LA CODA DELL'OCCHIO

antonio guarino        inter amicos     3. - Maggio 2005

 

sommario: 1. Le conferenze. — 2. Il «pruritus emendandi». — 3. // «debito coniugale». — 4. Pavia, Ferrini e la guarigione improvvisa. — 5- II professar Derselbe. — 6. «Aliud simulatum,, aliud actum». — 7. Gegè alla guerra.

 

1. le conferenze. — Le conferenze, intese come discorsi a carattere culturale basati sulla lettura di un testo, sono state una delle maledizioni della mia vita. Evitarle, dato il mestiere che faccio, mi è stato spesso, molto spesso impossibile: sia in sede di far play universitario e culturale in genere, sia in sede di convegni scientifici (moltissimi) cui sono stato indotto a partecipare durante la mia lunga vita. E non mi riferisco soltanto all'ascoltazione passiva delle conferenze degli altri, ma alludo anche all'imba­razzo creatomi dalle conferenze che io stesso sono stato tenuto a fare in certe occasioni accademiche (basti pensare alle prolusioni e alle commemorazioni solenni, nelle quali la smaccata lettura di un manoscritto, come si sa, è d'obbligo). Ma mettiamo da parte la mia personale preferenza per le allocuzioni «a braccio» (anche se in realtà, lo confes­so, sempre preparate nella sostanza sino alle minuzie) e fermiamoci sulle letture ascol­tate passivamente e senza l'opportunità o il coraggio di alzarsi dalla propria poltrona e fuggire dopo un quarto d'ora all'aperto. Giacomo Leopardi ha scritto in proposito uno dei suoi Pensieri, il ventesimo, più acuti (anche se, debbo dirlo, tirato forse un po' troppo per il lungo), avendo particolare riguardo a quella «specialità» delle conferenze che consiste (oggi, fortunatamente, non tanto diffusa quanto in tempi passati) nella lettura ad amici e conoscenti di proprie pagine di prosa o addirittura, orrore, di versi. Già Orazio, concludendo la sua Ars poetica (v. 472 - 476), proclamava che lo spietato dicitore delle proprie creazioni letterarie è pari ad un orso evaso dalla gabbia che fa fuggire a gambe levate ignoranti e dotti, tuttavia basta che ne afferri qualcuno e allora lo tiene ben fermo e leggendo lo uccide velut ursus, /  obiectos caveae valuit si frangere clathos, /  indoctum doctumque fugat recitator acerbus, /quem vero arrìpuit, tenet occiditque legenda»). Il Leopardi, per vero, alla diagnosi funesta della morte del paziente ascoltatore non ci arriva, ma sostiene che Ottavia, la sorella di Augusto, quando Virgilio le lesse i commoventissimi versi dell’Eneide sulla morte prematura del di lei figlio Marcello non cadde svenuta per l'emozione e il dolore (come vuoi farci credere il biografo del poeta Elio Donato), ma è credibile sia venuta meno «per la noia del sentir leggere»: ipotesi che a me sembra tanto più fondata in quanto, ne sono sicuro, Virgilio non risparmiò ad Ottavia, prima di giungere all'episodio di Marcello, la lettura degli ottocentocinquantaquattro versi che nel canto sesto venivano prima di quelli (6.855-856) che concernevano il triste avvenimento. In vita mia ho conosciuto una sola persona capace di resistere impassibile a conferenze di qualunque argomento, lingua e durata, ed e stato il mio carissimo amico Cesare Sanfilippo. Ma Cesare, essendo dotato di un viso di minima mobilita che era come intagliato nel legno, approfittava dell'occasione per addormentarsi compostamente sino alia fine, fidando in me che lo avrei tempestivamente svegliato con un lieve strattone alla giacca, si da dargli il modo di partecipare all'applauso di chiusura ed anche di passare a complimentarsi misuratamente con 1'oratore. Comunque casi simili sono più unici che rari e la sola cosa che può fare chi ha la sventura di subire una conferenza è di pensare ad altro, magari contando mentalmente il numero dei capi di un gregge immaginario di mille, duemila, diecimila pecore. Se il conferenziere ti obbliga a superare il totale di diecimila, penso pero che si abbia tutto il diritto di levarsi in piedi e di indirizzargli a voce chiara e sostenuta qualche termine scelto del Dizionario degli insulti (1990) di Giovanni Lotti: da «abbacone» (persona che almanacca troppo col cervello) a «inzallanuto» (rimbambito), a «melenso» (fastidiosamente insulso), a «pachiochio» (sciocco di tre cotte), a «parabolano» (ciarliero senza costrutto, sbruffone), a «trombone» (enfatico diffonditore di idee assolutamente banali, trite e inconsistenti), a «zuzzurellone» (ultimo, in ordine alfabetico, tra i perdigiorno e imbecilli previsti dalla lingua italiana). Sconsiglierei di andare oltre questi limiti, come pur si potrebbe. A prescindere dalle reazioni di carattere penale e civile che tutti sanno, si indurrebbe il conferen­ziere a far capo anch'egli ai Pensieri leopardiani, la dove si legge (n. 57): «Gli uomini si vergognano, non delle ingiurie che fanno, ma di quelle che ricevono; per6 ad ottenere che gli ingiuriatori si vergognino, non v'e altra via, che di rendere loro il cambio». E allora chi potrebbe togliere all'offesissimo conferenziere la possibilità di qualificare legittimamente 1'ascoltatore impaziente come «attarantato» (furiosamente irrequieto e smanioso), o perlomeno come «incazzereccio» (suscettibile oltre misura, con forte inclinazione all'ira e alle scenate)?

 

2. il «pruritus emendandi». -1. Nel processo di apprestamento dell'edizione critica delle fonti antiche alla fase iniziale della collezione dei resti materiali ad esse relative (fase spesso molto impegnativa e controvertibile) fa seguito la fase dell' emendatio, cioè della correzione in sede paleografica e in sede congetturale dei testi materialmente ricomposti. Questa seconda operazione è praticamente infinita  perché è aperta a sempre nuovi rilievi e miglioramenti (almeno nelle intenzioni) di lettura: sia quanto alle lacune sia quanto alle ambiguità di frasi o parole. Il pruritus emendandi (come lo chiamava Giorgio Pasquali) dovrebbe aver confine nel cosiddetto buon senso, ma non è facile mettersi d'accordo, quando si scenda sul terreno, circa il buon senso (si o no) di una scelta interpretativa. All'incirca può dirsi questo. Nel secolo XIX (epoca di grande fervore filologico praticato soprattutto nei paesi germanici) sicuramente si è esagerato nell'emendatio, ma nel secolo successivo vi e stata una progressiva e salutare rimeditazione all'insegna della prudenza, ciò anche in materia di fonti giuridiche romane e di relative interpolazioni. Salvo che al giorno d'oggi la tendenza prevalente è forse quella di cedere troppo alle istanze della cautela ed è spesso, ahi noi, quella deplorevolissima di non studiare con attenzione i motivi addotti dai sanguigni emendatori dell'800 e del primo 900, se non addirittura di ignorarli oppure (questo da parte dei più incolti e cretini tra gli studiosi, specie se giusromanisti) di disprezzarli. Tanto premesso, mi ha fatto comprensibile piacere, scorrendo i Rendiconti dell'Accademia deiLincei (Sc. mor.  9.15 [2004] 327 ss.), di incontrarmi con un articolo di U. Pannuti (Sul testo di un passo di Vitruvio) che il suo dovere di filologo lo ha onorato con serietà e diligenza. Non importa se mi pare di poter giungere in questo caso a congetture più conservative. Può darsi che abbia torto, tanto più che non sono competente di architettura ne sono in grado di esprimere giudizi personali (indipendenti dalla communis opinio) sul valore letterario di ciò che è pervenuto a noi del trattato De Architectura  pubblicato in età augustea da M. Vitruvio Pollione. Può darsi. Ma diamo uno sguardo da vicino al passo 4.1.9-10 nell'edizione Gros (1997).

2. Al capitello della colonna corinzia Vitruvio (come fa non di rado allo scopo di evitare la soverchia aridità del discorso tecnico) dedica un siparietto aneddotico, que­sto: «Eius autem capituli prima inventio sic memoratur esse facta. Virgo civis Corinthia  iam matura nuptiis implicata morbo decessit: post sepulturam eius, quibus ea virgo poculis delectabatur, nutrix collecta et composita in calatho pertugit ad monumentum et in summo conlocavit et, uti ea permanerent diutius subdiu, tegula texit». Non è proprio del miglior latino, ma la pennellata è abbastanza chiara. In relazione al tipico capitello corinzio si racconta che 1'idea derivò dall'iniziativa della nutrice di una fanciulla in età da marito che era morta di un male sopravvenutole (evidentemente prima di sposarsi); la buona donna, dopo la sepoltura e 1'erezione del monumentum commemorativo sovrastante, ebbe il gentile pensiero di raccogliere e sistemare in un canestro tutti i recipienti di cui quella fanciulla si dilettava (pocula quibus virgo delectabatur) ed anche di coprire il canestro con una tegola per ripararlo dalle intemperie. Semplice o no? No, ha risposto nel 1836 1'autorevole L. Marini, perché poculum (da poto-potare) non significa recipiente in generale, ma significa recipiente di un liquido (acqua, vino ecc.) destinato ad essere bevuto e non si capisce come mai la nostra fanciulla si dilettasse (delectabatur) con vari, forse molti bicchieri ingorgandosi non solo di acqua ma, chissà, anche di vino e di altre bevande licenziose (sopra tutto per le donne dabbene). Di qui un empito di considerazioni stranissime di altri editori e studiosi successivi. Un fiume di stranezze (in qualche caso addirittura bambinate) intese ad escludere che la giovane corinzia fosse assidua bevitrice di alcolici: stranezze delle quali faccio grazie al lettore rinviando i curiosi al diligentissimo catalogo stesone dal Pannuti. Tuttavia anche il Pannuti trova il riferimento ai pocula inammissibile e difende 1'emendazione di «pupulis», nel senso che la fanciulla corinzia si dilettasse a collezionare pupalae, piccole pupae, bambolette (pupulis delectabatur). A questo punto io non resisto e mi permetto di opporre a chi non vi ha già pensato che la virgo Corinthia era una signorina in età da marito e che a quell'età le fanciulle si preoccupano ab antique di accalappiare un partner, per il che si vestono, si adornano e si fanno accuratamente il trucco allo scopo di essere più seducenti. Altro che bevute, altro che bambole. Fermiamoci sul trucco, sul make-up. Nell'antica Corinto e nell'antica Roma mica esistevano le profumerie, le boutiques con i prodotti di Coco Chanel o di Este'e Lauder. I vasetti di porcellana, i tubetti, gli spray e via dicendo erano sconosciuti. Tutto il materiale occorrente per truccarsi si preparava in casa, rimestando sostanze solide con liquidi e ottenendo piccoli quantitativi di cosmetici: piccoli perchè da conservare freschi per alcuni (non troppi) giorni dentro vasi, vasetti e, perchè no?, bicchieri di varia grandezza. Prima di vestirsi ed uscire in pubblico le donne eleganti (chi non lo sa?) non solo si pettinavano e si depilavano, ma si spalmavano vari tipi di biacca: rossa (in diverse gradazioni) su guance e labbra, bianca sulle altre parti visibili del corpo (faccia, collo, petto, spalle). Ne1 omettevano, le donne antiche, di ombrarsi gli occhi con nerofumo e di tintare appropriatamente ciglia e sopracciglia. Certo, potevano anche non farlo e non avvelenarsi con le sostanze occorrenti a questi intrugli, cioè particolarmente con creta, terra d'ocra, fuliggine e, si badi, feccia di vino. E perciò che la fanciulla corinzia, se si truccava, di tutti questi prodotti e di molteplici recipienti (pocula) faceva un uso non necessario ma voluttuario: delectabatur. Dispiace, ma prendersela con i pocula nominati alla grossa da Vitruvio per indicare i contenitori dei cosmetici liquidi, semi-liquidi, cremosi ed in polvere significa, cedere troppo facilmente al pruritus emendandi. Vitruvio, era solo un esperto di architettura, non un raffinato femminiere come Ovidio Nasone.

 

3. il «debito coniugale». -I giornali del 23 marzo 2005 (giusto il giorno del Venerdì  Santo) hanno messo in grande evidenza una sentenza della Cassazione civile che ha confermato una separazione coniugale per colpa del marito, essendosi questo smaccatamente e a lungo sottratto all'adempimento del così detto «debito coniugale» nei confronti della consorte. Naturalmente non sono mancate le battute, le allusioni da avanspettacolo e i corsivetti più o meno spiritosi di commento. Come vecchio avvocato segnalo che il caso giudiziario non è tanto nuovo e non è tanto semplice come pu6 parere a tutta prima ma si inquadra sempre, in realtà, entro un rapporto matrimoniale ben altrimenti litigioso e complesso. E dico questo anche a prescindere dal fatto che in certi contratti paramatrimoniali del mondo dei V.I.P. la questione dei rapporti sessuali (numero, tempi, qualità) è talvolta minutamente regolata a priori: famosissimo quello tra Jacqueline vedova Kennedy e 1'armatore Onassis. Piuttosto colgo 1'occasione per ricordare che molti anni fa la magistratura giudicante la fece davvero grossa. Fu la Corte di Appello di Napoli a condannare in sede penale (non ricordo se con reclusione sino a un anno o con congrua multa) il rifiuto dell'amplesso coniugale di un marito, inquadrandolo addirittura nella fattispecie di reato prevista dall'ar-ticolo 570 cod. pen., cioè nel delitto di «violazione degli obblighi di assistenza familiare». Un mio giovane amico si gettò sulla sentenza per presentarla a titolo di «tesina» nel suo esame di laurea. Ma in commissione c'era Alfredo De Marsico, grandissimo maestro di diritto penale e gran signore sul piano intellettuale, che si rifiuto di discutere la tesina col candidato. Disse: «Noi penalisti siamo tenuti ad occuparci in tribunale di tutte le porcherie possibili e immaginabili, ma in Università è diverso: rispettiamo il buon gusto». (Per la cronaca: la sentenza napoletana venne poi cassata dalla Corte suprema).

 

4. pavia, ferrini e la guarigione improwisa. - L'amico Dario Mantovani, professore a Pavia e promotore della raccolta di scritti dedicati a Contardo Ferrini nel centenario della morte (2003), mi ha inviato, quasi a titolo di dubbio su certi dubbi da me manifestati nell'articolo Contardo Ferrini e gli studenti (ivi 93 ss.), alcune pagine (44-51) stralciate in fotocopia dalla seconda edizione (senza data, ma sicuramente posteriore alla beatificazione del 1947) di un libro di Innocenzo Cappa. Il libro ha per titolo Confessioni di un parlatore e dev'essere stato pubblicato in prima edizione (non sono in grado di essere più preciso) intorno al 1930, quando il Cappa (1875 -1954) aveva chiuso la sua carriera di deputato (inizialmente repubblicano, dal 1913) e aveva ottenuto (1929) la nomina a senatore del regno. Giustamente rinomato come amabile conversatore (come «parlatore» appunto), Innocenzo Cappa viveva tra Milano e Roma ed aveva studiato giurisprudenza a Pavia tra il 1895 e il 1899, quando a Milano ancora non c'erano 1'Università statale e, tanto meno, la Cattolica. Studi i suoi, egli ammette, piuttosto avventurosi, ma che gli diedero modo di osservare con acutezza tutto il mondo universitario pavese, popolato di docenti di buono (e certuni di ottimo) rilievo scientifico tenuti a misurarsi con una massa studentesca, molto vivace nel pieno di tempi socialmente, e notorio, agitatissimi. Ferrini fu da tutti (e in specie da un caro e influente amico di nome Mussi) indicato a lui, che era oramai agnostico, come uomo pieno di fervore religioso, ma anche come docente solerte («la sua era 1'eloquenza della purità; quel suo parlare lento, dolce, chiaro che sembra esprima il sereno fluire delle idee»). Ed ecco, sempre a proposito del Ferrini, un brano degno (vedrete) di particolare riflessione. «Quando il Mussi gli fece sapere che i miei occhi erano molto malati e che purtroppo non si sperava di poterli guarire (e invece guarii miracolosamente nel 1899) egli pregò anche per me e quando tremante per la mia difficile preparazione mi presentai agli esami si levò dalla sua cattedra, mi venne incontro e mi disse di non temere troppo perché  sapeva con chi e come mi ero preparato. Pareva, interrogandomi, che per un prodigio d'intuizione scegliesse le tesi nelle quali ero preparato meglio. Fuori dall'aula, ad esame finito con votazione soddisfacente e meritata, trovai il Mussi che stava aspettando. Ci domandammo se ad educare i giovani non fosse più utile dell'agnostico Negri quel Ferrini, che riusciva a conciliare in la raffinata concezione del diritto dei pagani e la certezza di una fede cristiana che noi non possedevamo gia più. Per due giovani eterodossi di quarant'anni fa quell'ammissione di una possibile superiorità della fede costituiva un miracolo prodotto dalla carità, eroica in senso cristiano, di Contardo Ferrini». Lascio al lettore la difficile riflessione su questo brano, limitandomi solo a sottolineare che la inaspettata guarigione della vista del Cappa avvenne dopo la fine del periodo universitario pavese, nel 1999.

 

5. il professor derselbe. - Nello stralcio delle Confessioni di un parlatore di Innocenzo Cappa, del quale ho parlato poc’anzi (n. 4), vi e un altro brano degno di nota (p. 49). Esso è relativo ad un dottissimo e vivacissimo docente universitario pavese, Ugo Mazzola, nato a Napoli nel 1843 e morto suicida nel 1899. Di lui, studioso di materie economiche e finanziarie, dice il Cappa: «cultura di eccezione, aveva scoperto in frode Francesco Saverio Nitti per la citazione di un autore non mai esistito, perchè quello che al Nitti era parso il nome di un autore non era che la locuzione tedesca indicante ‘il medesimo autore'. Nitti aveva acquistato (per farla sparire dal mercato) tutta 1'edizione dell'opuscolo in cui il Mazzola lo indicava come un facilone, e il Mazzola non si era dato la pena di ripubblicare il volume. 'La bestialità umana, mi disse, è invincibile e don Saverio farà purtroppo molta carriera nella politica italiana'. Mentre da un lato doverosamente avverto che non ho avuto la pazienza di riscontrare sulle fonti la verità di quanto è materia dell'aneddoto, dall'altro lato faccio (nella presunzione della veridicità del racconto) due rilievi. Primo: il Nitti della vicenda è quel Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868 - Roma 1953) che ottenne la cattedra di Scienze delle finanze a Napoli nel 1898, ma che si affretto a tralasciare i frettolosi studi scientifici per darsi a tutto corpo alla politica e divenne deputato (dal 1904), più volte ministro e infine Presidente del Consiglio (tra il 1919 e il 1920), dopo di ché fu travolto dal fascismo nel 1922 e ricomparve senza più molto successo nel secondo dopoguerra. Secondo: non si sa se altri prima del Nitti sia incorso nell'equivoco del germanico professor Derselbe. Stando a diffuse dicerie malevoli del mondo accademico italiano, il Derselbe si troverebbe citato da molti giovani e vecchi ricercatori e si sarebbe dimostrato, attraverso queste incaute citazioni, conoscitore autorevole delle più svariate materie. Per una storia di lui e dei suoi successi in Italia (e altrove) occorrerebbe consultare gli «indici degli autori» di molte migliaia di volumi. Se vi è qualcuno che pensa che valga la pena, lo faccia. Perché no?

 

6. «aliud simulatum, aliud actum». -1. Federico d'Ippolito è un giusromanista di grande finezza che, a mia personale avviso, ha il pregio di due difetti: quello di scrivere i suoi libri ed articoli con grande cura della laconicità e quello di dedicare non poco del suo tempo e del suo ingegno alla valorizzazione dei maestri e amici cui e rimasto indelebilmente affezionato (De Martino, Lauria, Casavola). Insomma, un uomo ed uno studioso altamente per bene cui però mi stupisce che possa far meravi­glia il non essere talvolta citato da altri come autore di un saggio o di un'ipotesi ricostruttiva quando sia evidente che si sia attinto proprio al suo pensiero. Di siffatta meraviglia (se non addirittura di un tantino di irritazione) egli fa mostra in una noticina dal titolo Insidie manualistiche, pubblicata in Index 32 (2004) 254 s., segna­lando che nel volumetto a più autori di Diritto privato romano: un profilo storico (cur. A. Schiavone [2003] p. 511) da un lato « si riconosce» in almeno tre punti, ma dall'altro constata di non essere citato «né in nota né nell'apparato bibliografico». Non approfitto della contingenza per lamentarmi, forse a maggior ragione, del fatto che quantomeno nel cosiddetto «apparato bibliografico» di quel manualetto sono omesse le citazioni di tutte, dico tutte le trattazioni generali da me pubblicate in svariati decenni e in numerose edizioni sulla storia del diritto romano, sulle fonti di conoscenza dello stesso e, in particolare, nel mio Diritto privato romano, la cui dodi­cesima edizione (2001, p. 1107) è stata aggiornata nel 2002 e nel 2004 con due fascicoletti supplementari che informano i lettori sino a tutto il 31 dicembre 2003: un'omissione tanto accidentale da essere ai miei occhi quasi divertente. Mi limito a ricordare al d'Ippolito che l'economia del «profilo» esclude che nelle note a piè di pagina, quando vi sono, vengano (salve rare eccezioni) citati anche gli autori, mentre, dal suo canto, l'apparato bibliografico generale certe trattazioni d'insieme (buone o cattive che siano) non dovrebbe decentemente ignorarle. Suggerirei quindi all'amico d'Ippolito di desistere dalla querelle e di non pensarci più.

2. Già. Ma che succedendo? Sta succedendo che con il suo articolo il d'Ippolito, per dirla con una metafora napoletana, ha messo il campanello al collo della gatta ('o campaniello 'incann' 'a gatta), cioè ha destato la mia attenzione, inducendomi (con il campanellino che mi si agita al collo) a scuotermi dalla mia gattesca «terzietà», ed a chiedermi, almeno in ordine ad uno soltanto dei tre argomenti da lui indicati, se abbia ragione lui o sia più attendibile la communis  opinio. Quest'ultima (cfr. Guarino, DPR. n. 24.5.3) è orientata decisamente nel senso che l'actio de dolo sia stata introdotta nell'editto pretorio dal giurista Aquilio Gallo in occasione della sua pretura del 66 a. C., ma il d'Ippolito (da ultimo: Sulla data dell'a. de dolo, in Labeo 41 [1995] 274 ss.) acutamente obbietta: se è vero che ciò possa dedursi da una prima lettura di Cicerone De off: 3.14.60, bisogna peraltro tener conto che Cic. De nat. deor. 3.30.74 (operetta a forma di dialogo scritta poco prima de De officis nello stesso anno 45 a.C.) mette in bocca al personaggio di C. Aurelio Cotta (cos. 75 a.C.), il quale (si badi) figura parlante nell'anno 77 o 76 e cioè circa un decennio prima della pretura di Aquilio Gallo, gli mette in bocca, dicevo, la dichiarazione che l'actio de dolo, tirata in ballo da C. Aquilio, spazzò via ogni incertezza circa il senso di «aliud simulatum, aliud actum» da attribuire alle malizie prave nei rapporti d'affari («... inde everrìculum malitiarum omnium iudicium de dolo malo, quod C, Aquilius familiaris  noster protulit, quem dolum idem Aquilius tam temere putat cum aliud sit simulatum, aliud actumt>). Evidentemente suggestionato da questa obbiezione, 1'autore della p. 408 e nt. 62 del profilo (per 1'esattezza, 1'ottimo V. Marotta) ha scritto che nei iudicia stricta la condanna poteva essere evitata dal deceptus, cioe dalla vittima di un raggiro, «soltanto mediante 1'inserzione della formula dell'exceptio doli, un rimedio introdotto dal pretore intorno all' 80 avanti Cristo» (e «non gia dunque, nel 66 ecc.»). Peraltro io direi che non è detto che exceptio doli sia stata accolta nell' edictum iurisdictionis unitamente all’actio doli e che il problema posto dal d'Ippolito concerne 1'introduzione dell'azione, non dell'eccezione (la quale può ben essere stata concessa prima, in considerazione delle presumibilmente frequenti doglianze dei convenuti che fossero stati o che comunque si ritenessero decepti). Quanto all'introduzione dell'actio de dolo, i dubbi del d'Ippolito sulla data mi sembrano persuasivi. Beninteso, sino ad argomentazione contraria più persuasiva ancora. (Non si monti la testa, il caro d'Ippolito: e finita 1'era di quel tale di cui si diceva che «ha sempre ragione»).

 

7. gegè alla guerra. - II primo aprile del 2005 e morto ottantasettenne il napoletanissimo Gegè Di Giacomo, fantasioso e indimenticabile batterista del trio orchestrale Carosone, famoso in tutto il mondo. Era nato col genio del tamburo, dei piatti e di tutto il resto. Aveva esordito come Mozart, a cinque o sei anni. Intorno al 1925 un certo don Ciccio, proprietario di un cinema popolare, lo assunse con 1'incarico di «accompagnare» con fragori adeguati il film muto La grande parata di King Vidor ed altri consimili filmaccioni di guerra. Gegè ce la mise tutta, ma si accorse che per sonorizzare certe tremende battaglie la sua sola batteria non bastava. «Don Ci', io 'a guerra nun 'a pozzo fa’ da solo», disse. E don Ciccio gli concesse raccompagnamento di altri due giovanissimi con grancassa e «tricca-ballacca», non ché di un terzo che fischiava meravigliosamente 1'arrivo, prima del bum, degli shrapnels.