detto «pubblico» che io ho tentato di adombrare nel mio L'ordinamento giuridico roma­no' [1990] passim e spec. 475 ss.).

 

3. «Maximo comitiatu». - In una breve ma densa nota («Maximus comitiatus» in Athenaeum 65 11987] 203 ss.) E. Gabba prende in esame Cic. leg. 3.11 e 44, da cui risulta (cito il secondo squarcio) che le leggi delle Dodici tavole vietarono i privilegia e vietarono altresí «de capite civis rogari nisi maximo comitiatu». Non è dubbio che Cicerone intendesse la seconda norma nel senso di una proibizione di irrogare condanne capitali al di fuori dei comizi centuriati (cfr.Cic. leg. 3.44 poco oltre, de domo 43, pro Sestio 65, re publ. 2.61), ma fu questo il vero significato del versetto decemvirale? No, risponde il Gabba: checché ne dica il Thes. L. Latinae (3.1800), «comitiatus» non significa «comitia» (cosí come intende lo stesso Cicerone in leg. 3.44), ma ha il senso, ben visto dal Forcellini (Lex shv.) di convocazione dei comizi, di «populi ad comitia habenda congregatio». Ove poi si rilevi che «maximus» è anteposto, non posposto a «comitiatus», vien fatto di ricordare (egli aggiunge) che «generalmente, quando l'aggettivo precede il nome, esso è in funzione qualificante rispetto al sostanti­vo cui si riferisce», ragion per cui il Gabba pensa «che maximus abbia precisamente il valore di "numeroso", quanto piú numeroso possibile» e sostiene che «con quel nesso maximo comitiatu si voleva affermare la necessità che nell'occasione di un giudizio de capite civis fosse da ricercarsi il concorso, l'affluenza popolare piú vasta». Ipote­si sottile, ma, direi, poco persuasiva. A prescindere dalla mia (e di altri) convinzione (sulla quale sorvolo) che le XII tabulae non contennero né la norma sui privilegia, né quella de capite civis, mi permetterei di osservare che è poco «legislativo» e che è tanto meno consono al pragmatismo delle leggi decemvirali (guardando almeno ai versetti di esse piú sicuri) una così generica e vaga richiesta, per i giudizi capitali, della «affluenza popolare piú vasta». Quando e con quale quorum di presenti erano da ritenersi sufficientemente affollati i comitia? E che cosa si doveva fare, se il quorum mancava: dichiarare nulla l'assemblea (per poi indire nuovi comizi) o, magari, trascinarvi a forza chi «calvitur pedemve struit» e provvedere alla cavalcatura «si morbus aevitasve vitium escit»? Forse, concluderei, nel testo (presunto) delle Dodici tavole così come riferito (o meglio, «costruito»: cfr. leg. 2.18) da Cicerone, «maximus comitiatus», contra­riamente a quel che generalmente succede, ha il valore di «comitiatus maximus»: ove «maximus» ha funzione discriminante e «comitiatus» ha valore di «comitia» (come ben visto dal Thesaurus).

Le parole che precedono sono la trascrizione di un «tagliacarte» pubblicato con la mia sigla in Labeo 34 (1988) 245 e non riprodotto nelle mie PDR. (1993-95). Dato che l'interpretazione del de legibus ciceroniano proposta dal Gabba è stata efficientemente contestata da B. Albanese in un articolo dal titolo Maximus comitiatus inserito in Est. Iglesias 1 (1988) 13 ss., non riprodurrei oggi il mio scritterello, se A. Corbino non si fosse occupato anch'egli della questione in Index 26 (1998) 109 ss. («De capite civis nisi per maximum comitiatum ferunto». Osservazioni su Cic. de leg. 3.4.1), col risultato di accogliere l'interpretazione del Forcellini e del Gabba in ordine al «comitiatus» come congregatio populi ad comitia habenda, e ciò in base alla lettura di altri passi del de legibus (2.12.31, 3.3.9, 3.12.27). Sia pure. Ma ha ragione il Gabba anche nell'interpretazione di «maximus» da me dianzi criticata? Se ho ben capito, per il Corbino questo no: il preciso significato che Cicerone intende far esprimere alla lex de ca­pite civis che egli si propone di trasferire dalle XII Tavole nella sua costituzione «sarebbe quello di «assemblea popolare piú estesa per composizione» (non di assemblea popolare col maggior numero possibile di cittadini concretamente partecipanti all'adunanza). Un passo avanti verso il raggiungimento della lettura prospettata dall'Albanese e da me («comitiatus maximus» = comitia centuriata).

Ma perché mai l'assemblea «piú estesa per composizione» sarebbe stata, a mente di Cicerone, proprio quella dei comitia centuriata? Non vi erano ai suoi tempi, prescindendo da ogni discussione sui comizi curiati, anche i comitia tributa? Certo, ammette il Corbino, ma Cicerone vuole che una legge cosí importante come quella de capite civis «sia anche... quella nella quale la decisione si esprima attraverso un computo che tenga conto delle diversità qualitative dei cives», del loro «diverso peso politico». Ora (mi vien fatto di obbiettare), è vero che Cicerone era convinto che nella repubblica vi erano e dovevano esservi cittadini di peso politico prevalente, è vero che tali supercittadini erano secondo lui gli optimates, è vero che una delle leggi da lui proposte stabilisce qualcosa di molto significativo in tal senso (cfr. leg. 3.10 e, sul punto, A. Guarino, Giusromanistica elementare [1989] 300 s.), ma è vero anche che il peso politico (ed economico) degli ottimati era identico tanto all'interno dei comizi centuriati quanto all'interno dei comizi tributi, anzi forse piú in questi che in quelli. Se Cicerone, parlando di maximus comitiatus si riferiva (sicuramente) ai comitia centuriata e non ai comitia tributa, ciò era perché non vi è dubbio che, quanto ad attribuzioni e solennità, i primi prevalevano nettamente sui secondi e sugli stessi ormai mal ridotti comitia curiata. Erano cioè i comizi piú autorevoli, il «comitiatus maximus» appunto.

 

4. Ceneri  di sigarette . - Negli Atti (Napoli 1999) di un conve­gno (Copanello 1996) dedicato agli Ordinamenti giudiziari di Roma imperiale figura una relazione di Mario Talamanca su Il riordinamen­to augusteo del processo privato che si estende, entro il totale di 513 pagine dell'intero volume, da p. 63 a p. 260, col corredo di 755 spesso corposissime note. L'autore è il primo ad ammettere, forse minimizzando (nella nota 1 di p. 63), di non aver «discusso con sobrietà di spazi», e non mi pare proprio il caso di rimproverarlo.

Sia lecito tuttavia un piccolo, ma forse non irrilevante interrogativo. È opportuno, in un fluente articolo del tipo di quello qui segnalato, inserire «come prima impressione», anche un giudizio di «Weitschweifigkeit» (in parole nostre, di prolissità) in ordine al libro dedicato da un autore esordiente al complesso méccanismo della «fictio iuris» (cfr. p. 103 nt. 165)? Ancora: è opportuno, sempre in un articolo del tipo qui segnalato, aggiungere alle critiche (fondate o meno fondate che siano) rivolte ad un' autrice del pari esordiente anche il rimprovero di aver «preso sul serio», o almeno di averne fatto mostra («sembra»), un'ipotesi formulata da uno studioso che, come è «da tutti saputo», va ascritto al «club des Incroyables» (cfr. p. 210 nt. 568)?

Fossi stato io l'imputato di queste lungaggini, mi sarebbe stato ben poco difficile, da quel vecchio pterodattilo che sono, replicare con il noto proverbio arabo: «disse il cammello del dromedario: è un animale straordinario». Ma per gli autori esordienti, teneri pterosaurini da poco usciti dall'uovo, la cosa è ben diversa. Non vi è dubbio che, a suo tempo, diventeranno robustissimi e pronti alla reazione (in alcuni di essi già gli «occhi fuggitivi» rivelano ad un accorto osservatore che il loro futuro, quando si realizzerà, sarà addirittura di ferocia). Non vi è dubbio su questo. Ma fatto è che essi, oggi come oggi, diversamente non possono scrivere, purtroppo, da come e quanto scrivono. Infatti le regole del gioco che si sogliono imporre agli esordienti sono tre: informazione bibliografica completa, discussione minuziosa di tutto, dimensione tipografica di almeno 250 pagine. La dimensione tipografica minima è l'artificio atto ad impressionare favorevolmente certi esaminatori «qui sont chauves à l'interieur de la téte», secondo una felice espressione di Jacques Prévert (Paroles, 1945), ma i primi due requisiti sono i mezzi di prova oggettivamente piú efficaci (anche se non esaurienti) dell'attitu­dine alla ricerca scientifica. Se non sono esibiti in bella mostra, il dubbio circa la debolezza metodologica del ricercatore che si affaccia alla vita degli studi è legittimo, per non dire doveroso.

E «les incroyables»? Non dico che la definizione del Talamanca non sia gustosa e tentatrice (anche se i moscardini della giusromanistica contemporanea mancano della «erre moscia» che caratterizzava, tra l'altro, gli «incoyables» dei tempi del Direttorio e tendono piuttosto a mimetizzarsi, cioè a confondersi, anziché a distinguersene, con i loro grigi colleghi considerati piú affidanti). Non lo dico, non lo dico. Peraltro, può uno studioso esordiente permettersi di ritenere «a priori» incredibile questo o quell'altro studioso (germanico, per giunta) e di omettere la valutazione critica del suo, come direbbe il Windscheid, «Gedankengang»? Anzi può uno studioso, ancor vecchio come Matusalemme, giudicare trascurabile e irrilevante la produzione di qualsivoglia altro studioso solo perché nove volte su die­ci (tale è, a mio avviso, la media della persona cui ci riferiamo) essa si è mostrata chiaramente debole? Non può, direi, non può. Non solo perché pure ai piú sprovveduti scribacchini può succedere di fare l'«en plein», ma anche perché tra i vizi piú deplorevoli di certa letteratura giusromanistica contemporanea (la «giusromanistica Biedermeier», di cui ho parlato altrove) vi è proprio quello di ritenere ingenuamente «incroyables» (trascurandone non il nome, ma il pensiero) un sempre maggior numero di scrittori di altissimo valore per il fatto che sono, ohibò, «interpolazionisti».

Dunque, la si chiami pure prolissità, ma la minuzia nell'esame di ogni possibile indizio non è mai troppa. Tutte le ceneri di sigarette vanno pazientemente analizzate. È il modesto dottor Watson a rammentarlo, una volta tanto, al brillante Sherlok Holmes.


V. MOTIVAZIONI TRASPARENTI

I. L'anno Duemila si è aperto, tra l'altro, con un avvenimento politico-costituzionale di grande rilievo: la dichiarazione emessa dalla Corte Costituzionale di legittimità di sette su ventuno «referendum» che erano stati proposti prevalentemente dal Partito radicale. Il deposito delle motivazioni relative è stato effettuato, a tempo di «record», lunedì 7 febbraio ed ha in parte spento, almeno per chi sa leggere, sia l'ondata impetuosa delle proteste sollevate contro i dispositivi di rigetto dai sostenitori dei referendum respinti, sia (per esser completi) i borbottamenti malevoli mugugnati da varie provenienze contro l'accoglimento degli altri sette referendum. Li ha par­zialmente spenti, ma non eliminati del tutto. Al solito, si è parlato, vociato, o addirittura urlato di incapacità dei giudici e, sopra tutto, della loro politicizzazione o dell'influenzabilità loro da parte di questa o quella «lobby».

Io non intendo discutere né le decisioni né le motivazioni della Corte su «referendum» dei quali deliberatamente tralascio di riportare anche i quesiti. Il mio problema è un altro. Di fronte alle consuete proteste e malignità che le delibere della Corte Costituzio­nale determinano, non è forse il caso che il legislatore italiano accolga la proposta di alcuni giuristi e di molti altri cittadini nel senso di stabilire che le sentenze di quel collegio debbano essere «trasparenti», debbano quindi riportare anche le eventuali opinioni dissenzienti dei giudici che sono rimasti in minoranza?

Sarebbe, oltre tutto, una soluzione all'anglo-americana, quin­di una soluzione, nel nostro inchinevole paese, almeno oggi dí di gran moda.

2. Su questo tema io ebbi nell'ormai lontano 1972, anche una cortese polemica giornalistica con un ex-presidente della Corte, che era poi il mio carissimo ed oggi rimpianto amico Aldo Sandulli, uno dei piú eletti giuspublicisti di allora e di ora. Il testo del mio articolo (pubblicato da Il Mattino del 19 giugno 1972) lo si può leggere anche nel volume dal titolo Diritto e rovescio (Napoli 1973) a p. 109 ss.
La tesi del Sandulli, esposta su La Stampa di pochi giorni prima, era che gli «interna corporis», cioè quel che si è detto in camera di consiglio, debbano rimanere tali. Aprire alla conoscenza del pubbli­co la camera di consiglio comporterebbe il rischio, paventato a suo tempo dal cautelosissimo presidente Enrico De Nicola, di porre i giudici o taluni tra essi (era il mio contraddittore a dirlo) in grave imbarazzo. Anziché votare secondo coscienza, e guardando solo alla costituzione da applicare, essi o alcuni di essi potrebbero anche sentirsi coartati a votare secondo le esigenze e gli orientamenti della corrente politica cui aderiscono, o addirittura in conformità di indicazioni o sollecitazioni ricevute dai partiti o da altri. Non solo. Le recriminazioni nei confronti di chi avesse votato in un modo non gradito a parti, a correnti, a movimenti di opinione e via dicendo non contribuirebbero al prestigio della Corte.

Non mi dichiarai in tutto d'accordo. Nella mia qualità di uomo della strada, l'unica che io fossi e tuttora sia in grado di vantare, mi permisi di sostenere che, sia alla Corte Costituzionale e sia in ogni altro collegio giudiziario, dal Tribunale alla Cassazione o al Consiglio di Stato, fosse venuto il momento di fare un primo passo verso l'eliminazione di certi sipari polverosi, ed oltre tutto già oggi abbastanza penetrabili, in linea di fatto, dall'occhio indiscreto di esperti «guardoni» della giustizia. Che già si facesse cosí come io auspicavo anche in altri paesi ed in altri sistemi giudiziari aveva, ai miei occhi, importanza limitata. L'importante era per me che bisognava pur incominciare, una buona volta, a togliere di mezzo, là dove non sia strettamente necessario, l'istituto ipocrita del segreto di ufficio.

Da noi in Italia, inutile nasconderselo, il «terrorismo ideologico», per non dire altro, esiste e viene praticato, quanto meno come tentativo, largamente. Sandulli aveva ragione a denunciarlo. Questa la ragione per cui ho ritenuto e sostenuto a suo tempo (rimanendo in parte sconfitto) che, tutto sommato, nelle assemblee parlamentari dei deputati e dei senatori il voto segreto, anche se favorisce la mala pian­ta dei cosí detti «franchi tiratori», tuteli provvidamente la libertà di opinione (e sia pure di tiro a segno) di troppe persone che altrimenti non avrebbero il coraggio di compromettersi di fronte ai partiti cui appartengono e da cui dipende gran parte della loro rielezione. Ma nei collegi giudiziari, ivi compreso quello del palazzo della Consulta, la situazione è sperabilmente, diversa. Oltre tutto perché non sono i «nomi» dei dissenzienti quelli che importano. Sono esclusivamente il loro numero e, sopra tutto, i loro «motivi» di dissenso.

Così scrivevo, con riferimento esteso a tutti i collegi giudicanti, allora. Ma oggi?

 

3. Oggi non so. I miei convincimenti di circa trent'anni fa era­no basati, per quanto riguarda i collegi giudiziari diversi dalla Corte Costituzionale, su elementi di valutazione che oggi come oggi, lo confesso, non sono piú altrettanto fermi.

Trent'anni fa avevo ancora forte il ricordo, e il temperamento, dei tempi in cui ero stato magistrato ordinario e piú precisamente, membro di un collegio giudicante del Tribunale di Roma. Lasciatemi narrare un episodio in proposito. Era ancora in corso la guerra ed io ero appena tornato in treno-ospedale dal fronte sovietico. Chiamato provvisoriamente a prestar di nuovo servizio, pur se fisicamente malconcio, come giudice, mi ero trovato di fronte al problema di dover applicare una «legge speciale» per cui la pena del delitto di contrabbando (allora, per ben noti motivi, diffusissimo) andava raddoppiata, con conseguenze di severità che, per certa povera gente còlta sul fatto con qualche chilo di magre provviste acquistate in nero, erano davvero sconcertanti. «Dura lex sed lex» diceva, in piena buona fede, il nostro presidente di sezione. Ma io, poco convinto della tesi interpretativa corrente (e confemata dalla Cassazione), mi studiai ben bene la legge speciale e giunsi alla conclusione che nel cinquanta per cento dei casi a noi sottoposti essa non fosse applicabile: del che si convinse (o nel che comunque mi segui) anche l'altro giudice « a latere», che era un bonario magistrato toscano prossimo all'andata in pensione. Breve: noi due giudici «a latere» facemmo maggioranza (nei casi giusti, s'intende) contro il nostro presidente e le sentenze relative destarono ovviamente un certo scal­pore. Io fui anche convocato dal Presidente-capo del Tribunale e non dirò che non ebbi nessuna preoccupazione (chi tenga a mente che ancora era in piedi il regime fascista forse mi comprenderà), ma fatto sta che gli presentai una memoria scritta in cui spiegavo, relativamente alla famosa legge, i miei perché e i miei percome e fatto sta (devo dichiararlo) che le mie argomentazioni «tecniche» furono rispettate, che non ebbi fastidi politici di nessun genere e che non fui nemmeno rimosso dalla mia sezione. Quando, poi, di lì a poco, uscii dalla magistratura per passare all'Università come vincitore di con­corso, ritenni sciolto il doveroso riserbo professionale e pubblicai sulla questione una dettagliata «nota a sentenza» sotto il titolo di Ostacolata difesa dipendente dallo stato di guerra, (in Foro it. 1943, 2, 41 ss.): nota alla quale rinvio.

Perché, mi dissi polemizzando col Sandulli, in regime fascista sì alla sincerità delle proprie interpretazioni di legge e in clima di democrazia, senza piú pericoli di rigorismi politici, no?

4. Ebbene è vero che, caduto il regime fascista, le cose si misero certamente per il meglio e che sino ad una trentina di anni fa (dicia­mo: sino al 1968 e dintorni) i magistrati italiani erano ancora largamente rispettati (quasi come «Vostro Onore» nei film anglo-americani). Ma è purtroppo innegabile che nel successivo trentennio, cau­sa l'inarrestabile sfascio nazionale tuttora in atto, le cose sono molto cambiate.

Non vi è oggi quasi piú nessun procedimento giudiziario (sia in sede requirente, sia in sede giudicante) che non venga duramente, offensivamente, spesso oltraggiosamente attaccato dalle «parti» che ne soffrano le conseguenze spiacevoli e dai partiti che condividano, almeno al momento, gli interessi di quelle parti. Si parla a piovere ed a spiovere di garantismo, di giusto processo, di giudici politicizzati, di «corruzione al Palazzo di Giustizia» (titolo, questo, di un incisivo dramma scritto da Ugo Betti nel 1949) eccetera. Figurarsi quanto piú si schiamazzerebbe nel caso che gli uffici requirenti e i collegi giudicanti non facessero, in ossequio alle leggi tuttora vigenti, fronte unico e, almeno teoricamente, impenetrabile, quindi inattaccabile sul piano delle «dissenting opinions» che venissero alla luce. Sarebbe uno sfracello.

Appunto allo scopo di evitare tale sfracello il legislatore italiano, trovandosi nella necessità di ottemperare ad un preciso e giusto monito della Corte Costituzionale (sent. 11 gennaio 1989 n. 18), ha riformato (con decreto legislativo del 3 ottobre 1989 n. 351) il comma 2 dell'art. 125 del codice di procedura penale con questa grottesca disposizione di sapore kafkiano: «Nel caso di provvedimenti collegiali, se lo richiede un componente del collegio che non ha espresso voto conforme alla decisione, è compilato un sommario verbale contenente l'indicazione del dissenziente, della questione o delle questioni alle quali si riferisce il dissenso e dei motivi dello stesso, succintamente esposti. Il verbale, redatto dal meno anziano del collegio e sottoscritto da tutti i componenti, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio».

Insomma i magistrati ordinari (e con loro quelli amministrativi) sono oggi, in Italia, troppo indeboliti rispetto al passato quanto ad autorevolezza. È anche colpa loro, visto che la loro gran maggioranza si divide in petulanti correnti parapolitiche nel seno di una «associazione» sindacaleggiante non so proprio quanto opportuna e, per indotto, nel seno stesso del Consiglio Superiore della Magistratura. Realtà tanto evidente e innegabile che anche i giornali, indipendentemente dal loro colore politico, quando si tratta di magi­stratura da criticare, si trovano tutti pienamente d'accordo a metterla spietatamente in ridicolo: nel che li aiuta il fatto che i loro redat­tori e titolisti masticano di diritto assai poco, pur essendo tutti o quasi tutti rigorosamente laureati (chi sa quando, chi sa come) in giurisprudenza. (Segnalo, uno per tutti, il caso recentissimo del piú autorevole o comunque diffuso quotidiano del nostro paese, il Cor­riere della Sera del 17 febbraio 2000, là dove riferisce malamente di una sentenza emessa dalla Cassazione penale, tralasciando di dire o forse di sapere che il collegio si era doverosamente espresso per soddisfare un esplicito ricorso di un cittadino litigioso, sul se costituisca delitto di «atto osceno» o non piuttosto contravvenzione di «atto contrario alla pubblica decenza» l'episodio di un tizio il quale abbia fatto acqua in luogo pubblico incurante della presenza in quei paraggi di una gentile signora. Lo segnalo particolarmente per il beffardo corsivo dedicato, niente meno che in prima pagina, alle supposte discussioni dei giudici, nel segreto della camera di consiglio, sulla rilevanza giuridica di una minzione maschile e comunque ad «una sentenza che potrebbe semplificare la strada a pervertiti, pedofili o anche tifosi di stadio selvaggio» e che non tiene conto, «oltre che dei finissimi cavilli, anche del buon senso e del buon gusto»).

 

5. Resta la Corte Costituzionale. Per essa, direi e dico, è inevitabile, anzi addirittura indispensabile che gli -«interna corporis» dei suoi provvedimenti si conoscano al di fuori e al di sopra delle voci di corridoio, delle dicerie e dei sospetti. E infatti non può trascurarsi che, dei suoi quindici componenti, cinque vengono dalle magistra­ture a séguito di elezioni interne alle stesse, ma gli altri dieci sono di estrazione chiaramente politica: o perché nominati (in cinque) dal Capo dello Stato con criteri che si prestano a discussioni e che non di rado a discussioni hanno dato, almeno a mio avviso, giustamente àdito; o perché eletti (gli altri cinque) dal Parlamento sulla base (parliamoci chiaro) di smaccate «lottizzazioni» politiche.

Vi è quanto basta, ciò posto, per spiegare, se non addirittura per giustificare, le reazioni politiche che, in un senso o nell'altro, i provvedimenti della Consulta molto spesso determinano. Ad esser franchi all'estremo, non mancano, inoltre, tra i giuristi italiani quelli che, come me, diffidano alquanto dell'altissimo collegio, sopra tutto nei casi in cui esso si arbitra di sostituirsi al potere legislativo con le sue non mai abbastanza deprecate sentenze «manipolative» delle leggi vigenti. Quindi almeno per la Corte Costituzionale è piú che mai auspicabile una riforma, la quale imponga di mettere allo scoperto le opinioni (e le adeguate motivazioni) di ciascuno dei suoi membri.

In cose importanti come le controversie che attengono a questioni di costituzionalità delle leggi i cittadini hanno il diritto di aspettarsi che i dissensi, se e quando vi sono, siano motivati altrettanto responsabilmente quanto le opinioni della maggioranza. Hanno il diritto di sapere se e per quali precisi motivi certe pronunce di incostituzionalità o di costituzionalità (cosí si vocifera, ad esempio, per la famosa sentenza sulla legittimità costituzionale della legge sul divorzio) sono state emesse con risicata maggioranza di otto contro sette. Hanno diritto di controllare se certe «addizioni» o «manipolazioni» piú o meno convincenti sono scaturite dall'estro dottrinario (od altro) di certi giudici, mentre hanno trovato contrari o tiepidi o addirittura inerti, e in buon numero, i loro colleghi.

D'altra parte, la possibilità di «relazioni di minoranza», se una lunga esperienza in materia universitaria non mi inganna del tutto, comporterebbe una maggiore responsabilizzazione dei giudici costituzionali: uomini degnissimi, ma uomini come tutti gli altri. Tutti si sentirebbero realmente e personalmente impegnati a contribuire, non solo col voto ma con calibrati argomenti pro e contro, alla decisione da prendere. E molti, posti di fronte all'obbligo di motivare in termini precisi e scanditi il loro umoroso dissenso, forse rinuncerebbero ad opposizioni poco meditate e poco seriamente giustificabili. Rinuncerebbero cioè, visto che non sono vitalizi e che di carica escono solitamente in età non molto tarda; rinuncerebbero, dicevo, all'eventuale tentazione di subordinare la funzione di giudizio alle loro aspettative per un conveniente futuro «riciclaggio»in

consulenze, presidenze, seggi parlamentari eccetera. Aspettative, sia ben chiaro, tutte legittime, ma quasi tutte collegate, credo, a simpatie e cordialità di alte «autorità» politiche od economiche.

 


VI.  DA  MOMMSEN A  SARDANAPALO

1. A parte altri interessi, Oliviero Diliberto ed io abbiamo in comune la caratteristica di essere, come suol dirsi, «topi di biblioteca», cioè studiosi innamorati anche fisicamente dei libri, per lo meno (nel caso mio) di quelli inerenti alle materie giusromanistiche. Ed è appunto sulla Storia di un libro, pubblicata dal Diliberto in edizione privata nel 1995, che intendo qui soffermarmi. Anzi, no. Siccome dalla sua prima stesura il Diliberto è passato nel 1999 ad una stesura piú ampia (non so se di pari asciutta eleganza), mi occuperò anche di quest'ultima, la quale ha per titolo La biblioteca stregata e per sottotitolo Tracce dei libri di Theodor Mommsen in Italia (Edizioni Rovello, Milano).

Il libro cui si riferisce il Diliberto è una copia del notissimo manuale di Wilhelm Rein, Das Criminalrecht der Riimer von Romulus bis auf Justinian (1844), che è stata acquistata nel 1952 dall'Istituto di diritto romano dell'Università di Cagliari e che porta nel foglio di guardia la timbratura iniziale «Ex bibliotheca Theodori Moinmseni» e la timbratura successiva «Akad. Kunstmuseum Bonn». Dato che nel­l'anno 1880 la vastissima biblioteca del Mommsen andò quasi totalmente in fiamme, causa l'imprudenza del grande studioso nell'uso di una candela, è probabile che la copia del Rein abbia fatto parte dei molti volumi che furono poi donati al Mommsen, a séguito di una sottoscrizione interrnazionale, per ricostruire il suo fondo librario: un fondo che alla morte dello studioso, avvenuta nel 1903 per effetto anche stavolta di una candela malcautamente maneggiata, andò purtroppo disperso in varie direzioni nel giro della divisione del patrimonio ereditario. Ora sta in fatto che, come tutti sanno, Teodoro Mommsen pubblicò nel 1899 il suo corposo Römisches Strafrecht e che, il volume del Rein a lui appartenuto (e giunto prima all'Accademia delle Arti di Bonn e infine, attraverso altri passaggi, alla Libreria Prager di Roma, ove fu acquistata dall'Università cagliaritana) risulta privo di ogni per che minimo segno di lettura, quasi che non fosse stato mai consultato. Cosa che al Diliberto pare giustamente singolare.

Ebbene io faccio mia la sorpresa del Diliberto circa l'apparente trascuratezza nei riguardi dell'opera del Rein da parte del Mommsen giuspenalista. Ma, approfitto dell'occasione per pormi (come si vedrà, anche «pro domo mea») un'altra incresciosa domanda: quella relativa alle sorti di una biblioteca privata quando muoia colui che ha speso una vita per metterla ordinatamente insieme.

 

2. Per quando riguarda la singolarità della mancata (o quasi mancata) consultazione del volume del Rein, sarei molto piú scettico del Diliberto verso l'ipotesi che l'opera sia stata assiduamente consultata dal Mommsen, aziché nella copia di sua proprietà, in un esemplare letto presso una biblioteca pubblica od ottenuto in prestito a casa da una biblioteca pubblica o privata. Non ci risulta, anzi è incredibile che l'indaffaratissimo studioso, preso dalle sue ricer­che giorno e notte, si aggirasse per archivi e biblioteche piú dello strettamente necessario oppure fosse un bibliomane piú sciocco di quelli ironicamente raffigurati nella grande Encyclopédie (dicono addirittura dal D'Alembert) come smaniosi di procurarsi duplicati altrui pur di lasciare incontaminati i libri propri. Non so quanto la sua mano fosse pesante o impaziente e nello svolgere le pagine e quanto fossero frequenti le sue annotazioni a margine (ci vorrebbe al riguardo uno studio attento degli altri suoi libri), ma è pressoché certo, limitandoci alla copia del Rein, che questa dal Mommsen fu poco o punto consultata.

Possibile, ciò posto, che Theodor Mommsen non abbia costantemente tenuto sotto osservazione il manuale del Rein nel redigere il suo Strafrecht? Per quanto sia a tutta prima sorprendente, è possibilissimo. Possibilissimo (anche se tutt'altro che sicuro) nella misura in cui si traggano le ragionevoli conseguenze da due punti pressoché incontroversi: primo, che il Mommsen (particolarmente quello dello Strafrecht) si asteneva, di solito, dalle citazioni dei trattatisti precedenti (salvo che per qualche rarissimo cenno); secondo, che lo Strafrecht del Mommsen ha un impianto strutturale e un andamento espositivo rimarchevolmente diversi da quelli del Criminalrecht del Rein (e, si aggiunga, dal Criminalrecht, 1865, dello Zumpt). Per il che ci può essere di prezioso ausilio il meditato volumetto di Tommaso Masiello dal titolo Mommsen e il diritto penale romano, edito in seconda edizione nel 1997, alla cui lettura rinvio.

La prova (ben piú che l'indizio) del fatto che Mommsen non usava citare gli altri studiosi del ramo ci è fornita dall'«Indice delle citazioni» dello Strafrecht apprestato dal Masiello (p. 129-134): indice nel quale gli autori richiamati sono pochissimi, prevalentemente in quanto editori di fonti, e nel quale non compaiono mai, dico mai, né il Rein del 1844, né lo Zumpt del 1865, né lo stesso Gustav Geib, Geschichte des rómischen Criminalprozesses bis zum tode Justinians

(Leipzig 1842), cui il Mommsen dedicò nel 1844 una nutrita e vivace recensione (oggi riportata nelle sue Juristische Schriften 3 [1907] p. 469-494). È difficile credere che il nostro eroe, cosí profondo critico nel bene e nel male del Geib (dotto, diligente, ma «ohne gehörige Umsicht und ohne historischen Sinn in der Weise der post­Niebuhrianen Vermuthungen»), abbia tralasciato di leggere (e di valutare anche meno benevolmente) il Rein, apparso proprio durante la pubblicazione della recensione al Geib, ma ritenuto da lui (presumo) ancora piú arretrato e pre-Niebuhriano per la pretesa di escludere dal quadro la componente processuale e di trattare (come poi anche lo Zumpt) del solo diritto penale cosí detto «sostanziale». Il materiale delle fonti, dite? Macché, quello il Mommsen lo aveva già tutto sulle punte delle dita e nelle edizioni piú accreditate. A tutto il resto Rein, Zumpt e lo stesso Geib non gli servivano praticamente a nulla. Dunque, a che scopo citarli?

Dotato quasi dello stesso carattere di olimpica superiorità che sarebbe stato piú tardi di Albert Einstein (questo lo sanno tutti e lo hanno deplorato per i suoi eccessi in molti: v., in proposito, L. Belloni, in Corriere della Sera 30 dicembre 1999, p. 35), Theodor Mommsen sottaceva perfino in sede di «bibliografia» chi non fosse in qualche modo degno di particolare considerazione da parte sua. Egli si sentiva, rispetto ai «frühere Anläufe zu einer solchen Arbeit», né piú né meno di un pioniere: il che scriveva ben chiaro e ben tondo, come opportunamente segnala il Masiello (35 ss.), nella stessa prefazione dell'opera. Ecco tutto.

 

3. Messo da parte il volume del Rein, occupiamoci del triste destino toccato alla biblioteca del Mommsen dopo la morte di costui, seguita nel 1903. Dio sa che c'era voluto per ricostruirla dopo l'incendio del 1880: ne ho fatto cenno poco fa. Sfortunatamente gli eredi del grandissimo studioso non furono pari all'eccellenza del
suo lascito terreno. In un modo o in un altro avvenne che la biblioteca, e lo segnala addolorato il Diliberto (p. 22 s.), andasse dispersa.
lo non ho il tempo e i mezzi per ricostruire la complessa vicenda, anche se molto sarebbe di aiuto ai ricercatori il presumibile dato che anche gli altri volumi del fondo librario mommseniano erano contrassegnati, come quello del Rein, da un «ex libris». La sola osservazione che mi viene di fare è questa: che il Mommsen probabilmente omise di disporre testamentariamente al riguardo mediante un legato, un prelegato, o almeno un fedecommesso. «Probabilmente» dico, perché anche quando si provvede a queste disposizioni testamentarie i legatari e prelegatari (non parliamo poi dei fedecommissari) spesso non si comportano con la correttezza che il testatore si illudeva osservassero, nel mentre che mettere giudiziariamente il sale sulle loro code è già di per sé molto difficile (e può darsi che chi sia formalmente legittimato a promuovere giudizio nei loro confronti non si senta di far valere l'interesse ad agire o sia indotto a starsene quieto da opportune prestazioni transattive provenienti dall'eventuale convenuto). Del resto, dato per ipotesi che il Mommsen abbia lasciato specificamente a Tizio o a Caio, e non ad un'istituzione scientifica giuridicamente personalizzata, la sua «biblioteca», è molto discutibile che il beneficiario sia stato tenuto per conseguenza (in mancanza, beninteso, di un «modus» espresso) a custodire il fondo librario in blocco o ad alienarlo in blocco ad una persona o ad un'istituzio­ne che ne garantisse l'integrità.

Ahimé, «biblioteca» è solo un «nudum nomen». La parola, derivante dal latino «bibliotheca» o « bibliothece» (a sua volta desunto dal greco «biblioqhkh»), significa letteralmente «raccolta di libri» ed ha corripondenza con il francese «bibliothéque», con lo spagnuolo «biblioteca», col tedesco «Bibliothek» e sostanzialmente con l'inglese «library» (mi fermo qui con le lingue, se no faccio indegnamente concorrenza al Sommo Pontefice quando dice «buon Natale», nella festosa ricorrenza, in cinquanta o sessanta idiomi diversi). Raccolta di libri, dunque anche «locale» in cui i libri si trovano messi insieme, dunque anche «scaffale» o «contenitore» (per l'appunto «theca») di uno o piú «volumi» (in papiro, in tavolette cerate, in pergamena, in carta, e ai tempi nostri anche in nastri magnetici registrati, in dischi di vario genere, compresi quelli delle «discoteche» frequentate dai nostri figli o nipoti, e non so che altro): volumi ciascuno dei quali reso riconoscibile da un segnale o da un'etichetta apposti in posizione ben visibile al suo esterno. Anfibolía, quella qui segnalata, che ha dato e dà, ovviamente, non poco da fare, specie in sede di interpretazione di un legato o di una compravendita, ai giuristi di ogni tempo, cominciando da quelli romani. I quali ultimi (mi si conceda di soffermarmi, per amore dell'arte, un momentino su di essi, con rinvio al puntualissimo Dell'Oro, Le cose collettive nel diritto romano [1963] 177 ss.,): a) propendevano (sembra) a credere che la dizione «bibliotheca» riguardasse l'universalità dei libri del testatore (o venditore), purché (è ovvio) si trattasse di libri disposti in modo da essere utilizzabili per la consultazione e non di un volgare deposito di libri ammonticchiati scriteriatamente, cioè di un'«apotheca librorum»: (cfr. Ulp. 20 ad Sab. D. 33.7.12.34); b) erano però forte­mente in dubbio circa l'estensione del concetto anche agli scaffali et similia (cfr. Ulp. 24 ad Sab. D. 32.52.7, ove si elogia con un «eleganter» un «escamotage» suggerito da uno dei due giuristi Nerva, presumibilmente dall'ammiratissimo M. Cocceius pater); c) ancora piú in dubbio erano sul se la dizione «libri (mei)» equivalesse a tutta la biblioteca, anche nel senso di scaffalatura (cfr. Ulp. cit. nei paragrafi 3 e 7, ove si riferisce che Sabino e Cassio erano per il no, ma cautamente si aggiunge che «interdum armaria quoque debentur» dal momento che quegli armaria «plerique bibliothecas appellant»)

Ad ogni modo, mettiamo che «biblioteca» significasse per i Romani e significhi per noi quanto meno fondo librario, insieme coordinato di libri, «universalità di beni mobili». Mettiamolo pure. Ciò non toglie, per riferirmi, ad esempio, al codice civile italiano, che «le singole cose componenti l'universalità possono formare oggetto di separati atti e rapporti giuridici» (art. 816 co. 2) e non toglie che, formandosi le porzioni ereditarie, si deve evitare, ma solo «per quanto è possibile», il frazionamento delle biblioteche, gallerie e collezioni che hanno un'importanza storica, scientifica o artistica (art. 727 co. 2). La biblioteca privata (e cosí pure la galleria o la collezione), pur se è di rilevante importanza, deve essere salvaguardata nella sua unità «per quanto è possibile», non piú; e comunque chi l'acquista iure hereditario (o per altra via), non è tenuto, salvo intervento eccezionale dello stato a salvaguardia dei così detti «beni culturali», a mantenerla intatta, a non venderla alla spicciolata; tan­to meno è obbligato a tenerla in vita, cioè a continuarla nelle annate dei periodici, nei volumi successivi dei trattati e via seguitando.

La conclusione, triste quanto si vuole ma inevitabile, è che le biblioteche private sono, prima o poi, destinate alla morte. Destino che può essere scongiurato, o almeno protratto nel tempo, esclusivamente se le acquisisca e le inglobi in sé una biblioteca di piú lungo respiro, cioè una biblioteca pubblica.


4. Ed ora al fatto mio personale.

Nella mia lunga vita ho comprato o avuto in dono molte migliaia di libri o di «estratti», ma posso dire di aver costantemente evitato l'accumulo brutale degli stessi in innumerevoli e disordinate scaffalature. Mi sono tenuto al corrente con la letteratura varia (romanzi, novelle, poesie, arti figurative), ma di essa ho custodito con cura gelosa solo poche centinaia di opere svariatissime delle quali non so fare quasi quotidianamente a meno, ora sfogliando l'una e ora l'altra a seconda dell'umore: opere che vanno dalla Divina Commedia (o dal Faust, o dai Promessi sposi, o da Il rosso e il nero) sino ai Tre moschettieri, a Sherlok Holmes, a Phileas Fogg. A parte questi «livres de chevet» (libri di un capezzale metaforico, visto che occupano un paio di pareti della mia abitazione), ho proceduto ad una discreta raccolta di opere di diritto moderno (raccolta in gran parte smistata fuori casa ad un caro allievo che mi è succeduto nell'attività professionale di avvocato) e infine (e sopra tutto) ad una ben piú vasta scelta di libri di diritto romano e di storia del diritto che fodera buona parte della mia casa: raccolta, quest'ultima, che chiamerò la mia «biblioteca giusromanistica».

Il criterio cui mi sono costantemente adeguato nella formazione della biblioteca romanistica è stato quello di avere sotto mano le fonti, i vocabolari, le enciclopedie, gli indici e le principali riviste specializzate. Per il resto (monografie ed estratti) ho cercato di limitarmi alla selezione di tutto ciò che possa occorrere per «fare il punto» iniziale in ordine a qualsiasi argomento (o quasi). Ciò nel presupposto di dovere e di voler ricorrere, per gli ulteriori necessari approfondimenti, a biblioteche pubbliche: cosa oggi, sempre piú facilitata dai mezzi di comunicazione elettronica con le stesse, quindi dalla disponibilità del così detto «e-book», dalla riproducibilità dei testi desiderati via «on line», dalla creazione in corso di «biblioteche Babele» digitalizzate (come la Bnf Gallica), dall'imminenza della messa in commercio dell'«e-paper» (il palinsesto moderno), e dalla pos­sibilità, per i bibliofili piú raffinati, di ottenere per queste vie anche gli «ipertesti» delle opere da studiare.

A causa o in vista di ciò, tutti i doppioni, quasi tutti gli estratti da riviste e raccolte già possedute, molte edizioni pregresse di manuali rivisti è aggiornati sono stati via via esclusi dalla mia biblioteca giusromanistica e sono stati donati, prevalentemente «pour la bonne cause», ai miei allievi. Non solo. Dato che nel 1964 la biblioteca giusromanistica di Vincenzo Arangio-Ruiz (una biblioteca, per verità, non nutritissima) è stata attribuita fedecommissariamente dal grande studioso a me, mi è avvenuto di trovarmi di fronte a numerosi libri di cui già possedevo (spesso rilegata e con le mie iniziali) una copia. Per rispetto alla memoria del maestro scomparso ho, in questi casi, inserito nei miei scaffali la copia pervenutami da lui ed ho distribuito tra gli allievi di cui sopra tutte (o quasi) le copie che erano state mie. Il valore scientifico (non quello economico) della mia biblioteca è, pertanto piuttosto notevole. Io voglio aggiungere che, mentre le copie da me possedute «ab origine» sono segnate a margine con mie personali sigle pressoché cabalistiche di approvazione, di dissenso o di dubbio, le copie di provenienza Arangio-Ruiz sono disseminate da interessanti, e non di rado francamente critiche, annotazioni marginali «in extenso».

Che fare di questa mia biblioteca? Siccome nella mia famiglia non si intravvedono futuri giusromanisti, lasciarla alla discendenza equivarrebbe a farla rispettare nella sua unità, ma anche a renderla difficilmente consultabile da esperti e sopra tutto a non farla continuare nelle acquisizioni. I miei allievi? Non mi convincono. Sono ormai tutti piuttosto anzianotti, sono valorosissimi, ma sono tal­volta distratti oltre misura dalla professione e da altre nobili cure e sono, per di piú, privi di figli interessati allo studio del diritto romano. Altri beneficiari tra i «Fachgenossen» non mi vengono in mente, né le molteplici piccole «Università di campanile» che vanno spun­tando come funghi qua e là penso abbiano bisogno e desiderio di una biblioteca relativa ad una materia, il diritto romano, che quasi non vi si insegna e non vi si coltiva più.

Resta quindi la soluzione in astratto piú logica, che è quella di assegnare la biblioteca al Dipartimento giusromanistico della mia Università, la Federico II di Napoli. Ma è una soluzione, che, dopo averla ritenuta addirittura ovvia per anni e anni, mi lascia oggi, ad esser sincero, fortemente perplesso, se non addirittura restio. La regola per cui i libri di una biblioteca rimangono e devono rimanere entro gli ambienti della stessa, e non possono essere dati in prestito a casa, salvo che in casi eccezionalissimi e di brevissima durata, è una regola (a mio avviso, di civiltà) che è stata puntualmente, rispettata sinché sono stato io a Napoli il direttore di quell'«Istituto di diritto romano» all'antica da cui l'odierno «Dipartimento» è derivato. Ma potrà essere cosí anche in futuro? Ormai è «fisiologico» (dicono alcuni) che i libri delle biblioteche universitarie vadano a spasso qua e là ed eventualmente spariscano definitivamente dalla circolazione, visto che tutto facilmente si risolve con una bella foto­copia o con un «fax» da Lovanio, da Cambridge o da Washington. Sarà fisiologico, ma non mi va giú. La prospettiva che gli amati libri della mia biblioteca, quei libri che tante volte ho accarezzato sfogliandoli, vadano a finire in casa altrui, o addirittura su una ban­carella da «bouquiniste», è una prospettiva che mi spaventa. La aborro. Spesso mi dico agitato: meglio un falò; ma poi mi sovviene del nefando dottor Goebbels e ovviamente mi trattengo. Eppure, cercate di capirmi, un'ispirazione suicida mi sta lentamente venen­do (però non ho ancora deciso) da un'associazione di idee. Da un lato penso a Ralph Waldo Emerson, persona degnissima e intemerata, nonché idolo dei moralisti americani, là dove ha scritto (in The Conduct of Live, 1860) che la biblioteca è per un uomo (di studi) una specie di «harem»; dall'altro penso (non posso non pensare) a Eugène Delacroix in quel suo coloratissimo quadro del 1827 (lo si ammira al Louvre, dalle parti della Zattera della Medusa) su La morte di Sardanapalo.

Nel dipinto di Delacroix il vecchio tiranno barbuto, ormai pros­simo a morire, contempla soddisfatto i suoi scherani mentre eseguono l'ordine di uccidere con sciaboloni e pugnali tutti i suoi cavalli, i suoi cani e le carnose e ignude fanciulle da lui favorite. Ebbene in quella scena, giorno dopo giorno, il Signore mi perdoni, io sempre piú mi ci vedo. Non ho barba, non ho cavalli, non ho cani e tanto meno ho favorite, ma ho l'«harem» emersoniano dei miei libri. Gli scherani (per i quali mi rivolgerei a qualche impresa di rottamazione indicata nelle l'aginegialle) potrebbero facilmente stracciarli in mille pezzi al cospetto di me moribondo e con un occhio ancora semiaperto. Qua una Savigny Zeitschrift dilaniata, là un volume smozzicato del Vocabularium Iurisprudentiae Romance e ancora, ancora, ancora. Tutti i miei «favoriti» all'aria, sino alla distruzione suprema dei Fontes e del Corpus luris.

Che scena. I miei casigliani assisterebbero esterrefatti. Accorrerebbero i vicini. Chi sa quanti altri abitanti del quartiere. Guarderebbero tutti, rattristati, la mia spoglia immemore nel mezzo della biblioteca fatta a brandelli. E si direbbero tra loro a bassa voce: «Gesù, avevamo proprio ragione. Quello era veramente un pazzo».