antonio guarino inter amicos 3. - Maggio 2005
sommario: 1. Le conferenze. 2. Il «pruritus emendandi». 3. // «debito coniugale». 4. Pavia, Ferrini e la guarigione improvvisa. 5- II professar Derselbe. 6. «Aliud simulatum,, aliud actum». 7. Gegè alla guerra.
1. le conferenze.
Le conferenze, intese come discorsi a carattere culturale basati sulla
lettura di un testo, sono state una delle maledizioni
della mia vita. Evitarle, dato il mestiere che faccio, mi è stato spesso, molto
spesso impossibile: sia in sede di far play universitario e culturale in
genere, sia in sede di convegni scientifici (moltissimi) cui sono
stato indotto a partecipare durante la mia lunga vita. E
non mi riferisco soltanto all'ascoltazione passiva delle conferenze degli
altri, ma alludo anche all'imbarazzo creatomi dalle conferenze che io stesso
sono stato tenuto a fare in certe occasioni accademiche (basti pensare alle
prolusioni e alle commemorazioni solenni, nelle quali la smaccata lettura di un
manoscritto, come si sa, è d'obbligo). Ma mettiamo da parte la mia personale
preferenza per le allocuzioni «a braccio» (anche se in realtà, lo confesso, sempre preparate nella sostanza sino alle
minuzie) e fermiamoci sulle letture ascoltate passivamente e senza
l'opportunità o il coraggio di alzarsi dalla propria poltrona e fuggire dopo un
quarto d'ora all'aperto. Giacomo Leopardi ha scritto in proposito uno dei suoi Pensieri,
il ventesimo, più acuti (anche se, debbo dirlo,
tirato forse un po' troppo per il lungo), avendo particolare riguardo a quella
«specialità» delle conferenze che consiste (oggi, fortunatamente, non tanto
diffusa quanto in tempi passati) nella lettura ad amici e conoscenti di proprie
pagine di prosa o addirittura, orrore, di versi. Già Orazio, concludendo
la sua Ars poetica (v. 472 - 476), proclamava che lo spietato dicitore
delle proprie creazioni letterarie è pari ad un orso evaso dalla gabbia che fa
fuggire a gambe levate ignoranti e dotti, tuttavia basta che ne afferri qualcuno
e allora lo tiene ben fermo e leggendo lo uccide («velut
ursus, / obiectos caveae valuit si frangere clathos,
/ indoctum doctumque fugat recitator acerbus, /quem vero arrìpuit, tenet occiditque legenda»). Il
Leopardi, per vero, alla diagnosi funesta della morte del paziente ascoltatore
non ci arriva, ma sostiene che Ottavia, la sorella di Augusto,
quando Virgilio le lesse i commoventissimi versi dellEneide
sulla morte prematura del di lei figlio Marcello non cadde svenuta per
l'emozione e il dolore (come vuoi farci credere il biografo del poeta Elio Donato), ma è
credibile sia venuta meno «per la noia del sentir leggere»: ipotesi che a me
sembra tanto più fondata in quanto, ne sono sicuro, Virgilio non risparmiò ad
Ottavia, prima di giungere all'episodio di Marcello, la lettura degli
ottocentocinquantaquattro versi che nel canto sesto venivano prima di quelli
(6.855-856) che concernevano il triste avvenimento. In vita mia ho conosciuto
una sola persona capace di resistere impassibile a conferenze di qualunque
argomento, lingua e durata, ed e stato il mio carissimo amico Cesare Sanfilippo. Ma Cesare, essendo dotato di un viso di minima
mobilita che era come intagliato nel legno, approfittava dell'occasione per
addormentarsi compostamente sino alia fine, fidando
in me che lo avrei tempestivamente svegliato con un lieve strattone alla
giacca, si da dargli il modo di partecipare
all'applauso di chiusura ed anche di passare a complimentarsi misuratamente con
1'oratore. Comunque casi simili sono più unici che
rari e la sola cosa che può fare chi ha la sventura di subire una conferenza è
di pensare ad altro, magari contando mentalmente il numero dei capi di un
gregge immaginario di mille, duemila, diecimila pecore. Se il conferenziere ti
obbliga a superare il totale di diecimila, penso pero che si abbia
tutto il diritto di levarsi in piedi e di indirizzargli a voce chiara e
sostenuta qualche termine scelto del Dizionario degli insulti (1990) di
Giovanni Lotti: da «abbacone» (persona che almanacca
troppo col cervello) a «inzallanuto» (rimbambito), a
«melenso» (fastidiosamente insulso), a «pachiochio»
(sciocco di tre cotte), a «parabolano» (ciarliero
senza costrutto, sbruffone), a «trombone» (enfatico diffonditore di idee
assolutamente banali, trite e inconsistenti), a «zuzzurellone» (ultimo, in
ordine alfabetico, tra i perdigiorno e imbecilli previsti dalla lingua
italiana). Sconsiglierei di andare oltre questi limiti, come pur si potrebbe. A
prescindere dalle reazioni di carattere penale e civile che tutti sanno, si indurrebbe il conferenziere a far capo anch'egli ai Pensieri
leopardiani, la dove si legge (n. 57): «Gli uomini si vergognano, non delle
ingiurie che fanno, ma di quelle che ricevono; per6 ad ottenere che gli
ingiuriatori si vergognino, non v'e altra via, che di rendere loro il cambio». E allora chi potrebbe togliere all'offesissimo conferenziere
la possibilità di qualificare legittimamente 1'ascoltatore impaziente come «attarantato» (furiosamente irrequieto e smanioso), o
perlomeno come «incazzereccio» (suscettibile oltre
misura, con forte inclinazione all'ira e alle scenate)?
2. il
«pruritus emendandi». -1.
Nel processo di apprestamento dell'edizione critica delle fonti antiche alla
fase iniziale della collezione dei resti materiali ad esse relative (fase
spesso molto impegnativa e controvertibile) fa seguito la fase dell' emendatio, cioè della correzione in sede
paleografica e in sede congetturale dei testi materialmente ricomposti. Questa
seconda operazione è praticamente infinita perché è aperta a sempre nuovi rilievi e
miglioramenti (almeno nelle intenzioni) di lettura: sia quanto alle lacune sia
quanto alle ambiguità di frasi o parole. Il pruritus
emendandi (come lo chiamava Giorgio
Pasquali) dovrebbe aver confine nel cosiddetto buon senso, ma non è
facile mettersi d'accordo, quando si scenda sul terreno, circa il buon senso
(si o no) di una scelta interpretativa. All'incirca può dirsi questo. Nel
secolo XIX (epoca di grande fervore filologico
praticato soprattutto nei paesi germanici) sicuramente si è esagerato nell'emendatio, ma nel secolo successivo vi e
stata una progressiva e salutare rimeditazione
all'insegna della prudenza, ciò anche in materia di fonti giuridiche romane e
di relative interpolazioni. Salvo che al giorno d'oggi
la tendenza prevalente è forse quella di cedere troppo alle istanze della
cautela ed è spesso, ahi noi, quella deplorevolissima
di non studiare con attenzione i motivi addotti dai sanguigni emendatori
dell'800 e del primo 900, se non addirittura di ignorarli oppure (questo da parte dei più incolti e cretini tra gli studiosi, specie
se giusromanisti) di disprezzarli. Tanto
premesso, mi ha fatto comprensibile piacere, scorrendo i Rendiconti
dell'Accademia deiLincei (Sc. mor. 9.15 [2004] 327 ss.), di incontrarmi con un
articolo di U. Pannuti (Sul testo di un passo di Vitruvio) che
il suo dovere di filologo lo ha onorato con serietà e diligenza. Non
importa se mi pare di poter giungere in questo caso a congetture più
conservative. Può darsi che abbia torto, tanto più che
non sono competente di architettura ne sono in grado di esprimere giudizi
personali (indipendenti dalla communis opinio) sul valore letterario di ciò che è pervenuto a
noi del trattato De Architectura pubblicato in età augustea
da M. Vitruvio Pollione.
Può darsi. Ma diamo uno sguardo da vicino al passo
4.1.9-10 nell'edizione Gros (1997).
2. Al capitello della colonna corinzia Vitruvio (come fa non di rado allo scopo di evitare la soverchia aridità del discorso tecnico) dedica un siparietto aneddotico, questo: «Eius autem capituli prima inventio sic memoratur esse facta. Virgo civis Corinthia iam matura nuptiis implicata morbo decessit: post sepulturam eius, quibus ea virgo poculis delectabatur, nutrix collecta et composita in calatho pertugit ad monumentum et in summo conlocavit et, uti ea permanerent diutius subdiu, tegula texit». Non è proprio del miglior latino, ma la pennellata è abbastanza chiara. In relazione al tipico capitello corinzio si racconta che 1'idea derivò dall'iniziativa della nutrice di una fanciulla in età da marito che era morta di un male sopravvenutole (evidentemente prima di sposarsi); la buona donna, dopo la sepoltura e 1'erezione del monumentum commemorativo sovrastante, ebbe il gentile pensiero di raccogliere e sistemare in un canestro tutti i recipienti di cui quella fanciulla si dilettava (pocula quibus virgo delectabatur) ed anche di coprire il canestro con una tegola per ripararlo dalle intemperie. Semplice o no? No, ha risposto nel 1836 1'autorevole L. Marini, perché poculum (da poto-potare) non significa recipiente in generale, ma significa recipiente di un liquido (acqua, vino ecc.) destinato ad essere bevuto e non si capisce come mai la nostra fanciulla si dilettasse (delectabatur) con vari, forse molti bicchieri ingorgandosi non solo di acqua ma, chissà, anche di vino e di altre bevande licenziose (sopra tutto per le donne dabbene). Di qui un empito di considerazioni stranissime di altri editori e studiosi successivi. Un fiume di stranezze (in qualche caso addirittura bambinate) intese ad escludere che la giovane corinzia fosse assidua bevitrice di alcolici: stranezze delle quali faccio grazie al lettore rinviando i curiosi al diligentissimo catalogo stesone dal Pannuti. Tuttavia anche il Pannuti trova il riferimento ai pocula inammissibile e difende 1'emendazione di «pupulis», nel senso che la fanciulla corinzia si dilettasse a collezionare pupalae, piccole pupae, bambolette (pupulis delectabatur). A questo punto io non resisto e mi permetto di opporre a chi non vi ha già pensato che la virgo Corinthia era una signorina in età da marito e che a quell'età le fanciulle si preoccupano ab antique di accalappiare un partner, per il che si vestono, si adornano e si fanno accuratamente il trucco allo scopo di essere più seducenti. Altro che bevute, altro che bambole. Fermiamoci sul trucco, sul make-up. Nell'antica Corinto e nell'antica Roma mica esistevano le profumerie, le boutiques con i prodotti di Coco Chanel o di Este'e Lauder. I vasetti di porcellana, i tubetti, gli spray e via dicendo erano sconosciuti. Tutto il materiale occorrente per truccarsi si preparava in casa, rimestando sostanze solide con liquidi e ottenendo piccoli quantitativi di cosmetici: piccoli perchè da conservare freschi per alcuni (non troppi) giorni dentro vasi, vasetti e, perchè no?, bicchieri di varia grandezza. Prima di vestirsi ed uscire in pubblico le donne eleganti (chi non lo sa?) non solo si pettinavano e si depilavano, ma si spalmavano vari tipi di biacca: rossa (in diverse gradazioni) su guance e labbra, bianca sulle altre parti visibili del corpo (faccia, collo, petto, spalle). Ne1 omettevano, le donne antiche, di ombrarsi gli occhi con nerofumo e di tintare appropriatamente ciglia e sopracciglia. Certo, potevano anche non farlo e non avvelenarsi con le sostanze occorrenti a questi intrugli, cioè particolarmente con creta, terra d'ocra, fuliggine e, si badi, feccia di vino. E perciò che la fanciulla corinzia, se si truccava, di tutti questi prodotti e di molteplici recipienti (pocula) faceva un uso non necessario ma voluttuario: delectabatur. Dispiace, ma prendersela con i pocula nominati alla grossa da Vitruvio per indicare i contenitori dei cosmetici liquidi, semi-liquidi, cremosi ed in polvere significa, cedere troppo facilmente al pruritus emendandi. Vitruvio, era solo un esperto di architettura, non un raffinato femminiere come Ovidio Nasone.
3. il «debito
coniugale». -I giornali del 23 marzo 2005 (giusto il giorno del
Venerdì Santo) hanno messo in grande evidenza una sentenza della Cassazione civile che ha
confermato una separazione coniugale per colpa del marito, essendosi questo
smaccatamente e a lungo sottratto all'adempimento del così detto «debito
coniugale» nei confronti della consorte. Naturalmente non sono mancate le
battute, le allusioni da avanspettacolo e i corsivetti
più o meno spiritosi di commento. Come vecchio avvocato segnalo
che il caso giudiziario non è tanto nuovo e non è tanto semplice come pu6
parere a tutta prima ma si inquadra sempre, in realtà, entro un rapporto
matrimoniale ben altrimenti litigioso e complesso. E
dico questo anche a prescindere dal fatto che in certi contratti
paramatrimoniali del mondo dei V.I.P. la questione dei rapporti sessuali
(numero, tempi, qualità) è talvolta minutamente regolata a priori: famosissimo
quello tra Jacqueline vedova Kennedy
e 1'armatore Onassis. Piuttosto colgo 1'occasione per
ricordare che molti anni fa la magistratura giudicante la fece davvero grossa.
Fu la Corte di Appello di Napoli a condannare in sede
penale (non ricordo se con reclusione sino a un anno o con congrua multa) il
rifiuto dell'amplesso coniugale di un marito, inquadrandolo addirittura nella
fattispecie di reato prevista dall'ar-ticolo 570 cod. pen.,
cioè nel delitto di «violazione degli obblighi di assistenza familiare». Un mio
giovane amico si gettò sulla sentenza per presentarla a titolo di «tesina» nel
suo esame di laurea. Ma in commissione c'era Alfredo De Marsico,
grandissimo maestro di diritto penale e gran signore sul piano intellettuale,
che si rifiuto di discutere la tesina col candidato.
Disse: «Noi penalisti siamo tenuti ad occuparci in tribunale di tutte le
porcherie possibili e immaginabili, ma in Università è diverso: rispettiamo il
buon gusto». (Per la cronaca: la sentenza napoletana venne
poi cassata dalla Corte suprema).
4. pavia, ferrini e la guarigione improwisa. - L'amico Dario Mantovani, professore a Pavia e promotore della raccolta di scritti dedicati a Contardo Ferrini nel centenario della morte (2003), mi ha inviato, quasi a titolo di dubbio su certi dubbi da me manifestati nell'articolo Contardo Ferrini e gli studenti (ivi 93 ss.), alcune pagine (44-51) stralciate in fotocopia dalla seconda edizione (senza data, ma sicuramente posteriore alla beatificazione del 1947) di un libro di Innocenzo Cappa. Il libro ha per titolo Confessioni di un parlatore e dev'essere stato pubblicato in prima edizione (non sono in grado di essere più preciso) intorno al 1930, quando il Cappa (1875 -1954) aveva chiuso la sua carriera di deputato (inizialmente repubblicano, dal 1913) e aveva ottenuto (1929) la nomina a senatore del regno. Giustamente rinomato come amabile conversatore (come «parlatore» appunto), Innocenzo Cappa viveva tra Milano e Roma ed aveva studiato giurisprudenza a Pavia tra il 1895 e il 1899, quando a Milano ancora non c'erano 1'Università statale e, tanto meno, la Cattolica. Studi i suoi, egli ammette, piuttosto avventurosi, ma che gli diedero modo di osservare con acutezza tutto il mondo universitario pavese, popolato di docenti di buono (e certuni di ottimo) rilievo scientifico tenuti a misurarsi con una massa studentesca, molto vivace nel pieno di tempi socialmente, e notorio, agitatissimi. Ferrini fu da tutti (e in specie da un caro e influente amico di nome Mussi) indicato a lui, che era oramai agnostico, come uomo pieno di fervore religioso, ma anche come docente solerte («la sua era 1'eloquenza della purità; quel suo parlare lento, dolce, chiaro che sembra esprima il sereno fluire delle idee»). Ed ecco, sempre a proposito del Ferrini, un brano degno (vedrete) di particolare riflessione. «Quando il Mussi gli fece sapere che i miei occhi erano molto malati e che purtroppo non si sperava di poterli guarire (e invece guarii miracolosamente nel 1899) egli pregò anche per me e quando tremante per la mia difficile preparazione mi presentai agli esami si levò dalla sua cattedra, mi venne incontro e mi disse di non temere troppo perché sapeva con chi e come mi ero preparato. Pareva, interrogandomi, che per un prodigio d'intuizione scegliesse le tesi nelle quali ero preparato meglio. Fuori dall'aula, ad esame finito con votazione soddisfacente e meritata, trovai il Mussi che stava aspettando. Ci domandammo se ad educare i giovani non fosse più utile dell'agnostico Negri quel Ferrini, che riusciva a conciliare in sè la raffinata concezione del diritto dei pagani e la certezza di una fede cristiana che noi non possedevamo gia più. Per due giovani eterodossi di quarant'anni fa quell'ammissione di una possibile superiorità della fede costituiva un miracolo prodotto dalla carità, eroica in senso cristiano, di Contardo Ferrini». Lascio al lettore la difficile riflessione su questo brano, limitandomi solo a sottolineare che la inaspettata guarigione della vista del Cappa avvenne dopo la fine del periodo universitario pavese, nel 1999.
5. il professor
derselbe. - Nello stralcio delle Confessioni di un parlatore di Innocenzo Cappa, del quale ho parlato pocanzi
(n. 4), vi e un altro brano degno di nota (p. 49). Esso è relativo ad un
dottissimo e vivacissimo docente universitario pavese, Ugo Mazzola, nato a
Napoli nel 1843 e morto suicida nel 1899. Di lui,
studioso di materie economiche e finanziarie, dice il Cappa:
«cultura di eccezione, aveva scoperto in frode Francesco Saverio Nitti per la citazione di un autore non mai esistito, perchè quello che al Nitti era
parso il nome di un autore non era che la locuzione tedesca indicante il
medesimo autore'. Nitti
aveva acquistato (per farla sparire dal mercato) tutta 1'edizione dell'opuscolo
in cui il Mazzola lo indicava come un facilone, e il Mazzola
non si era dato la pena di ripubblicare il volume. 'La
bestialità umana, mi disse, è invincibile e don Saverio farà purtroppo molta
carriera nella politica italiana'. Mentre
da un lato doverosamente avverto che non ho avuto la pazienza di riscontrare
sulle fonti la verità di quanto è materia dell'aneddoto, dall'altro lato faccio
(nella presunzione della veridicità del racconto) due rilievi. Primo: il Nitti della vicenda è quel Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868 - Roma 1953) che ottenne la cattedra di
Scienze delle finanze a Napoli nel 1898, ma che si affretto a tralasciare i
frettolosi studi scientifici per darsi a tutto corpo alla politica e divenne
deputato (dal 1904), più volte ministro e infine Presidente del Consiglio (tra
il 1919 e il 1920), dopo di ché fu travolto dal
fascismo nel 1922 e ricomparve senza più molto successo nel secondo dopoguerra.
Secondo: non si sa se altri prima del Nitti sia incorso nell'equivoco del germanico professor Derselbe. Stando a diffuse dicerie malevoli
del mondo accademico italiano, il Derselbe si
troverebbe citato da molti giovani e vecchi ricercatori e si sarebbe
dimostrato, attraverso queste incaute citazioni, conoscitore autorevole delle
più svariate materie. Per una storia di lui e dei suoi
successi in Italia (e altrove) occorrerebbe consultare gli «indici degli
autori» di molte migliaia di volumi. Se vi è qualcuno
che pensa che valga la pena, lo faccia. Perché no?
6. «aliud simulatum, aliud actum». -1. Federico d'Ippolito è un giusromanista di grande finezza che, a mia personale avviso, ha il pregio di due difetti: quello di scrivere i suoi libri ed articoli con grande cura della laconicità e quello di dedicare non poco del suo tempo e del suo ingegno alla valorizzazione dei maestri e amici cui e rimasto indelebilmente affezionato (De Martino, Lauria, Casavola). Insomma, un uomo ed uno studioso altamente per bene cui però mi stupisce che possa far meraviglia il non essere talvolta citato da altri come autore di un saggio o di un'ipotesi ricostruttiva quando sia evidente che si sia attinto proprio al suo pensiero. Di siffatta meraviglia (se non addirittura di un tantino di irritazione) egli fa mostra in una noticina dal titolo Insidie manualistiche, pubblicata in Index 32 (2004) 254 s., segnalando che nel volumetto a più autori di Diritto privato romano: un profilo storico (cur. A. Schiavone [2003] p. 511) da un lato « si riconosce» in almeno tre punti, ma dall'altro constata di non essere citato «né in nota né nell'apparato bibliografico». Non approfitto della contingenza per lamentarmi, forse a maggior ragione, del fatto che quantomeno nel cosiddetto «apparato bibliografico» di quel manualetto sono omesse le citazioni di tutte, dico tutte le trattazioni generali da me pubblicate in svariati decenni e in numerose edizioni sulla storia del diritto romano, sulle fonti di conoscenza dello stesso e, in particolare, nel mio Diritto privato romano, la cui dodicesima edizione (2001, p. 1107) è stata aggiornata nel 2002 e nel 2004 con due fascicoletti supplementari che informano i lettori sino a tutto il 31 dicembre 2003: un'omissione tanto accidentale da essere ai miei occhi quasi divertente. Mi limito a ricordare al d'Ippolito che l'economia del «profilo» esclude che nelle note a piè di pagina, quando vi sono, vengano (salve rare eccezioni) citati anche gli autori, mentre, dal suo canto, l'apparato bibliografico generale certe trattazioni d'insieme (buone o cattive che siano) non dovrebbe decentemente ignorarle. Suggerirei quindi all'amico d'Ippolito di desistere dalla querelle e di non pensarci più.
2. Già. Ma che succedendo? Sta succedendo che con il suo articolo il
d'Ippolito, per dirla con una metafora napoletana, ha messo il campanello al
collo della gatta ('o campaniello 'incann' 'a gatta), cioè ha destato
la mia attenzione, inducendomi (con il campanellino che mi si agita al collo) a
scuotermi dalla mia gattesca «terzietà»,
ed a chiedermi, almeno in ordine ad uno soltanto dei tre argomenti da lui
indicati, se abbia ragione lui o sia più attendibile la communis opinio. Quest'ultima
(cfr. Guarino, DPR. n.
24.5.3) è orientata decisamente nel senso che l'actio
de dolo sia stata introdotta nell'editto pretorio dal giurista Aquilio
Gallo in occasione della sua pretura del
7. gegè alla guerra. - II primo aprile del 2005 e morto ottantasettenne il napoletanissimo Gegè Di Giacomo, fantasioso e indimenticabile batterista del trio orchestrale Carosone, famoso in tutto il mondo. Era nato col genio del tamburo, dei piatti e di tutto il resto. Aveva esordito come Mozart, a cinque o sei anni. Intorno al 1925 un certo don Ciccio, proprietario di un cinema popolare, lo assunse con 1'incarico di «accompagnare» con fragori adeguati il film muto La grande parata di King Vidor ed altri consimili filmaccioni di guerra. Gegè ce la mise tutta, ma si accorse che per sonorizzare certe tremende battaglie la sua sola batteria non bastava. «Don Ci', io 'a guerra nun 'a pozzo fa da solo», disse. E don Ciccio gli concesse raccompagnamento di altri due giovanissimi con grancassa e «tricca-ballacca», non ché di un terzo che fischiava meravigliosamente 1'arrivo, prima del bum, degli shrapnels.