Pubblicazioni - Annali 2002

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Publio Sempronio Sofo, giurista, ed il regime della censura.
di Bernardo Albanese

1.             Nel lungo passo del Digesto presentato come squarcio da un liber singularis enchiridii di Sesto Pomponio, vi è un paragrafo destinato a riferire su altri tre viri che iuris civilis scientiam professi sunt (cfr. D. 1,1,2,35), dopo la più antica terna costituita da Publio Papirio raccoglitore di leges regiae (cfr. D.1,2,2,2 e 7), Appio Claudio decemviro ed Appio Claudio Centemmanus presentato come autore di un liber de usurpationibus, costruttore della via Appia, oppositore d'un eventuale accoglienza di Pirro in urbe, e inventor della lettera R (cfr. D. 1,2,2,36). Si tratta di D. 1,2,2,37 di cui, per il fine limitato del presente studio, basterà riferire la parte iniziale:

Fuit post eos maximae scientiae Sempronius, quem populus Romanus  sofÕn appellavit, nec quisquam ante hunc aut post hunc hoc nomine cognominatus erit…

                   Il personaggio chiamato in causa è certamente quel Publio Sempronio che fu tribuno della plebe nel 310 a. C. (Liv. 9,33,5-7; 9,34,1-26), console nel 304 a. C. (Liv. 9,45,1ss.: qui il personaggio è designato come Publio Sempronio Sofo), pontefice nel 300 a. C. (Liv. 10,9,2: anche qui i tre nomi), censore nel 299 a. C. (Liv. 10,9,14: ancora una volta, i tre nomi; cfr. Fasti Capitolini, in CIL I, p. 24). In Liv. 10,21,4 e 9, si parla d'un Publio Sempronio che nel 296 fu pretore con attribuzioni straordinarie per la difesa di Roma contro attacchi dei Sanniti, e si tratta probabilmente dello stesso personaggio (1). Gli altri due personaggi di cui accenna la parte di D.1,2,2,37 da noi non trascritta erano Gaio Scipione Nasica ed un Quinto Mucio la cui menzione suscita molti dubbi, che qui non interessano.

       Non mette conto di sottolineare la mediocrità formale delle poche righe trascritte. Basterà ricordare che il genitivo maximae scientiae, in sé impeccabile, appartiene ad una categoria di stilemi stancamente ripetuti con grande frequenza nel lungo passo (2); e che la locuzione hoc nomine cognominatus è bizzarra con l'accostamento goffo di nomen e cognomen.

       E non interessa particolarmente neanche il fatto che, in contrasto almeno apparente con l'affermazione fatta circa il cognomen, anche un figlio del giurista di cui si parla fu chiamato Publio Sempronio Sofo (3). Più interessante è il fatto che il cognomen greco (4), secondo la tradizione che si rispecchia nel nostro gracile testo appare esser stato conferito dal popolo romano. Questo differenzia il caso di P. Sempronio da quello di Scipione Nasica, per il quale, nel tratto successivo di D. 1,2,2,37 da noi non trascritto, si dice che fu 'Optimus' a Senatu appellatus (e che però gli fu attribuita publice, cioè certo con delibera comiziale, una domus in Sacra via , per facilitarne l'attività di consulenza giuridica); e l'accosta invece al caso di Lucio Acilio che primus a populo 'Sapiens' appellatus est, secondo quanto si legge in D. 1,2,2,38 (è notissimo che in questo frammento, anche formalmente assai imperfetto, si fa questione d'un Publio Atilio, ma che il riferimento a Lucio Acilio è sicuro in base a Cic., Lael. 27,101).

       Sembra dunque che il cognomen onorifico sia stato attribuito a P. Sempronio, così come a L. Acilio, mediante una delibera popolare. Probabilmente, si deve pensare ad una decisione della plebe posta in essere allorchè il nostro personaggio era tribuno, e si acquistò benemerenze per la sua forte opposizione alle pretese patrizie di Appio Claudio Cieco.

       Non vi è ragione per dubitare che il riconoscimento implicito nell'attribuzione del lusinghiero cognomen Sophus fosse motivato dalla pregevole cultura giuridica di cui il nostro personaggio era dotato. In questo senso ha notevole peso proprio lo scarno cenno di D. 1,2,2,37 che, malgrado la sua grezza sommarietà, riflette certo, a mio avviso, come del resto gran parte di D. 1,2,2, una tradizione risalente. Nella specie, una tradizione risalente al tempo stesso di P. Sempronio, cioè alla fine del IV sec. a.C.

       Sulla figura di P. Sempronio Sofo come giurista ha opportunamente e attentamente richiamato l'attenzione , abbastanza di recente, il Sini (5).

       Questo studioso ha valutato, a proposito dell'attività giurisprudenziale di P. Sempronio, soprattutto la posizione che egli assunse, allorchè rivestiva la carica di tribuno della plebe, in ordine all'interpretazione di XII tab.12,5. E su questo piano ha ripreso brevemente in esame le celebri attestazioni di Livio, che lungamente si intrattiene sulla cavillosa interpretazione del precetto in questione da parte di Appio Claudio Cieco, e sulla vivace contestazione di quella interpretazione, operata appunto da P. Sempronio Sofo.

       A me sembra che dal racconto liviano emerga, oltre al profilo opportunamente sottolineato dal Sini, anche una seconda prospettiva di interpretazione giuridica che contribuisce a confermare l'esattezza della valutazione di P. Sempronio Sofo come giurista di rilevante valore.

       Pertanto, riprenderò brevemente in esame il racconto liviano sull'attività di Publio Sempronio come tribuno della plebe nel 310 a.C.

 

       2.  Quel racconto è celebre perché costituisce una delle fonti fondamentali per il controverso precetto in XII tab. 12,5 (Quodcumque postremum populus iussisset, id ius esse) (6).

       Occorre premettere che Appio Claudio, che nella tradizione accolta da Livio viene presentato come campione dell'arroganza patrizia, in qualità di censore per l'anno 312 a. C. aveva proceduto ad una lectio senatus talmente partigiana (infamis et invidiosa), secondo Livio, che il suo collega C. Plauzio si era dimesso per la vergogna (verecundia); e Appio Claudio senza esitazioni continuò a gerire la censura da solo (Liv. 9,29,7-8). Credo che l'abdicare (la censura) di cui parla Livio per Plauzio sia consistito nella rinunzia alla magistratura pochissimo tempo prima della sua scadenza secondo il termine posto dalla legge Emilia. Ciò risulta probabile per il fatto che l'opera censoria sostanzialmente era già stata portata a termine proprio con lectio senatus, che ragionevolmente poteva aver luogo solo dopo che le operazioni del census erano state portate a termine. E solo questa tarda abdicatio da noi supposta dà accettabile ragione del fatto che, come vedremo, P. Sempronio Sofo contrappone il comportamento di Caio Plauzio specificamente al mancato rispetto del termine della legge Emilia da parte di Appio Claudio.

       I consoli del 311 a. C., appena eletti, dichiararono di non considerare valida la lectio senatus in questione, e convocarono il senato nella composizione che esso aveva anteriormente a quella lectio (Liv. 9,30,1-2).

       Subito dopo, nel 310 a.C., vennero a scadere i diciotto mesi che costituivano, in base alla lex Aemilia del 484 a.C.(Liv. 4,24,5), il lege finitum censurae spatium temporis (Liv. 9,33,4; cfr. finitum lege tempus in 9,34,21, e legitimum tempus in 9, 35,1). P. Sempronio Sofo, tribuno della plebe, si fece sostenitore insistente (Livio parla di suscipere actionem: 10,33,5, e certo allude soprattutto all'attività espletata con discorsi davanti alle assemblee popolari; non si può pensare ad un'actio in senso processuale o come attività rituale) della necessità che Appio Claudio decadesse dalla carica che aveva tenuto da solo. Era una pretesa che Livio definisce giusta ed apprezzata sia dai nobili che dal volgo, e che il tribuno fondava anzitutto, naturalmente, sulla legge Emilia, che egli citava e lodava (9,33,5-6).

       Secondo il vivace racconto liviano, Appio Claudio, assumendo una posizione cavillosa e non confortata da alcuna adesione (9,34,1), obiettò al tribuno che la legge Emilia si doveva considerare operante solo per i censori del 484 a. C., in quanto essa rappresentava quod postremum populus iussisset, quindi un iussum comiziale più recente, rispetto al iussum che era stato costituito dall'elezione dei censori in carica nel 484 a. C. Invece tutte le elezioni di censori successive alla legge Emilia (e quindi anche quella di Appio Claudio stesso) costituivano, una dopo l'altra, ogni volta, quod postremum populus iussisset rispetto alla legge Emilia e rispetto ad ogni precedente elezione di censori.

       E' ovvio che alla base della tesi di Appio,  accennata sinteticamente in Liv. 9,33,8-9, stanno due presupposti essenziali. Da un lato, la regola (7)  per cui quod postremum populus iussisset si poneva come ius, cioè come diritto valido, rispetto a tutti i precedenti iussa della stessa materia; da un altro lato, che iussa populi, per questo aspetto, equivalenti dovevano considerarsi tanto la lex (Aemilia, nella specie) quanto ogni votazione comiziale per eleggere un magistrato (nella specie, il censore).

       In tal modo, Appio Claudio ostentava un rispetto formale per XII tab. 12,5, norma che Liv. 9,34,6-7 faceva dichiarare decemvirale da parte di P. Sempronio Sofo (cfr. anche 7,17,12, su cui dovremo fermarci brevemente più avanti, e che, sempre con espresso richiamo alle XII tavole, enunzia la regola usando le parole ius ratumque esse).  Da un altro lato, però, l'ostinato censore vanificava quel rispetto formale, dato che toglieva alla regola decemvirale il valore di norma che imponeva specificamente la prevalenza di una legge più recente su una più antica, con il risultato ovvio di non considerare più vigente la legge Emilia, e quindi con il risultato di affermare perfettamente legittima una propria permanenza nella censura anche dopo i diciotto mesi previsti da quella legge.

       Alla base della tesi di Appio Claudio, sta ovviamente, benchè dal racconto in Liv. 9,33,3-9,34,26 (narrazione del contrasto tra Appio Claudio e Cornelio Sofo) ciò non risulti esplicitamente, una interpretazione estensiva del iubere da parte del populus, menzionato nel precetto decemvirale. Non si doveva intendere quel iubere nel senso specifico di votazione di legge comiziale, come era stato generalmente interpretato (8); bensì nel senso di votazione comiziale d'ogni tipo. Quindi, a tacere di avvenimenti precedenti, l'elezione di Appio Claudio e Caio Plauzio a censori, evidentemente deliberata senza alcuna limitazione di durata, avrebbe rappresentato un postremum iussum rispetto alla legge Emilia e avrebbe dovuto prevalere sulla regola di quella legge, ammesso che essa esistesse ancora.

       Va notato che, nel discorso attribuito da Livio a P. Sempronio Sofo, non si discute neppure d'un possibile fondamento di questa interpretazione di XII tab. 12,5, sotto il profilo specifico d'una confutazione della tesi per cui anche le elezioni magistratuali sarebbero frutto d'un iubere  del popolo romano rilevante per il precetto decemvirale. Si accenna solo, e molto sinteticamente, all'interpretazione diversa (e, si afferma , tradizionalmente accettata da tutti, ed in particolare da tutti i censori successivi alla legge Emilia) per cui ubi duae contrariae leges sunt, semper antiquae obrogat nova (Liv. 9,33,8-9; per la perfetta tecnicità di obrogare, cfr. Tit. Ulp.3: obrogatur, id est mutatur aliquid ex prima lege, con distinzione rispetto ad abrogare, derogare e subrogare; v.a. Cic., Ad Att. 3,23,3; non conforme del tutto è la definizione in Fest.- Paul., s.v. Obrogare: L. 203)

       D'altra parte, la tesi Appio Claudio non era nuova. Già circa mezzo secolo prima, nel 356 a. C., a proposito di una questione ancora più importante di quella della durata della censura di Appio Claudio, un Marco Fabio (9), interrex, aveva sostenuto con successo la stessa tesi. L'elezione, nel 356 a.C. appunto, di due consoli patrizi era stata contrastata dai tribuni che la consideravano nulla, in quanto non conforme con la norma delle leggi Licinie Sestie del 368 a. C. (per esse, qui basti richiamare Liv. 6,38ss). ma era prevalsa, in sostanza, la tesi di Marco Fabio, così sintetizzata efficacemente in Liv. 7,17,12: in XII tabulis legem esse ut, quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset; iussum populi et suffragia esse.

       Dal racconto liviano, che è sommarissimo, malgrado che l'elezione di due consoli patrizi in quell'anno sia sottolineata con insolita solennità espressiva (10), non risultano contestazioni giuridiche da parte dei tribuni o di altri, in ordine all'accennato criterio interpretativo della norma delle XII tavole. Ma è ragionevole pensare che, se le cose andarono proprio come le presenta Livio, l'intercessione con cui i tribuni riuscirono per qualche tempo ad impedire la riunione dei comizi che poi avrebbero finito per eleggere i due consoli patrizi si dovette fondare proprio su una diversa interpretazione di XII tab. 12,5.

       Qui interessa notare soprattutto che non risulta che nel 356 a.C. un giurista di spiriti plebei abbia giocato il ruolo che, alcuni decenni dopo, ebbe Sempronio Sofo. E questo è già un indizio non trascurabile della rilevanza di quel personaggio nell'ambito della tradizione intorno alla scienza giuridica della media età repubblicana, sottolineata nel brevissimo cenno di D. 1,1,2,37.

 

       3.  Il Sini trae dal racconto liviano che abbiamo fin qui considerato solo la seguente frase del lungo discorso attribuito a Sempronio Sofo: Immo omnes (tutti i censori dal 434 a. C. in poi) sciverunt (il precetto in XII tab. 12,5) et ideo Aemiliae potius legi paruerunt quam illi antiquae, qua primum censores creati erant, quia hanc postremam iusserat populus et quia, ubi duo contrariae leges sunt, semper antiquae obrogat nova.

       Ed è certo che questo principio interpretativo è quello che prima e di più emerge nel discorso costruito da Livio e attribuito all'antico giurista. Il richiamo alla legge Emilia è in Liv. 9,34,6-10, quindi in un passo abbastanza lungo (cinque paragrafi su diciassette) del ragionamento attribuito a Sempronio Sofo. Questo ragionamento si trova in Liv. 9,34,6-22; i primi cinque paragrafi di 9,34 sono una introduzione oratoria relativa al funesto ruolo della gens Claudia a danno della plebe; in 9,34,23-25, è contenuta l'intimazione finale del discorso con minaccia di in vincula duci; in 9,34,26 è il brevissimo resoconto del fallimento dell'iniziativa di Sempronio Sofo.

       Ma in Liv. 9,34,10-22, si trova anche un secondo argomento giuridico che rafforza quello fin qui veduto costituito dall'interpretazione di XII tab. 12,5, e si aggiunge ad esso allo stesso fine di dimostrare la giuridica insostenibilità della continuazione della censura da parte di Appio Claudio.

       Sembra opportuno esporre brevemente questo secondo argomento, in verità accennato da Livio molto confusamente per enfasi oratoria, sul quale non mi pare che la dottrina si sia convenientemente soffermata.

       Secondo il resoconto liviano,  P. Sempronio Sofo così incalzava: Caio Plauzio era stato creato censore optimo iure dal popolo romano esattamente come Appio Claudio, suo collega. E però egli ha obbedito alla legge Emilia rinunziando alla carica (9,34,10-11; per l'abdicatio di Plauzio, cfr. 9,33,4, e anche ciò che osservammo nel paragrafo precedente a proposito della verosimiglianza che le dimissioni in questione si siano realizzate all'immediata vigilia della scadenza dei diciotto mesi).

       Solo Appio, continua l'argomentazione attribuita a Sempronio Sofo, si ritiene privilegiato da un regime praecipuum ac singulare (9,34,11). E a questo punto, Livio accredita al giurista una riflessione di tipo pragmatico, sull'estrema pericolosità della posizione di Appio Claudio, dal punto di vista della costituzione della res publica. Si tratta del rilievo per cui, a seguire il cattivo esempio del tracotante censore, ogni rex sacrificiorum si proclamerebbe optimo iure rex Romae; nessun dittatore si contenterebbe del limite dei sei mesi; nessun interrex sarebbe pago del periodo di cinque giorni; e nessuno si arrischierebbe a far eleggere un dittatore con compiti limitati (come quello clavi figendi aut ludorum causa): Liv. 9,34,12. E Sempronio Sofo, nel colorito racconto di Livio (9,34,13), svolge una ulteriore riflessione polemica: come sarebbero da giudicare sciocchi e vili tutti coloro che hanno deposto la carica di dittatori, una volta portato a termine il loro compito, o appena constatato che la loro creatio era stata inficiata da un vitium! Per trovare esempi precedenti di un fenomeno del genere, si aggiunge, non occorre sforzarsi molto; basta addurre il caso di Caio Menio, che circa dieci anni or sono (in realtà, nel 314 a.C.: cfr. Liv. 9,26,7-20) se abdicavit dictatura, per difendersi da sospetti (9,34,14). A Sempronio viene attribuita a questo punto, una battuta ironica. Si dice che ad Appio Claudio non viene richiesto di rinunziare alla carica neanche un giorno, neanche un'ora prima del tempo stabilito, staccandosi così dallo stile della sua gens, imperiosissima et superbissima; gli si chiede soltanto di non superare il tempo stabilito (9,34,15). E si conclude questa parte del discorso con un rilievo giuridicamente importante.

       Se Appio Claudio dicesse che egli pretende di gerire da solo la censura per altri tre anni e sei mesi, ci si trova già di fronte ad un abuso simile a quello dell'aspirazione al regnum (9,34,16). Se egli poi pretendesse di subrogare conlegam, in modo da ristabilire la collegialità magistratuale nel periodo che pretende spettargli ancora, si troverebbe a compiere un illecito grave: neppure un censore morto può, conformemente al fas, essere sostituito (9,34,17).

       Segue un'accusa particolare assai pesante. Appio dovrebbe vergognarsi per avere consentito, da censore, che il compimento dei riti di culto ad Ercole presso l'ara maxima, culto antichissimo istituito dallo stesso dio, fosse trasferito dai suoi nobilissimi titolari originari ad servorum ministerium. Si perpetrò così un'empietà che determinò, nel corso d'un solo anno, l'estinzione totale della gens di quei titolari originari del culto, una gens le cui origini erano precedenti alla fondazione della città, e che era diventata sancta proprio per aver dato ospitalità a dei immortali come Ercole; un'empietà che forse aveva fatto nascere una responsabilità (Livio usa il verbo obstringere), per violazione del fas, della universa res publica, con conseguenze funeste che si ha terrore solo a congetturare (9,34,18-19; questo cenno alle sorti del culto dei Potitii ad aram maximam Herculis si collega alle notizie fornite da Liv. 9,29,9-11, ove si parla appunto di Appio Claudio come auctor dell'empia innovazione).

       Poi il discorso ritorna al tema della carica censoria, ma ora continuando con rilievi relativi al fas e al nefas: la presa di Roma da parte dei Galli avvenne durante la censura di Lucio Papirio Cursore che aveva osato sostituire il collega morto con un nuovo censore (ovviamente, qui si collega implicitamente la disfatta romana con il nefas costituito dal comportamento di Papirio). Ma, in ogni caso, Papirio Cursore era stato assai meno ambizioso di Appio Claudio; infatti, egli non tenne la censura da solo o oltre il tempo dovuto. Ma egli non trovò imitatori, e tutti i censori successivi, in caso di morte del collega lasciarono la magistratura (9,34,20-21).

       L'elenco delle accuse di Sempronio Sofo si conclude con il rilievo che Appio Claudio non lascia la carica né perché il tempo di essa è scaduto, né per rispetto della lex (Emilia, certo) né per dignità personale (pudor); egli fa consistere la sua virtus nella superbia, nell'audacia, nel disprezzo degli dei e degli uomini (9,34,22).

       Prestando attenzione alla sostanza, aldilà delle declamazioni oratorie, è evidente che, secondo la tradizione, P.Sempronio Sofo rinfacciava ad Appio Claudio non solo l'inosservanza dei limiti di tempo stabiliti dalla legge Emilia (la cui pertinenza al caso era connessa con XII tab. 12,5), ma anche un secondo illecito altrettanto, o ancora più, grave e cioè la permanenza nella carica censoria da solo, senza collega. E ciò contro la prassi consolidatasi dopo l'infausta esperienza di L. Papirio Cursore, che non era stata senza effetti in ordine alle sventure di Roma nel 390 a. C.

       Questo secondo argomento giuridico è precisato e rafforzato in prospettiva più tecnica nelle conclusioni dell'arringa di Sempronio Sofo, come ci sono riferite da Livio. Il tribuno dichiarava che egli avrebbe ordinato l'arresto di Appio Claudio in caso di persistente violazione della legge Emilia (nisi Aemiliae legi parueris, in vincula duci iubebo). E aggiunge che egli non avrebbe consentito che Appio Claudio esercitasse da solo la censura, giacchè Appio non avrebbe potuto essere eletto da solo (solus censor creari non possis), e poichè ita comparatum a maioribus sit ut comitiis censoriis nisi duo confecerint legitima suffragia, non renuntiato altero comitia differantur (9,34,25).

       Nel ragionamento attribuito al nostro giurista, evidentemente si chiamava in causa, dopo il rilievo della violazione della legge Emilia, che ha esclusivamente attirato, mi sembra, l'attenzione dei romanisti, una grave violazione dei mores maiorum. Erano i mores, in sostanza, secondo l'antico giurista che escludevano ogni possibilità di permanenza in carica d'un censore da solo. In questo senso veniva addotto da prima il dato storico (9,34,21 cit.) per cui omnines…censores post mortem collegae se magistratu abdicarunt; con ciò viene affermata, in sostanza, l'esistenza d'un mos costituzionale costante e antico. E successivamente viene addotto, come istituto comparatum a maioribus (9,34,25 cit.), cioè proprio come istituto fondato sui mores maiorum, il principio per cui, se nell'elezione comiziale dei censori una dei due candidati non raggiungeva il numero di suffragi necessario (cfr. legitima suffragia sempre in 9,34,25), l'assemblea popolare doveva essere nuovamente convocata, e non si poteva procedere alla proclamazione (renuntiatio; il termine è tecnico, come si sa) (11) dell'unico candidato che pur aveva avuto i voti necessari.

       La conclusione è espressa, in 9,34,25, in modo tanto tecnico e reciso da esser facilmente convertito in una regula iuris caratteristica della giurisprudenza repubblicana: nec ego te, qui solus censor creari non possis, solum censuram gerere nunc patiar (qui il testo liviano ha qualche incertezza formale, dato che alcuni autorevoli codici hanno un incongruo non in luogo del ragionevole nunc, che si legge solo in manoscritti di minore autorità; in ogni caso, il senso è sicuro). La regula iuris corrispondente può essere immaginata nei seguenti termini: censor sine collega nec creari nec censuram gerere potest.

 

       4. Una volta ammessa l’esistenza della regola per cui, in caso di mancata elezione d’un secondo censore, non si procedeva alla renuntiatio dell’unico censore votato ed all’indizione dei comizi per una nuova votazione relativa ad un solo censore, e una volta ammessa anche la storicità del fatto che da gran tempo, prima del 310 a. C., in caso di venir meno d’un censore, il collega si soleva dimettere, si deve anche ammettere che il secondo argomento attribuito a Sempronio Sofo era assai valido. Sia la regola che la prassi accennate, infatti, sembrano ispirate al principio dell’impossibilità della gestione della carica censoria da parte d’un solo titolare. Ed è un principi che, oltretutto, sembra coerente in radice con il concetto stesso di collegialità magistratuale.

       Anche il primo argomento, in particolare per il profilo dell’attribuzione a XII tab. 12,5 d’uno specifico riferimento al iubere comiziale concretantesi in una lex (quindi, non a delibere comiziali di tipo giudiziario (12) o elettorale), sembra solido. L’uso del verbo iubere (quod populus iussisset) è massimamente conveniente alle leggi comiziali, nelle quali la rogatio si concludeva proprio con la domanda velitis iubeatis, quirites (13); e più in generale, come risulta dall’uso di iubere da parte del popolo nelle fonti, per deliberazioni relative ad atti futuri da compiere (ad es., tra i molti, atti religiosi come vota, dona, dedicationes: basti citare Cic., De domo 33,136; Liv. 22,10,1). Iubere, in relazione al popolo, sarebbe invece incongruo per votazioni a magistrature o per delibere giudiziarie. In questi atti non può affatto considerarsi sussistente quella volontà di autorizzare ciò che sia rogatum, volontà alla quale tecnicamente sembra rinviare iubere, come emerge, a tacer d’altro, dalla terminologia relativa all’actio quod iussu dell’editto pretorio.

       Nelle votazioni elettorali, la volontà comiziale si esprimeva o con l’indicazione di questo o quel nome, o con una adesione ad una indicazione di nomi proposti dal presidente dell’assemblea. Nelle deliberazioni giudiziarie, la volontà popolare si esprimeva con l’uso dei verbi condemno o absolvo. In nessuno dei due casi può ravvisarsi tecnicamente un iubere. Ed è una palese forzatura quella che si esprime lapidariamente nella presa di posizione ricordata dell’interrex Marco Fabio nel 356 a. C.: iussum populi et suffragia esse (Liv. 7,17,12). Suffragium, quale che sia, ed è incerto, l’etimo cui si collega, non esprime affatto un’idea di autorizzazione  e tanto meno di comando. Il sub, da cui è certamente composto, rinvia semmai all’idea di contribuire ad una altrui indicazione; e non è certo un caso che suffragium fu termine frequentemente applicato tecnicamente al voto elettorale popolare.

 

       5. Giunti a questo punto, possiamo accennare una riflessione sulla plausibilità storica del fatto che P. Sempronio Sofo abbia davvero argomentato contro la usurpazione di Appio Claudio ricorrendo agli argomenti che risultano da Livio; e massimamente all’argomento fondato sulla retta interpretazione di XII tab. 12,5 ed all’argomento fondato sulla regula iuris che ci è parso di dovere rinvenire in Liv. 9,34,25.

       E’ nota la diffidenza antica, tra gli studiosi, sulla autorità che possa riconoscersi ai discorsi tanto artisticamente costruiti da Livio, ed attribuiti ai vari personaggi storici di cui egli tratta. E mi sembra certo che in quei discorsi debba ammettersi l’assoluta prevalenza della mano dello storico patavino; sicchè bisognerà sempre guardarsi da ogni acritica fiducia sia nella storicità dei dati, sia sulla tecnicità dei termini usati.

       Tuttavia, dato il largo ed esplicito ricorso liviano agli scritti degli annalisti, a me sembra ragionevole ritenere che sarebbe temerario negare a priori sempre e del tutto la possibilità che nei discorsi in questione sia effettivamente contenuta qualche traccia di resoconti dei fatti e di lessico risalenti, se non agli autori dei discorsi, alla memoria storica ed  alla cultura di cronisti vicini al tempo cui si riferiscono i discorsi stessi.

       Nella specie, ed in particolare per il secondo argomento giuridico attribuito da Livio a Sempronio Sofo, che abbiamo visto contenuto in Liv. 9,34,16, anche se disordinatamente (si attribuisce ad Appio Claudio il proposito: ultra quam licet Aemilia lege censuram geram et solus geram) ed in Liv. 9,34,17-22 (cenni al fas non esse di un subrogare collegam, morto o meno ancora, vivo; cenni al sacrilegio a proposito del culto dei Potitii; cenni alle infauste conseguenze del collegam subrogare da parte di L. Cornelio Papirio, ed alla successiva prassi costante contraria; accusa ad Appio Claudio di spregio del termine stabilito dalla legge e della prassi contraria alla gestione della magistratura da pare di un solo censore), argomento giuridico enunziato con rigore e brevità tipici d’una regula iuris in Liv. 9,34,25, a me sembra che la possibilità d’una risalenza proprio all’antico tribuno, e giurista, del 310 a. C., non possa affatto essere esclusa a priori. Senza un preciso appiglio nella tradizione, difficilmente Livio sarebbe stato capace di escogitare un argomento tanto sostanzialmente valido, quanto limpidamente espresso.

       Se, in ordine alla frase di Liv. 9,34,7, con la regola ubi duae contrariae leges sunt, semper antiquae obrogat nova, si è potuto supporre un riecheggiamento da parte di Livio di problemi giuridici propri dell’ultima repubblica (così, abbastanza di recente gli autori della palingenesi delle XII tavole nei Roman Statutes editi dal Crawford, a proposito di XII tab. 12, 5)-- supposizione sulla quale a suo tempo (nello studio cit. a nt. 6) ho dichiarato le mie riserve--, una supposizione dello stesso genere non avrebbe senso, almeno a mio avviso, per la regula iuris in Liv. 9,34,25 dove si fa esplicito richiamo ai maiores, come si è visto. Siamo in una materia che certo non interessava molto l’età repubblicana progredita, data la decadenza della censura, e tanto meno l’età del primo principato.

       Del resto, la testimonianza stringatissima di D. 1,2,2,37, la cui sostanziale autorità non v’è ragione di disconoscere, si spiega bene in riferimento ad un interprete del ius (e del fas e dei mores) capace di ragionare su fondamenti tanto saldi e tanto felicemente espressi quali sono quelli che si concretano nei due argomenti fondamentali emergenti da Liv. 9,34. Un giurista di ottima levatura, come viene considerato P. Sempronio Sofo può ben aver fatto ricorso davvero a quegli argomenti; e la plebe riconoscente per lo sfortunato impegno antipatrizio del giurista può ben avere qualificato Publio Sempronio, in una delibera conciliare, con il cognomen che lo distinse.              


1.      Münzer, s.v. Sempronius (n. 85), in PWRE 2 A (1923), 1437s.; Broughton, The Magistrates of Roman Republic 1 (1951), 167; Sini, A quibus iura civibus praescribebantur-Ricerche sui giuristi del III sec. a. C. (1995), 72s., con altra letteratura; D'Ippolito, Questioni decemvirali (1993), 89; Wieacker, Römische Rechtsgeschichte 1 (1988), 574.

 

2.      Ad es., maximae dignationis…fuerunt in D.1,1,2,35; maximae auctoritatis…fuisse in D. 1,2,2,42; maximae auctoritatis fuerunt in D. 1,2,2,47.

 

 

3.      Da ultimo, Sini, op. cit., 72 nt. 3.

 

4.      Si è pensato ad un riconoscimento della formazione culturale greca del personaggio, cosa che mi sembra dubbia; comunque, sul punto, con bibliografia, Sini, op. cit., 71 nt. 2.

 

 

5.      Op. cit., 71-80.

 

6.      Su questa struttura formale del precetto, e sul problema dell'attendibilità della sua attribuzione alle XII tavole, cfr. un mio breve scritto: Nota su XII tab. 12,5, in Ann. Pal. 45,2 (1998), 33ss.; in particolare 33 nt.1.

 

 

7.      La cui origine decemvirale era stata esplicitamente affermata da Liv. 7,17,12, ed è confermata anche in 9,34,6. Sulla controversa questione, rinviamo al nostro lavoro citato or ora.

 

8.      A prova di questa universale interpretazione, Sempronio Sofo, secondo il racconto liviano (9,34,10) adduceva il comportamento di omnes censores che intra centum annorum spatium (in realtà, dal 434 a. C. al 311 a. C., anno in cui erano venuti meno i censori precedenti ad Appio Claudio e Caio Plauzio) avevano lasciato la carica, al più tardi allo scadere dei diciotto mesi previsti dalla legge Emilia.

 

 

9.      Cfr. Albanese, op. cit., 33 nt.2.

 

10.  Liv. 7,18,1 in cui si caratterizza la data dell'elezione con riferimento all'anno della fondazione di Roma (quadrigentesimo anno quam urbs Romana condita erat), alla data della riconquista dell'urbe dopo l'invasione gallica (quinto tricesimo quam a Gallis recuperata) e all'anno delle leggi Licinie Sestie (ablato post undecimum annum a plebe consulatu).

 

 

11.  Basti citare, in riferimento esplicito ai comitia, lex Urs., c. 101; lex mun. Malac., cc.56-57 e 59; Cic., Phil. 2,33,82; In Verr. 2,2,51,127; Epist. 10,32,2; De orat. 2,64,260.

 

12.  Sul punto, con opinione che mi è parso di non poter condividere, F. La Rosa, I "tribuni militum" tra le istituzioni dell'alta repubblica, in IURA 45 (1994, ma 1997), 15ss., per cui può vedersi il mio citato articolo, 35ss.

 

 

13.  Cfr. già la mia precedente op. cit. 36ss.


© Bernardo Albanese


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