Una ipotesi sulla forma della confarreatio.

di Bernardo Albanese

 

 

1. Di recente, si è rinnovato l'interesse per l'antichissimo, e purtroppo mal noto, istituto della confarreatio, specie con riguardo a problemi importanti come quelli della sua natura (matrimonio con conventio in manum? solo conventio in manum?) e della sua applicabilità (solo a patrizi?)[1].

Qui vorrei considerare un aspetto forse meno importante, e che è stato certamente poco studiato di recente anche per la situazione particolarmente difficile delle fonti al riguardo: quello della forma della confarreatio.

Premetto che probabilmente il nome dell'istituto secondo la tradizione romana più antica dovette essere semplicemente far o farreum. Gai 1,110, un testo che ha tutta l'aria di richiamare una tradizionale regula iuris, in un discorso in prospettiva storica, necessitato dalla scomparsa dell'usus segnalata in Gai 1,111, informa che olim itaque tribus modis in manum conveniebant: usu, farreo, coemptione. E poi  Gaio spiega (1,112): Farreo in manum conveniunt…

Il termine confarreatio è usato due volte in Gai 1,112, accanto all'aggettivo farreati, probabilmente usato in relazione ai genitori dei tre flamines maggiori e del rex sacrorum, in quanto sposati con utilizzazione della confarreatio[2].

Anche in Tit. Ulp. 9,1, che sembra, in qualche modo, un sunto di Gai 1,112, si trova la locuzione farreo conveniunt in manum…

In Serv. e Ps. Serv., Ad Georg. 1,31, si legge invece, tra l'altro, che apud veteres nuptiae fiebant farre, e poi si spiega: unde confarreatio appellabatur. Identiche locuzioni, in un discorso quasi eguale si trovano nella glossa Confarreatis nuptiis (cfr. nt. 2); è probabile che Servio abbia ricalcato proprio il contenuto di questa glossa.

La terna usu farreo coemptione, in relazione ad uxorem habere è anche in Boeth., Ad   Cic., Top. 3,14, con cenno immediatamente seguente alla confarreatio.

Soltanto confarreatio si trova in Plin., Nat. hist. 18,3,10 che parla, con riferimento al passato (erat) di vinculum confarreationis. In Serv., Ad Aen. 4,374 si accenna al flamine e alla flaminica ed al loro in nuptias convenire (è palese la distorsione dell'originario concetto di in manum convenire) per confarreationem.

Forse il sostantivo confarreatio venne in uso in un secondo momento, specie per porre in evidenza alcuni aspetti del rito; forse, le più antiche designazioni far o farreo si contentavano di far emergere essenzialmente l'uso, nel rito, del cereale in questione.

In Dion. Hal. 2,25,1-2 si dice che gli antichi romani chiamavano 'farreceioi', "per l'uso comune del farro", le nozze "legali e sacre"; il termine greco è evidentemente un tentativo di traduzione letterale del latino confarreatio.

In Tac., Ann. 4,16,2-3 si parla, non senza ricercatezza formale, di confarreandi adsuetudo; si considera il rito come horrida antiquitas, e si accenna alle cerimoniae difficultates.

L'ordine del trinomio usus farreum coemptio è attestato da Gai 1,110ss.; da Serv., Ad Georg. 1,31; dalla glossa Confarreatis nuptiis e anche da Boeth., Ad Cic.,Top. 3,14. Non sembrano condivisibili le congetture di un diverso ordine originario[3].

 

2. Riassumerò subito ciò che le fonti lasciano intravedere del rito della confarreatio. Ma forse non è inutile notare preliminarmente che due volte, in Gai 1,112, si parla della confarreatio qualificandola come ius. Dapprima, dopo aver ricordato un dettaglio del rito (sacrificio a Giove di panis farreus), si dice complura…huius iuris ordinandi gratia…aguntur et fiunt; è chiaro che l'ordine cui ci si riferisce è quello dello svolgimento formale del rito. In secondo luogo, si dice che quel ius (ed è sempre della confarreatio che si parla, naturalmente) etiam nostris temporibus in usu est. L'uso di ius per alludere ad un rito è importante ai fini della determinazione del significato originario di quel termine; qui basterà accennare che lo stesso uso terminologico si rileva in Gaio anche in altre occasioni importanti: ad es., in Gai 1,119, è qualificata ius anche la mancipatio.

Due importantissimi elementi formali dell'istituto che ci interessa sono purtroppo solo accennati assai sbrigativamente in Gai 1,112: l'uso di certa et sollemnia verba e la presenza di dieci testimoni; Tit. Ulp. 9,1 ricalca anche in questo il passo gaiano. Purtroppo, non sappiamo nulla sul tenore di quei verba solo accennati; e neppure sui gesti rituali che certo dovevano esser posti in essere (cfr. in Gai 1,112 il cenno all'agere ed al facere); né sulla qualità e la funzione dei dieci testimoni, che certo saranno stati necessariamente cittadini romani, dato che l'istituto attiene al più antico ius civile.

Come si sa, la dottrina ha prospettato varie ipotesi, specie in ordine al dato eccezionale della presenza di così alto numero di testimoni[4]; ed ha supposto, con maggiore o minore verosimiglianza, qualche caratteristica dei certa et sollemnia verba: ad es., l'uso dell'oscura formula Ubi tu Gaius, ego Gaia, la cui presenza però sembra attestata solo per la coemptio[5].

Serv. e Ps. Serv., Ad Georg. 1,31 e la citata glossa Confarreatis nuptiis attestano inoltre che la confarreatio si realizzava per pontificem maximum et Dialem flaminem. E la dottrina ha variamente discusso su queste tanto autorevoli presenze[6]. Per mio conto, ritengo che l'esigenza di questo requisito formale potrebbe essere soltanto frutto d'un equivoco degli autori tardi che ne parlano. Gaio attestava (1,112) che la confarreatio era necessaria anche al suo tempo in quanto i tre flamines maiores (Dialis, Martialis, Quirinalis) ed il rex sacrorum dovevano esser necessariamente nati da genitori farreati (cfr., per il flamen Dialis, anche Tac., Ann. 4,16,1-3). Serv., Ad Aen. 4,103 (cfr. anche 4,374) attesta che il flamen (non si specifica quale) e la flaminica dovevano esser uniti in matrimonio con uso della confarreatio. Boeth., Ad Cic.,Top. 2,3,14 sembra attestare che i pontifices erano gli unici soggetti cui era applicabile la confarreatio. Potrebbe darsi che l'applicabilità necessaria del rito in questione a flamines, rex sacrorum e pontifices sia stata fraintesa nel senso d'una celebrazione del rito da parte del pontefice massimo e del flamine di Giove? Il dubbio nasce anche in quanto difficilmente, ritengo, Gaio potrebbe aver trascurato quel requisito, data l'eccezionale importanza che esso, se esistente, avrebbe avuto. Del resto, un'epigrafe d'età imperiale (forse del tempo di Commodo), CIL 10,6.662 attesta l'esistenza d'un sacerdos confarreationum et diffarreationum, esistenza che mal si concilia con una celebrazione della confarreatio ad opera di pontefice massimo e flamen Dialis. Ma qui non conviene fermarsi su questi problemi. Come anche non conviene fermarsi su altri dettagli, pur importantissimi, del rito accennati in Serv., Ad Aen. 4,103 e 4,374: rispettivamente, l'adhibere aquam et ignem, ed il residere dei nubentes, velatis capitibus, su due sgabelli congiunti (sellae iugatae) ricoperti con la pelle d'una ovis che era stata sacrificata[7].

Il punto su cui vorrei svolgere qualche osservazione è un altro. Precisamente, l'importante notizia in Gai 1,112 per cui nella confarreatio (precisamente si dice: nel farreo in manum convenire) si compie un quoddam genus sacrificii, quod Iovi Farreo (?)[8]  fit, in quo farreus panis adhibetur (e Gaio soggiunge, con intento etimologico: unde etiam confarreatio dicitur).

Al sacrificio, qualificato come sollemne sacrificium, in quo panis quoque farreus adhibetur si riferisce, in modo assai simile a quello di Gai 1,112, anche Tit. Ulp. 9,1.

Dion. Hal. 2,25,2, a proposito della confarreatio, parla del farro come cibo comune a marito e moglie, probabilmente.

Al panis farreus si riferisce forse anche un lemma sommarissimo dell'epitome festina (L.78), in cui si definisce il farreum come genus libi ex farre factum; manca ogni riferimento espresso alla confarreatio; libum è usato altrove nel senso di pane o altro simile impasto impiegato nei sacrifici (cfr. spec. Cato, De agric. 75; v.a. ad es., liba adorea in Verg., Aen. 7,109; ceriale libum in Ovid., Fasti 1,128). Ciò è confermato da un altro sommario passo dell'epitome paolina, s.v. Diffarreatio (L. 65), che--dopo aver definito la diffarreatio come genus sacrificii (e ciò, se si ammette, come è ragionevole per la regola del contrarius actus, una sostanziale identità di natura tra diffarreatio e confarreatio, implica che anche la confarreatio era un genus sacrificii, conformemente a ciò che si legge in Gai 1,112 e Tit. Ulp. 9,1)--, precisa che essa traeva il nome dal fatto che fiebat farreo libo adhibito. Libum, in sostanza, sembra esser stata la qualificazione sacrale tecnica che, nel rito della confarreatio e della diffarreatio, assumeva il panis farreus menzionato da Gaio e nei Tituli Ulpiani.

Quale poi fosse in concreto l'uso del pane di farro nel rito del sacrificio a Giove non è esplicitamente detto nelle nostre fonti. Ad un comune cibarsi di esso da parte degli sposi, come lascia intendere nel suo vago resoconto Dion. Hal. 2,25 cit., sembra non si possa affatto pensare: difficilmente un tal pasto comune avrebbe potuto avere applicazione in un negozio certamente risolutivo come la diffarreatio.

Invece, assai probabilmente, il panis farreus sarà stato usato come libum, oggetto di offerta come si è visto, presentato a Giove. Si sa che nei riti romani era frequente, oltre al  sacrificio di animali, proprio l'offerta di derrate di vario tipo (vino, latte, fruges etc..): basta rinviare al De agricultura di Catone. E forse ad un sacrificio con offerta di pane di farro accenna Plin., Nat. hist. 18,3,10 allorchè parla del fatto che le novae…nuptae farreum praeferebant. Questo testo potrebbe avere qualche rilevanza anche per il problema, che qui non può assolutamente esser considerato, dell'esatto rapporto tra confarreatio, nuptiae e conventio in manum. La menzione delle novae nuptae potrebbe alludere al fatto che le nuptiae erano atto distinto e precedente rispetto alla confarreatio.

Ma non risulta chiaro, ammessa l'esistenza d'un sacrificio consistente nell'offerta del pane di farro, come si sia potuto parlare tecnicamente di confarreatio. Questo termine--quale che sia il valore del cum usato a guisa di prefisso (esso potrebbe connettersi alla duplicità dei soggetti interessati principalmente, ma ciò è tutt'altro che sicuro)--certamente presuppone un'azione espressa con il verbo farreare, da cui ovviamente deriva il sostantivo farreatio. Ora, offrire un pane di farro ben difficilmente potrà esser stato predicato come farreare, che sembra verbo adatto piuttosto ad esprimere un'attività con il farro. Le poche testimonianze dei verbi farreare, confarreare (e diffarreare) sono tutte relative o all'uso di participii come farreatus e confarreatus (nei testi veduti che parlano di genitori farreati e di nuptiae confarreatae); o contengono altre voci verbali senza oggetto (così in Tac., Ann. 4,1,6 cit.: adsuetudo confarreandi); in un solo caso (Apul., Metam. 10,26), troviamo l'espressione confarreare matrimonium, ed anche in questo caso non emergono elementi che consentano di precisare la natura dell'attività realizzata mediante un confarreare (o con un farreare, o con un diffarreare).       

 

3. Un dato concreto sulla natura del farreare, e quindi su quella dell'attività che caratterizzava la confarrreatio è fornito forse dai due testi molto simili più volte citati di Serv. e Ps. Serv., Ad Georg. 1,31 e gl. Confarreatis nuptiis (Glotz 4,41 e 6,253; Lindsay 3,113 e 4,175). In essi si parla di un coniungere (il verbo si riferisce certamente a soggetti che pongono in essere le nuptiae, che sono esplicitamente nominate nei due passi) per fruges et molam salsam.

Ora, mentre è pacifico che il cenno alle fruges attenga genericamente ad offerte di prodotti agricoli (fruges ha la stessa radice di fructus; cfr. fruor), più problematico è il cenno alla mola salsa.

Va premesso che la tradizione attribuiva a Numa l'introduzione del rito con uso di fruges e di mola salsa nel colere e supplicare deos; così Plin., Nat. hist. 18,2,7 (cfr. Plut., Numa 8,16; Quaest. Rom. 15; Dion. Hal. 1,74,4). Si trattò di rito certamente remoto e di larghissimo uso in varii atti sacrali. Lo stesso Plinio (Nat. hist. 31,41,89) attesta che non esistevano sacra che conficiuntur sine mola salsa.

Nessuno dei numerosi altri testi che accennano alla mola salsa si riferisce, come i due passi or ora citati, ad un uso di essa nella confarreatio; ma, come cercherò di mostrare, a me pare che un uso del genere debba considerarsi assai probabile.

Intanto, però, per ora interessa sottolineare come la mola salsa (o casta[9]), o forse pura[10]; si tratta in ogni caso di qualificazioni non tecniche) era fatta ex sale et farre molito, come è detto da Varr., De l. Lat. 5,104 (si parla solo di mola, ma il riferimento alla mola salsa sembra ovvio; cfr. Val. Max. 2,5,5); v.a. Fest.-Paul., s.v. Immolare (L.97); Serv., Ad Aen. 2,133; Ps. Serv., Ad Ecl. 8,82, di cui diremo esplicitamente più avanti.

Si trattava quindi d'un miscuglio di farro macinato e di sale. Che si  trattasse con ogni probabilità d'un miscuglio liquido risulta da molti autorevoli testi che parlano di aspersione di oggetti, in riti sacrali, mediante la mola salsa. I verbi usati (spargere, aspergere, inspergere, perspergere) sembrano doversi riferire con certezza ad una irrorazione con un liquido (ed in particolare questo è il significato più proprio e diffuso del verbo aspergere).

Si vedano soprattutto Cic., De div. 2,16,37 che parla di inspergere molam et vinum su di un toro da sacrificare (cfr. Sen., Oedip. 335); Hor., Sat. 2,3,200: si accenna a spargere con mola salsa il capo di Ifigenia pronta per essere sacrificata; Sen., Thyest. 688: si parla d'un tangere una vittima ed un coltello con salsa mola; Fest.-Paul., s.v. Mola (L.125) con cenno a hostiae quae asperguntur con la mola; s.v. Immolare (L.97) che allude ad una hostia perspersa con la mola composta da far molitum e sal (per il nesso etimologico di mola e immolare, evidente nel lemma in questione, cfr. anche Ps. Serv., Ad Aen. 4,57); Serv., Ad Aen. 2,133 che parla d'un aspergere la frons victimae con mola salsa, ed anche i foci dell'ara ed i cultri che dovranno servire per l'uccisione della vittima.

All'aspersione con mola (certo salsa, benchè il termine manchi) di turiboli o altari, in riti matrimoniali accennano, per vezzo arcaicizzante, Prud. Perist. 3,129 e Drac., Romul.10,195. D'altra parte, Virgilio in Ecl. 8,82, fa dire ad un suo personaggio che descrive le arti magiche (cfr. 8,66, in cui si parla di magica sacra) con le quali egli spera di riottenere l'amore del diletto Dafne: sparge molam et fragilis incende bitumine laurus; si accenna all'aspersione con la mola salsa di rametti di alloro da bruciare nel rito magico (altri riferimenti all'uso della mola salsa in riti magici si trovano, ad es., in Tibull. 1,5,14 ed in Mart. 7,54,5: si tratta ovviamente di perversioni dell'antico e venerabile uso sacrale).   

Non menziona esplicitamente una aspersione con la mola salsa Ps. Serv., Ad Aen. 10,541, che spiega come il verbo immolare, a rigore, non si applichi alle hostiae cum caeduntur, ma ad esse già cum accipiunt molam salsam (e cita una frase delle Origines di Catone che parla di boves immolati, i quali erano fuggiti priusquam caederentur). Ma sembra chiaro che qui accipere significa proprio "ricevere l'aspersione".

Non sappiamo se fosse connessa (quale ingrediente essenziale?) con la mola salsa quella muries di cui è notizia in Fest., s.v. Muries (L. 152; cfr. Fest.-Paul., L.153; v.a. Non., s.v. Salis in L. 330). Si trattava di sal sordidum, pestato in un mortaio, conservato in una olla fictilis sigillata con gesso, cotto al forno, e segato con sega di ferro dalle Vestali; esso veniva sciolto in acqua corrente ed usato in sacrifici.

Ai nostri fini interessano meno i numerosi altri testi che parlano della mola salsa (o solo mola; ma è lo stesso), con riferimento a riti sacri, ma senza espliciti cenni all'aspersione. Tra essi ricorderemo solo: Fest.-Paul., s.v. Casta mola (L.57) cit.: era un genus sacrificii delle Vestali; Plaut., Amph. 740: mola salsa usata nel comprecare Giove; Verg., Aen. 4,517: testari deos con la mola; Plin., Nat. hist., Praef. 11: litare con latte e mola salsa; 12,41,83 e 18,2,7: deos supplicare con mola salsa.

Importante è invece il già brevemente citato Ps. Serv., Ad Ecl. 8,82. Abbiamo già visto anche il verso virgiliano ed il brevissimo commento di Servio con cenno a far e sal. Ora va considerata la lunga glossa danielina. Conviene trascriverla:

Hoc nomen (scil. mola) de sacris tractum est: far enim pium, id est 'mola casta', 'salsa'--utrumque enim idem significat--ita fit: virgines Vestales tres maximae ex nonis Maiis ad pridie idus Maias alternis diebus spicas adoreas in corbis messuariis ponunt easque spicas ipsae virgines torrent, pinsunt, molunt atque ita molitum condunt. Ex eo farre virgines ter in anno molam faciunt, Lupercalibus, Vestalibus, idibus septembris, adiecto sale cocto et sale duro. Igitur quod in sacris 'mola casta' dicitur, ideo Vergilius in quinto Aeneidis (5,745) farre pio enuntiavit: qui enim est pium nisi castum? Quoniam 'piare' est 'propitiare', quod accidere non potest nisi caste inservitum erit rebus sacris. Hic autem dicendo 'asperge molam' (in realtà, Virgilio aveva scritto: sparge molam) rem ipsam proprio nomine memoravit: unde in secundo Aeneidis (2,133) et 'salsae fruges', et in quarto (4,517) ipsa 'mola'.

Non vi è ragione di dubitare, credo, che lo scoliaste abbia attinto a fonti tecniche affidabili; e ciò malgrado alcune evidenti ingenuità espressive. Una connessione della mola salsa con le Vestali era già affermata sommariamente in Fest., s.v. Casta mola (L.57) cit., che parlava di genus sacrificii fatto dalle Vestali. Ma ora apprendiamo più dettagliatamente che la mola salsa (o casta; si afferma la sinonimia dei due aggettivi, sembra; o forse, ma è meno probabile, solo l'identità tra mola casta o salsa e far pium: far pium non è certo termine tecnico) detta anche far pium (cfr. Verg., Aen. 5,745), era preparata dalle tre Vestali maximae (non sappiamo con quale criterio si determinasse questa qualifica), tre volte all'anno--in occasione dei Lupercalia, dei Vestalia (per questa designazione, Varr., De l. Lat. 5,17; cfr. festa Vestalia in Ovid., Fasti 6,395), e alle idi di settembre. Per la preparazione si usava una farina ottenuta da spicae adoreae, cioè da spighe di farro[11], collocate--a giorni alterni, nel periodo tra le none di maggio e la vigilia delle idi dello stesso mese--in ceste da mietitori, e infine tostate, pestate nel mortaio e molite. Il risultato della molitura era riposto dalle stesse Vestali (certo in apposito contenitore). E poi, in occasione delle tre date accennate, quella farina veniva mescolata con sale parimenti tostato e con sale indurito[12].

Qui non ha particolare rilievo la questione relativa alle spicae adoreae. Di recente, sulla base delle date ricordate nel passo pseudoserviano, si è sostenuto che le Vestali usassero spighe ancora immature, e quindi senza grani[13]. Questa affermazione mi lascia molto perplesso. Mi sembra che operazioni di tostatura, pestaggio e molitura difficilmente avrebbero potuto realizzarsi con spighe ancora tenere e molli. Forse le Vestali si servivano in maggio, di spighe ormai secche conservate dal raccolto precedente. E a ciò potrebbe far pensare il cenno alle messuariae corbes  (cfr. Varr., Res rust. 1,50,1 che parla di coicere spicas in corbem; Cic., Pro Sest. 38,82, che parla di messoria corbis; v.a. Liv. 22,1,11).

Del resto sappiamo da Plin., Nat. hist. 18,2,7 che vi erano specifiche feste, i Fornacalia, istituite da Numa, che erano feriae farris torrendi. Per esse, cfr. Fest.-Paul., s.v. Fornacalia (L.73 e L.82); esse sono menzionate da Plinio in stretta connessione con le notizie già da noi citate sulla mola salsa, parimenti introdotta da Numa per colere e supplicare gli dei. I Fornacalia si celebravano in febbraio ed in marzo: Ovid., Fasti 2,527. A me sembra evidente che il far da torrere in queste occasioni sarà stato quello del raccolto precedente. Di torrida farra parla anche Ovid., Fasti 2,24; cfr. 6,313; di fruges torridae parla Acc., Trag. 478 (Ribbeck); cfr. anche Verg., Aen. 1,179. E' assai probabile che i Fornacalia fossero feste utilizzate appositamente per preparare il farro che doveva costituire, mescolato con il sale, la mola salsa.

Non sappiamo se per la confarreatio si usasse la mola salsa preparata dalle Vestali, cosa per altro assai probabile. Possiamo congetturare che la mola salsa usata nella confarreatio doveva essere di recente preparazione: infatti, in Serv., Ad Aen. 2,133 si accenna al fatto che mola fiebat de horna fruge et horno sale, quindi da componenti apprestati nello stesso anno di utilizzo.

 

4. Quel che più importa, comunque, è che certamente il rito della confarreatio (detta anche, e forse più anticamente, farreum) comportava un uso del far, e che certamente questo far non era altro che quello usato per la mola salsa usata comunemente in numerosissimi riti sacrali. Ciò risulta chiaramente da Ps. Serv., Ad Georg. 1,31 cit. e dalla glossa Confarreatis nuptiis cit., allorchè parlano del coniungi, dei protagonisti delle nuptiae, per fruges et molam salsam. Si ricordi che Plinio in un passo che abbiamo addotto più volte (Nat. hist. 18,2,7), citando come auctor Emina, attribuiva a Numa la creazione del rito di onorare e supplicare gli dei con frux e mola salsa.

L'uso di fruges e mola salsa che i due tardi passi cui stiamo accennando attestano esser state elemento costitutivo del rito della confarreatio, dovette esser tanto importante, crediamo, da dare al rito il nome stesso.

Infatti, mentre i termini farreum (o addirittura solo far, come abbiamo visto all'inizio) che con ogni probabilità era la più antica designazione del rito, accennava solo all'essenzialità del farro, confarreatio sembra alludere, come dicemmo, ad una attività realizzata con la mola salsa di cui il farro era, con il sale, elemento costitutivo. E tale azione realizzata con la mola salsa, con ogni probabilità, non sarà stata altro che l'aspersione. Si può congetturare che il rito comportasse aspersione dei protagonisti delle nuptiae con la mola salsa, tanto che essi poterono esser talora designati come farreati (Gai 1,112).

Se la nostra congettura è fondata, dovrà dubitarsi della precisione, o meglio della completezza, della notizia gaiana (1,112) per cui elemento caratterizzante della confarreatio sarebbe stato il sacrificium Iovi…, in quo farreus panis adhibetur. Non meno caratterizzante, e tale anzi da dare il nome al rito sarà stata l'aspersione con la mola salsa. Tale aspersione potrebbe aver riguardato, oltre ai soggetti delle nuptiae, anche una ovis da sacrificare nell'occasione. Ad essa accenna Serv., Ad Aen. 4,374, allorchè parla della pelle  di una ovis quae hostia fuisset, usata per ricoprire le sellae iugatae degli sposi.


 

[1] Posso limitarmi a citare il recentissimo, valido, contributo dell'Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, 2000,16-28; e spec. 178-204, dato che in esso sono studiate e discusse parecchie ricerche precedenti.

 

[2] Si potrebbe supporre, in Gai 1,112 i.f., un originario nisi ex farreatis <nuptiis> nati; ma Tac., Ann. 4,16,2 parla di confarreatis parentibus geniti. Nelle fonti si parla talvolta di farreatae nuptiae (Serv., Ad Aen. 4,103); altre volte di nuptiae confarreatae: Apul., Met. 5,26 (la correzione del ms. in mihi confarreatis nuptiis coniugabo è accettata comunemente; ed è quasi certa; ad Apul., Met. 10,26 accenneremo più avanti); glossa Confarreatis nuptiis in Glotz, Corp. gloss. lat. 4,41 in nota; cfr. 6,253. La glossa in questione fu successivamente pubblicata nei Glossaria latina (1926-1931), a cura del Lindsay e altri; e precisamente nel vol. 3 (1926), 113, nel contesto del glossario c.d. Abolita (con una nota del L. che affermava vero similius che essa fosse di Festo, e fosse stata trascritta con lievi modifiche in Ps. Serv., Ad Georg. 1,31, testo quest'ultimo che il L. attribuisce a Donato); e poi nel vol. 4 (1930),175, nel contesto della seconda edizione del De verborum significatu di Festo (qui il L. congettura che si sia trattato, in origine, di una chiosa ad Apul., Met. 10,29, dove si parla d'un tale che era matrimonium confarreaturus; a me sembra che, semmai, sarebbe da proporre un collegamento con Met. 5,26, dove proprio ricorrono le parole confarreatis nuptiis. Sulla nostra glossa, cfr. con bibliografia e buone osservazioni Taglialatela Scafati, Cinna e la 'confarreatio', in Ricerche sull'organizzazione gentilizia romana (a cura di Franciosi) 3, 78-81; v.a. Peppe, Storia di parole, storia di istituti…in SDHI 63,1977, 151-160; Prosdocimi, La tavola di Agnone. Una interpretazione, 607-627 (nel volume di vari autori: La tavola di Agnone nel contesto italico, 1996); Linderski, Usu, farre, coemptione…, in ZSS 101, 1984,308.

[3] Cfr. con bibliografia essenziale, Bartocci, Le species nuptiarum nell'esperienza romana arcaica, 1999,94 nt.12.

 

[4] Cfr. Astolfi, op. cit., 184 nt.23.

 

[5] Cic., Pro Mur. 12,27; nel corso della celebre polemica ironica sul formalismo dei giuristi, si dice che costoro avrebbero ritenuto che omnes mulieres, quae coemptionem facerent 'Gaias' vocari, solo sulla base della presenza exempli causa del prenome Gaia in qualche formulario. Sembra ovvia la natura paradossale di questa tesi. Sull'ipotesi che la formula Ubi tu Gaius…ricorresse nella confarreatio, da ultimo, Astolfi, op. cit., 19ss., che però insiste sul fatto che quella formula sarebbe stata tipica della deductio in domum mariti; Plut., Quaest. Rom. 30, l'anonimo trattato De praenominibus 7, e Quint., Inst. or. 1,7,28 parlano genericamente di matrimonio.

 

[6] Cfr. Astolfi, op. cit., 182ss.; in particolare è discussa la recente ipotesi del Peppe d'una originaria natura privata della confarreatio.

 

[7] Cfr., con bibliografia e con i testi relativi al flammeum, Astolfi, op. cit., 17ss., 181ss.

 

[8] Questa denominazione di Giove non è documentata altrove; ma l'ipotesi che in Gai 1,112, nella locuzione quod Iovi farreo fit, farreus sia un ablativo di (panis) farreus come ingrediente usato nel sacrificio è improbabile, dato che al panis farreus Gaio accenna subito dopo; v.a. Astolfi op. cit., 180 nt.10.

[9] Ps. Serv., Ad Ecl. 8,82: far…pium, id est mola casta, salsa: il testo sarà studiato più avanti; Fest.-Paul., s.v. Casta mola (L. 57) in cui si dice che era un genus sacrificii, quod Vestales virgines faciebant.

 

[10] Fest., s.v. Pecunia sacrificium (L.286), gravemente mutilo; le lettere leggibili mola  pu potrebbero aver significato mola pura; nulla si ricava dalla parallela epitome.

 

[11] Cfr. Fest.-Paul., s.v. Ador (L.3): Ador farri genus, 'edor' quondam appellatum ab edendo, vel quod aduratur, ut fiat tostum, unde in sacrificio mola salsa efficitur: le notizie sono sommarie, ma corrispondono in punti essenziali con quelle di Ps. Serv., Ad Ecl. 8,82; Plin., Nat. hist. 18,19,81 parla di far, quod adoreum veteres appellavere; Varr., Res rust. 34,2 parla di far adoreum.

 

[12] Penso che il glossatore abbia usato una endiadi, e quindi abbia accennato al sale reso duro mediante tostatura; ma non può escludersi un riferimento a un miscuglio di sale tostato e di sale non tostato.

 

[13] Così, con molta dottrina, Prosdocimi, l.c.