Pubblicazioni - Annali 2002 |
Prob.
3,13 ed i plebisciti |
1.
Prob. 3,13: SQSSEQNISREHLNR: Si quid sacri sancti est, quod non iure sit
rogatum, eius hac lege nihil rogatur. Queste
litterae singulares segnalate come presenti in iure civili de legibus et
plebiscitis (1), e decifrate da Probo si ritrovano con una minima variante (la
mancanza della prima Q) in due testimonianze epigrafiche che attestano la
presenza, in una lex publica populi Romani, d'una clausola sostanzialmente
coincidente con quella espressa dalle parole registrate da Probo. Si
tratta della linea 26, e ultima, del Fragmentum Tarentinum, una tavoletta
bronzea contenente un tratto d'una lex, forse repetundarum, probabilmente
degli ultimi anni del II sec. a.C. (2); e della linea 36 della lex Gabinia
Calpurnia de insula Delo, del 58 a. C., che ci resta in una epigrafe su
pietra, molto danneggiata, rinvenuta agli inizi del secolo scorso a Mykonos
(3). Un
resto importante, ma incompleto, della stessa clausola è probabilmente anche
nel minuscolo c.d. Frammento Adamesteanu della lex Latina tabulae Bantinae (di
natura e data incerte; forse una legge agraria; con ogni probabilità risale
alla fine del II o agli inizi del I sec. a.C.); nel frammento (4) si legge,
dopo una lacuna ed una lettera singola (probabilmente una n): ious siet
rogare, ex hace lege n; data l'epoca è assai probabile una integrazione del
tipo [sei quid sacri sancti est quod no]n ious siet rogare, ex hace lege n[ihil
rogatur], in piena conformità con la clausola in Prob. 3,13. Scarsa rilevanza
hanno la struttura ex hace lege, in luogo di hac lege risultante da Probo (e
dalle sigle nel Fragm. Tarentinum e nella lex Gabinia citati), nonché la
mancanza di eius prima di ex hac lege. L'eius risulta presente in Prob. 3,13 e
nelle due testimonianze epigrafiche or ora citate; ed è probabilmente
confermato da Prob. 3,2: EHOLNR: eius hac omnibus lege nihilum rogatur, forse
in parte guasto (5), ma che comunque è certamente sigla corrispondente alla
parte finale d'una clausola che o era la stessa di quella registrata in Prob.
3,13, o era dello stesso tipo con protasi diversa. Da
Prob. 3,2 si ricava anche una possibile variante nell'apodosi della nostra
clausola: invece del nihil rogatur, la struttura, probabilmente meno recente
nihilum rogatur. E la possibilità d'una formulazione proprio dell'apodosi
della clausola che ci interessa con nihilum rogatum (e non nihilum rogatur,
come in Prob 3,2; né nihil rogatur, come in Prob. 3,13) si evince da Cic.,
Pro Caec. 33,95, che riferisce d'una legge sillana dell'82 a. C., la lex
Cornelia de municipio Volaterrano, con clausola si quid ius non esset rogarier,
eius ea lege nihilum rogatum. Ma la mancanza del cenno ad un quid di
sacrosanto impedisce di considerare la redazione suggerita da questa
testimonianza ciceroniana come prova certa d'una struttura della nostra
clausola con l'apodosi nihilum rogatum. Nulla
di preciso, dal punto di vista formale, può ricavarsi poi da Cic., De domo
40, 106, dove si rinfaccia a Clodio di aver egli stesso fatto includere nel
plebiscito che l'aveva autorizzato a consecrare la casa di Cicerone la
clausola, qualificata come mezzo per excipere alcunchè (
non exceperas
ut
; la nostra clausola, anche se non è affine sostanzialmente ad una
exceptio formulare, può bene considerarsi come strumento per eccettuare
qualcosa): "si quid ius non esset rogari, ne esset rogatum". La
clausola cui Cicerone allude qui avrebbe dovuto, secondo lui, impedire a
Clodio la consecratio, come atto non conforme al ius. Ad
una differente clausola, e però analogamente volta a far considerare non
rogato quanto fosse stato rogato con criteri irregolari, accenna Cic., Ad Att.
3,23,3. Si tratta d'una molto nota lettera del 58 a. C., nella quale Cicerone
si duole che in un progetto di plebiscito a suo favore, proposto da otto
tribuni della plebe, fosse stata inserita una clausola di nullità eventuale
della rogatio stessa, concepita, quanto alla protasi, in questi termini: Si
quid in hac rogatione scriptum est quod abrogare, derogare, obrogare sine
fraude sua non liceret, non licuerit
Ma l'apodosi relativa, nel manoscritto
ciceroniano, è riportata in sigla: EHLNR. Molti editori sciolgono la sigla in
eius hac lege nihilum rogatum (certo anche sulla traccia di Pro Caec. 33,95
cit.); ma nulla può fare escludere che Cicerone si riferisse invece ad una
clausola con ex hac lege nihil rogatur come nel Frammento Adamesteanu della
lex Lat. tab. Bant. D'altra
parte, le locuzioni ciceroniane si quid ius non esset rogarier (Pro Caec.,
33,95) e si quid ius non esset rogari (De domo 40,106) potrebbero far pensare
ad una formulazione della protasi diversa, per questo aspetto, da quella di
Prob. 3,13 (si quid
est, quod non ius sit rogare (6). Infine,
Cic., Pro Balbo 14,32-33 dice che, ammesso e non concesso, che un trattato tra
Roma e Gades avesse davvero escluso la concessione della cittadinanza romana
ai Gaditani, in ogni caso una successiva legge Gellia Cornelia (72 a. C.), che
aveva attribuito a Pompeo la potestas di donare civitatem, avrebbe annullato
quella disposizione del foedus, dato che in essa vi era una clausola che
confermava il foedus stesso, lasciando però exceptum
si quid (7) sacro
sanctum est. Infatti, concludeva Cicerone, non si poteva certo considerare
sacro sanctum un foedus come quello in questione che non era stato oggetto di
esplicito iussus del popolo Romano e che non conteneva alcuna sanctio con
consecratio. Su questo passo ciceroniano torneremo brevemente più avanti in
relazione alla nozione di sacro sanctum. Tutto
considerato, non si vedono ragioni, almeno a mio avviso, per dare come
particolarmente probabile, per la sigla riferita in Prob. 3,13, la struttura:
Si quid sacro sanctum est quod non ius sit rogare, eius hac lege nihilum
rogatur (8); e non quella: Si quid sacri sancti est quod non iure sit rogatum,
eius hac lege nihil rogatur fornita da Prob. 3,13. In
ogni caso, non ius esse rogare e non iure esse rogatum (che costituiscono
certo i punti più importanti) sono locuzioni parimenti antiche: cfr. ad es.,
XII tab. 6,1: ita ius esto; 8,12: iure caesus esto. Esse, con riguardo alla
fattispecie considerata nella protasi della clausola (rogatio con irregolarità),
possono considerarsi quasi equivalenti; ma una sfumatura di diversità si può
intravedere, comunque, dato che ius non esse considera la mancata conformità
di qualcosa al ius; iure non esse riguarda la mancata conformità al ius di
un'azione che ha portato a un certo risultato. 2.
La clausola attestata in Prob. 3,13 e nelle altre fonti che la contengono per
intero (salvo il primo quid) è stata considerata fenomeno databile con una
certa precisione, e cioè da ascrivere alla fase repubblicana più recente dal
Mayer-Maly (10). E anzi l'illustre studioso ha supposto anche che abbia avuto
un'evoluzione storica formale, una "Entwicklung von Text". Ciò in
quanto, a partire dalla lex Cornelia de municipio Volaterrano citata in Cic.,
Pro Caec. 33,95, dalla clausola sarebbe caduto il riferimento alle sfere del
sacrum e del sanctum. Alla radice del fenomeno affermato vi sarebbe stata
ovviamente una "Entwicklung von Funktion": al suo inizio, la
clausola sarebbe stata ispirata ad un rispetto accentuato nei confronti della
sfera sacrale; poi, essa sarebbe scaduta a pragmatica clausola di
salvaguardia, per il proponente una legge, al fine di evitargli eventuali
conseguenze politiche negative della sua rogatio. Per
mio conto, in primo luogo, non credo che si possa con tanta sicurezza
attribuire l'origine della clausola alla tarda epoca repubblicana. Il fatto
che non ne esistano attestazioni precedenti all'epoca della lex Lat. tab.
Bantinae non significa nulla, credo. La testimonianze epigrafiche o letterarie
di leggi repubblicane antiche giunte a noi sono poche e incomplete. In
particolare, la lex (Acilia?) repetundarum e la lex Baebia agraria sono di
poco precedenti alla più probabile data della legge latina conservata in
parte nell'epigrafe Bantina; ma la loro parte finale, nella quale avrebbe
potuto trovarsi la nostra clausola, non ci è giunta. Del resto, una iperbole
ciceroniana per cui la clausola in questione sarebbe stata contenuta in
omnibus legibus (Pro Caec. 33,95) (11) lascia pensare, in ogni caso, che si
trattasse di clausola molto diffusa, e che essa fosse presente in molte leggi
d'età precedente a Cicerone, il quale, diversamente, non avrebbe certo fatto
ricorso all'esagerazione. Non vedo ragioni, in sostanza, per non ammettere la
possibilità che la nostra clausola fosse contenuta anche in leggi d'età
repubblicana risalente. E su questo punto tornerò tra poco con una
congettura. In
secondo luogo, non credo neppure che si possa evincere con un minimo di
plausibilità da Cic., Pro Caec. 33,95 che in età sillana la nostra clausola
avrebbe subito la modificazione costituita dalla caduta del riferimento al
sacrum e al sanctum. Il passo ciceroniano, infatti, contiene solo un accenno
sommarissimo alla clausola e non ha alcuna pretesa, nè alcuna autorità di
costituire una citazione integrale del tenore della nostra clausola. Comunque,
il compito più interessante è quello di analizzare il contenuto della
clausola nella stesura attestata da Probo (3,13), che è autore antiquario
colto e ben informato, e quindi, in linea di massima, degno di fede. 3.
La prima osservazione da fare è che nella nostra clausola, se essa fosse
stata davvero in uso in età repubblicana antica come a noi sembra ragionevole
ammettere, si rispecchierebbe tecnicamente la sfera della lex rogata, non
quella dei plebisciti (e tanto meno quella delle leges datae). Il
riferimento cui accenniamo è provato dal fatto che nella clausola si afferma
recisamente che, vera la protasi, su quel punto (eius, in riferimento al quid
iniziale), con questa lex, non si avrà alcun rogare. La terminologia quindi
rinvia alla lex rogata e solo ad essa. Solo
in età repubblicana progredita, come si sa, tra lex e plebiscitum si stabilì
un'equivalenza piena anche terminologica (si finì per parlare di lex e di
rogare anche in relazione ai plebisciti; è inutile addurre testi al
riguardo). Ma ancora sulla fine del II sec. a.C. tecnicamente si distingueva
attentamente; qui basterà citare soltanto la lex agraria epigrafica del 111
a.C., in cui puntigliosamente si usano formule come ex lege plebeive scito. Ci
sembra ragionevole proporre l'ipotesi che, nella sua possibile e per noi
probabile applicazione in età repubblicana risalente, e quindi nella sfera
esclusiva delle leges rogatae, la clausola sia stata posta per escludere la
validità di disposizioni contenute in una legge votata dai comitia, che o
risultassero attinenti ala sfera del sacrum e sanctum, e però rogate senza
rispetto della modalità tecnica (ius) che sarebbe stata necessaria (ciò se
si ammette la stesura: si quid sacri sancti est, quod non iure sit rogatum); o
che risultassero attinenti alla sfera esclusiva del sacrum e del sanctum, e
che per questo non avrebbero mai potuto essere validamente (ius non esse)
oggetto di valido rogare (ciò se si accetta la stesura: si quid sacri sancti
est, quod non ius sit rogare). In
questo quadro congetturale, una ratio plausibile della creazione e
applicazione della clausola che studiamo potrebbe esser stata quella di negare
validità a disposizioni ordinate con lex rogata, ma contrarie a quanto fosse
stato sacrosanctum in particolare nella sfera delle istituzioni e delle
deliberazioni plebee. Si
sa che la qualifica di sacrosanctus si applicò in modo specifico, già in età
protorepubblicana, al tribuno della plebe e ad altri rappresentanti plebei in
quanto ad essi si garantiva l'inviolabilità. La
tradizione richiama a questo proposito soprattutto una lex tribunicia prima
del 494 a.C., in occasione della prima secessione plebea (Fest., s.v. Sacer
mons, L. 422). Questa lex tribunicia era certo un plebiscito rafforzato da un
ius iurandum, come emerge chiaramente da Liv. 3,55,9-10 (cfr. iure iurando
interposito in Fest., s.v. Sacrosanctum, L. 422, pur senza specifico cenno al
plebiscito o ai tribuni plebei). Si trattava quindi di un atto essenzialmente
fondato su religio e remote caerimoniae, come si ricava da Liv. 3,55,6-7. Questa
remota deliberazione plebea talvolta fu chiamata lex sacrata (ad es., Cic.,
Pro Tullio 20, 47, cfr. Liv. 2,54,9; 3,17,7; 3,32,17; 5,11,3; 39,5,2; v.a.
Cic., Pro Sest. 37,79; De prov. cons. 19,46), (12); e fu riconosciuta operante
dal patriziato con una presa di posizione che talvolta è considerata dalla
tradizione come un vero e proprio foedus tra patrizi e plebei (Liv. 2,33,1-2;
3,67,7; 4,6,7; cfr. App., Bell. civ.2,18 e138; Dion. Hal. 6,89). In
particolare, ai tribuni si applicò la qualifica di sacrosancti; tra i tanti
esempi basterà citare Liv. 2,33,1; 3,55,6-7 e10; 3,67,7; 4,6,7; 29,20,1; Cic.,
Pro Balbo 33,95; Fest., s.v. Sacrosanctum cit. Ma
sacrosanctus fu qualifica di più ampia applicazione. Al riguardo possediamo
solo due attestazioni generali di tipo definitorio. Nella
prima, e cioè nel più volte citato lemma festino Sacrosanctum (L. 422), si
dice forse che è sacrosanctum ciò che è stato creato con il fondamento di
un ius iurandum con previsione di pena di morte, in futuro, per chi avesse
violato quanto era stato creato (sacrosantum dicitur quod iure iurando
interposito est institutum, si quis id violasset, ut morte poenas penderet)
(13). E si soggiunge che la categoria del sacrosanctum (cuius generis) (14) si
applicava a tribuni ed edili della plebe. Sembra
evidente che qui si alluda al sacrosanctum come ad una categoria di
qualificazione che ricomprende tribuni ed edili, ma che non si limita ad essi;
altrimenti, non avrebbe avuto senso il ricorso al termine genus, che per sua
natura è normalmente comprensivo di varie species. La
seconda attestazione è costituita da Cic., Pro Balbo 14,33, già visto ad
altro riguardo. Il passo ciceroniano è probabilmente guasto per qualche
aspetto non secondario, nel tratto complessivo 14, 32-33. Rinviamo alle varie
edizioni dell'orazione ciceroniana per problemi di correzione o integrazione,
che qui non potrebbero certo essere opportunamente affrontate. Cercheremo solo
di cogliere alcuni dati relativamente sicuri, pur nelle difficoltà testuali. Cicerone
difendeva Lucio Cornelio Balbo che aveva acquistato la cittadinanza romana,
per concessione di Pompeo ed in forza della legge Gellia Cornelia del 72 a.C.
Nel processo, l'accusatore di Balbo sosteneva (cfr. 3ss.) che Pompeo, malgrado
la legge citata che lo autorizzava a donare civitatem, non aveva diritto di
conferire la cittadinanza a Balbo in quanto questi era cittadino di Gades, ed
un antico foedus tra Roma e Gades, secondo l'accusatore, avrebbe escluso ogni
passaggio dei Gaditani alla cittadinanza romana. Cicerone (14,32) nega
recisamente l'esistenza d'una siffatta disposizione del foedus; e però
sostiene che, se anche quella disposizione fosse esistita, la legge Gellia
Cornelia l'avrebbe abolita. Quella legge, infatti, aveva attribuito a Pompeo
espressamente e specificamente (definite) la potestas civitatem donandi. E'
vero, aggiunge Cicerone, che sembra che la legge del 72 a.C. avesse escluso
dalla potestas conferita a Pompeo ciò che fosse stato sancito da un foedus e
fosse stato relativo ad un quid sacrosanctum ("Exceptum...est foedus si
quid sacrosanctum est": sono parole riportate in Pro Balbo 14,32, e
dipendenti da un inquit che potrebbe avere per soggetto o l'accusatore, o, ma
meno probabilmente, credo, la legge Gellia Cornelia). Cicerone
afferma (14,33) che, comunque, nella legge in questione non poteva esser stato
contenuto alcunchè di relativo al sacrosanctum che potesse riferirsi al
foedus Gaditanum perché--e qui si giunge al punto che per noi ha più
interesse--sacrosanctum è soltanto ciò che è stato sancito dal popolo o
dalla plebe (e si deve intendere, credo, con ius iurandum interpositum, per
usare la terminologia di Festo già veduta); ed in particolare una
deliberazione popolare che contiene una consecratio capitis a danno del
violatore (è in questa parte che il testo ciceroniano è particolarmente
dubbio; però il senso sembra indiscutibile). Nel trattato con Gades non vi
era stata deliberazione di popolo o plebe, sottolinea Cicerone (sicchè, è
implicito, in esso non vi fu mai alcuna sanzione relativa ad una consecratio
capitis); e quindi la "eccezione" della legge Gellia Cornelia: si
quid sacro sanctum est
non poteva affatto applicarsi. Qui
rileva la nozione di sacrosanctum presentata da Cicerone. Essa implica
probabilmente la possibilità di leges sacratae anche comiziali, e non solo di
plebisciti con consecratio; possibilità che, se si dovesse ammettere,
potrebbe esser stata frutto d'uno sviluppo storico (15). A
noi interessa soprattutto il fatto che, per Cicerone, sacrosanctum è realtà
che non si attaglia soltanto alla condizione costituzionale di inviolabilità
dei rappresentanti plebei. Essa è concepita come una realtà più ampia--un
genus, si può dire, richiamando Festo (o Catone stesso?), s.v. Sacrosanctum
cit.--che include anche varie deliberazioni popolari con consecratio capitis. Sulla
base di queste attestazioni di tipo definitorio, che si attagliano bene alla
più probabile etimologia di sacrosanctus, termine che indica ciò che è
stato stabilito solennemente e obbligatoriamente (sancire) mediante alcunchè
di sacrum, una congetturale valutazione
della clausola legislativa di cui abbiamo intrapreso lo studio, se la
riferiamo, come ci sembra probabile, all'età repubblicana risalente,
si presenta con chiarezza. Potè
trattarsi, supponiamo, d'una clausola che, dopo gli accordi tra patriziato e
plebe che riconoscevano la facoltà plebea di riunirsi, di deliberare, di
creare rappresentanti, ma non riconoscevano ancora ai deliberati plebei
efficacia per l'intero populus, quindi in epoca precedente alla legge Ortensia
del 287, e anzi alla legge Publilia Philonis del 339 a.C., consentì ai plebei
di ottenere un certo riconoscimento giuridico almeno per le più importanti
loro istituzioni e decisioni. A quelle che fossero state adottate iure iurando
interposito (Festo-Catone), con consecratio capitis (Cicerone), cioè a quelle
in cui esisteva un quid sacri sancti (Prob. 3,13) o un quid sacrosanctum (arg.
ex Cic., Pro Balbo 14,32-33), alcune leges rogatae (solo ad esse si applicò
in origine, crediamo, la clausola) accordarono riconoscimento giuridico,
dichiarando solennemente come non rogato ciò che, in ordine alla sfera del
sacrosanctum, fosse stato nella lex rogata stessa, rogato non iure (o che non
fosse stato ius rogare). La clausola divenne di stile, una volta riconosciuta
pienamente la validità dei plebisciti e delle istituzioni plebee; ma restò
in uso almeno fino all'età ciceroniana. Vera la congettura proposta, avremmo
qualche dato in più per comprendere l'arduo e lungo cammino che portò
all'equiparazione di patrizi e plebei.
(1)
Queste parole, come si sa, costituiscono il titolo della terza sezione
dell'operetta di Valerio Probo (questa attribuzione sembra sicura, ormai) ad
esse si aggiungono, integrate da Huschke e accettate da molti editori, le
parole et senatus consultis, che sono richieste da alcune delle sigle che
seguono. (2)
Da ultimo, edito in Crawford (ed.), Roman Statutes 1,1996, 209ss. (3)
Cfr. Crawford, op.cit., 345ss. (4)
Cfr. Crawford, op. cit., 201. (5)
La o della sigla e l'omnibus nel suo scioglimento, presenti nel
manoscritto, sono poco comprensibili; molti autori hanno ritenuto alterato il
passo e hanno soppresso entrambi i dati oscuri; maggior cautela in FIRA II,
455 che mantiene quei due dati. (6)
E' la formulazione
prescelta, nella sua edizione delle leggi, dal Crawford e dai suoi
collaboratori; a p. 23-24 dell'op. cit., la spiegazione con richiamo dei testi
da noi riportati. (7)
In Pro Balbo 14,32 si legge si quidem, ma credo che sia errore di
copisti in luogo di si quid (che si trova anche subito dopo, in 14,33). (8)
Diversamente, come abbiamo in parte accennato, Crawford, op. cit.,
1,23-24; e da ultimo anche da Mayer-Maly, Reflexionen ueber ius I, in ZSS 117,
2000, 7-10, che adotta le strutture quod non ius sit rogare e nihil rogatum, e
considera la redazione probiana come una variante frequentemente usata. (9)
Non nella legge, Valeria Aurelia del 23 a.C. (tabula Hebana); così
esattamente, divergendo dal Crawford, Mayer-Maly, op. cit., 9. (10)
Op.cit., 9-10. (11)
Esatto rilevo con
bibliografia, in Mayer-Maly, op. cit., 7. (12)
Si può vedere il mio
studio Sacer esto, in BIDR 91,1988,160-175, in cui si ipotizza
che originariamente lex sacrata sia stata una pronunzia solenne (cfr.
lex: il termine in questa sua accezione generale e fondamentale potè
applicarsi anche ai plebisciti, avendo riguardo alla pronunzia di parole
solenni) rafforzata da ius iurandum; e che solo più tardi si sia spostato il
valore della lex sacrata sul fenomeno della dichiarazione della qualità di
homo sacer per un soggetto che violasse quanto disposto nella pronunzia
solenne. (13)
Nella forma attuale, forse
alterata, non è chiaro, se la pena di morte fosse legata alla violazione di
quanto fosse stato institutum, o alla violazione del giuramento. Nella
redazione di Fest-Paul, s.v. Sacrosanctum (L. 423) è univoco il senso per cui
la pena di morte è comminata al violatore di quanto fosse stato institutum. E
che questo sia il senso migliore è provato, ci sembra, da ciò che segue nel
lemma festino (ed è omesso nell'epitome): Cuius generis sunt tribuni plebis
aedilesque eiusdem ordinis; quod ad firmat M. Cato in ea, quam scripsit 'Aedilis
plebis sacrosanctos esse'. E' chiaro che nel caso dei rappresentanti plebei
sacrosanti, il violare riguarda
la loro persona e non il giuramento che aveva accompagnato la delibera
costitutiva del loro statuto. A mio parere, è probabile che il testo festino,
nella sua prima parte, sia costituito da parole di Catone; in particolare, è
singolare, e probabilmente antico, l'uso della locuzione morte poenas pendere;
l'uso del plurale è frequente fin da Plauto; l'ablativo morte (fedelmente
confermato dall'epitome), in luogo del più frequente genitivo, sembra indizio
di antichità. (14)
Per la seconda parte di
Fest. s.v. Sacrosantum, cfr. nota prec. Si può vedere il nostro studio citato a nt. 12. |
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