Legis lator in D. 1,3,32,1.

di Bernardo Albanese

 

 

1. Sembra farsi strada nella dottrina più recente la convinzione della sostanziale genuinità di D.1,3,32,1 (Iul. 84 dig.), il famoso testo che sottolinea, tra l'altro, l'essenzialità del iudicium populi, del probare da parte del populus, insomma della voluntas populi, per l'effettiva vigenza d'una lex[1].

D. 1,3,32,1: Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur, et hoc est ius quod dicitur moribus constitutum. Nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit tenebunt omnes: nam quid interest suffragio populus voluntatem suam declarare an rebus ipsis et factis? Quare rectissime etiam illud receptum est, ut leges non solum suffragio legis latoris, sed etiam tacito consensu omnium per desuetudinem abrogentur.

Qui non si vuole certo riconsiderare in dettaglio tutto il testo giulianeo, in passato oggetto di frequenti sospetti, a mio avviso, ingiustificati. Si vuole solo parlare dell'ultimo periodo del frammento, nel quale si aggiunge all'argomentazione precedente (in sostanza: se l'unico fondamento della legge è la volontà del popolo, anche una volontà popolare manifestata rebus ipsis et factis[2], e non con un voto comiziale, potrà rappresentare una norma cogente per tutti) un importante corollario. Precisamente: è stato rectissime receptum, ut leges non solum suffragio legis latoris, sed etiam tacito consensu omnium per desuetudinem abrogentur. In effetti, anche i sostenitori della sostanziale genuinità del frammento ritengono che la menzione d'un suffragium legis latoris sia d'origine compilatoria. Giuliano avrebbe parlato di suffragium populi, e Giustiniano invece avrebbe usato il termine generico di legis lator per rendere applicabile il principio giulianeo, non più alle ormai, inesistenti leggi comiziali, bensì alle costituzioni imperiali[3].

In questa tesi, mi lascia perplesso il fatto che si suppone uno scrupolo compilatorio in ordine alla presunta (e non del tutto improbabile, come si dirà) locuzione giulianea originale suffragio populi, che sarebbe apparsa inadeguata allo stato delle fonti del diritto in età giustinianea, senza avvedersi che tutto il resto del passo era insistentemente incentrato proprio sulla volontà del populus (iudicio populi; populus probavit; suffragio populus voluntatem suam declarare). Se veramente Giustiniano avesse voluto adeguare la soluzione giulianea alla realtà costituita dalla pratica esclusività della normazione imperiale, egli avrebbe dovuto rifare tutto il discorso del giurista, cancellando i precedenti specifici riferimenti alla normazione comiziale.

Ora, che i compilatori spesso, per fretta, abbiano potuto lasciarsi sfuggire, o comunque decidere di lasciare intatto, un tratto giurisprudenziale non coerente con quanto essi intendevano affermare mediante una loro interpolazione, è cosa che può bene ammettersi. Ma che essi abbiano operato un'interpolazione minima, lasciando invece intatto tutto il resto d'un passo assolutamente inconciliabile con il dato che sarebbe stato da loro interpolato, è cosa che mi sembra veramente impossibile.

La soluzione più attendibile, per spiegare la presenza della locuzione suffragium legis latoris, che certo è singolare, dato che il suffragium è tecnicamente, nel sistema delle delibere assembleali, attività del popolo o della plebe, e non del legis lator, che a rigore è soltanto l'autore della rogatio al popolo o alla plebe, in quanto autore del tecnico legem ferre[4], deve essere un'altra.

Si potrebbe supporre, in primo luogo, che sia stato Giuliano stesso ad usare quella locuzione sbrigativa per evitare una ripetizione della locuzione suffragium populi usata immediatamente prima (nel tratto nam quid--factis?). e forse non sarebbe supposizione inverosimile, malgrado la natura "intrinsecamente contraddittoria"[5] di quella locuzione: esprimere il suffragium e legem ferre erano certamente attività incompatibili per uno stesso soggetto, in quanto tecnicamente appartenenti a due differenti soggetti.

In secondo luogo, si potrebbe pensare invece ad un guasto della trasmissione testuale del passo giulianeo. In particolare, si potrebbero, astrattamente, ipotizzare o un'originaria locuzione voluntate legis latoris, o un accenno originario ad un suffragium ad una rogatio del legis lator. Ma la prima eventualità è assai poco probabile per motivi paleografici, e la seconda è altrettanto improbabile perché presupporrebbe una descrizione giulianea un po' troppo pedantesca del procedimento legislativo comiziale.

In terzo luogo, si potrebbe pensare ad un'alterazione pregiustinianea. Si potrebbe, in particolare, supporre un'origine glossematica (con relativa sommarietà terminologica) per tutto il tratto finale di D. 1,3,32,1. Ma, in verità, il discorso in quel tratto, ove si faccia astrazione dal problema del suffragium legis latoris, sembra ben coerente con ciò che precede e vigorosamente e correttamente espresso.

Infine si potrebbe congetturare più semplicemente che sia glossematico soltanto il cenno al suffragium legis latoris; in sostanza solo le parole non solum suffragio legis latoris, sed potrebbero essere una glossa completiva. E forse questa è l'ipotesi meno improbabile.

Quel che più interessa, comunque, è soprattutto la paternità giulianea della tesi dell'abrogazione per desuetudine, paternità che sembra certa e del tutto coerente con quanto precede nel passo; e l'impossibilità di una origine giustinianea d'un riferimento al suffragium legis latoris.

 

2. Aggiungo che la tesi dell'interpolazione giustinianea mi sembra assolutamente da escludere, oltre che per le ragioni accennate, anche in considerazione d'una presa di posizione giustinianea rivelata dal noto confronto testuale tra Gai 3,218 e J. 4,3,15.

Nell'ultima parte del paragrafo gaiano si riferisce l'opinione di Sabino, per cui si doveva interpretare il  terzo capitolo della legge Aquilia ac si etiam hac parte (e non solo nel primo capitolo) 'plurimi' verbum adiectum esset; nam legis latorem contentum fuisse, quod prima parte eo verbo usus esset.

In J.4,7,15 (che riproduce alla lettera il paragrafo gaiano, e da cui sono state ricavate le parole quod-usus esset, illeggibili nel manoscritto veronese), la frase finale è stata così modificata: nam plebem Romanam, quae Aquilio tribuno rogante hanc legem tulit, contentam fuisse quod prima parte eo verbo usa est.

Che il cenno ad una supposta convinzione della plebe che non era necessario ripetere plurimi nel terzo capitolo, dato che bastava la presenza di quel termine nel primo capitolo non possa esser gaiano, e tanto meno sabiniano, è evidente, anche a prescindere dal pur decisivo motivo del confronto con Gai 3,218. I giuristi classici sapevano perfettamente che l'assemblea, il concilium plebis nella specie, non aveva altro potere, in sede legislativa, che quello di approvare o disapprovare la rogatio del proponente. Una volontà--un contenta esse, nel caso in questione--della plebe circa un dettaglio tecnico, formale del testo sottoposto alla votazione è impensabile. Si tratta dunque, al di sopra d'ogni dubbio, d'una interpolazione dei compilatori delle Istituzioni imperiali. Costoro sostituirono al legis lator gaiano, che non può esser stato altro che il tribuno rogante in quanto autore del legem (plebiscitum) ferre, la plebs, considerata, con marcato errore tecnico, come organo capace di contribuire alla formulazione tecnica del testo normativo.

Certo, in teoria , si potrebbe pensare anche in questo caso ad una alterazione pregiustinianea del testo gaiano, che, così alterato con la menzione della volontà della plebe, sarebbe pervenuto ai commissari giustinianei che non si sarebbero avveduti dell'accennato errore tecnico, ed avrebbero riprodotto il passo nella forma a loro nota. Ma si tratterebbe d'una congettura disperata, dato che non si vede perché mai uno studioso postgaiano e pregiustinianeo avrebbe potuto procedere ad una operazione del genere.

Non resta che pensare, ed è opinione corrente in dottrina, ad una deliberata modifica compilatoria[6]. Cosa più difficile è individuare il più verosimile perché dell'alterazione.

Si è pensato ad un valore di legis lator che sarebbe stato, in età giustinianea, ormai inopportuno, in relazione al titolare della rogatio d'una legge o di un plebiscito, perché legis lator per eccellenza ormai sarebbe l'imperatore; da qui la soppressione del termine nel testo riprodotto in J. 4,3,15,[7].                  

Per altri studiosi, l'interpolazione giustinianea sarebbe stata motivata invece dal desiderio imperiale di aggiungere una notizia storica più precisa al testo gaiano (il richiamo esplicito alla rogatio plebisciti del tribuno Aquilio)[8]. E si è supposto, anzi, che l'aggiunta giustinianea fosse derivata da un'opera classica (forse le Res cottidianae di Gaio)[9].

Ovviamente, le due congetture non si escludono; ma  a me pare che una considerazione giustinianea di legis lator come termine ormai inopportuno per riferirsi al proponente d'una legge o di un plebiscito non sia persuasiva. Infatti, in altri passi delle fonti giustinianei quel termine è presente con il suo valore tecnico preclassico e classico di "proponente d'una delibera legislativa ad una assemblea", senza che i compilatori si siano affatto dati cura di sopprimerlo: ad es., D. 24,2,11pr.; D. 40,9,12pr.; D. 48,5,24,2; D. 48,5,30,6. Perché mai avrebbero dovuto sopprimere il termine solo in J. 4,3,15?

Del resto, lo stesso studioso che ha proposto la congettura in discorso sostiene che legis lator, per Giustiniano, almeno in una costituzione (C. J. 3,1,14pr.), indica l'organo deliberante su una lex, cioè l'assemblea popolare[10]; e anzi ha desunto da questo uso terminologico giustinianeo un indizio per sostenere che in D. 1,3,32,1 le parole suffragio legis latoris sono interpolazione compilatoria. Ma, intanto, sarebbe strano che in un caso (J. 4,3,15) i compilatori abbiano deliberatamente soppresso un legis lator usato da Gaio (e che certo alludeva a chi propose la legge Aquilia alla plebe) sostituendolo con la menzione della plebe; e invece, in un altro caso (D. 1,3,32,1), abbiano introdotto un riferimento al legis lator (sia pur con l'inconsueto valore di assemblea votante che sarebbe presente in C. J. 3,1,14pr.) che il giurista classico non avrebbe affatto proposto.

In definitiva, a me pare del tutto improbabile una interpolazione giustinianea del cenno al suffragium legis latoris nel nostro testo giulianeo. L'eventuale uso[11], in ogni caso del tutto isolato, da parte di Giustiniano, del termine legis lator in C. J. 3,1,14pr. con il valore di "assemblea popolare legislativa" non costituirebbe certo una ragione valida per suggerire una alterazione del testo giulianeo con soppressione del presunto riferimento originario al populus. Tanto più che, come ho notato, riferimenti al populus come assemblea deliberante sono più volte presenti nello stesso D. 1,3,32,1; e addirittura un riferimento alla plebs come assemblea deliberante è inserito (qui importa poco se su spunto classico, o solo per volontà chiarificatrice imperiale) in J. 4, 3,15, sopprimendo il riferimento gaiano a legis lator.


 

[1] Da ultimo, Gallo, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto, 1993, 55ss., che ribadisce proprie prese di posizioni precedenti esposte in studi specificamente dedicati al frammento giulianeo. Indicazioni bibliografiche sulla letteratura recente che, invece, ritiene il passo più o meno pesantemente interpolato in Valditara, Gai 3, 218 - J. 4,3,15 e l'evoluzione del concetto di legislator, in Nozione, formazione e interpretazione del diritto. Dall'età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo 2, 1997, 492 nt. 54.

 

[2] In D. 37,15,2 (Iul. 14 dig.), lo stesso giurista aveva avuto occasione di sostenere che re tamen et opinione hominum, pur se mancava un appoggio nei verba edicti, si poteva avere infamia a carico di colui il cui rappresentante processuale (e non egli stesso) fosse stato condannato in un'actio de dolo o in un'actio iniuriarum. E' lo stesso convincimento della rilevanza della consuetudine, in sostanza.

 

[3] Gallo, Produzione del diritto  e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1,3,32), in IVRA 36 (1985; in realtà, 1988), 87; cfr. Interpretazione e formazione…cit., 57. La tesi del Gallo-già adombrata dal Riccobono, Corso di diritto romano, 1934, 313, e poi da altri, tra i quali, di recente, Guarino, Giuliano e la consuetudine in Labeo 35, 1989,183s.-è condivisa, assai di recente, anche dal Valditara, op. cit., 100s. e 125s.

[4] Per questo significato tecnico di legis lator e per la sua relazione con la locuzione legem ferre, cfr. da ultimo Valditara, op. cit., 96s., con opportuno rinvio alle fonti. In particolare, per i testi che accennano, da Cicerone in poi, alla voluntas legis latoris, o, che è lo stesso sostanzialmente, alla voluntas legis (si trovano anche cenni alla sententia, al sensus della lex o del legis lator), cfr. l'interessante trattazione del Valditara, op. cit., 93ss.

 

[5] L'espressione efficace è del Gallo, Interpretazione e formazione…cit., 57.

[6] Così, da ultimo, Valditara, op. cit., 96 e 110ss., ove si ricorda opportunamente, tra l'altro, che la menzione della plebe come autrice della consapevole omissione di plurimi nel terzo capo della legge Aquilia è anche in Theoph., Par. 4,3,15.

 

[7] Così Valditara, op. cit., 110ss, nel quadro d'una documentata e utile valutazione dell'evoluzione semantica del termine legis lator, nel tempo.

 

[8] Chiazzese, Confronti testuali. Contributo alla dottrina delle interpolazioni giustinianee, in Ann. Palermo 16, 1931, 172 nt.2.

 

[9] Così il Ferrini, in BIDR 13, 1901, 189; anche il Chiazzese condivide l'ipotesi d'una probabile origine classica: op. cit., 174 nt.2.

 

[10] Valditara, op. cit., 124ss.

 

[11] In realtà, a me pare che in C. J. 3,1,14pr. legis latores si riferisca specificamente ai proponenti le leges Aurelia iudiciaria e Iulia iudiciorum privatorum, e non alle assemblee. L'indizio in contrario che il Valditara (op. cit., 125) desume dall'uso del verbo placere che si attaglierebbe meglio ad una deliberazione che non ad una rogatio legis, non mi sembra persuasivo, dato che quel verbo può benissimo essere applicato anche, e forse più propriamente, in relazione a singole persone: non si vede perché mai Giustiniano non avrebbe potuto dire che ai proponenti delle due leggi menzionate, gli antiqui legis latores, una soluzione era "piaciuta". E ciò anche se, come rileva il Valditara, placere si trova spesso nei senatoconsulti.