Pubblicazioni - Articoli, Saggi, ... |
ANTONIO
GUARINO
inter amicos 1. - Gennaio 2005
LA
CODA DELL'OCCHIO
SOMMARIO:
l. La coda dell'occhio. - 2. Le uova strapazzate. - 3. 1l ratto delle Sabine. -
4. Astrattismo e diritto romano. - 5. Testo e note.
1.
LA CODA DELL'OCCHIO. - Nel dicembre 2004, chiudendo una prassi durata sei anni,
ho diffuso tra amici e conoscenti dell'ambiente giusromanistico internazionale
il dodicesimo ed ultimo fascicolo dei miei Trucioli di bottega. Basta, quei
trucioli non mi finivano mai. Sempre piú spesso mi chiedevo se valesse la pena
di mandarli in giro piuttosto che avviarli risolutamente al macero. Comunque,
anche se in futuro mi industrierò a non sbirciare tutto ciò che attiene ai
problemi della ricerca storico-giuridica e del relativo insegnamento, non potrò
talvolta evitare, cedendo ad un'inveterata abitudine (cfr. Trucioli 11 [2004]
28 ss.), di intravedere con la coda dell'occhio qualcosa di interessante. E di
prenderne appunto. E di scriverne.
2.
Le UOVA STRAPAZZATE. - Nero Wolfe, personaggio che spero tutti conoscano,
pretendeva forse troppo nel sostenere che per fare le uova strapazzate, cioè
sbattute mentre si cuociono al tegame, ci vogliano non meno di quaranta minuti
primi e sobrie dosi di burro fuso (vedi in proposito [Rex Stout] The
Nero Wolfe Cookbook, 1973, tr. it.
1975). La gente comune fa molto piú in fretta, cavandosela al massimo in un
quarto d'ora. Comunque un paio di uova, anche se trattate secondo la ricetta di
Nero Wolfe, sempre due uova e sempre e solo strapazzate sono. Sono cioè
qualcosa che serve per una colazione mattutina o per un fuggevole spuntino
pomeridiano e che non ha nulla a che vedere con la complicazione e la dignità
insite, non dico molto, nella tripe à la
mode de Caen, nelle suprèmes de
volaille en papillote o anche, permettetemi di aggiungerlo, nel ragú (non ragoût)
napoletano che è al centro della commedia Sabato,
domenica e lunedí di Eduardo De Filippo. Bene. Impostata così la
questione, si pone in sede di analogia una domanda. E ammissibile che i
problemi delle Università, dell'istruzione superiore e della connessa ricerca
scientifica vengano strapazzati dal governo e dal parlamento di una nazione
civile alla guisa di due o duecento o duemila uova, sia pure affidando l'alto
commissariato dell'operazione a Nero Wolfe? La risposta dell'uomo della
strada, sempre che si tratti di individuo capace di intendere e di volere, è
ovviamente no. Ma al di sopra degli uomini della strada vi sono gli uomini
politici, i quali sono democraticamente pervenuti ai livelli del parlamento,
del governo e di altri poteri connessi per effetto della fiducia manifestata in
loro, nelle loro prestanti apparenze e nelle loro seducenti promesse dagli
elettori. E ad essi, ai politicanti che spettano, sin che dura il mandato, le
decisioni nell'interesse comune. E può anche succedere, piú o meno spesso, che
tali decisioni siano purtroppo affrettate, superficiali, controproducenti,
addirittura disastrose e irreparabili. Proprio ciò che è avvenuto nell'ultimo
decennio con i problemi universitari, oltre che con quelli di tutta
l'istruzione scolastica dalla prima elementare in su, ad opera di governi e di
maggioranze parlamentari (udite, udite) prima di centro-sinistra e poi di
centro-destra. Uova strapazzate, solo uova strapazzate, particolarmente a
danno della cultura umanistica (per la quale mi limito a consigliare la
lettura del recente libro Tre più due
uguale zero, che è una raccolta curata da G. L. Beccaria di pagine scritte
da undici cattedratici di Facoltà letterarie italiane, 2004). Ebbene, per quel
pochissimo che può interessare qualche raro passante, ecco qui una notiziola
che riguarda me stesso e i miei propositi per il futuro. Dopo varie decine di
esternazioni orali e scritte dedicate alla critica della riforma universitaria
italiana (beninteso, con particolare riguardo all'area di mia competenza e cioè
alla storia del diritto), ho fatto il fioretto di astenermi per l'avvenire,
salvo che venga gravemente provocato, dal ribadire a piena voce il mio giudizio
sulle magagne della stessa, sulla fragilità culturale e mentale dei suoi
promotori, sulla debolezza della spina dorsale di quei molti colleghi che la
hanno docilmente subita e che tuttora osservano il silenzio sulla stessa. Il «fioretto»
è un gentile atto di devozione consistente nella rinuncia temporanea a
qualcosa che tenta (metti, che so, ai dolciumi per un mese) cui spesso si
accompagna la deposizione di un fiore sull'altare preferito: il mio personale
Fioretto è un sacrificio di questo tipo. Spero di mantenerlo. Dunque è finita
con le mie lamentazioni. Non sono servite a niente e non servirebbero a niente,
come a niente sono serviti gli appelli pubblici di ben piú validi miei colleghi
(ultimo dei quali appelli è quello pubblicato dal Corriere della sera del 14
settembre 2004, p. 18, ove si reclama con urgenza un forte rilancio dell'etica,
ma va). Per il potere politico di destra la cultura umanistica (dunque la
critica) è spesso solo un fastidio; per il potere politico di sinistra essa è
spesso addirittura una preoccupazione. Ecco perché i programmi elettorali
dell'una e dell'altra parte sono sempre tanto vaghi in materia. Ed ecco perché
quando si costituiscono i governi e si nominano i ministri all'istruzione
pubblica non si destinano generalmente i cuochi, ma gli sguatteri di ambo i
sessi.
3. IL RATTO DELLE SABINE. - Guido Rossi è un
valentissimo professore milanese di diritto che si è inoltre largamente
affermato nel campo della professione legale, pervenendo ai vertici della
rinomanza tra le maggiori imprese di commercio italiane e straniere. Non lo
conosco personalmente ed è molto probabile che egli addirittura ignori la mia
esistenza. Eppure vi sono due cose che ci uniscono o che almeno ci fanno
reciprocamente vicini: la prima è che tanto io quanto (dopo qualche anno) lui
abbiamo temporaneamente messo da parte il nostro da fare quotidiano per
inserirci, in obbedienza ad un dovere sociale che sentivamo al momento piú
urgente, in un gruppo parlamentare molto vivace (anche se, ahimè, poco
numeroso) denominato degli «Indipendenti di sinistra»; la seconda è che
ambedue (io per specializzazione professionale, Rossi per suo meritorio diletto
culturale) non abbiamo abbandonato Tito Livio e gli altri antichi autori sui
banchi del liceo, ma siamo ad essi, più o meno spesso, ritornati. Da questa seconda propensione è
derivato un elegante volumetto di riflessioni che Guido Rossi ha dedicato a Il
ratto delle Sabine (Milano, 2000, p. 144). Mi spiace di essermene accorto
con qualche ritardo perché il libro (basato essenzialmente su Plut. Rom.
14 e su Dion. Hal. 2.30-46) vale la pena di essere letto e meditato prescindendo
da facili tentazioni da saputello di rettificarlo in questo o in quel
particolare. La vicenda, spesso torbida e sconnessa, che nella leggenda romana
si svolge dalla nascita dei gemelli sino all'episodio del ratto, alla
conseguente guerra con i Sabini e alla pace con Tito Tazio a una vicenda della
quale Rossi segnala come protagonisti assoluti sia Romolo (e questo ce lo
aspettavamo), sia (e qui sta in una certa misura la sorpresa) Ersilia, cioè
quell'unica sabina non nubile che era stata anch'essa rapita. La quale Ersilia,
presa in isposa da Osto Ostilio, anzi no, forse addirittura da Romolo (cui,
stando ad una certa tradizione, avrebbe poi dato due figli), si adoperò in modo
decisivo per convincere i suoi concittadini (e il marito sabino) a ravvisare nel
«capo ha cosa fatta» del ratto le radici di altrettanti matrimoni regolari,
ivi comprese le sue seconde nozze. Da parte mia nulla da obiettare, salvo il
suggerimento amichevole di non attribuire alla matrona Ersilia il rivestimento
della toga, quasi si sia trattato di una George Sand «avant la lèttre» (o,
peggio, di una donna di costumi non intemerati). E grande rispetto, sempre da
parte mia, per l'abbondanza e la raffinatezza delle citazioni in diverse lingue
preposte in esergo ai vari brevi paragrafi in cui si articola il saggio. (A
proposito delle citazioni in esergo, è vero che io mi sono dichiarato avverso a
questo vezzo [cfr. Labeo 40 (1994) 415 ]). Ma forse l'ho fatto perché nella
napoletana via San Biagio dei Librai, da me frequentata sulle vecchie orme di
Benedetto Croce, sarebbe piuttosto difficile trovarne di raffinate. A scegliere
con gusto citazioni preziose occorre, come per i gioielli, poter andare per
l'una in via Condotti, per l'altra in Rue de la Paix, per l'altra ancora nella
Quinta Strada, magari dopo una puntatina daTiffany).
4. ASTRATTISMO E DIRI TTO ROMANO. - Incuriosito dalla
lettura di un articolo di giornale, Luigi Garofalo ha dedicato un'interessante
ricerca alla cultura giusromanistica di Vasilij Kandinsky (1866-1944), il grande
pittore «astrattista» russo (Kandinsky e il diritto romano, in On. Barbara Bonfiglio [2004] 241 ss.). Non importa se la ricerca ha
approdato ad una conclusione negativa circa il presunto apporto del K. allo
studio del diritto di Roma antica. Ha importanza, a mio avviso, il fatto piú
unico che raro del vivace e intelligente interessamento mostrato dal Garofalo
per un tema che fuoriesce decisamente dalla routine della nostra scienza. Ed ha
importanza altresí, pur se non sorprende, la serietà dell'impegno con cui il
Garofalo ha condotto la sua indagine. Indagine che apre comunque un varco alla
comprensione del senso di insoddisfazione che il K., essendo indubbiamente un
buon conoscitore dell'assetto pandettistico del diritto romano, mostrò ed
espresse per la gelida sistematica caratterizzante quest'ultima alla fine del
sec. XIX, cioè ai tempi (1896) in cui egli emigrò verso Monaco di Baviera per
dedicarsi esclusivamente all'arte. Contribuí questa insoddisfazione alla
nascita dell'intimo bisogno, della «innere Notwendigkeit», da cui sbocciò la
sua pittura astrattistica? Questo il Garofalo non lo dice perché sarebbe
troppo azzardato
congetturarlo. Tanto meno lo dico o lo insinuo io. Chi sa però se altri
studiosi non riprenderanno in mano l'argomento per andare piú avanti. Io me lo
auguro. Me lo auguro per due motivi: primo, perché il piacere di studiare il
diritto romano, sia pure non aridamente pandettistico, io non l'ho mai perduto,
anzi l'ho sentito accrescersi col passare degli anni sino al punto che ho man
mano ceduto ad esso ogni altra piú redditizia occupazione; secondo, perché mi
ha molto confortato la lettura di una nota del giusromanista madrileno Paricio
(in Labeo 49 [20031 323 ss.), il quale
ha rivelato di essere stato attratto al diritto di Roma, anche in virtú di un
buon maestro come J. L. Murga, dopo che si era inizialmente dedicato alla
pittura.
5. Testo
E NOTE - Una delle maggiori soddisfazioni date a compenso del resto dalla
maturità di anni e dalla vecchiaia è, per uno studioso che ancora studi e
scriva, la riduzione o addirittura l'eliminazione delle note a pié di pagina o
a fine capitolo. Sono i giovani, e in particolare gli esordienti, a doversi
caricare (in certi casi prendendovi anche gusto) del peso delle note. Note non
soltanto intese a dimostrare che, conoscono perfettamente la bibliografia
relativa al tema trattato, ma anche intesa a mettere in evidenza la loro
sottigliezza nella discussione di ogni minuzia e nella caccia ad ogni possibile
analogia. Passato il tempo (e vinto il concorso a cattedre), le note, specie
quelle voluttuarie, si riducono o dimagriscono sinché, avendo dato sicura (o
quasi sicura) prova della propria esperienza, l'ormai noto studioso può anche
rinunciare all'apparato e pubblicare il malloppo con il solo aiuto di
qualche indicazione sommaria tra parentesi. Naturalmente non è sempre cosí.
Per esempio, Donato Donati, amministrativista insigne, alla documentazione in
nota, caratteristica di certa impettita letteratura tedesca, ha tenuto sempre
moltissimo. Il mio amico e coetaneo Aldo Sandulli (sia detto per incidens
una delle più belle intelligenze giuridiche che io abbia mai ammirato), quando
passo alla scuola patavina del Donati da quella napoletana del maestro Ugo
Forti, si adeguò pienamente e pubblicò un libro memorabile e denso di note
sul procedimento amministrativo, anche se a me, entusiasta estimatore del Forti,
in qualche modo parve che Aldo fosse uno che avesse disimparato a ballare il
valzer evitando di pestare i piedi alla dama e di cozzare nelle coppie
circostanti. II valzer, già. «La vita non è che un valzer/è il giro che
tocca a te». Ma questo lo dice una nota operetta del buon tempo antico. Se ad
un vecchiardo l'affermazione pare seria, o meglio sensata, difficilmente può
prenderla in considerazione un giovane contemporaneo che sia sotto concorso e
che, oltre tutto, il valzer nemmeno lo sa danzare. Forse cambierà idea, il
giovanotto, tra qualche decennio, quando sarà magari professore emerito, vale a
dire giubilato e accantonato. Ma allora, anche se per ipotesi avrà imparato 1'un-due-tre,
il giro che gli tocca sarà sul punto di finire.