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LA CODA DELL'OCCHIO
ANTONIO GUARINO inter amicos 2. - Marzo 2005
SOMMARIO: 1. La saggezza di Pulcinella. - 2. Tiberio a Capri. - 3. Il cavallo di Caligola. - 4. Linguaggi decostruttivi. - 5. 1 vecchi ingombranti. - 6. Le biglie nere.
1. LA SAGGEZZA DI PULCINELLA. - 1. Pulcinella è una ben nota maschera napoletana che ha preso vita da vari secoli (quanto meno a partire dal `600) dentro e fuori dalla commedia dell'arte in Italia e altrove (si pensi al Polizinelle dei paesi germanici, al Pulchinelo di quelli ispanici e sopra tutto al Punch inglese, sempre stimolato dalla bisbetica moglie Duty, che dal 1841 è passato anche a dare il suo nome ad un fondamentale periodico satirico). Non tenterò qui di emulare in dottrina e malizia molti studiosi che al personaggio, hanno dedicato pagine memorabili. Mi basta dire che Pulcinella, a prescindere dal mascherotto nero di cartapesta che gli travisa la parte superiore del volto, si mescola spesso con gli Zanni (bergamasco per Gianni), cioè i personaggi che sulle scene coprono le parti di servi talvolta sciocchi e talvolta furbi o addirittura intelligenti e geniali risolutori di complessi intrighi, ma non è iscritto a tempo pieno nella loro categoria. Diversamente da Arlecchino, Brighella, Truffaldino ed altri, non indossa abiti multicolori, ma è vestito rigorosamente di bianco. Inoltre egli «servente» lo è solo a tratti e, quando lo è, le bastonate dal padrone non le prende a titolo di sanzioni disciplinari, ma a marchio di licenziamento senza indennità. Infatti il suo status normale è quello di disoccupato, di un disoccupato che però non cerca affannosamente lavoro e che (anche se posa ad attribuirlo al fato) preferisce ingegnarsi giorno per giorno a mettere insieme il pranzo con la cena. Dunque vive di stenti, sí, ma è un uomo libero, un uomo rotto a sopportare fintamente le angherie dei potenti, dei sapienti, dei superbi, degli invasori, dei liberatori e sopra tutto dei riformatori (o si dice riformisti?), insomma di coloro che vogliono mettere fine al passato e rimestare ogni cosa con un modernissimo lifting o restyling o altro che sia. La sua esperienza è temprata a fuoco. E quando, a fine rappresentazione o a fine giornata, Pulcinella si toglie la maschera sarà sorpresa solo per chi non lo conosce. Il suo non è il volto di un attore qualunque che ha esaurito il suo compito quotidiano e che si appresta a tornare a casa. No, è il volto stesso di un genuino, «verace» napoletano. Il quale, si sappia, assai raramente, davvero scherza e davvero si diverte. Ne fa solo mostra, con o senza maschera, perché il suo gusto (buono o cattivo che sia) lo porta a rifuggire dai modi esteriori incravattati e austeri della cosiddetta gente seria, di cui è spesso un esponente altrettanto valido. Che faccia bene a comportarsi cosí è un altro conto. Non è raro il caso che, facendo egli cosí, lo si fraintenda, lo si trascuri e peggio. Detto fra noi, non gliene importa un gran che.
2. Ecco ciò che mi dicevo qualche giorno fa dopo la lettura di un elaboratissimo saggio, non ricordo di chi, che in ordine ad un certo argomento di molta rilevanza smuoveva la bibliografia di cielo e terra, ma non prendeva in considerazione, sia pure per parlarne male, quanto avevo scritto io, divergendo alquanto dalla communis opinio, sia nel mio libro su L'ordinamento giuridico romano (5a ed. 1990) sia in breve, ma attento Truciolo del 2003. Forse ha ragione chi severamente esige che libri, capitoli e articoli siano puntigliosamente titolati, che so, Nimesulide con idrossipropilcellulosa e siano supportate da fitte notazioni ad hoc o, quanto meno, da tutte quelle precisazioni e avvertenze che si leggono (o non si leggono) nei cosí detti «bugiardini», cioè nei foglietti inseriti nelle scatolette dei farmaci. Forse ha torto chi (come il sottoscritto) cura di scrivere esatto, ma cura altresí di farsi capire da ogni possibile lettore e di non annoiarlo troppo, tralasciando le citazioni rese inutili da una parentesi o nota di rinvio al libro o all'opuscolo in cui già si trovino diligentemente annotate. E forse era grande la saggezza di Pulcinella, che (rivela la leggenda) scriveva le sue lettere agli amici collegandole in presa diretta col cuore e ammucchiando solo alla fine tutta quanta la punteggiatura richiesta da grammatica e sintassi: dieci o undici virgole, un paio di punti e (non si sa mai) un punto e virgola. Ecco il punto (o punto e virgola, non so). Ad esempio, la gente seria (quella formalmente tale) è portata, in materia di cinema, a prendere in considerazione l'Amleto di Laurence Olivier (1948) o L'uomo di Aran di R. J. Flaherty (1934), ma non anche il filmaccio intitolato Totò, Peppino e la malafemmina di Camillo Mastrocinque (1956). Male, male: lo vada a vedere (è un cult). Lo veda almeno nella scena in cui il napoletano Totò (il grande Antonio De Curtis) detta al fratello Peppino un'importante lettera diretta all'avvenente attricetta di sbrigliati costumi (la «mala-femmina») che ha irretito il loro giovane nipote e che si trova nella nebbiosa Milano («Veniamo con questa mia addirvi una parola. Punto? Due punti: ma sí, fai vedere che abbondiamo. Punto e un punto e virgola. Che non dica che noi siamo provinciali e tirati...»). Non credo che occorrano altre parole per fare intendere, nel segno della saggezza di Pulcinella, quale sia il mio pensiero. Quando ci si dedica ad un tema giusromanistico si legga attentamente tutta la letteratura. Tutta, e particolarmente quella che è scritta in poche e studiatamente semplici parole. Forse c'è dentro qualche scintilla che può essere utile per attizzare il fuoco. Punto, due punti, punto e virgola, punto.
2. TIBERIO A CAPRI. - Lungi da me la fisima di riprendere il vetusto problema della bontà o della malvagità dell'imperatore Tiberio (Tiberio Giulio Cesare Augusto, principe dal 14 al 37 d. C.). Non è un interrogativo che io sappia affrontare (evitando una bibliografia ricchissima, peraltro da tutti conosciuta, rinvio all'ultimo libro che mi è giunto tra le mani, cioè a L. Canali, Delitti e congiure nell'antica Roma (2002) 101 ss.: Tiberio, duro in vita e duro a morire). È stato però proprio questo il patetico problema che si è posto Thomas Spencer Jerome (1864-1914), un avvocato statunitense trasferitosi sul finire del secolo XIX a Capri ed ivi fortemente attratto dal personaggio di Tiberio (Timberio, come lo chiamano ancora molti isolani), che in quel luogo magico aveva risieduto a lungo confermando, pare, quella estrema malvagità di cui sopra tutto parla (buona lingua, si sa) Cornelio Tacito. Uomo di vasta anche se disordinata cultura classica, il Jerome si appassionò particolarmente alla difesa di Tiberio cercando di coinvolgere nella sua tesi anche il mondo dei dotti e l'ambiente caprese del primo Novecento, e progettò un'epigrafe in cui il Senatus populusque Caprensis rendeva al principe rispettoso omaggio, respingendo le «infames posteriorum fabulae» diffuse sul suo conto. II mondo dei dotti rimase indifferente all'iniziativa o annui distratto, ma l'ambiente caprese del tempo, capeggiato dal Parroco don Giuseppe De Nardis, insorse sino al punto di stilare contro la stessa un manifesto (18 giugno 1912) con 154 firme. La lunga contesa è finita con la vittoria postuma di T. S. Jerome e con l'apposizione nel 1985 in Piazzetta, cioè nel cuore di Capri, di una lapide che riproduce il testo latino da lui proposto e in piú esprime in italiano un sentito elogio di questo straniero (uno tra molti) divenuto amante di Capri e suo cittadino spirituale. Ma per saperne di piú bisogna leggere il puntualissimo e godibilissimo libro di un altro caprese di elezione, Carlo Knight (italiano di discendenza inglese), dal titolo L'avvocato di Tiberio. La tormentata esistenza e la quasi tragica morte di Tbomas Spencer Jerome (ed. La Conchiglia [2004] pp. 253). Libro che offre un quadro vario e suggestivo, arricchito da molte fotografie d'epoca in bianco e nero, di una Capri diciamo pure lontana. Di una Capri che non aveva ancora del tutto ceduto al cosmopolitismo di massa favorito dai moderni mezzi di rapido e affollato accesso al suo porticciolo di una volta. Di una Capri semplice e naturale che assai difficilmente tornerà.
3. IL CAVALLO DI CALIGOLA. - Del princeps Tiberio (14-37 d.C.) si può dubitare, e si è giustamente dubitato da vari e autorevoli studiosi, che sia stato un «cattivo», se non sul piano umano almeno su quello politico e costituzionale. Del principe Claudio (41-54 d.C.) pure, anche se ne ha assunto robusta difesa nientemeno che Arnaldo Momigliano. Di Nerone (54-68) non ne parliamo neppure, tanto vasta e ben nota è la letteratura sulla sua persona e sul suo principato. Quanto poi al triennio di Caligola (Caio Giulio Cesare Germanico detto Caligula, 37-41 d.C.), la quasi unanimità degli storici non esita a dargli addosso per le sue nequizie e per le sue strampalerie (io stesso l'ho alquanto sbeffeggiato in una noticina del 1978 intitolata Caligola dei Paperoni, oggi leggibile in PDR. 1 [1993] 467 s.), ma non manca qualche raro indagatore che cerca, almeno in parte, di difenderlo. Lultimo che ha preso la parola a suo favore è stato Aloys Winterling, professore di storia antica e antropologia storica a Freiburg i. Br., in un libro appena tradotto in italiano sotto il titolo Caligola: dietro la follia (2004, pp. 222). A mio personale avviso, nel libro si leggono pagine che inducono ad una cauta rimeditazione di varie fonti antiche alquanto diffamatorie, ma negare il comportamento da cattivone oltre che da matto di Caligola, come cerca di fare il W, è davvero esagerato. Ha fatto bene Luciano Canfora (in Corriere della sera 27 gennaio 2005, p. 31) a scrivere una recensione contraria, anche se forse troppo radicale e impetuosa. Solo che io ricordo di aver pubblicato una volta (1974) un lungo ed elaborato articolo In difesa di Messalina (ora in PDR. I. 267 ss.) e che non pochi amici e colleghi, avendovi gettato uno sguardo meramente accademico, vale a dire distratto, ritennero (e forse tuttora, sempre che di esso si ricordino, ritengono) che io avessi voluto equiparare la dissoluta Messalina al purissimo personaggio di Santa Cecilia, mentre la mia difesa della ben nota imperatrice non era affatto intesa a proclamarne l'innocenza, ma si limitava ad addurre quelle che mi sembravano e mi sembrano talune circostanze attenuanti dei suoi riprovevoli comportamenti. È in memoria di questa mia personale esperienza che mi proverò a fare qualche piccola osservazione in difesa del W Con riguardo specifico alla diffusissima, quasi celebre diceria secondo cui Caligola si sarebbe spinto, nella sua sfrenatezza, sino al punto di nominare senatore il suo cavallo.
2. Leggiamo allora il passo di Svetonio (Cal. 55) che, con l'aggiunta di un passo del piú tardo Cassio Dione (59.14.6), si adduce in proposito. Smodato tifoso delle corse di cavalli e in particolare della scuderia prasina (oggi diremo delle Giubbe verdi), Caligola spesso cenava nel relativo stallaggio, ove dispensava danaro a profusione, sopra tutto all'auriga (agitator) Eurico, indugiandovisi a farsi beffe delle altre tre scuderie in lizza nel circo: la veneta (degli Azzurri), l'alba (dei Bianchi) e la russata (dei Rossi). Vi è di piú. Il giorno prima dei Circensi, quando doveva correre il prodigioso cavallo di nome Incitato, Caligola faceva indire dai suoi militi nel vicinato l'assoluto silenzio per non turbare la tranquillità del destriero. Allo stesso Incitato assegnò inoltre una stalla di marmo, una mangiatoia di avorio, gualdrappe di porpora e finimenti ornati di gemme, anzi giunse a dedicargli un appartamento ben fornito di suppellettili e di un sèguito di famigli, affinché fossero meglio accolte le persone invitate a fargli festa («praeter equile marmoreum et praesepe eburneum, praeterque purpurea tegumenta ac monilia egemmis, domum etiam et familiam et suppellectilem dedit, quo lautius nomine eius invitati acciperentur»). E infine eccoci al culmine: «consulatum quoque traditur destinasse» cioè «si racconta che Caligola favori il cavallo anche con la desti natio al consolato» (fatto che Dione conferma come desiderato ma non realizzato: «promise anche che lo avrebbe designato console, cosa che avrebbe certamente fatto se fosse vissuto piú a lungo»). Orbene, prima di occuparci del senatore o del console mi si concedano due o tre parole sulle benevolenze di Caligola verso il nobile animale Incitato. Che cosa sia il tifo sportivo oggi lo sanno tutti, ma non tutti sanno in che cosa consista o possa consistere anche oggi, sopra tutto da parte di chi ha soldi e potere, il tifo per un cavallo da corsa (galoppatore o trottatore che sia). Lasciamo da parte le ben note costumanze dei contradaioli di Siena, che il cavallo se lo portano addirittura in Chiesa per la benedizione e che, se il cavallo è giunto primo nel Palio, gli fanno festa intorno mangiando e bevendo per una intera notte a tutto spiano. Spostiamoci nell'ambiente anche odierno delle corse equine (galoppo, trotto) e in particolare di quelle sul turf sul tappeto erboso ove si misurano tra loro, montati da un fantino piccolissimo, i purosangue al galoppo. Se guardiamo a questo mondo e alle sue secolari tradizioni, misuriamo bene le parole prima di dare addosso a Caligola. I grandi fantini (ed taluni grandi drivers) di oggi sono trattati piú che cordialmente dai gentlemen, e alcuni tra essi (mettete Lester Piggot) hanno ricevuto anche il titolo di sir da Sua Maestà il re o la regina del Regno Unito. Attorno alle scuderie dei grandi cavalli di oggi regna prima della corsa (anzi solitamente ogni notte) un religioso silenzio per non turbare i campioni. Il sistema nervoso dei cavalli di punta è piú studiato e curato di quello di un commoner e talvolta anche di un lord. Il suo cibo è analizzato, pesato e soppesato con viva attenzione. Idem per qualcosa o qualcuno che sia capace di distrarlo e di fargli stendere i nervi (generalmente una capretta o un cagnolino). Gualdrappe e finimenti non dico. Sul prato i gentiluomini e le gentildonne, compresa Sua Maestà, si muovono solo a piedi, anche se vi è forte pioggia, per onorarli. Alcune tra le vittorie piú illustri di Varenne (trotto), di Ortello e di Ribot (galoppo) sono state celebrate proprio in loro presenza (o stretta adiacenza) da raffinati sportmen con cene e brindisi allo champagne millesimato. Non dico che tutto ciò non sia esagerato, non dico questo. Ma io sono un proletario, mica sono uno della haute: non nasco come Ortello daTeddy e Hollebeck, né tanto meno o come Ribot per linea maschile dal sommo Nearco. Dunque Caligola pazzo mi sta bene, ma fin qui non vedo che cosa si trovi di speciale, quanto alla sua sportività, rispetto ai Caligola inglesi, francesi, americani e, modestamente, italiani dei nostri tempi. Proprio non vedo.
3. Lo speciale sta per Caligola solo nel fatto che, secondo la diffusissima convinzione del pubblico, avrebbe nominato senatore il cavallo Incitato. Ma, per dirla con linguaggio da codice penale, il fatto non sussiste. Ecco la motivazione di questa mia umile, ma convinta sentenza (per il dettagliamento della quale rinvio alla 12.a ediz. [ 1998] della mia Storia del diritto romano, n. 177-180). Primo: il princeps del primo secolo dell'età volgare non nominava i senatori, ma al massimo «destinava» i magistrati (per esempio, i consoli) che, scaduta la carica, sarebbero stati poi scelti (non necessariamente tutti) come membri del senatus. Secondo: ai tempi di Caligola (37-41), di poco posteriori all'epoca cui si attribuisce la Tabula Hebana, la destinatio magistratuum (consoli e pretori) era solo un' autorevole (molto autorevole, sia pure) «raccomandazione» a che nei comitia (sia pure negli smunti comizi dell'epoca) si procedesse all'elezione di certi amici del princeps, mentre solo qualche decennio dopo, e precisamente ai tempi di Svetonio (vissuto a cavallo tra il I e il Il secolo d. C.), il termine «desti natio» si era avviato a diventare (se non era già diventato) il sinonimo di «designazione» dei nominativi che i comizi erano chiamati ad acclamare (significato dive nuto inequivoco nel sec. II, durante il quale l'intervento formale dei comizi non fu nemmeno piú necessario). Terzo: se pur Caligola «destinò» al consolato (non direttamente al senato) il cavallo Incitato, lo fece evidentemente a titolo del tutto a-giuridico e a-costituzionale, cioè a titolo di pura e semplice manifestazione entusiastica e non altro. Quarto: Cassio Dione bevve sino ad un certo punto l'ambigua notizia di seconda mano («traditur») trasmessagli da Svetonio, tanto è vero che nega (avete letto bene?) che Incitato sia diventato mai console e piú tardi senatore. Conclusione: la storiella di Caligola che fece senatore un cavallo è una fola, una balla, un canard. (Lascio a qualche dottorato di ricerca il compito di stabilire se Incitato fosse veramente di proprietà di Caligola e non della scuderia dei Verdi, come semplifica Dione, o se fosse considerato addirittura un soggetto giuridico, come potrebbe far fantasticare Svetonio col suo «dedit». Queste sottigliezze vadano ad altri. Flocci non facio).
4. LINGUAGGI DECOSTRUTTIVI. LIstituto universitario napoletano Suor Orsola Benincasa, dopo altre eccellenti iniziative didattiche messe in atto negli anni scorsi, ha varato quest'anno (2004-2005) anche una Facoltà di giurisprudenza a numero limitato di allievi, impostandola su un programma di corsi ordinari integrato con un ciclo di conferenze svolte da esponenti di altri centri culturali d'Italia. Non pongo in discussione l'idea, che è molto interessante, e tanto meno avanzo critiche e dubbi sul ciclo di «lezioni magistrali», che è affidato a docenti di indiscusso valore in ordine a temi di indiscutibile importanza. Solo un cenno per quanto riguarda il linguaggio con cui viene presentato agli studenti ed agli uomini di cultura il ciclo delle lezioni su Crisi e ridefinizione dei concetti giuridici. Eccolo. «La crisi della sovranità, quale si manifesta a partire dalle costituzioni del secondo `900, è accentuata dai fenomeni geopolitici e socioeconomici determinatisi dopo il 1989, che provocano una deterritorializzazione del potere e dell'ordine, nonché la delocalizzazione dei soggetti e delle sedi giuridiche delle persone. Lo `Stato', lo `spazio', le `persone' non sono piú quelli su cui ha lavorato la scienza giuridica del Novecento. L; inadeguatezza delle categorie giuridiche impone una loro radicale riproblematizzazione, nonché una possibile ridefinizione». Come storico del diritto nulla ho da eccepire alla sostanza di queste proposizioni, essendo addirittura ovvio che i concetti (o pseudo - concetti) giuridici debbano adeguarsi (a guisa di summaria o, se volete, di abstracts) ai progressivi mutamenti del diritto vigente ma mano che essi si verificano. Non si tratta di problemi nuovi da impostare ogni tanto, ma si tratta di problemi sempre aperti (direi quasi giorno per giorno) alla presa io considerazione delle nuove varianti. Come vecchio docente di diritto ai giovani tra i 18 e i 25 anni mi permetto tuttavia di osservare che esprimersi in questo complesso (e non necessario) linguaggio decostruttivo (prendo l'aggettivo a prestito da J. Derrida) espone poco utilmente al rischio di farsi capire da tutti solo a prezzo di grande fatica, con la conseguenza di distrarre e non di attrarre il soggetto (o devo dire la persona?) cui il discorso è destinato, cioè lo studente insomma lo studente.
5. I VECCHI INGOMBRANTI. - Una decina di anni fa, leggendo un bell'articolo di Danilo Dalla sulla vecchiaia nelle fonti giuridiche romane (in Studi sul diritto delle persone [1994] 65 ss), mi chiesi, non so perché, se i vecchi, non parliamo poi dei vecchioni, anche a Roma fossero ritenuti piuttosto ingombranti (cfr. Labeo 41 [1995] 305 ss.). Utili certo per far la guardia ai bambini di casa o per conservare il posto nelle fila dei postulanti di una frumentatio, ma per il resto, eh sí, bisognosi di questo e di quello, magari di un costoso «badante» sia pure di condizione servile. E poi il senatoconsulto macedoniano del sec. I d.C. mi ha fitto in testa il dubbio che in Roma antica, cosí come desumo per il giorno d'oggi da certe cronache sempre piú frequenti di ristrutturazioni familiari operate da giovani impazienti d'ambo i sessi, i figli di famiglia masticassero amaro allorché il padre longevo osasse vantare il diritto di avere ancora e sempre nelle sue mani il patrimonio di famiglia. Masticassero amaro e provvedessero largamente di conseguenza. Come provvedevano? Non sempre mediante flagranti o facilmente accertabili omicidi di sangue (alla maniera di quel tal Macedonio, se cosí si chiamava, che dette la stura al famoso senatoconsulto), ma anche in modi piú soffici: dall'emancipazione ottenuta con l'accompagnamento di anticipi sulla successione sino alla provocazione di una interdictio prodigi del pater integrata dalla nomina di un curatore amico e condiscendente, se non addirittura complice. Che se poi queste molteplici vie si rivelavano tutte impraticabili e la pietas filiale tratteneva dal fare ricorso ad opportuni aconita, vi era sempre la diceria che i vecchi sono due volte bambini (Aristoph. Nuv. .1417) e che la vecchiaia è di per se stessa un morbo (Terent. Phorm. 575), quindi la possibilità di sostenere che il vegliardo fosse rimbambito, pazzerellone, insano di mente e di attendere la sua sottomissione ad un curator furiosi di manica larga. Siccome in età romana il noto cacciatore di interpolazioni Gerhard Beseler non era vivo e attivo, non era poi difficile, con l'aiuto magari di una perizia medica di favore (come anche allora si usava), argomentare «alla triboniana» cioè nel senso che il vecchietto, pur non essendo un inequivocabile furiosus a termini delle XII Tabulae, fosse un tranquillo demenzs, in apparenza normalmente ragionante (e forse, in qualche caso raziocinante sul serio per via di un intervallo di lucidità), purtuttavia sconnesso, intermittente e alle soglie, voi mi capite, dell'Alzheimer. Poveri vecchi romani di una volta, quando non vi era ancora la severa procedura giudiziaria moderna dell'interdizione per malattia mentale e il vostro destino era tutto (o quasi) rimesso alle apparenze, alle voci , ai giudizi piú o meno sereni e interessati dei conoscenti. Forse anche perché aiutato da una certa personale esperienza di avvocato moderno sta di fatto che io vi capisco e ho pietà di voi. Grato al Dalla per avermi chiamato alla mente i vostri problemi, sapete che vi dico? Vi dico e ripeto ciò che vi dissi 10 anni fa. Rispolvererò gli scritti del Beseler.
Adesso, subito, no: ho altre pratiche per le mani. Lanno venturo. («Nemo est tam senex, qui se annum non putet posse vivere»: Cic., De sen. 7.24).
6. LE BIGLIE NERE. - Recentemente ha destato un po' di scalpore a Napoli la vicenda di una nota personalità che, avendo presentato domanda di ammissione in un certo circolo nautico con la «presentazione» (cioè la garanzia) di due eminenti soci «fondatori» dello stesso, è stato inopinatamente rifiutato per effetto di una votazione segreta in cui le biglie bianche a suo favore sono state sopraffatte da un numero inferiore di biglie nere a lui contrarie: ciò perché, a termini di statuto dell'associazione, ciascuna biglia nera aveva il valore di tre biglie bianche. A parte ogni giudizio sul merito della decisione (giudizio che non sono in grado di dare), io penso che l'assegnazione di un valore doppio o triplo ai voti sfavorevoli sia (sempre se prevista espressamente dall'atto costitutivo) una cosa molto apprezzabile per la vita serena di un circolo di intrattenimento sociale o di sport non professionale, quindi deliberatamente alieno da pregiudizi religiosi, tecnici, classisti e di politica applicata. Napoli, città di molti difetti ma di rara inclinazione all'autentica cordialità, di circoli di questo livello ne vanta piú di uno. La loro caratteristica e che i soci si comportano (e sono tenuti, a pena di esclusione, a comportarsi) come uguali e come amici, lasciando nel guardaroba dell'ingresso i loro titoli piú o meno elevati e le loro piú o meno diverse colorazioni politiche. Per ciò che mi concerne, io sono stato lieto (oltre che onorato) di essere stato accolto, in quelli cui ho presentato domanda, con buona prevalenza di biglie bianche. Tengo però ad aggiungere che solo in un caso ho chiesto di essere promosso da socio ordinario a socio fondatore, cioè con diritto di voto. Se mi sono astenuto, varie altre occasioni dall'aspirare al passaggio, e stato perché sono abbastanza consapevole di una certa mia rigidità di carattere e sono quindi incline ad evitare, quando non mi paia strettamente doveroso, funzioni e cariche (anche accademiche) che, tutto sommato, mi porterebbero, per evitare scontri e diverbi (che detesto), a dimissioni. È anche per ciò che ho contribuito (credo, abbastanza validamente) alla fondazione o alla rifondazione di tre riviste (Diritto e giurisprudenza dal 1946, Iura dal 1950, Labeo dal 1955), ma quando è venuto il momento in cui non ho saputo o potuto efficacemente collaborare alla loro vita, facendo valere il mio punto di vista, ho comunicato il mio ritiro dalle funzioni di condirettore. Mi è dispiaciuto, ma meglio cosí.