Pubblicazioni - Annali 2002

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Sulla sententia di Sesto Elio in D. 19, 1, 38, 1
di Bernardo Albanese

1. D. 19,1,38,1 (Cels. 8 dig): Si per emptorem steterit, quominus ei mancipium traderetur, pro cibariis per arbitrium indemnitatem posse servari Sextus Aelius, Drusus dixerunt. Quorum et mihi iustissima videtur esse sententia.

Il passo, notissimo, è stato assai spesso addotto, e talvolta anche discusso con una certa ampiezza, in dottrina, in relazione a svariati problemi (1), ma non mi pare che ne sia stata mai proposta una valutazione esegetica approfondita. Questa circostanza, che del resto non sorprende data la brevità del frammento celsino e la sua chiarezza, mi induce a svolgere qualche rilievo, anche se si dovrà pervenire necessariamente, proprio per l'estrema sommarietà del testo, solo a congetture, sia in ordine alla più probabile fattispecie concreta considerata da Sesto Elio e Druso, sia in ordine ai possibili mezzi processuali che secondo i due antichi giuristi, avrebbero potuto far raggiungere ai privati interessati il risultato giuridico considerato possibile (servari posse).

Ovviamente, il nostro frammento deve essere considerato con grande attenzione, se non altro perché costituisce una delle rarissime testimonianze superstiti (2) dell'attività del grande Sesto Elio Peto Cato, cui la tradizione (cfr. soprattutto D. 1,2,2,7 e 38: a dispetto della scadentissima struttura formale, si tratta certo di resti di notizie che erano state fornite da Pomponio), attribuiva un liber in cui egli si era impegnato ad actiones componere, e che fu designato come ius Aelianum, nonché un liber qui inscribitur 'Tripertita', considerato come opera contenente velut cunabula iuris, e strutturato secondo una schema triplice: cioè in modo da premettere un testo decemvirale, cui si facevano seguire la relativa interpretatio e la legis actio (3). La nostra ignoranza sull'unicità o duplicità delle opere citate preclude purtroppo ogni tentativo di stabilire con certezza il metodo di Sesto Elio in relazione ad una sua sistemazione dei problemi giuridici.

 

2. Sembra opportuno rilevare preliminarmente che nel frammento celsino appaiono probabilmente riferite alla lettera almeno alcune delle espressioni  usate da Sesto Elio (e/o da Druso) (4). Infatti la locuzione per arbitrium indemnitatem posse servari ha tutta l'aria d'una sententia (e questa qualificazione è esplicitamente attestata proprio da Celso, allorchè parla di quorum sententia), e cioè d'una formula antica, anzitutto per la brevità tipica dei responsi dei primi giuristi repubblicani, per quel poco che ne sappiamo; e poi, e soprattutto, per alcune parole del tutto inconsuete di cui dirò più avanti.   

Non vedo ragioni per sospettare la sostanza del passo, anche se non è certo da scartare a priori l'ipotesi d'un intervento compilatorio, inteso a semplificare e sfrondare (per esempio da cenni alla specifica prospettiva processuale che Celso potrebbe avere riferito).

Una corrente dottrinale (5), oggi prevalente, inquadra la fattispecie come un normale caso di mora debendi; e attribuisce ad arbitrium il valore di iudicium bonae fidei, secondo la testimonianza di Cic., De off. 3,17,70 che riporta, di Quinto Mucio Scevola, e con riferimento alle azioni empti, locati, pro socio, mandati, tutelae e fiduciae, la locuzione arbitria, in quibus adderetur 'ex fide bona' (cfr. De off. 3,15,61 ove per l'a. rei uxoriae si parla arbitrium rei uxoriae; v.a. Top. 17,66) (6); e precisamente di giudizio di buona fede connesso alla compravendita consensuale. Minore seguito hanno avuto tesi secondo le quali arbitrium nel frammento di Celso non riguarderebbe affatto l'a. venditi (7). E' inutile dire che nessun peso, per l'una o l'altra tesi, ha l'uso nel nostro testo del termine emptor che, tecnico per la compravendita consensuale in età progredita, era però altrettanto tecnico per la mancipatio ("…isque mihi emptus esto…"; cfr. XII tab. 4,2 con i cenni, simmetrici, al venum dare).

Di recente, è stato acutamente congetturato, dal D'Ippolito (8) in particolare, che Sesto Elio e Druso si riferissero a quell'oscuro arbitrium liti aestimandae menzionato tra le sigle relative alle legis actiones da Prob. 4,10. Se ben comprendo questa posizione, i due giuristi antichi avrebbero considerato un caso di mancipatio d'un servo, in seguito alla quale il mancipio accipiens non avrebbe effettivamente preso possesso del servo subito dopo il compimento dell'atto librale. Sicchè il servo sarebbe rimasto nella sfera di disponibilità materiale del mancipio dans, che avrebbe provveduto ad alimentarlo nel tempo intercorrente tra la realizzazione della mancipatio e la ritardata presa di possesso da parte dell'acquirente. Danneggiato da questa situazione (il D'Ippolito accenna al fatto che il termine indemnitas usato in D. 19,1,38,1 proverebbe l'esistenza d'un damnum per l'alienante), colui che aveva erogato spese per i cibaria avrebbe fatto ricorso, soltanto sulla base del damnum, ad una legis actio per iudicis arbitrive postulationem, che avrebbe determinato un vero e proprio arbitrium liti aestimandae (9). Si suppone altresì che, una volta pronunziata la sentenza arbitrale estimatoria, il mancipio dans avrebbe potuto esperire una manus iniectio iudicati (10) "al fine di recuperare la somma indennizzante".

In definitiva, si congettura così che in D. 19,1,38,1 resti traccia d'un passo dei Tripertita eliani in cui, premessa la norma decemvirale che stabiliva ita ius esto in relazione all'uti lingua nuncupassit allorchè nexsum faciet mancipiumque (XII tab. 6,1), si faceva seguire la interpretatio di essa  in relazione al caso particolare di un mancipio accipiens che trascurava di prender subito possesso d'un servo mancipato, con richiamo alla possibilità per il mancipio dans di promuovere una l. a. per iudicis arbitrive postulationem con eventuale esperimento successivo di manus iniectio iudicati.

Ora, a me sembra, anzitutto, che la chiamata in causa della l. a. per iudicis arbitrive postulationem (con connesso arbitrium liti aestimandae) solo sulla base di un damnum (e non sulla base, ad es., d'una pretesa ex sponsione, come ci informa Gaio) non sia sufficientemente giustificata, il che, del resto, si comprende bene, data la brevità della trattazione del D'Ippolito. Tuttavia, come dirò, anche a mio avviso Sesto Elio e Druso prevedevano proprio una legis actio del genere. Ma soprattutto mi sembra che la possibilità d'una chiamata in causa, nel nostro caso, della manus iniectio iudicati, non risulta affatto ricavabile dal breve testo censino.

Il D'Ippolito accenna al fatto che quella legis actio esecutiva sarebbe richiamata implicitamente dai due antichi giureconsulti attraverso il cenno ad un servare (11). Ma a me pare che di servare si sarebbe potuto parlare bene anche solo in riguardo dell'effetto sostanziale dell'arbitrium di cui si parla in D. 19,1,38,1, sia questo termine da identificare con la pronunzia legata ad una l. a. per iudicis arbitrive postulationem, come vuole il D'Ippolito; oppure con la pronunzia connessa ad un giudizio di buona fede ex empto, come vuole la dottrina dominante.

 

3.  Però a me sembra che la base essenziale dell'ipotesi or ora discussa vada seriamente        considerata anche sotto un profilo parzialmente diverso da quello su cui ha insistito il D'Ippolito chiamando in causa, secondo me senza necessità, la manus iniectio.

In primo luogo anche a me sembra improbabile che Sesto Elio e Druso abbiano fatto riferimento ad una azione formulare nascente da compravendita.

Contro questa possibilità non credo che sia assolutamente opportuno far ricorso a tesi che contestassero addirittura l'esistenza di processi formulari preebuzi. Non mi pare, infatti, per nulla improbabile che agli inizi del II sec. a.C., ed anzi in pieno III sec. a.C., nella giurisdizione pretoria (anche prima forse dell'istituzione del pretore peregrino nel 241 a.C.), in caso di liti tra un cittadino e un peregrino e forse anche tra due peregrini si sia potuto fare ricorso a formulae, destinate ad un iudex o a recuperatores o ad un arbiter, con iussus di decidere una lite secondo criteri di bona fides (12).

Piuttosto, l'ipotesi che in D. 19,1,38,1 Celso abbia fatto riferimento all'actio venditi come rimedio proposto già da Sesto Elio e Druso mi pare difficilmente accettabile proprio in relazione ad una attenta valutazione delle parole--che già giudicai probabilmente risalenti a Sesto Elio (o a Druso)--per arbitrium indemnitatem posse servari.

A me sembra, in effetti, che quelle parole siano alquanto inconsuete. Indemnitatem servare è locuzione rarissima sia in testi giuridici che in testi non giuridici; si possono citare D. 19,2,55,2 (Paul. 2 sent.; cfr. PS 2,18,5), un passo tardo che probabilmente riecheggia formalmente una costituzione imperiale; CJ 11,36,4 (Diocl.); in una costituzione imperiale, forse di Costantino, giuntaci, in cattive condizioni, epigraficamente (cfr. CIL 3, Suppl. II, n. 13.569, linea 40 = n. 12.044), troviamo indemnitatem conservare. D'altra parte, sono rare anche le testimonianze di locuzioni del tipo di per arbitrium (si trovano pochi casi di per actionem e per exceptionem), in relazione all'idea del conseguire alcunchè per mezzo d'un rimedio processuale.

Pertanto, la locuzione usata da Celso non pare adattarsi bene all'ipotesi d'un riferimento all'azione di buona fede nascente da compravendita consensuale. A conferma, si può rilevare quanto diverso sia il discorso nel frammento che, credo, più si avvicina (13) per contenuto a D. 19,1,38,1. Parlo di D. 19,1,13,22 (Ulp. 32 ad ed.): Praeterea ex vendito agendo consequentur etiam sumptus, qui facti sunt in re distracta, ut puta si quid in aedificia distracta erogatum est: scribit enim Labeo et Trebatius esse ex vendito hoc nomine actionem. Idem et si in aegri servi curationem impensum est ante traditionem (la parte finale che non giova trascrivere parla di ex vendito consequi oportere). Il ripetuto cenno a ex vendito (agere e actio), la struttura agendo consequi sono assai difformi rispetto al sintetico per arbitrium servari della citazione celsina.

A me sembra, invece, che D. 19,1,38,1, con i cenni all'arbitrium ed all'indemnitas, richiami subito alla mente due celebri istituti decemvirali. Da un lato, la l.a. per iudicis arbitrive postulationem attestata, appunto per le XII tavole, da Gai 4,17a, e che nel nome stesso rinvia alla possibilità di un arbitrium. E da un altro lato mi pare che D. 19,1,38,1, con i cenni di cui ho detto, richiami il celebre e controverso precetto, giuntoci mutilo, in XII tab. 12,3. In esso, in una ipotesi oscura di illeciti: si vindiciam falsam tulit, si sanciva la dazione di tre arbitri che con propria decisione (arbitrium) avrebbero potuto stabilire, a quel che sembra, una condanna del responsabile dell'illecito ad una pena pecuniaria consistente nel duplum; la norma decemvirale usava le parole duplione damnum decideto (14). In sostanza in XII tab. 12,3, si parla di arbitrium, come in D. 19,1,38,1, e di damnum, nozione che si connette immediatamente concettualmente ed etimologicamente all'indemnitas menzionata nel frammento celsino (15).

 

4.  Per intendere in qual modo Sesto Elio (per comodità di discorso ormai trascuriamo Druso) avrebbe potuto--questa è la nostra congettura--richiamarsi ad un arbitrium previsto dalle XII tavole, occorre svolgere almeno qualche riflessione intorno a quel che sembra più probabile in ordine alla l. a. per iudicis arbitrive postulationem in età decemvirale.

Ho già esposto altrove (16) i motivi per cui ritengo ragionevole pensare che un lege agere per arbitri postulationem sia esistito già in età predecemvirale (per esempio, ai fini dei rapporti tra i membri di un consortium ercto non cito); nonché, e soprattutto, supporre che alla l. a. per (iudicis) arbitri postulationem si collegasse quell'arbitrium liti aestimandae la cui esistenza in età decemvirale sembra certamente da affermare sulla base della sigla in Prob. 4,10, posta sotto la rubrica In legis actionibus haec, ed in immediata connessione con due altre sigle sicuramente, o almeno assai probabilmente, attinenti alla legis actio che ci interessa (17).

Aggiungo che da Gai 4,17a e20, almeno a stare al tenore letterale dei cenni a de eo, quod ex stipulatione petitur ed a de eo, quod nobis dari oportet, parrebbe doversi dedurre la possibilità di agire per ogni credito iuris civilis, anche se incerto, con l. a. per iudicis arbitrive postulationem. Anzi, proprio il ricorso all'arbiter lascia pensare che venisse in questione, probabilmente per la prima volta, attraverso l'introduzione della l. a. per iudicis arbitrive postulationem, la tutela dei crediti non precisati in termini monetari.

Suppongo, insomma, che l'arbitrium (18), in base al quale il venditore poteva essere rimborsato di ciò che aveva erogato per alimentare il servo che non aveva potuto consegnare al compratore per difficoltà poste in essere dal compratore stesso, potrebbe esser stato per Sesto Elio--come è parso, se ho ben inteso, anche al D'Ippolito, di recente--una l. a. per arbitri postulationem. E ciò in connessione con la possibilità di far valere con quella legis actio anche pretese nascenti da stipulationes d'un incertum; e particolarmente quel tipo di stipulationes incerti che sono congetturate da una vasta e autorevole parte della dottrina (basterebbe ricordare Arangio-Ruiz) come precedenti storici della compravendita consensuale obbligatoria iuris gentium.

Certo, nella prospettiva concettuale qui accettata, occorrerebbe supporre la fattispecie d'un servo mancipato (forse non è senza significato l'uso di mancipium in D. 19,1,38,1), e però non entrato nella materiale disponibilità possessoria del mancipio accipiens. E' una supposizione che non sembra presentare particolari difficoltà, dato che non è necessario pensare che l'apprensione materiale (cfr. Gai 1,119: rem tenens; 1,121: adprehendere…necesse sit; …manu res capitur) dell'oggetto dell'atto librale da parte del mancipio accipiens implicasse di necessità anche un acquisto del possesso. Un acquisto del genere mancava certo nella mancipazione di praedia absentia; e si può pensare addirittura che mancasse in ogni caso, data la natura palesemente virtuale del gesto di apprensione accompagnato dalle parole mihi emptus est.

Converrebbe supporre, inoltre, che il mancipio dans si fosse obbligato con sponsio a tradere il servo mancipato a richiesta dell'accipiens, e, simmetricamente, che il mancipio accipiens si fosse obbligato con sponsio a pagare il prezzo del servo al momento della traditio.  Per tal via, si può congetturare una l. a. per iudicis arbitrive postulationem ex sponsione esperita dal mancipio dans per pretendere dal mancipio accipiens, promissor nella sponsio, una cifra superiore a quella del prezzo convenuto, e cioè maggiorata con gli importi delle spese per i cibaria servi necessari per il ritardo del mancipio accipiens. E ciò specie se una cifra precisa non fosse stata menzionata nella sponsio che potrebbe aver fatto riferimento genericamente solo al pretium dari (ma forse anche in caso di sponsio con impegno a dare una somma precisa, se si ammette una ampia discrezionalità dell'arbiter).

Ma non giova addentrarsi ulteriormente in ipotesi. Quel che qui importava era di rilevare che l'espressione per arbitrium indemnitatem servari posse appare più comprensibile se si ci riferisce alla l. a. per (iudicis) arbitri postulationem; e che un'applicazione di quella l. a. in una vendita realizzata con mancipatio senza traditio, e con sponsiones (specialmente se di un incertum) reciproche, sarebbe stata possibile.

Nell'ottica proposta, potrebbe darsi che Celso abbia effettivamente scritto solo le parole giunte a noi in D: 19,1,38,1, senza cenno specifico al mezzo processuale cui si riferivano Sesto Elio e Druso. Attraverso le parole che hanno attratto la nostra attenzione, egli avrebbe potuto solo accennare al fatto che gli antichi giuristi si riferivano ad un mezzo processuale che attribuiva al giudicante notevole ampiezza di decisione (arbitrium) per porre riparo ad un ingiusto pregiudizio (cfr. indemnitas). Questa maniera di esprimersi avrebbe consentito a Celso di essere fedele nel riprodurre parole di giuristi d'età tanto lontana, e insieme di parlare in modo tale da rendere evidente che la decisione di quei giuristi era equa (iustissima) anche nella sfera formulare dei giudizi di buona fede in uso al suo tempo.             


1.      Per la letteratura meno recente, preziose indicazioni in Broggini, Iudex arbiterve, 1957, 221 nt.9; per quella più recente, altrettanto valide citazioni in Mantovani, Gli esordi del genere letterario ad edictum, in AA.VV. Per la storia del pensiero giuridico romano-Dall'età dei pontefici alla scuola di Servio (Atti del seminario di S. Marino 7-9 gennaio 1993) 1996, 100 nt. 136; v.a., almeno, D'Ippolito, Forme giuridiche di Roma arcaica, 1998, 272-275.

 

2.      Sono utilmente raccolte e studiate di recente da Sini, A quibus iura civibus praescribebantur-Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., 1995, 131-153; per D. 19,1,38,1 in particolare, 142s., con qualche indicazione bibliografica ulteriore.

 

 

3.      Sull'antica questione se ius Aelianum e Tripertita fossero la stessa opera, come oggi si sostiene per lo più, o due diversi scritti, come è stato sostenuto anche di recente da studiosi autorevoli e come anche a me sembra più probabile, cfr. Sini, op. cit., 150ss.

 

4.      Si tratta certo di Caio Livio Druso, giurista di qualche decennio più giovane di Sesto Elio, cui accennano con espressioni di grande riguardo, Cic., Tusc. 5,38,112 e Val. Max. 8,7,4. Forse Druso citava Sesto Elio. L'eventualità che in D.19,1 ,38,1 possano ancora leggersi "magari le stesse parole" usate da Sesto Elio è fugacemente accennata, con felice intuito, da Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano I , 1954, 74.

 

 

5.      Cfr. specialmente Pugliese, Il processo civile romano II-Il processo formulare, 1963, 49-51; e più di recente, con bibliografia, Mantovani, op. cit., 100.

 

6.      In D. 17,2,38pr. si parla di arbiter nell'azione pro socio, la cui formula conteneva un richiamo all'oportere ex fide bona. Cenni ad arbiter ed arbitrium si trovano in pochi passi giuridici in relazione all'a. tutelae (D. 49,1,28,2; C.I. 5,51 R.); ed in relazione a giudizi divisori (ad es., D.10,2,20pr.; 30; 47; D. 10,3,6,8; 7,1; 18; 19; 26; D. 28,5,79pr.; D. 39,3,11,1) nonché in relazione all'a. aquae pluviae arcendae (ad es., D. 39,3,23,2; 24pr. e 2) ed all'a. finium regundorum (D.10,1,7). Si tratta di azioni la cui formula con ogni probabilità non conteneva riferimenti a oportere ex fide bona. Per lo sviluppo storico della categoria dei giudizi di buona fede mantengo ancora il punto di vista che espressi in Premesse di diritto privato romano, 1978, 151ss.

 

 

7.      Cfr., per tutti, Windscheid e Arangio-Ruiz citati in D'Ippolito, op. cit., 274 nt. 40; in particolare sulla posizione, oscillante, di Arangio-Ruiz, Pugliese, op. cit., 49ss.

 

8.      Op. cit., 272ss., con richiamo di mie prese di posizioni sulla l.a. per iudicis arbitrive postulationem e sull'arbitrium liti aestimandae.

 

 

9.      Op. cit. 273, ove, per la tesi per cui l'arbitrium liti aestimandae di Prob. 4,10 potrebbe esser stata una "applicazione della l.a. per iudicis arbitrive postulationem, concordata o meno tra gli interessati, per la determinazione di un incertum" si cita il mio Il processo privato romano delle legis actiones, 1987, 109.

 

10.  Op. cit., 275 (per un lapsus calami si parla di m. i. pro iudicato).

 

 

11.  D'Ippolito, l.c.

 

12.  Cfr., per tutti, da ultimo Talamanca, Il riordinamento augusteo del processo privato (in Gli ordinamenti giudiziali di Roma imperiale, Atti Copanello 1996), 1999, 65ss.; spec. 68 con richiamo a D. 19,1,38,1.

 

13.  Non mi è chiaro il richiamo a D. 4,8,40 accennato dal D'Ippolito, op. cit., 274 nt. 42.

 

 

14.  Per le mie congetture su XII tab. 12,3, cfr. Il processo privato romano delle legis actiones cit., 92-99.

 

15.  La connessione di indemnitas con damnum, sia pure in ottica diversa, è già stata opportunamente rilevata dal D'Ippolito, op. cit., 274.

 

 

16.  Il proc. priv. rom. delle legis actiones cit., 103ss.; 109.

 

17.  Prob. 4,8 contiene la sigla della iudicis arbitrive postulatio in termini praticamente identici a quelli di Gai 4,17a (salvo arbitrumque, in luogo del gaiano sive arbitrum); 4,9 contiene una sigla relativa alla scadenza in diem tertium sive perendinum, che potrebbe esser stata relativa anche alla procedura per la formale datio iudicis arbitrive conseguente alla postulatio, pur se sembra certo che una comperendinatio esistesse anche nella l. a. sacramenti (ad es., Gai 4,15; Ps. Asc., In Cic., In Verr. 2,1,9,26).

 

 

18.  In astratto è possibile congetturare che nel testo celsino originale si leggesse per arbitrum (locuzione certamente non inconsueta come quella per arbitrium). Ma l'eventuale differenza non sarebbe di particolare rilievo ai nostri fini.


© Bernardo Albanese


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