Pubblicazioni - Annali 2002 |
L'ars
iuris civilis nel pensiero di Cicerone. |
1. Il pensiero di Cicerone sulle
prospettive di una elaborazione scientifica del ius civile è esposta,
come è notissimo, soprattutto in due testi celebri e assai importanti: De
orat. 1,41,185-42,191 e Brut. 41,151-42,153. Il secondo testo, con
un famoso elogio di Servio Sulpicio Rufo, è meno esplicito sul piano dei
concetti generali anche se assai significativo per alcuni profili specifici
della storia della giurisprudenza repubblicana. Mi propongo di rileggerli, con
attenzione volta più ai testi, e cioè a quella che mi sembra la loro più
verosimile interpretazione, che alla lettura di essi offerta dai tanti
studiosi che da gran tempo se ne sono occupati con risultati, in ogni caso,
degni della massima considerazione (1). L'interesse della lettura che mi
propongo è accresciuto anche dal frequente uso che in questi passi viene
fatto di alcuni termini, tra cui soprattutto ars e scientia, un
uso che certo non è rigorosamente univoco, e che, per questo, si dovrà
analizzare volta per volta. Nel primo dei due passi, assai ampio,
viene esposto un approfondito ragionamento posto da Cicerone sulle labbra di
Lucio Licinio Crasso, probabilmente il più grande oratore d'epoca
preciceroniana, nato nel 140 a.C., console nel 95 a.C. con Quinto Mucio
Scevola pontefice, morto nel 91 a.C., quindi giusto nell'anno nel quale
Cicerone finge avvenuti i colloqui inclusi nel De oratore, opera
scritta nel 55 a. C.(2). Il personaggio di Crasso, che è per più
versi sostanzialmente il portavoce preferito di Cicerone, ha la parte più
ampia nel primo libro del De oratore (3). Per quel che qui più interessa, occorre
ricordare che in De orat. 1,34,159, Crasso--che aveva già dichiarato
ampiamente un suo ideale di oratore padrone di ogni conoscenza
(1,80,30-1,16,73)--aveva accennato specificamente all'esigenza, per un
perfetto oratore, di conoscere tra altro anche il ius civile, leges, omnis
antiquitas (nel contesto sembra allusione soprattutto ai mores maiorum),
senatoria consuetudo, disciplina rei publicae, iura sociorum,
foedera e pactiones, nonché la causa imperii (sempre con
riguardo al contesto, non sembra dubbio che Cicerone allude analiticamente
anche a varii profili di diritto pubblico romano, e in questo quadro è
interessante la menzione della senatoria consuetudo, che mostra, io
credo, una precoce consapevolezza della sostanziale normatività dei
senatoconsulti). Nella finzione del dialogo, l'accenno di
Crasso aveva sollecitato, anzitutto, le perplessità d'un altro eminente
interlocutore, giurista, cioè di Q. Mucio Scevola augure (4), che chiedeva
chiarimenti a Crasso in particolare su quae
dixisti
de nostro
ipso iure civili (1,36,165). E Cicerone, attraverso Crasso, risponde ai
dubbi di Scevola augure con un ampio discorso (1,36,166-1,46,203) che include,
come sostanziale tratto conclusivo, proprio i paragrafi che qui interessano. Crasso inizia argutamente rifacendo il
verso a Scevola e parlando di ipsum tuum ius civile; e poi subito parla
di scandalosi esempi di ignoranza giuridica in alcuni oratori
(1,36,166-37,169): un catalogo di svarioni che forse meriterebbe un
dettagliato esame specifico, che qui però non possiamo intraprendere. A quei
cattivi esempi, Crasso fa seguire quelli, del tutto opposti, di P. Crasso
Dives e di M. Porcio Catone che avevano ammirevolmente coniugato eloquenza e
studio del ius civile (1,37,170-171). Afferma, poi, che gli oratori
privi di scientia iuris devono essere rimproverati anche perché sono
pigri e sfacciati (1,38,172). E della sfacciataggine (impudentia) parla
a lungo, citando varii casi pratici (1,38,173-1,40,184:
in questo tratto, anch'esso per più versi giuridicamente rilevante, vi
sono celebri cenni alla celebre causa Curiana). Subito dopo, e quindi proprio
nella parte del dialogo che noi dobbiamo studiare, passa a condannare la
pigrizia (segnitas atque inertia) degli oratori ignoranti nel ius
civile. 2. Comincio a trascrivere (talvolta solo
per i punti essenziali) distinti tratti del lungo discorso, nella lezione che
ne offre l'edizione teubneriana del 1969, di Kumamiecki, salvo minimi dettagli
ortografici. De orat.
1,41,185: Et quoniam de impudentia dixi, castigemus etiam segnitatem
hominum atque inertiam. Nam si esset ista cognitio iuris magna atque
difficilis, tamen utilitatis magnitudo deberet homines ad suscipiendum
discendi laborem impellere. Sed, o di immortales, non dicerem hoc, audiente
Scaevola, nisi ipse dicere soleret nullius sibi artis faciliorem cognitionem
videri. Compaiono subito alcuni termini di
grande rilievo. Si parla di cognitio iuris e di cognitio artis,
certo nel senso di padronanza d'una materia, in particolare del ius. In molti altri passi dell'opera si parla
di scientia iuris, o iuris civilis (o d'altro, del resto) nello
stesso senso generico; ed è inutile citare molti passi. Prescindendo da De
orat. 1,41,186 e 1,42,191 di cui dovremo tra poco trattare
particolarmente, qui basti ricordare, ad es., 1,4,18: neque legum ac iuris
civilis scientia neglegenda est (siamo nella parte introduttiva
dell'opera, ed è Cicerone che parla, in relazione all'opportunità per
l'oratore di ampie conoscenze in molteplici campi; in tutta questa parte
introduttiva si parla ad ogni passo di scientia, di cognitio, o
anche di scientia et cognitio come in 1,3,10); 1,11,48: legum moris
iuris scientia (questa volta si finge che sia Crasso a parlare); 1,38,172:
Crasso accenna alla mancanza di scientia iuris in Antonio; 1,38,175:
Crasso si chiede: chi oserà, nelle liti de iure civili, sine ulla
scientia iuris accedere?; 1,45,198: Crasso parla della iuris civilis
scientia di Sesto Elio; 1,46,201: sempre Crasso afferma che oratori
iuris civilis scientia necessaria est; 1,55,235: questa volta è
Antonio che polemizzando con Crasso allude alla pretesa necessità di iuris
civilis scientia per l'oratore (cfr. anche 1,55,236; 1,56,239; 1,57,248
con cenni a iuris scientia; e 1,59,250 e 1,60,254, ancora con iuris
civilis scientia). Ma vedremo che raramente, e però anche in punti
centrali del suo ragionamento che qui ci interessa seguire, Cicerone ricorre
ad un uso di scientia molto più specifico, nel senso di attività
intellettuale analitica di approfondimento teorico e sistematico, e di attività
di ordinata categorizzazione del ius (o d'altra materia), anche se più
di frequente, almeno nel De oratore, a questa attività scientifica
vera e propria Cicerone
preferisce riferirsi con il termine ars. Con lo stesso significato generico
ricorrono frequentemente altri termini palesemente equivalenti, come studium
o prudentia o disciplina, ed il lettore mi perdonerà se questa
volta non adduco citazioni neppure a titolo di esempio; basta aprire a caso,
per esempio, proprio il De oratore per trovare qualcuno di questi altri
termini. Quel che per ora più preme rilevare è
però che, sul finire del paragrafo 185, Cicerone fa dire a Crasso che egli
stesso ha udito dire frequentemente da Q. Mucio Scevola augure, che la cognitio
del ius è facilior di quella d'ogni altra ars. Viene così in discorso per la prima
volta nel passo che studiamo il termine ars; e sembra evidente che esso
in questo caso sia usato per designare (ancora una volta genericamente) un
campo di attività, una materia, senza alcun riferimento a trattazione o
organizzazione di tipo scientifico. Come è notissimo, e come vedremo meglio
più avanti, ars è usato invece anche con altri significati, ed in
specie con un valore che corrisponde in qualche modo a quello moderno di
"scienza". Qui però occorre subito dire che l'uso generico di ars,
al singolare o al plurale, per indicare semplicemente un oggetto d'attività o
di studio, insomma ciò che esprimeremmo oggi con i termini
"materia" o "campo", è estremamente frequente in Cicerone
(e in tanti altri scrittori latini). Per semplicità forniremo solo alcuni
dati desunti dal De oratore. Ars nel senso generico accennato
compare in De orat. 1,2,5-6; 1,2,8; 1,3,9; 1,4,16; 1,6,20; 1,10,44;
1,11,50; 1,13,55,59; 1,14,61; 1,15,66; 1,26,118; 1,28,126; 1,29,132 (qui però
ricorre anche ars con un significato diverso che vedremo) e 133;
1,30,135; 1,34,158; 1,37,170; 1,41,185 e 186; 1,46,202; 1,49,212 e 214;
1,50,215; 1,51,219; 1,55,234-235; 1,58,246 (un altro passo in cui si trova
pure ars con valore diverso che vedremo) e 248; 1,61,260 e 262; 2,2,5;
2,9,37-38; 2,10,39; 2,16,69; 2,25,108; 3,6,21; 3,7,26; 3,16,59; 3,20,75;
3,28,110; 3,31 122; 3,32 127-128; 3,33,132; 3,35,143. Sono notevoli, per il
valore chiaramente allusivo genericamente ad un campo di attività o di
studio, i testi in cui si parla di ceterae o reliquae, o omnes
artes: ad es., sempre nella solo operetta ciceroniana, 1,3,12; 1,15,65;
1,16,72; 1,17,73 e 75; 1,18,80; 1,27,124; 1,43,191; 1,49,213; 3,9,36; 3,20,75
e 79; 3,26,86 (cfr. anche quaecumque ars aut facultas in 3,22,84, e ulla
in arte in 3,32,127). Tornando alla sostanza, va detto che non
è del tutto improbabile che Cicerone abbia riferito davvero un idea di
Scevola augure intorno alla facilità dell'ars iuris. In ogni
modo, a me sembra che quell'idea sia particolarmente conforme al modo di
considerare il ius tipico dello stesso Cicerone. E ciò in quanto
Cicerone, da un lato, lascia
trasparire spesso la propria convinzione di essere egli stesso saldamente
esperto in questioni giuridiche. Una convinzione che solo per qualche verso è
oggettivamente ben fondata, dato che certamente un vero approfondimento
tecnico di questioni giuridiche non gli può essere attribuito. E poi perché,
da un altro lato, Cicerone sembra veramente convinto della facilità della
scienza giuridica. E' celebre la sua giovanile affermazione polemica in Pro
Mur. 13,28: si mihi
stomachum moveritis, triduo me iurisconsultum
profitebor; con la successiva spiegazione basata sul fatto che nel respondere
si può operare agevolmente, dato che la propria opinione sarà o conforme a
quella di Servio Sulpicio, o andrà ad arricchire il ius controversum. Ben più complesso, come abbiamo
anticipato, è l'uso di ars nel successivo paragrafo. De orat.
1,41,186: Quod quidem certis de causis a plerisque aliter existimatur;
primum quia veteres illi, qui huic scientiae praefuerunt, optinendae atque
augendae potentiae suae causa per- volgari artem suam noluerunt; deinde,
posteaquam est editum expositis a Cn. Flavio primum actionibus, nulli fuerunt,
qui illa artificiose digesta generatim componerent. Nihil est enim, quod ad
artem redigi possit, nisi ille prius qui illa tenet quorum artem instituere
vult, habet illam scientiam, ut ex iis rebus, quarum ars nondum sit artem
efficere possit. Naturalmente tralascerò ogni rilievo
sui punti storicamente più celebri di questo famoso passo: il cenno al
monopolio pontificale ed il cenno al liber qui actiones continet che in
D.1,1,2,7 è qualificato come ius civile Flavianum. Invece gioverà anzitutto notare che scientia
nella locuzione veteres illi, qui huic scientiae praefuerunt
anche questa volta non può avere altro senso che quello generico di
"conoscenza"; un valore corrispondente a scienza in senso tecnico
moderno è escluso dal contesto, che proprio lamenta la mancanza, in epoca
antica, di trattazioni scientificamente organizzate: cfr. artificiose
digesta generatim, locuzione su cui torneremo, ma che anche solo a prima
vista si riferisce ad una attività scientifica di analisi e sistemazione. Più sottile è il problema del valore
da attribuire ad ars nel cenno ciceroniano alla volontà dei veteres
di non divulgare artem suam per ragioni di potere personale e di
gruppo. Qui, ars probabilmente non ha il generico valore che
documentammo più su di "materia"; mi sembra più verosimile un
riferimento alla "padronanza", alla "maestria", insomma
alla specifica elaborazione tecnica, nel trattare i problemi del ius. Questo valore di ars come
elaborazione tecnica analitica di un dato campo (spesso con menzione, che
conferma il valore che attribuiamo ad ars in questo caso, di praecepta
cui l'ars appunto deve conformarsi, e anche con contrapposizione,
parimenti significativa, a natura, che rinvia alle doti innate,
soprattutto dell'oratore, del tutto indipendenti da una elaborazione razionale
di regole e criteri) è abbastanza frequente nel De oratore (anche
questa volta ci riferiamo solo a quest'opera). Citerò, senza pretesa di
completezza alcuni passi significativi. De orat. 1,4,14; 6,22; 18,86;
20,90-92 (in questo ultimo paragrafo si trova, attribuita da M. Antonio al
filosofo Charmadas, un seguace della nuova accademia, una definizione sommaria
di ars su cui torneremo brevemente); 22,99 (qui si trova la sintetica e
difficile locuzione in arte tradere; cfr. anche De orat.
2,54,16,218: arte tradere; v.a. Non., s.v. Insolens, L.
505-506; credo che si possa tradurre "insegnare come in una disciplina
razionalmente organizzata"); 23,107-109 (qui, al par. 108 Crasso riprende
la definizione di ars elaborata da Charmadas già riferita, come ho
detto, da Antonio); 24,110; 25,113-115; 29,132 (qui, come notammo ricorre ars
anche in senso generico di "materia"); 32,145-148; 33,151 e 156-157;
46,205; 48,208 e 210; 58,246; 2,7,30; 11,48; 15,64; 18,76; forse 20,84;
28,119-120; 32,137 e 140;35,142 (anche su questo passo importante che richiama
De orat. 41,185ss. dovremo fermarci più avanti); 35,150; 38,157 e 160;
41,174; 47,195, 198; 49,201; 54, 216-217 e 219-20; 56,227 e 229, 57,231-232;
60,247; 74,299; 86,351; 3,7,26; 19,70; 20,75; 22,84; 27,108; 37,151-152; forse
46,180; 47,182; 50,195-196; 55,212; 57,213 e 217.
Connessi con questo secondo valore di ars,
tanto largamente rappresentato, sono anche alcuni cenni ad artifex,
artificium, artificiose, sempre in riferimento ad attività di
elaborazione sistematica. Ad es., De orat. 1,21,96;
28,128-130;32,145-148; 41,185-186; 58,248; 2,12,50; 13,56; 19,83 (su questo
par. occorrerà tornare, perché correlato con 1,41,185ss.); 36,153 e 156;
86,350; 3,22,83. Per questo significato specifico di ars
e termini derivati, con riferimento ad attività e regole di elaborazione
tecnica sono da tener particolarmente presenti, tra i testi che ho addotto,
soprattutto De orat. 1,20,92; 23,108. Questi due passi si riferiscono
ad una definizione di ars attribuita, come ho detto, al neoaccademico
Charmadas, che occorrerà avere presente. In sostanza, il pensatore greco
negava che vi potesse essere una qualunque ars (certo, egli parlava techne)
(5) "che non riguardasse strettamente (6) fenomeni conosciuti e penetrati
a fondo, costantemente e senza eccezioni interpretabili in un unico
senso" (rendo così, con molta libertà, ma credo fedelmente, il testo
latino di De orat. 1,20,92, che esige perché possa esservi ars
che essa cognitis penitusque perspectis et in unum exitum spectantibus et
numquam fallentibus rebus contineretur). O, che lo stesso,
sosteneva, secondo un'altra citazione più sommaria in De orat.
1,23,108, che "si definisce ars solo un'attività che è derivata
da fenomeni compresi a fondo, ben conosciuti, non soggetti alla varietà
arbitraria delle opinioni, ed oggetto di conoscenza approfondita " (
ars
ita definitur
ex rebus penitus perspectis planeque cognitis atque ab
opinionis arbitrio seiunctis scientiaque comprehensis). E' ben probabile che Cicerone si
attenesse fedelmente a questa nozione di ars, date le sue predilezioni
neoplatoniche. Ma qui interessa particolarmente quanto rilevasse, nel discorso
di De orat. 1,41,186, l'accennata definizione. Cicerone rimproverava, in sostanza, ai veteres
che avevano avuto un ruolo di rilievo (cfr. praefuerunt) nella
conoscenza, scientia (del ius civile certo; cfr. cognitio
iuris nel par. precedente) di non aver provveduto a componere generatim
(sistemare per genera e suddivisioni dei genera) i fenomeni del ius
(ad essi si riferisce certo il neutro illa) dopo averli accuratamente
raccolti secondo criteri di rigorosa elaborazione tecnica (artificiose
digesta). E precisa subito che il procedimento di
cui lamenta la mancanza presso i veteres sarebbe stato assolutamente
necessario, perché "non esiste nulla che possa essere strutturato come
trattazione scientificamente organizzata" (così renderei la menzione
ciceroniana dell'ad artem redigere), "se colui che possiede
le regole della materia che desidera strutturare come trattazione
scientificamente organizzata" (così renderei il riferimento ciceroniano
al velle artem instituere in ordine a qualche cosa che taluno tenet)
"non sia prima di tutto padrone di quella disciplina tecnica" (così
deve intendersi certo questa volta, scientia) "che è idonea
appunto a strutturare come trattazione scientificamente organizzata"
(Cicerone parla qui di artem efficere, a mio parere con valore identico
a quello poco prima espresso nella locuzione ad artem redigere)
"le nozioni che ancora non sono strutturate in quel modo". Il periodo fondamentale che ho riferito,
nella sua andatura faticosa (nel breve tratto nihil-possit di De
orat. 1,41,186 in fine, la parola ars ricorre quattro volte), e
qualificato subito dallo stesso Cicerone, per bocca di Crasso all'inizio di
1,41,187 come "espresso un po troppo oscuramente" (dictum a me
esse paulo obscurius). E' ovviamente l'oscurità non sta tanto nella
formula contorta e nell'inelegante ripetizione continua del termine ars,
quanto, invece, nell'assoluta mancanza di precisazioni intorno a quella scientia
che sarebbe stato necessario possedere per ridurre ad ars un qualunque
complesso di conoscenza. Mi pare chiaro che sul finire di 1,41,186 scientia
ha un valore differente da quello che la stessa parola aveva all'inizio, in
riferimento del tutto generico alla conoscenza dei veteres in materia
di ius civile. Questa volta, come ho già detto, scientia è
termine certamente riferito ad un complesso di concetti tecnicamente
organizzati. 3. Anche per comprendere meglio questo
nuovo valore di scientia gioverà leggere il seguito del testo
ciceroniano. Iniziamo con il trascriverne almeno alcuni tratti essenziali. De orat.
1,42,187:
Omnia fere quae sunt conclusa nunc artibus, dispersa et
dissipata quondam fuerunt (7)
; 188: Adhibita est igitur ars quaedam
extrinsecus ex alio genere quodam, quod sibi totum philosophi adsumunt, quae
rem dissolutam divolsamque conglutinaret et ratione quadam costringeret. Ecco che emerge bene il valore della scientia
che era stata subito prima qualificata come necessaria per ogni pensabile ad artem
redigere, artem instituere, artem efficere. Si tratta di una ars (si
noterà la disinvoltura con cui Cicerone utilizza scientia e ars
come termini di identico significato, in questo tratto del suo discorso; anche
da questa disinvoltura dipende la notata quadruplice menzione di ars
sulla fine di 1,41,186) derivante da un campo di conoscenze del tutto diverso
(ciò è efficacemente espresso mediante l'avverbio extrinsecus) da
quello delle materie che si vogliono costituire come ars--da un campo
che i filosofi considerano tutto proprio. Quasi unanimemente la dottrina ritiene,
e credo con ottime ragioni, che qui Cicerone alluda specificamente alla
dialettica (8), le cui regole erano state elaborate soprattutto dai filosofi
greci cui sovente si riferisce, anche nel De oratore, Cicerone. Il metodo di questa ars adhibita
extrinsecus, capace di dare unitarietà (conglutinare) e regole
alquanto rigorose (ratione quadam constringere) a nozioni scoordinate e
contrastanti (res dissoluta divolsaque) (9) (par. 188), di questa scientia
(par. 186) capace di ridurre ad ars (artem efficere; ad artem
redigere) elementi in ordine ai quali una ars non esisteva ancora
è descritto nel seguito del discorso che Cicerone fa pronunziare a Crasso in De
orat. 1,42,188-191, che è poi il tratto più importante proprio perché
specificamente inteso a progettare la creazione di una ars iuris civilis
o di una scientia iuris civilis (che è lo stesso per Cicerone
anche in questa parte dell'esposizione, come vedremo subito: nt. 14). Per comodità del lettore riportiamo con
parole nostre i punti più significativi citando dal testo solo le espressioni
latine più importanti. L'ars in questione dovrà
anzitutto (1,42,188 in fine) precisare, stabilire qual è il campo di
applicazione e lo scopo (il termine finis ha, tra gli altri, entrambi i
significati che abbiamo scelto) del ius civile: sit ergo in iure
civili finis hic. Si tratta del fine supremo di garantire la
conservazione, nei rapporti e nelle controversie dei cittadini, della equità conforme a leggi e tradizioni (legitimae
atque usitatae, in rebus causisque civium, aequabilitatis conservatio).
Pare di dovere intendere che nelle
intenzioni ciceroniane questa preliminare determinazione del finis
(valore non esprimibile con un termine solo, ma certamente corrispondente
anche a "ragion d'essere", "essenza", e simili) del ius
civile sia indicazione del valore di fondo al quale ogni ulteriore
operazione di organizzazione della materia dello stesso ius civile dovrà
mantenersi fedele. In sostanza, mi pare che Cicerone voglia avvertire che,
nelle operazioni intellettuali di creazione di una vera ars (scientia)
iuris civilis, criterio essenziale per ogni scelta di concreti concetti
sarà proprio quel valore di fondo, anche se naturalmente tutto ciò risulta
alquanto astratto di fronte all'esigenza concreta della costruzione d'una
sistematica del ius civile. Poi (De orat. 1,42,189), Cicerone
spiega che si dovrà procedere a rilevare i genera (naturalmente, del ius
civile) ed a raccoglierli in uno schema articolato in pochi gruppi (tum
notanda genera et ad certum numerum paucitatemque revocanda) (10). Genus,
spiega Crasso non senza efficacia, anche se sommariamente, è qualcosa, certo
una categoria logica, che ricomprende due o più partes che hanno, da
un lato, una qualche unità di essenza tra loro, e però, da un altro lato,
una diversità di elementi particolari (genus
id est, quod sui
similis comunione quadam, specie autem differentis, duas aut pluris
complectitur partis) (11). Partes, prosegue nella spiegazione
Crasso, sono entità subordinate ai genera da cui derivano (partes
autem sunt quae generibus iis ex quibus manant subiciuntur). Come si vede, si tratta della
tradizionale utilizzazione delle categorie dialettiche del genus e
della species, anche se non si usa la struttura genus-species
(che peraltro è nota a Cicerone), bensì quella genus-partes (12), che
è sicuramente identica, anche in considerazione proprio dell'uso che, giusto
a proposito della definizione del genus, Cicerone stesso qui fa del
termine species, ma con il significato primario di
"apparenza", per
indicare ciò che determina la differenza tra le partes. Stabilito così lo schema strutturale
del procedimento necessario per la costruzione dell'ars (scientia)
del ius civile, Crasso spiega ulteriormente nell'ultima parte di
1,42,189 che è poi necessario procedere alle definitiones della reale
sostanza (vis) di tutti i termini che designano genera e partes
(omniaque quae sunt vel generum vel partium nomina, definitionibus quam vim
habeant exprimendum). E chiarisce subito che definitio è una
breve e adeguatamente determinata spiegazione dei caratteri propri di ciò che
si vuol definire: est enim definitio rerum earum, quae sunt eius rei
propriae, quam definire volumus, brevis et circumscritta quaedam explicatio (13). Sia lecita una breve digressione. In De
orat. 2,25,107-109 (un tratto in cui si finge che sia Antonio a parlare, e
sul tema ampio dell'inventio, parte prima e fondamentale di ogni
eloquenza: cfr. 2,19,79ss., e già prima 1,31,142), si rileva che in caso di
liti in cui sia rilevante quo verbo quid appellatum sit, molti
dialettici prescrivevano che l'oratore esponesse una breve definizione del verbum,
quod causam facit (cioè la cui interpretazione è decisiva per la
soluzione della lite); ma che ciò è assolutamente ingenuo (perquam
puerile). Ciò in quanto una definizione corretta deve esser tale da non
esser viziata né per difetto, né per eccesso (ut aeque absit quicquam
neque supersit); e quindi se da parte avversa si critica anche una
sola parola , si aggiunge o si toglie una sola parola, definitio
extorquetur e manibus. Mi pare che questo rilievo aiuti bene a comprendere
meglio la celebre sentenza di Giavoleno in D. 50,17, 202 (11 epist.).
E' probabile che Giavoleno avesse in mente la sostanza del rilievo ciceroniano
per cui basta contestare l'inserzione o la mancanza d'una parola per strappar
via la definizione dalle mani di chi la propone. 4. Subito dopo (1,42,190-191), Cicerone
fa esporre sinteticamente da Crasso, a guisa di conclusione di tutto quanto
era stato detto prima, i tratti dell'impegno che Crasso stesso (o altri, se
egli non potrà) affronterà per realizzare il fine inizialmente enunziato
(1,41,185): la facile cognitio dell'ars (= materia, campo di
attività) del ius civile. Innanzitutto, digerere in genera
omne ius civile; cioè certo: individuare alcune grandi categorie in cui
si possano poi sistemare tutti i fenomeni del ius. Incidentalmente, si ricorderà che il
verbo digerere, e più in generale tutti i concetti esposti alla fine
da Crassso, erano stati usati all'inizio in 1,41,186, nel rimprovero di Crasso
stesso ai giuristi successivi a Gneo Flavio, di non aver voluto componere
generatim gli elementi del ius civile artificiose digesta. Oltre al
digerere, qui è anticipata, nell'avverbio generatim, la
necessità d'una individuazione dei genera del ius civile, onde
ridurlo ad ars, cosa cui accenna l'altro avverbio artificiose,
certo con riferimento ad una schema classificatorio organico. Quindi, si può
dire che quel tratto brevissimo del paragrafo 186 che ora stiamo ricordando
costituiva un'anticipazione completa, ma sintetica, del compito che Crasso
credeva necessario. Nella conclusione che stiamo
illustrando, Crasso afferma poi il secondo compito, dopo quello di digerere
in genera; e cioè il dispertire quasi quaedam membra di
quei genera; cioè, certo, enucleare e trattare le partes (si
noti il verbo dispertire che alle partes rinvia) e cioè le species,
i fenomeni concreti particolari, ricompresi in ciascun genus. Infine, declarare
(il verbo richiama a senso l'explicatio di cui abbiamo notato l'uso,
poco più su) l'essenza (vis) di ciascun concetto utilizzato (genus
e partes certo), mediante definitio. Così, dice Crasso, avrete una perfecta
ars iuris civilis, cioè una compiuta iuris civilis scientia:
perfectam autem iuris civilis habebitis. Di ista iuris civilis
scientia si parla, in strettissima connessione subito dopo, e, a nostro
avviso, sebbene il testo ciceroniano a riguardo (14) sia alquanto incerto, per
alcuni versi, nella tradizione manoscritta, con l'identico valore attribuito
alla locuzione ars iuris civilis. Abbiamo qui, come già vedemmo a
proposito della dialettica, chiamata scientia in 1,41,186 ed ars
in 1,42,188 (15), un altro importante caso di uso ciceroniano di ars e scientia
come perfetti sinonimi, in relazione ad una attività che oggi chiameremmo
senz'altro "scienza", cioè ad una organizzazione secondo analisi
logiche e con ricorso a rigorose definizioni per lo studio d'un campo di
fenomeni. Questa identificazione contestuale ed
evidente tra ars e scientia che troviamo confrontando De orat.
1,41,186 e 1,42,188, nonché considerando l'ultima parte di 1,42,191, non è
isolata nel linguaggio ciceroniano, ed in particolare nel De oratore.
Basti un paio di esempi. In 1,55,235 Cicerone fa dire ad Antonio, il
principale avversario della tesi di Crasso sulla necessità d'una conoscenza
approfondita del ius civile per l'oratore, che egli non è avversario
dell'ars (del ius civile), e subito dopo che Crasso
rischia con la sua tesi di far danno proprio alla iuris civilis scientia.
In 1,55,236, cioè subito dopo, Cicerone fa rilevare da Antonio che Crasso non
avrebbe torto se si limitasse a considerare oratoria e diritto duae
praeclarae artes, ma ha torto nel voler costituire la iuris scientia
come una specie di ancillula dell'oratoria. 5. Con riguardo alla tesi ciceroniana
della necessità di costituire un'ars (scientia) iuris civilis attraverso
l'uso di genera e di partes, nonché di definitiones di
tutti i termini a genera e partes relativi, va considerato,
accanto a De orat. 1.42,188-191 fin qui da noi studiato, anche il breve
cenno a quella stessa tesi contenuto nella replica di Crasso ad Antonio in
2,19,83. In questo paragrafo, che di solito non
viene chiamato in causa dagli studiosi dei nostri problemi, Antonio ricorda
come Crasso avesse esposto l'artificium (è evidente il richiamo al
concetto di ars iuris civilis) con il quale si poteva componere
il ius civile. E subito specifica che quell'artificium
consisteva in ciò: ut genera rerum primum exponerentur, in quo vitium est,
si genus ullum praetermittitur; deinde singulorum partes generum in quo et
deesse aliquam partem et superare mendosum est; tum verborum omnium
definitiones a quibus neque abesse quicquam decet neque redundare. Come si vede, a parte l'omissione della
determinazione preliminare del finis iuris civilis che Crasso aveva
posto in luce, ed a parte la menzione della necessità della completezza e
dell'esclusione di inutili ridondanze nella individuazione di genera e partes
generum, di cui Crasso non aveva parlato, questo sintetico passo
corrisponde sostanzialmente specialmente a De orat. 1,42,189-190. Va considerato anche un altro passo,
anch'esso per lo più trascurato, e cioè De orat. 2,33,142 in cui,
ancora per bocca di Antonio, Cicerone fa ricordare la tesi fondamentale di
Crasso. Antonio dice: Crassus
pollicitus se ius civile, quod nunc
diffusum et dissipatum esset, in certa genera coacturum et ad artem
redacturum.
Si tratta evidentemente d'un cenno sintetico al progetto relativo al ius
civile costituito come ars. E infine va considerato, su un piano
alquanto diverso, anche un altro tratto della risposta polemica di Antonio a
Crasso, contenuto in De oratore 1,58,246, testo che invece è stato già
opportunamente chiamato in causa da alcun attenti studiosi (16). Il brano è curioso perché sembrerebbe
che in esso Cicerone, facendo parlare Antonio, critichi incisivamente per
qualche verso ciò che egli stesso aveva sostenuto facendo parlare Crasso
(soprattutto in 1,41,185ss). Precisamente, Antonio nega che l'ars
del ius civile sia facillima (chiaro il riferimento all'opinione
di Q. Mucio augure fatta propria da Cicerone in 1,41,185); e adduce, a prova
del fatto che è invece difficile, proprio l'affermazione fondamentale di
Crasso (specialmente in De orat. 1,41,186-42,191). In sostanza, egli
dice, non può essere facilissima un'ars di cui Crasso stesso aveva
affermato addirittura che essa ancora non esisteva e che sarebbe diventata ars
solo quando fosse stata elaborata per mezzo di un alia ars. Il discorso ciceroniano qui è
volutamente ad effetto, con la ripetizione del termine ars addirittura
per sette volte nel solo paragrafo 246. Converrà trascriverne solo la parte
centrale del ragionamento di Antonio contro Crasso (parte in cui ars,
peraltro, ricorre ben cinque volte): tu ipse videris (che si tratta di ars
tutt'altro che facile), qui eam artem facilem esse dicis, quam concedis
adhuc artem omnino non esse, sed aliquando, si quis aliam artem didicerit, ut
hanc artem efficere possit, tum esse illam artem futuram. In sostanza,
"che non sia facile l'arte del ius lo avrai capito tu stesso che
affermi invece esser facile quell'ars, e però sei forzato ad ammettere
addirittura che essa ancora non esiste, e che potrà esistere solo se si dia
il caso che qualcuno abbia imparato un'altra ars capace di istituire l'ars
del ius civile". E' chiaro che, come notammo per De orat.
1,41,185, ars facilis anche qui significa "facile materia di
studio", mentre nelle altre quattro applicazioni nel seguito il termine ars
significa "sistemazione scientifica", "scienza". Ma il ragionamento di Antonio che
abbiamo illustrato è solo un brillante esempio di sofisma, argutamente
giocato proprio sulla polivalenza del termine ars. In realtà, Crasso
(Cicerone) non si era contraddetto come insinua Antonio (Cicerone): la cognitio
iuris civilis poteva essere giudicata facile anche se ancora non vi era
stato il fenomeno dell'ad artem redigere; e lo stesso ad
artem redigere era facile come era stato detto espressamente nel tratto
finale del par. 191. Il discorso ciceroniano or ora
considerato ha un ulteriore profilo importante su cui non è il caso di
soffermarsi in questa sede: quello dell'asserita facilis cognitio del ius
civile (cfr. 1,41,185, visto a suo tempo). Infatti sviluppi a riguardo,
con aggiunta importante di giudizi relativi alla mira suavitas et
delectatio della conoscenza del ius civile si leggono in De orat.
1,43,193-44,197 (17). 6. Anche il secondo passo che volevamo
rileggere, scritto molto più tardi di quello considerato (il De oratore
è del 55 a.C; il Brutus del 46 a.C) tratta dell'ars iuris civilis.
Ma ne parla, non in una prospettiva progettuale futura (cfr. perfectam
artem iuris civilis habebitis in De orat. 1,42,190) bensì in
relazione ai risultati dell'attività giurisprudenziale di Servio Sulpicio
Rufo. Di questo giurista e intimo amico
Cicerone dice che egli aveva preferito in secunda arte primus esse
piuttosto che essere in prima secundus (Brut. 41,151). Le
due artes in questione, come è chiaro e come si ricava del resto da un
precedente richiamo alla comunione di studi tra Cicerone e Servio a Rodi,
erano i campi di attività della giurisprudenza e dell'oratoria. E Cicerone
implicitamente attribuisce a se stesso immodestamente di essere primus in
prima arte, cioè nell'oratoria, mentre concede a Servio di esser stato primus
nel campo del ius.
Alla domanda dell'interlocutore, M.
Giunio Bruto (che doveva morire a Filippi nel 42 a.C.), diretta a sapere se
quell'asserito primato di Servio dovesse intendersi nel senso che Cicerone lo
stimava davvero, come aveva detto subito dopo, non eiusdem modo aetatis,
sed eorum etiam qui fuissent in iure civili
princeps (sempre
41,151), e quindi superiore addirittura al grande Q. Mucio Scevola pontefice
(41,152), Cicerone risponde nel modo seguente nella parte del passo che qui più
interessa: Brut. 41,152:
existumo iuris
civilis magnum usum et apud Scaevolam et apud multos fuisse, artem in hoc uno;
quod numquam effecisset ipsius iuris scientia, nisi eam praeterea didicisset
artem quae doceret rem universam tribuere in partis, latentem explicare
definiendo, obscuram explanare interpretando, ambigua primum videre, deinde
distinguere, postremo habere regulam qua vera et falsa indicarentur et quae
quibus propositis essent quaeque non essent consequentia. 153. Hic
enim attulit hanc artem omnium artium maximam quasi lucem ad ea quae
confuse ab aliis aut respondebantur aut agebantur. 42,153. Dialecticam
mihi videris dicere, inquit. Recte, inquam, intellegis
Anche a proposito di questo testo
estremamente prezioso non tratteremo alcuni problemi, pur fondamentali,
relativi alla storia della giurisprudenza repubblicana, ed in particolare il
peso ed il senso del giudizio su Quinto Mucio e Servio Sulpicio. Dirò solo,
perché non vedo spesso ricordato in dottrina questo dettaglio, che un più
sintetico, ma non meno caldo, elogio di Servio è in De leg. 1,5,17,
dove, con sicuro riferimento a Servio, si dice che in passato cavere e respondere
erano attività di molti uomini illustri; al presente, invece, erano attività
esercitate da un solo uomo di grande auctoritas e scientia.
Altri elogi per Servio in Pro Mur. 9,19; 14,30; e dopo la morte di
Servio in Phil. 9,1,1 e; 9,3,5; 9,8,10-11. Qui interessa comunque soltanto chiarire
il pensiero di Cicerone intorno all'ars iuris civilis. Cicerone
premette che la differenza tra Quinto Mucio (e molti altri grandi giuristi del
passato: cfr. fuisse) e Servio Sulpicio stava tutta nel fatto che
Scevola e gli altri avevano avuto una grande padronanza pratica (così mi pare
da intendere magnus usus) (18) del ius civile, mentre solo
Servio ne aveva posseduto l'ars. E soggiunge che Servio "non
avrebbe mai potuto realizzare quella padronanza dell'ars iuris civilis
mediante la (sola) conoscenza (qui scientia è usato come sinonimo di cognitio,
quindi con valore generico) del ius, se non avesse arricchito la
propria cultura (cfr. praeterea) imparando quell'ars (e qui il
termine ha il valore specifico relativo ad una attività di elaborazione
concettuale, quindi di scienza in senso moderno tecnico) che insegna a
dividere in parti tutta un'esperienza, a formulare definizioni capaci di
spiegare (19) ciò che è nascosto, a rendere chiaro attraverso
interpretazioni ciò che è oscuro (20), a individuare preliminarmente le
ambiguità e poi eliminarle mediante opportune distinzioni, in modo da potere
infine formulare una regola che indichi ciò che è vero e ciò che è falso
(21), e ciò che è o non è logicamente coerente alle premesse. Servio seppe
introdurre l'ars in questione, che è la maggiore tra le artes,
come una luce per illuminare tutto quello che era oggetto del non
sufficientemente chiaro (cfr. confuse) agere e respondere
(22) degli altri giuristi. Parli della dialettica, mi pare, dice Bruto. Ed io
rispondo che hai capito perfettamente". In sostanza, Cicerone, a distanza di
anni, sia pur non con portata generale e astratta, bensì in relazione
concreta all'opera di Servio Sulpicio, ribadisce ed arricchisce il punto di
vista essenziale espresso teoricamente nel De oratore. Per lui, l'ars
iuris civilis si può realizzare solo con l'applicazione al ius
dell'ars, qui chiaramente designata come dialectica (in De
orat. 1,42,188 si diceva solo che essa era derivante extrinsecus,
mutuata dal genus che i filosofi rivendicano come propria). Egli ripete
che si tratta, anzitutto, dell'attività di distinguere generi e specie.
Questa volta, Cicerone non accenna in particolare alla individuazione di genera
e loro partes, ma usa genericamente partes, certo per indicare
proprio insieme lo schema di genera e species. Egli aggiunge che
l'ars in questione doveva esplicarsi necessariamente anche attraverso
la formulazione di definitiones (come era stato detto, con maggiori
dettagli e con spiegazione definitoria del concetto stesso di definitio,
in De orat. 1,42,189); e pure, e questa volta Cicerone è più
analitico rispetto a quanto aveva detto nel De oratore che è muto al
riguardo, mediante interpretatio per explanare punti oscuri;
nonché mediante eliminazione di ogni ambiguità, cosa che implica la necessità
di individuare bene (videre) le ambiguità; la necessità di eliminarle
(distinguere: solo distinguendo, e cioè separando il vero dal falso,
si può sciogliere ciò che è ambiguo); ed infine l'opportunità di formulare
regulae per indicare esplicitamente e in
generale ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è coerente
alle premesse o non coerente. I presupposti ed i metodi d'una corretta
iuris civilis ars indicati in Brut. 41,152 in modo assai conciso, e però
in modo notevolmente più ricco rispetto al pensiero equivalente espresso nel De
oratore (con i cenni tecnici a intepretatio, ambiguitates, regulae
iuris), a me sembrano pienamente comprensibili solo se considerati in
stretta relazione con la concreta attività di Servio, di cui Cicerone sta
elogiando l'impareggiabile ars. In altre parole, Cicerone esalta in
concreto le sistemazioni in genus e species, le definitiones,
le interpretationes in ordine ad oscurità, l'individuazione ed il
superamento delle ambiguità, l'elaborazione di regulae iuris, di cui
era ricca tutta l'attività giurisprudenziale di Servio Sulpicio, a differenza
da ciò che, secondo lui, doveva dirsi per l'attività di Q. Mucio e di altri
giuristi anteriori a Servio. Significativa, per la considerazione che
Cicerone aveva a proposito dell'attività scientifica in ambito giuridico
dispiegata da Servio è anche Epist. 4,3-4, dove si ricordano le molte artes
(campi di attività e materie di studio, certo) coltivate da Servio, e la
sua specifica scientia, termine che questa volta sembra alludere solo
alla conoscenza approfondita del ius civile. 7. Ma un punto importante è da
rilevare, cioè che, malgrado tutti gli elogi ciceroniani, Servio non sembra
poter essere identificato come il giurista che aveva realizzato il disegno
ideale attribuito a Crasso nel De oratore. Quel disegno, per quel che
più sembra probabile, pare consistesse in definitiva, alquanto ingenuamente,
in una singola trattazione unitaria di tipo, per così dire, sinottico
relativa a tutto il ius civile. Doveva essere caratterizzata da una
preliminare analisi del finis iuris civilis (tema probabilmente più
filosofico che giuridico); e poi da una trama di distinzioni di genera
e partes, e da una connessa serie di definitiones. Insomma, una
trattazione estremamente schematica e, per qualche verso, astratta e non
pratica. Incidentalmente, rileviamo che molti
studiosi hanno pensato che il progetto delineato nel De oratore sarebbe
stato in qualche modo realizzato da Cicerone stesso nel suo liber qui
inscriptus est 'De iure civili in artem redigendo' (Gell. 1,22,7)
(23). Al riguardo, forse gioverà qualche
rilievo anche in questa sede. A me sembra che l'opinione dottrinale or ora
accennata non sia sostenibile. Intanto, a stare a Gellio, del quale non
vi è motivo ragionevole per dubitare data l'abituale diligenza antiquaria,
l'opera ciceroniana constava d'un solo libro. Ora, per quanto si voglia non
trascurare una certa innegabile superficialità e anche una certa eccessiva
autoconfidenza nell'approccio ad una impresa tanto grave qual era quella d'una
sistemazione metodica di tutto il ius civile, non sembra verosimile che
Cicerone l'abbia affrontata in un'operetta di un solo libro. Del resto, il titolo dello scritto
ciceroniano perduto di cui parliamo dovrebbe escludere la tesi che stiamo
contrastando. L'uso del gerundio redigendus, infatti, indica
chiaramente come l'opera si proponesse solo di esporre una possibilità di
realizzazione futura dell'ars iuris civilis, e non già di fornire,
bell'e pronta, quell'ars: nella prospettiva che critichiamo il titolo
adatto avrebbe dovuto essere De iure civili in artem redacto. Il De iure civili in artem redigendo
probabilmente fu scritto dopo il De oratore (24), opera nella quale
viene delineato chiaramente, come abbiamo ripetutamente visto un progetto di redigere
ad artem, di efficere artem in ordine al ius civile,
un'impresa che lo stesso Cicerone, con evidenza, confidava di poter realizzare
egli stesso (25). Il libro perduto di Cicerone probabilmente consistette
soltanto in un primo avvicinamento all'impresa delineata nel De oratore;
forse nell'elencazione non sistematica di esempi di genera, species
e definitiones. Probabilmente si trattò d'uno scritto incompiuto (26),
abbozzato proprio sul finire della vita di Cicerone. Del resto, se il libro perduto cui
allude Gellio fosse stato pubblicato da Cicerone prima del Brutus (46
a. C.) è probabile che Cicerone non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione
di accennarvi, proprio in Brut. 41,151ss., anche solo per sottolineare,
nell'elogio di Servio, che egli stesso aveva in qualche modo utilizzato il
metodo per cui Servio gli sembra degno di lode. Comunque, come che sia di ciò,
crediamo che non sussista alcuna probabilità di intendere i cenni
ciceroniani all'ars iuris civilis di Servio come una testimonianza che
quel giurista avesse realizzato una trattazione generale sistematica relativa
al finis, ai genera, alle partes, alle definitiones
del ius civile. Un'opera serviana siffatta, che pure è
stata talvolta supposta (27), avrebbe anzitutto certamente lasciato traccia
nella tradizione, e ne troveremmo cenno in qualcuno dei tanti passi
giurisprudenziali in cui è citato Servio. Ad essa, poi, come ai libri iuris
civilis di Quinto Mucio e di Sabino, sarebbero state dedicate opere di
giuristi successivi. Di essa, inoltre, per quel che vale (e sostanzialmente
non è certo poco), avrebbe fatto cenno D. 1,2,2,43 (Pomp. l. sing. ench.),
che parla diffusamente di Servio ed accenna ai suoi 180 libri (l'autore di
questo lungo testo sapeva anche specificamente che Servio aveva scritto due
libri ad Brutum, sull'editto pretorio a quel che sembra: cfr. D.1,2,44;
difficilmente avrebbe omesso, se fosse esistita, una trattazione generale di ius
civile). Ed infine, e soprattutto, il cenno di Cicerone, nello stesso
passo di cui parliamo (precisamente in Brut. 41,153), alla lux
fornita dalla dialettica utilizzata da Servio ad ea quae confuse ab
aliis aut respondebantur aut agebantur si attaglia bene ad un continuo uso
di categorie dialettiche sistematiche nel corso del respondere e dell'agere,
mentre non si attaglierebbe affatto ad una trattazione complessiva
dialetticamente ordinata e realizzata una volta per tutte (28). Comunque, da una attenta considerazione
dei non pochi resti di testimonianze giuridiche certamente o probabilmente
(specialmente allorchè si tratta di brani di Alfeno) attribuiti a Servio
Sulpicio, risulta effettivamente che egli soleva procedere regolarmente ad
attente distinzioni tra fattispecie e tra regole, nonché a definizioni
(celebri tra tutte quella del dolo in D. 4,3,1,2, e quella della tutela in D.
26,1,1pr.); ed ancor più significative sono, a conferma del giudizio di
Cicerone nel senso in cui lo intendiamo, le distinzioni serviane in genera di
tutelae e furta attestate in Gai. 1,188 e 3,183.
Un ultimo punto deve essere almeno accennato. Quando Cicerone
delineava nel De oratore il suo desiderio di elaborare, o di vedere
almeno elaborare da altri, una perfecta ars iuris civilis, una vera scientia
iuris civilis, con l'uso della dialettica, aveva in mente una generica
prospettiva metodologica, cioè raccomandare l'accostamento a tutte le
questioni giuridiche con l'uso delle categorie dei genera, delle partes,
delle definitiones e delle regulae; o pensava invece ad una
compiuta trattazione del ius civile, quindi ad un'opera sistematica
scritta per esporre integralmente il ius civile con l'aiuto delle
categorie ordinatorie fornite dalla dialettica? Al riguardo converrà attenersi a quanto
emerge dai cenni in De orat. 1,42,188-191; 1,58,246; 2,19,83 e
2,33,142, testi tutti studiati nelle pagine precedenti. In base a quei passi a
me sembra che non si possa dubitare del fatto che Cicerone progettava davvero
la possibilità di scrivere un trattato di ius civile organizzato
secondo gli schemi del genus, delle species e delle definitiones.
Un'opera, quindi, del tutto diversa da quella che fu, come ci è parso di
dover congetturare, il semplice progetto metodologico verosimilmente
costituito dal De iure civili in artem redigendo. Nel senso qui proposto ci sembra deporre
anzitutto il rilevo di Cicerone (De orat. 1,42,188) della necessità,
per la realizzazione del suo progetto, che l'autore dell'opera auspicata
fissasse preliminarmente il finis del ius civile. Una esigenza
siffatta ben si conviene ad una compiuta ed organica trattazione sistematica
del ius civile, mentre sarebbe del tutto fuori luogo, crediamo, in una
trattazione limitata solo a prescrivere agli operatori del ius civile
l'uso di determinate categorie dialettiche. Poi, nel De oratore, non si dice
teoricamente che per l'applicazione e lo studio del ius vadano
utilizzati gli accennati schemi dialettici; bensì si prescrive concretamente
un piano di lavoro. E' necessario individuare pochi (quindi assai ampi) genera,
cogliere le partes di essi, e definire ogni cosa (1,42,189; cfr.
1,42,190; 2,19,83). E' un piano di lavoro applicabile ad una progettata
trattazione universale del ius civile; e che non può applicarsi ad una
ipotetica progettata raccomandazione metodologica ai fini dell'uso del ius
e della soluzione delle questioni del ius. Per una raccomandazione del
genere, infatti, sarebbe stato sufficiente avvertire della necessità, caso
per caso, di individuare un genus con le sue species e di
elaborare e applicare operativamente le definitiones relative; sarebbe
stato assurdo caldeggiare, nell'uso della pratica, ogni volta una ricognizione
completa e una definizione esauriente dei genera e delle relative partes.
Infine, locuzioni come efficere artem
(De orat.1,41,186; 1,58,246), redigere ad artem (2,33,142; e si
deve ricordare il titolo dell'operetta ciceroniana perduta), habere
perfectam artem iuris civilis
magnam atque uberem da
realizzarsi mediante il cogere quae dispersa sunt (1,42,141), mi
sembra abbiano evidente riferimento ad un'opera completa, oggettivamente
sussistente, e non già ad un metodo (che pure è, ovviamente, presupposto
come strumento di realizzazione). In conclusione, sembra proprio che
Cicerone si proponesse la possibilità agevole di redigere un trattato
sistematico di ius civile ordinato per genera e species,
e completato con esaurienti definitiones. Certo, in quel proposito
sembra estremamente ingenuo il ripetuto cenno alla facilità di realizzazione,
cenno che lascia trasparire una sottovalutazione tipicamente ciceroniana della
complessità tecnica dell'attività giurisprudenziale e dell'impegno
concettuale nell'elaborazione di categorie giuridiche. Ma un'opera come le
Istituzioni di Gaio, tutta strutturata proprio secondo genera, species
e definitiones, mostra quanto plausibile fosse poi, nella sua ultima
ragion d'essere, il proposito delineato nel De oratore. E al riguardo
nasce il problema, che qui può esser solo accennato, della non trascurabile
probabilità che qualche giurista abbia raccolto, poco dopo la morte di
Cicerone, il suo programma, redigendo un'opera che potrebbe aver costituito un
precedente delle Istituzioni gaiane.
1.
Per le quali gioverà rinviare al più recente studio completo sui
passi ciceroniani in questione (e specialmente sul primo): quello, pregevole,
di V. Scarano Ussani, Tra scientia e ars. Il sapere
giuridico romano dalla sapienza alla scienza nei giudizi di Cicerone e
di Pomponio (in Atti del seminario giuridico di S. Marino, 7-9 gennaio
1993: Per la storia del pensiero giuridico romano dall'età dei
pontefici alla scuola di Servio, a cura di D. Mantovani), Torino,
1996, 228ss. La ricerca di Scarano Ussani era stata già pubblicata in Ostraka
2, 1993, 211ss. Citerò dall'edizione più recente più agevolmente
consultabile. Non sarà inutile avvertire che anche alcuni dei paragrafi del De
oratore immediatamente successivi a quelli che qui considereremo, e
precisamente 1,43,191- 44,197, hanno grande rilievo per la storia del diritto
romano, anche se non riguardano il problema qui preso in esame. 2.
Cic., Ad Att. 4,13,2, per la precisa datazione del De oratore;
v.a. Ad Att. 13,19,4; Ad fam. 1,9,23. Per l'ambientazione del
dialogo nel 91 a. C., De orat.1,7,24. 3.
Cfr. soprattutto i paragrafi 30-73; 107-204; 263-265: in questi ultimi
paragrafi a Crasso spetta l'ultima parola quanto al contrasto che lo divide da
Antonio, al cui pensiero sono dedicati soprattutto i paragrafi 80-96 e
209-262. 4.
Si tratta del console del 117 a.C., che fu suocero di L. Licinio Crasso
ed iniziò Cicerone agli studi giuridici: Cic., Lael. 1,1; Brut.
89,306. Non compare più nei due successivi libri del De oratore. 5.
Sul concetto di techne, cfr., per tutti, Isnardi Parente, Techne.
Momenti del pensiero greco da Platone a Epicuro, 1966; Cambiaso, Platone
e le tecniche, 1991; e da ultimo con vasta ulteriore bibliografia e con
attenta considerazione particolarmente rivolta ai problemi che nascono dai più
importanti passi del De oratore, Scarano Ussani, op. cit., passim;
a pp. 234-235, cenni ad una traduzione ciceroniana della definizione di techne
prospettata da Zenone (come "sýstema", termine che Cicerone
rendeva con constructio). Qui a p.234 nt.9 e p.235 nt.11 brevi cenni
alla nozione di ars secondo Charmadas. 6.
Questa idea del "riguardare strettamente" è inclusa, mi
sembra, nel verbo contineri di De orat. 1,20,92.
7.
In un lungo tratto, a questo punto, Cicerone parla, esemplificando,
della musica (per la quale gli elementi di base poi ridotti a ars sono
i ritmi, i suoni e i toni: numeri, voces, modi); della
geometria (dati di base sono linee, figure, distanze, grandezze: lineamenta,
formae, intervalla, magnitudines); dellastrologia (vengono in
questione i moti del cielo, il sorgere, il tramontare e le orbite dei corpi
celesti: caeli conversio, ortus, obitus motusque siderum);
della letteratura (grammatica; dati da
organizzarsi in ars sono lo studio dei poeti, la conoscenza
della storia, linterpretazione delle parole e la pronunzia: poetarum
pertractatio, historiarum cognitio, verborum interpretatio, pronuntiandi
sonus); e della retorica stessa (ratio dicendi: come elementi di
essa si elencano i metodi tradizionali di invenzione, ornamento, disposizione,
memoria e recitazione con gesti: excogitare, ornare, disponere,
meminisse, agere). 8.
Così, da ultimo, Scarano Ussani, op. cit., 237s., con
bibliografia e rilievi efficaci su posizioni divergenti da quella dominante.
La prova più sicura del riferimento ciceroniano alla ars dialectica è
costituita dal fatto che, come si vedrà, in Brut. 41-42, 153,
Cicerone, riprendendo il discorso su ars (scientia) iuris
civilis in relazione a Servio Sulpicio, parla dellars omnium
artium maxima, qualificandola espressamente dialectica. 9.
Questi participi che qualificano un complesso di dati disorganizzati
richiamano ovviamente quelli equivalenti (dispersa et dissipata) usati
subito prima in 1,42,187. Identico concetto ritroveremo a proposito del
progetto di Crasso di ordinare il ius civile in ars, in scientia,
allorché loratore parla della necessità di quae dispersa sunt cogere
(1,41,190); cfr. pure 2,33,142 cui si accennerà più avanti. 10.
La distinzione tra notare e revocare genera
implica certo lidea duna preliminare ricognizione di schemi, seguita da
una scelta limitata di essi. 11.
Communio sui
mi pare traducibile con unità di essenza, intendendo suum di
qualcosa ciò che l'identifica specificamente. 12.
Vedremo, in Brut. 4,151ss., il cenno a rem universam tribuere
in partes, senza menzione né di genus né di species. 13.
La tipica assenza in età risalente di termini astratti determina
luso alquanto sgraziato di res quae sunt rei propria nel senso,
certo, di essenza propria duna cosa. Questa, credo, è lunica, o
in ogni caso la più compiuta, definizione ciceroniana della nozione di definitio
in senso logico-retorico. Quella nozione viene individuata con riguardo alla
sua prima caratteristica formale (brevità e precisione) e con riguardo alla
sua finalità, che è quella di explicare: esplico è
lopposto di implico, e predica lo scioglimento di ciò che è implicitus. 14.
In De orat. 1,42,191, subito dopo lenunciazione dei dati
necessari per costruire la perfecta iuris civilis scientia, si legge il
rilievo per cui, anche in attesa che sia compiuta lopera immediatamente
prima descritta, e cioè lopera di sistemare il ius civile secondo genera
e partes (dum haec quae dispersa sunt coguntur), è sempre
possibile, a chi pur si limita ad operare senza un disegno del tutto compiuto
e però si prende cura di
cogliere e coordinare tra loro concetti tratti da ogni campo del ius civile
(passim carpentem et colligentem undique; il discorso
ciceroniano qui è particolarmente ellittico, ma credo di averne reso il senso
più probabile), di arricchirsi compiutamente dellaccennata scienza del ius
civile (repleri ista iuris civilis scientia; non sembra
giustificata in alcun modo la lettura iusta in luogo di ista:
essa non dà un senso ragionevole, ista invece garantisce un rinvio al
precedente cenno allars iuris civilis). 15.
Ricordiamo che in De orat. 1,41,186 si dice che per redigere
ad artem occorre illa scientia che sia capace, appunto, di artem
efficere in ordine a ciò di cui ars nondum sit, e che in 1,42,188,
al riguardo della stessa attività, si parla di ars quaedam. 16.
Con accortezza, ha tenuto conto anche di questo paragrafo Scarano
Ussani, op. cit., 235s., nel quadro della sua interpretazione di ars,
nei passi ciceroniani che abbiamo studiato, come termine dal duplice
significato di scienza e trattato contenente quella scienza. A me
pare, come ho detto, che oltre al valore di scienza, ars abbia
per Cicerone, anche qui come spesso altrove, il valore generico di campo di
attività, materia di studio. 17.
Ho brevemente considerato di recente anche questultima parte del
ragionamento ciceroniano sullars iuris civilis in Le notae iuris
di Probo ed il ius Flavianum, in IURA 46 (1995; 2000), 11 nt.23. 18.
Sul punto, come anche per i problemi accennati di storia della
giurisprudenza, cfr. per tutti, da ultimo, Scarano Ussani, op. cit.,
245ss. Questo studioso, in particolare, cita il Villey e, come lui, ritiene
che usus in Brut. 41,152, sia probabilmente concetto
corrispondente alla empeiria platonica e aristotelica, che era già,
sia pure a livello preliminare, un metodo di elaborazione scientifica di dati
dellesperienza. Lipotesi è interessante, ma occorrerebbe svolgere
unanalisi compiuta dei testi ciceroniani retorici contenenti il termine usus.
Per mio conto, preferisco interpretare usus in altro senso: infra,
nt.22. 19.
Questa funzione della definitio, di explicare, era stata
identicamente individuata nella bella definizione proposta, come si è visto (supra
nt. 13) in De orat.1,41,189: est enim definitio
quaedam
explicatio. 20.
Gli accusativi latentem e obscuram si collegano certo,
come qualificazioni, al precedente rem (
rem universam tribuere
). 21.
La menzione di iudicare vera et falsa mi pare da riferire
specificamente agli ambigua prima nominati. In altre parole, non si
tratta duna distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso in
generale, bensì solo in relazione a questioni ambigue. 22.
Questa precisazione di due delle attività classiche del giurista, agere
e respondere (il cavere non è menzionato a parte) mi sembra
illuminante per intendere bene il cenno al magnus usus del ius
civile da parte di Q. Mucio e molti altri. Anche questa volta, Cicerone
contrappone Servio agli alii e specifica lattività di questi ultimi
utilizzando i termini tecnici di essa, che prima aveva genericamente accennata
utilizzando il termine usus iuris civilis. 23.
Sul liber
in questione cfr., per fonti e letteratura, Scarano Ussani, op. cit.,
236 nt.16; qui sono citati molti studiosi antichi e recenti che ritengono il liber
realizzazione del programma esposto nel De oratore.
24.
Una stesura in epoca precedente sembra da escludere, tra laltro,
perché nel preambolo del De oratore (1,5,16-1,6,23), Cicerone
sintetizza con qualche dettaglio il proprio ideale rispetto allarte
oratoria, e non manca di richiamare, tra le molte conoscenze necessarie
alloratore, la legum ac iuris civilis scientia. A me sembra certo
che, se egli avesse già scritto lopera di cui stiamo discorrendo, non
avrebbe potuto omettere un cenno ad essa. 25.
Come non vedere un preciso disegno personale di Cicerone nelle parole
di 1,42,190: Si enim
mihi facere licuerit, quod iam diu cogito
? 26.
Questo mi par risultare con certezza dal componere aliqua de eo (scil.
iure) coeperat di Quint., Inst. or. 12,3,10. 27.
Una indicazione bibliografica in Scarano Ussani, op. cit., 244
nt. 37. 28.
Agli scritti giuridici di Servio, lodevoli per litterarum
scientia e loquendi elegantia, Cicerone accenna genericamente
subito dopo in 42, 153; allattività pratica serviana in agendo et
respondendo, lodevole per celeritas, subtilitas diligentiaque, si
accenna in 42,154. |
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