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"SOCIETAS INSEPARABILIS" o dell'indissolubilità
dell'antico consorzio fraterno di
Giuseppina Anselmo Aricò 1
___
Volendo definire la natura del singolare istituto descritto in Gai 3.154
a e b[1],
gli studiosi hanno spesso posto, tra molte altre[2],
la questione se quell'antichissima forma di comunione che si instaurava
<<inter suos heredes>>
alla morte del pater familias,
fosse, o non, separabile[3]. Trattandosi,
per generale riconoscimento, di un fenomeno risalente ad epoca
predecemvirale[4],
di cui non viene più messa in dubbio la natura successoria[5],
e la
preminente, se
non esclusiva,
rilevanza sul piano
Ad
orientare unanimemente l'attuale dottrina verso la risposta affermativa[8]
sembra aver influito in modo non marginale lo stesso nome di <<ercto
non cito>>[9]
con cui - dice Gaio, riecheggiato da Gellio[10]
- veniva chiamato l'istituto in questione. Al di là, infatti,
delle mai sopite controversie sul significato dell'enigmatica
espressione[11],
appare a tutti oggi indubitabile che essa allude comunque allo stato di
indivisione conseguente alla successione ereditaria[12]. Ragione
per cui, essendo evidente che un tale stato non potrebbe predicarsi se
non in rapporto ad una sottintesa possibilità di divisione, ecco
assurgere per questa via il nome stesso del consortium
ad inoppugnabile, anche se indiretto, argomento in favore della sua
connaturata suscettibilità di divisio[13]. L'argomento,
in realtà, è facilmente controvertibile. Se è vero, infatti, che
l'espressione <<ercto non
cito>> rimanda innegabilmente all'esistenza di una possibilità
di divisione, che cosa impedisce di pensare che sia stata proprio questa
possibilità, allorchè venne ammessa,
a dar origine all'espressione? Non si vede, in altre parole,
perché dovrebbe esser lecito desumere la divisibilità dal nome e non,
viceversa, ricondurre il nome ad un sopravvenuto riconoscimento della
divisibilità[14].
In un qualunque ordinamento in cui sia consentito far cessare,
sciogliendolo, lo stato di comunione, il mantenimento di tale stato
dipende ovviamente dalla scelta dei soci di non procedere alla
divisione: tanto ovviamente che "comunione" e "indivisione"
sono termini equivalenti che non è possibile cumulare tra loro se non a
costo di inaccettabili pleonasmi, del tipo "comunione
indivisa", o simili. Ora, se i consortes
avessero avuto ab initio la
suddetta facoltà di scelta tra rimanere in comunione o scioglierla,
sarebbe davvero curioso che si fosse designato il consorzio con
l'aggiunta di quel sintagma alludente al suo stato di non-divisione e
cioè in sostanza… alla sua stessa esistenza. Una funzione
specificativa non banale potrebbe invece riconoscersi a quella locuzione
ove se ne ascrivesse l'origine ad un'epoca nella quale, essendo mutato
il regime del consortium in
stretta connessione ad una sua ormai riconosciuta possibilità di
"divisione", si fosse per qualche ragione sentito il bisogno
di differenziare terminologicamente, rispetto al nuovo, il vecchio
regime avente appunto nell'indivisibilità il suo precipuo carattere
distintivo[15]:
da qui, ipotizzabilmente, l'uso, diffusosi in seguito e registrato da
Gaio e da altri scrittori, di riferirsi all'originario regime del
consorzio con la non originaria espressione di <<ercto
non cito>>. A
prescindere da ogni congettura sul nome, vi è comunque il fatto,
testimoniato nelle fonti, che il mezzo necessario a por fine allo stato
di coeredità venne introdotto solo dalle XII tavole[16]. Sull'origine dell'actio
familiae erciscundae ci informa: D.
10.2.1 pr. (Gai 7. ad ed. prov.)
<<Haec actio proficiscitur e
lege XII tabularum: namque coheredibus volentibus a communione discedere
necessarium videbatur aliquam actionem constitui, qua inter eos res
hereditariae distribuerentur>>. Si
avvertiva - dice Gaio - la necessità di creare una qualche azione che
permettesse ai coeredi a ciò intenzionati di uscire dallo stato di
comunione: non potrebbe più chiaramente lasciarsi intendere che prima
dell'introduzione dell'actio
in questione non esisteva alcun mezzo rispondente alla necessità
anzidetta, e che la <<communio>>
dunque era, allora, indissolubile[17]. Si
è creduto però di veder sminuito il valore della testimonianza citata
da un altro passo dello stesso giurista: Gai
4.17 a <<…de hereditate dividenda eadem lex (scil. XII tab.) per iudicis
postulationem agi iussit>>. Passo
che, nella sua presunta discordanza da quello del Digesto[18],
porterebbe ad intendere quest'ultimo
nel senso,
non che
le XII tavole crearono Senonchè
basta tener conto della diversità d'angolazione da cui Gaio si pone
nelle rispettive sedi espositive per vedere svanire ogni traccia
dell'asserito contrasto tra i due testi. Nel 7° libro ad
ed. prov. dove il discorso verte sull'azione formulare di divisione
dell'eredità, con l'affermazione che <<Haec
actio proficiscitur e lege XII tabularum>>, egli non intende
certo far derivare dalle XII tavole la stessa azione formulare, sì
piuttosto lo svolgimento della sua vicenda storico-evolutiva[20].
Nel 4° libro delle Istituzioni, invece, il tema ivi trattato delle legis
actiones gli dà modo di far vedere più da vicino che tale vicenda,
trae inizio, per l'appunto, dal precetto decemvirale che <<de
hereditate dividenda… per iudicis postulationem agi iussit>>.
Lungi, come si vede, dal contrastare tra loro, e anzi integrandosi a
vicenda i due passi attestano univocamente che la storia della divisione
ereditaria comincia dalle XII tavole, e non prima. Riveste
inoltre notevole interesse ai fini della questione qui discussa un ben
noto testo di Gellio[21].
Questo scrittore, nel descrivere l'organizzazione delle antiche comunità
pitagoriche, dice ad un certo punto che quanti aspiravano a diventarne
membri conferivano la totalità dei loro averi <<…et coibatur societas inseparabilis tamquam illud fuit anticum
consortium, quod iure atque verbo Romano appellabatur ercto non cito>>. Il
testo ha dato, comprensibilmente, parecchio filo da torcere ai
sostenitori della congenita "separabilità" dell'antichissima
comunione fraterna. I quali, di fronte a questo lampante richiamo
gelliano all' "inseparabilitas"
del consorzio, hanno tentato di liberarsi dell'ingombrantissimo ostacolo
<<anche a costo di negare l'evidenza>>. Le parole or ora
citate appartengono ad uno degli stessi fautori della tesi accennata[22],
il quale con questa generosa ammissione ci dispensa adesso dal ricordare
i molteplici tentativi vanamente profusi[23]
per neutralizzare la testimonianza di Gellio. 2
___ E' un altro, però,
l'argomento che, assai più di quelli opposti da Gaio e da Gellio, fa da
intralcio alla comune opinione che il patrimonio ereditario sia stato
fin dalle origini divisibile a discrezione degli interessati. Ed è
davvero curioso, ci si permetta di osservare, che non se ne sia finora
avvertita la forza stringente avendo esso strettissimamente a che fare
con l'aspetto più vistoso e più noto del regime consortile descritto
da Gai 3.154 a-b: quello, cioè,
consistente nell'appartenenza solidale del patrimonio familiare a tutti
i consorti e nella sottoposizione dello stesso patrimonio all'integrale
potere dispositivo di ognuno di loro. Gaio ne parla come del tratto più
tipico dell'istituto: <<In
hac autem societate fratrum… illud proprium erat>>; e lo
illustra con due esempi: la
manumissio o la mancipatio del servus o
della res communis erano
pienamente produttive di effetti anche se compiute da uno solo dei socii[24]. Di
tale aspetto[25]
la dottrina ha giustamente rilevato l'assoluta irriconducibilità a
qualunque principio di razionalità giuridica e ha ipotizzato
l'esistenza di vari correttivi o antidoti per un così scomodo e assurdo
regime[26].
Non ci pare invece risulti soddisfatta la, pur avvertita,
esigenza di spingersi fino al fondamento, di arrivar ad individuare la
ragion d'essere di questo fenomeno, per noi quasi inconcepibile[27],
per cui era dato ad ognuno disporre integralmente delle cose di tutti[28].
Ora, è molto probabile che se
alla basilare questione ora detta si fosse dedicato l'approfondimento
che merita, essa avrebbe portato ben presto a toccare con mano la
ragione che nel tempo più antico doveva ostare insormontabilmente alla
possibilità di dividere il patrimonio consortile. Dacché "dominio
plurimo integrale" e indivisibilità sono due aspetti
dell'originario regime del consorzio aventi entrambi la loro unica e
medesima radice nel fatto, in sé assai semplice, che mancava ancora in
quell'età remotissima l'idea di quota o pars pro indiviso. Come, infatti, nella communio di età progredita è la quota che stabilisce ai soci i
rispettivi limiti della loro legittimazione a disporre e fornisce al
giudice l'indispensabile criterio per attuare la divisio;
così, viceversa, è proprio l'estraneità dell'idea di quota al
primitivo consortium che, non
solo spiega quell'integralità del potere dispositivo di ogni consorte[29],
ma postula anche, in immancabile connessione, una radicale impossibilità
di divisio. Non
si dice naturalmente nulla di nuovo quando si parla della mancanza
dell'idea di quota nell'esperienza giuridica primitiva, ché anzi si
tratta di un rilievo non infrequente negli studi sul consortium[30].
Solo che nell'ambito di tali studi il rilievo ora detto è
rimasto per lo più appartato, separato dall'aspetto su cui si riversa
di solito il maggior interesse, quello cioè concernente il cd.
"dominio plurimo integrale". Sicché le due cose, assenza
dell'idea di quota e solidarietà del dominio, tendono a stagnare in
ambiti di discorso distanti l'uno dall'altro, senza quasi mai essere
collegate fra loro da una chiara e dichiarata consapevolezza del loro
rapporto di causa ed effetto[31].
Molto
raramente, del resto, ci si sofferma a considerare quale lungo e
stentato cammino abbia dovuto percorrere il pensiero antico per arrivare
a colmare quella sua grave lacuna d'origine[32]. E ancora più raramente
avviene che si provi a riportarsi con l'immaginazione entro la cerchia
di un orizzonte non ancora rischiarato da un concetto così saldamente
radicato nelle nostre strutture mentali come quello di quota. Eppure
nulla forse riuscirebbe più efficace di un tentativo del genere per
convincersi di come l'inesistenza di quel concetto dovesse rendere, non
tanto irrealizzabile, quanto addirittura inconcepibile lo scioglimento
del primitivo consortium. Senza
entrare in difficili problemi di definizione dogmatico-giuridica, ci si
può qui limitare ad osservare che la quota è oggi comunemente
rappresentata con il segno numerico di frazione, simbolo legato
all'operazione, anch'essa simbolica (per cifre), della divisione: sia
nel senso che la frazione è in sostanza un quoto, dato dalla divisione
del numeratore per il denominatore, sia nel senso che, attraverso la
divisione dell'uno per l'altro, essa è trasformabile in un numero
decimale, finito o periodico[33].
Già questi dati minimi, per noi affioranti da strati profondi di
cultura elementare, costituiscono un traguardo che, non solo la cultura
arcaica, ma tutt'intera la romanità globalmente considerata non arrivò
mai a raggiungere. E ciò per la nota ragione che Roma non conobbe il
metodo di calcolo posizionale applicato nel sistema di notazione
numerica indo-arabico per compiere una divisione e ottenere una frazione[34].
Naturalmente non si vuol con questo negare che già in età assai remota
si sia arrivati a concepire una divisione che non fosse puramente
materiale, ma di tipo matematico-speculativo. Ad armeggiare per primi
con quest'idea furono probabilmente, almeno in Occidente, i più antichi
filosofi greci. Viene in mente Zenone di Elea e l'infinito processo di
divisione che impedirà eternamente
ad Achille
di raggiungere
la tartaruga
e alla freccia il suo bersaglio.
O Pitagora
di Samo
e la
concezione dell'Uno
come teologico E
tuttavia non fu la filosofia a spianare la strada che avrebbe condotto a
fare il suo ingresso nella cultura giuridica romana quella difficile
astrazione che è il concetto di pars
pro indiviso. A spianarle la strada dovette essere invece un evento
connesso al progressivo incremento dell'economia di scambio: e cioè la
trasformazione dell' "as"
da pezzo di bronzo del peso di una libra
in valore nominale espresso da una moneta di peso assai inferiore[36].
Del
graduale processo di svalutazione cui durante l'età repubblicana fu
sottoposto l'antico asse librale[37]
interessano qui, non tanto i modi e le fasi di svolgimento[38] quanto le ripercussioni
che fin dall'inizio esso dovette produrre al di là della sfera
strettamente economica. Nel
suo significato antico di aes
<<pondo libras>> (<<bronzo del peso di una libra>>)[39],
l' "as" costituiva,
com'è notissimo, l'unità di misura del sistema di pesi importato dalla
Magna Grecia[40]
e utilizzato nei gesta per
aes et libram, almeno
fintantoché questi richiesero una pesatura effettiva. Il peso di un
"as" era pari
a quello
di 12
unciae, ciascuna
delle quali pesava
quindi
di as[41];
e tra l'unità
intera e l'unità frazionaria vi era una scala di pesi intermedi, tutti
individuati in rapporto all'as
in un determinato numero di unciae
(sextans = 2 unciae, quadrans = 3 unciae, triens = 4 unciae, etc.)[42].
La drastica riduzione di peso che l'as
subì quando divenne <<aeris
pecunia signata>> (<<moneta coniata di bronzo>>)[43]
fece saltare il rapporto reale as-libra
su cui si era retto il sistema di pesi sopra descritto; il quale si
conservò tuttavia come sistema, non più di pesi, bensì di valori
monetari meramente convenzionali avente per unità l'as[44].
Ora,
non è difficile comprendere come, svuotata del suo originario
riferimento ad un definito valore reale, questa ormai
a s t r a t t a
u n i t à
d i <<quicquid
unum est et quod ex integrorum divisione remanet, assem ratiocinatores
vocant>>. Lo
sganciamento dell'as dal suo
rapporto con la libra produsse
insomma questa interessantissima conseguenza, che l'as
divenne (oltre che una monetina di bronzo di peso variabile[45]
secondo le congiunture economiche) una sorta di metafora dell'uno: un
uno ideale in rapporto con le sue parti ideali. Venne in tal modo
acquisito uno schema, un modello mentale in cui ogni ente materiale
unitario poteva essere trasposto ogni qualvolta si volesse, nel
permanere della sua integrità, definirne le parti: definirne
le parti, cioè, su un piano puramente intellettivo. E
tra i ratiocinatores che si
avvalsero dello schema ora detto vi furono certo i giuristi, i quali lo
applicarono eminentemente all'oggetto che per antonomasia <<unum
est>>, nonostante la normale pluralità dei suoi elementi
costitutivi: e cioè all'hereditas[46].
Che l'hereditas sia
stata l'ambito di applicazione elettivo
di quell'astratto
modello imperniato
sull'as
è provato dall'uso
divenuto Se
a qualcuno venisse fatto di chiedersi perché mai per la coeredità si
sia adottata questa terminologia ponderale, visto che probabilmente
tutti i sistemi metrologici ebbero in origine a Roma la stessa struttura
a base duodecimale[48],
la risposta potrebbe essere questa: perché solo l'as tra tutte le unità di misura si alleggerì
- grazie all'introduzione della moneta coniata - del suo
riferimento ad una misura reale, mutandosi così in una sorta di
proiezione intellettiva dell'unità del patrimonio, nell'ideale pluralità
delle sue parti. Finché
non si arrivò a conquistare quest'importante strumento culturale che
permise di coniugare razionalmente pluralità di eredi ed unicità di
patrimonio, non vi fu, né vi poteva essere, altra formula di mediazione
fuorché quella, oltremodo scomoda ed illogica, del "dominio
plurimo integrale". E neanche allo stato di pallidissimo barlume
poteva scorgersi ancora, in un'epoca che ignorava l'idea di quota, la
possibilità di far cessare il consortium mediante una divisio
del patrimonio comune: in proposito coglie benissimo nel segno
l'osservazione di M. Talamanca che <<nella divisione la rilevanza
della quota è praticamente ineliminabile>>[49].
A
realizzare in senso proprio una divisione giudiziale del patrimonio
ereditario non si arrivò, del resto, come tosto vedremo[50],
neanche con l'introduzione decemvirale dell'a.
fam. erc. Quanto alla possibilità, astrattamente pensabile in
alternativa alla divisione giudiziale, di una reciproca attribuzione in
via negoziale di singole cose o frazioni materiali di cose da parte dei
consorti, anche questa via dovette rimanere del tutto impraticabile
fintantoché ogni cosa e ogni frazione di cosa non cessarono di esser
considerate come elementi di un tutto appartenente integralmente a
ciascuno. Non sono, si capisce, da escludere in via d'ipotesi forme di
accomodamento alla buona fra i consorti[51],
con rispettive riserve di godimento esclusivo in ordine ad individuati
cespiti del patrimonio comune, ma solo come soluzioni di fatto,
assolutamente incapaci di influire, modificandola significativamente,
sulla configurazione giuridica del consortium. Se
veramente è questa la temuta illazione, ci si permetta di obiettare che
inscindibilità non significa affatto inestinguibilità del consortium.
Ad indicare, anzi, che si trattasse di una situazione di durata solo
temporanea è, in modo chiarissimo, lo stesso Gaio, quando ne parla come
di una societas f r a t r u m suorum,
non propagabile, dunque, oltre
la cerchia dei fratres[54]:
cerchia all'interno della quale essa era, per l'appunto, indissolubile.
Altra e del tutto diversa è la questione dell'estinguibilità del consortium, il quale non poteva non cessare di esistere allorchè
fosse venuto a mancare quello che è da pensare fosse il presupposto
necessario e sufficiente del suo perdurare: e cioè l'esistenza stessa
di una pluralità di fratelli consorti. Il venir meno di tale
presupposto doveva costituire l'ineluttabile, e perciò normale, esito
di ogni vicenda consortile, sia che a determinarlo fosse l'una oppure
l'altra di due possibili cause, il cui necessario e alterno verificarsi
va ricondotto in ultima analisi alla già sottolineata estraneità
dell'idea di quota alla struttura dell'antico consorzio. Alla
cessazione del consortium[55]
doveva giungersi, in primo luogo, quando un frater, essendo sopravvissuto a tutti gli altri, restava per
ciò stesso unico proprietario dell'intero patrimonio[56]. Nessun'altra
conseguenza, infatti, poteva aver prodotto la morte (o forse anche capitis
deminutio) degli altri consortes,
fuorchè il progressivo e necessario restringimento della cerchia dei
titolari del patrimonio[57].
Alla
quale cerchia non avevano alcun accesso gli eventuali discendenti dei
trapassati[58],
mancando ancora il presupposto necessario ad aprirvi un varco in loro
favore: e cioè, per l'appunto, una quota in cui poter succedere[59].
Se
ciò può ripugnare ad una sensibilità giuridica progredita, ancor più
ripugnante sembrerà l'altra evenienza cui doveva collegarsi, in
alternativa a quella appena vista, la cessazione del consortium.
Anche la morte di un unico frater
avrebbe potuto infatti provocarne l'estinzione sol che questi avesse,
prima di morire, disposto dell'intero patrimonio attribuendolo ad un
erede da lui designato per testamento[60].
Come ogni socio, sappiamo, poteva da solo validamente manumittere o mancipare il
servo o le cose comuni, così sarebbe difficile non ammettere che ognuno
in via autonoma potesse anche, mortis
causa, disporre della totalità dei beni comuni. Per quanto assurda
e dal punto di vista giuridico perfino scandalosa rischi d'apparire
l'ipotesi ora detta, essa trova a sostenerla la stessa ragione
unanimemente addotta dagli studiosi per spiegare la legittimazione di
ogni consorte a disporre tra vivi di questo o quel bene comune: che
tutti, cioè, erano solidalmente proprietari di tutto. Se questa
ragione, infatti, vale per la manumissio
o per la mancipatio, nulla,
crediamo, autorizza a negare che essa possa valere anche per il testamentum[61]. Si
può del resto osservare che la menzione di manumissio
e mancipatio sembra avere in
Gai. 3, 154a valore solo
esemplificativo[62],
sicchè si può lecitamente
supporre che i due atti facessero parte di una più ampia serie di
esempi in parte non più leggibile a causa dell'estesa lacuna che, com'è
notissimo[63],
si apre nel manoscritto egiziano proprio a partire dal tratto
concernente la mancipatio: e
che tra questi ulteriori esempi si trovassero per l'appunto anche dei
cenni al testamento[64]
. Quanto
poi a cercar di comprendere come potesse funzionare in concreto un
sistema che, così inimmaginabilmente per noi, consentiva ad un solo frater di disporre addirittura dell'intero patrimonio familiare
escludendone tutti gli altri, potrebbe estendersi con profitto a questo
caso limite una delle spiegazioni già affacciate dagli studiosi in
rapporto alla testimoniata facoltà di ogni consorte di disporre
autonomamente di singoli cespiti comuni: quella, cioè, che fa leva
sulla centralità del valore della fides
nell'esperienza giuridica primitiva[65]. Se
avessimo la facoltà di uscir fuori dal rigido abito mentale cucitoci
addosso dall'odierna logica giuridica e dal secolare processo evolutivo
che l'ha prodotto, e di osservare
l'antichissimo istituto del consortium
alla luce irradiata dalla fides
su tutto il contesto della cultura arcaica[66],
forse lo vedremmo deporre gran parte di quei problemi di cui,
dall'interno della nostra armatura, siamo abituati a considerarlo
circonfuso. In un sistema così radicalmente "altro" dal
nostro da non conoscere ancora
la separazione
tra sfera
del diritto e sfera della religione, e da sottoporre
in larga misura la regolamentazione dei rapporti intersoggettivi ad un
valore più carismatico-sacrale che giuridico come quello della fides, non doveva probabilmente apparire abnorme che i fratres
si rimettessero, circa la sorte del patrimonio comune, alla valutazione
e all'iniziativa discrezionale di quello più dotato tra loro di
prestigio o di virtù personali capaci di meritargli l'incondizionato
affidamento degli altri; e lasciassero perciò che quest'uno, non solo
alienasse singoli beni, estromettendoli così dal patrimonio comune, ma
addirittura estromettesse loro stessi, suoi fratres, dallo stesso patrimonio[67],
attribuendolo tutto per testamento ad un erede da lui designato: sia che
quest'ultimo potere gli venisse riconosciuto in cambio di contropartite
date o assicurate agli altri consorti; sia che egli lo esercitasse sulla
semplice base di una propria incontrastata supremazia personale. 4
__ Considerato che
al testamento si faceva ricorso raramente[68]
e ancor più raramente doveva capitare che a succedere ab intestato vi fosse un solo suus,
è dato ritenere che l'instaurazione del consorzio tra fratelli[69]
costituisse nei primi secoli di Roma il normale esito della morte del pater
familias[70].
Normale, però, solo per l'alta frequenza del suo
verificarsi. Del tutto "anormale" invece e non più meritevole
di essere approvato dall'ordinamento è da pensare apparisse ormai nel 5°
secolo a.C. quel buio avanzo di preistoria che si manifesta nel regime
consortile. La
sua insuperabile indissolubilità ne faceva una sorta di gabbia
da cui i consortes
uscivano solo o per morte o per dispotica estromissione da parte del frater
più forte, il quale, signore al pari degli altri dell'intero
patrimonio, ne avesse, sopraffacendo gli altri, disposto integralmente
con il proprio testamento. Ed è difficile dubitare che l'ottusa
inflessibilità di un simile regime non avesse già finito per creare,
nell'epoca accennata, un altissimo grado di insofferenza.
Soprattutto, poi, tenuto conto della conseguenza cui dava luogo
parimenti il verificarsi di tutt'e due i casi sopra accennati. Sia
infatti che la morte degli altri fratelli avesse portato la titolarità
del patrimonio a concentrarsi nelle mani del frater
superstite, sia che l'iniziativa testamentaria di uno di loro avesse
escluso gli altri da quella titolarità, ne derivava che tanto i
discendenti dei fratres premorti,
tanto i discendenti dei fratres
esclusi vedevano azzerarsi totalmente le loro aspettative successorie
nei riguardi del patrimonio familiare. Se tutto ciò aveva potuto fin ad
allora perdurare sotto l'egida di una fides
intesa forse come reciproco riconoscimento tra fratelli della misura
delle rispettive forze, adesso la stessa fides,
sempre più tendente ad atteggiarsi come valore etico[71],
portava certo a scorgere nell'accennata conseguenza un'iniquità ormai
assolutamente inaccettabile. Uno
stato di cose, insomma, cui doveva collegarsi un diffuso e sentitissimo
disagio che reclamava con urgenza l'intervento del legislatore.
Intervento che venne attuato con la lex
XII Tabularum e corrispose pienamente alla necessità con
l'introduzione dell'actio familiae
erciscundae[72].
Ad esso fa riferimento Gai. 7. ad
ed. prov. D. 10, 2, 1 pr., con
parole che, in sostituzione del relativo precetto decemvirale, la cui
formulazione ci è ignota, i moderni editori collocano, nel ricostruito
testo delle XII Tavole, in
tab. 5, 10: <<Haec
actio (scil familiae erciscundae) proficiscitur e lege XII tabularum>>[73]
.
Nel
citato passo del Digesto la notizia è accompagnata dal prezioso
richiamo alla <<necessità>> che allora si avvertiva di
<<costituire>> una qualche actio
per i coeredi che volessero <<a
communione discedere>>: una "necessità" in cui è
dato scorgere l'allusione alla precedente, assoluta impossibilità di
evadere dalla prigione del consortium[74].
L'azione che offrì per la prima volta l'agognata via d'uscita si
esperiva, sappiamo da Gai. 4, 17, nella forma della legis
actio per iudicis postulationem, che la stessa lex comandò di applicare <<de hereditate dividenda inter coheredes>>, con un rito, a
quanto pare, più semplice di quello seguito per le pretese da stipulatio.
Stavolta, infatti, nominata la causa per cui si agiva, si passava
immediatamente alla formale richiesta di un arbiter[75]. Resta
da sapere quale funzione l'actio
fosse preordinata ad assolvere in questa sua originaria applicazione al consortium;
o, più concretamente, quale fosse il compito dell'arbiter
attraverso il cui operato si realizzava il familiam
erciscere: arcaica espressione indicante, per l'appunto,
l'originaria funzione dell'actio. Quando
Gaio afferma che la sua introduzione venne incontro al desiderio dei
coeredi di <<a communione
discedere>>, e dice che il relativo impiego della legis
actio per iudicis postulationem fu previsto dalle XII Tavole
<<de hereditate dividenda>>,
egli non si accorge, comprensibilmente, di anticipare così all'età
decemvirale la funzione del iudicium
familiae erciscundae del suo tempo: che è precisamente quella di
realizzare lo scioglimento della communio
ereditaria attraverso la divisio
dell'hereditas[76].
Ma il consortium era ben altro
che una communio, suscettibile
in quanto tale d'esser sciolta con
una divisio, essendo del tutto
estranea, come già s'è detto, a quell'antichissimo fenomeno l'idea di
quota o pars
pro indiviso, essenziale tanto per integrare l'esistenza di una communio,
tanto per realizzare una divisio atta
a provocarne lo scioglimento. Senza
bisogno di attardarsi su nozioni a tutti ben familiari, basterà
soltanto ricordare che nel giudizio divisorio d'epoca progredita il dividere
consiste propriamente nell'individuare le parti del bene comune da
assegnare separatamente ai condividenti, in modo che questi, prima
contitolari di un certo rapporto giuridico in ordine all'anzidetto bene
comune, si trasformino in titolari esclusivi dello stesso rapporto
giuridico in ordine a frazioni di quel bene, a loro volta trasformate,
ciascuna, in un totum a sé stante. Duplice metamorfosi, questa, che si determina
proprio in virtù del fatto che la
divisio è stata
operata con riferimento alle quote, strutturalmente inerenti alla communio
fin dal momento in cui questa è venuta, in un modo o nell'altro, a
costituirsi tra gli interessati. Una volta stabilito, infatti, quanta pars della cosa comune corrisponde alla quota pars spettante a ciascun condividente, l'atto della adiudicatio
interviene a rendere autonome, l'una in rapporto all'altra, sia la
frazione della cosa, sia la frazione del diritto, facendo così cessare
la communio[77]. Tutto
un quadro, è appena il caso di notarlo, completamente inapplicabile al consortium,
strutturato invece secondo lo schema integralistico dell'appartenenza di
tutto a tutti, e in relazione al quale, perciò, non è neanche
lontanamente pensabile che il iudicium familiae erciscundae potesse assolvere la funzione che si
rispecchia nella terminologia gaiana. E'
possibile pensare, piuttosto, che l'antico arbiter
avesse il compito di assegnare ai coeredi parti del patrimonio familiare
individuate, non già in rapporto ad astratte frazioni di titolarità,
ma secondo l'empirico criterio del "tanto ad uomo", su cui si
basava l'antichissimo modello viritario che la tradizione fa addirittura
risalire a
Romolo[78];
quello stesso
applicato dal
comandante militare
nella spartizione
della preda bellica[79].
Per il necessario pareggiamento[80]
di portiones viriles non
omogenee e perciò non suscettibili di uno stesso criterio di
misurazione, si può supporre che l'arbiter
si servisse di procedimenti estimatori del tipo probabilmente in uso già
allora in sede contenziosa di arbitrium
litis aestimandae[81]. Tralasciando
le possibili congetture sulle modalità con cui si procedeva
all'assegnazione delle portiones
così determinate[82],
è da domandarsi piuttosto quali effetti derivassero, giuridicamente
parlando, da questa rudimentale operazione in cui doveva concretarsi il
primitivo familiam erciscere.
E' difficile, per non dire impossibile, ritenere che tali effetti
potessero esser concepiti in termini di cessazione del consortium[83].
Considerata la mancanza, in quel tempo remoto, del sofisticato
strumentario concettuale che permetterà più tardi di scorgere
nell'obiettivo frazionamento dell'hereditas
il materializzarsi di un ideale stato di parziarietà del ius
successionis e di arrivare per questa via a considerar dissolto il
precedente rapporto di coeredità, per quale altra via, viene da
chiedersi, avrebbe potuto considerarsi estinto ad opera di un arbiter quella societas
fratrum suorum che era
conforme, non solo al
diritto positivo, ma perfino alla natura?[84]
Solo la Ma
la lex, per quanto se ne sa,
non abrogò affatto il consortium[85];
essa si limitò solo ad introdurre il iudicium
familiae erciscundae imponendone
l'esperimento nella forma della legis
actio per iudicis postulationem, con l'intento, noi riteniamo, di
fornire ai coeredi, non già il mezzo per far cessare tra loro il consortium, sì piuttosto per ottenere l'eliminazione degli ormai
intollerabili inconvenienti derivanti dal suo regime solidaristico.
L'assegnazione delle porzioni ereditarie è da pensare, infatti, non
producesse altro effetto che d'imporre ai consorti i limiti entro cui
doveva restringersi il potere dispositivo di ciascuno e da cui doveva
restar esclusa l'ingerenza di tutti gli altri. Dopotutto, la conquista
dell'esclusività, sia pur entro ambiti così delimitati, doveva ben
valere la rinuncia ad un potere di disposizione esteso, sì, all'intero
patrimonio ma esposto al continuo rischio di venire totalmente bruciato
nell'eventualità che un altro consorte esercitasse fino in fondo il suo
altrettanto ampio potere dispositivo facendo testamento: facoltà,
questa, che adesso tutti i consorti avrebbero invece potuto esercitare
liberamente, ciascuno in ordine alla propria porzione. Soprattutto
vantaggioso, poi, doveva risultare
quell'assetto giudizialmente costituito, se si suppone, come v'è
ragione di supporre[86],
che all'esclusione degli altri dalla porzione assegnata a ciascuno fosse
attribuito un effetto definitivo: definitivo nel senso che, alla morte
di ciascun consorte (che non avesse fatto testamento) i rispettivi sui
potevano subentrargli nella porzione, senza che a ciò fosse
d'impedimento la sopravvivenza degli altri consorti, come invece
avveniva in epoca predecemvirale. Non sembra azzardato, anzi,
congetturare che proprio questo sia stato l'obiettivo cui mirò
principalmente il legislatore decemvirale nell'introdurre l'actio
familiae erciscundae: assicurare ai sui
di ciascun consorte la normale possibilità di succedere o ex
testamento o ab intestato
al proprio pater nella
porzione a quest'ultimo assegnata dall'arbiter:
con il conseguente superamento del barbarico regime primitivo che
vanificava invece le loro aspettative successorie qualora il rispettivo pater fosse premorto agli altri fratres,
o qualora uno di questi ultimi si fosse arrogato l'estremo potere di
disporre mortis causa
dell'intero patrimonio. Secondo
l'ipotesi appena proposta, il iudicium
familiae erciscundae mirò essenzialmente a sostituire allo
scomodissimo regime della "proprietà plurima integrale" un
nuovo e allora completamente inedito criterio di parziarietà, secondo
cui veniva ad instaurarsi tra i coeredi una situazione prefigurante,
anche se ancora molto alla lontana, la communio
di età progredita. Lungi dal permettere ai coheredes
di <<a communione descedere>>,
come vorrebbe Gaio, potrebbe dirsi che esso permetteva loro di
"incedere" in una sorta di communio
ante litteram, in cui ciascuno era legittimato a disporre inter
vivos e mortis causa del patrimonio di tutti nei limiti, non di una parte
ideale, ma di una porzione di beni concretamente individuata[87],
nella quale gli subentravano, se moriva intestato, i filii sui secondo il principio consacrato, per la prima volta con
portata generale, da un'altra celebre disposizione delle XII Tavole[88].
In
sostanza il iudicium avrà
avuto in origine una funzione opposta a quella che assunse
successivamente: non, cioè, di estinguere, ma di porre in essere tra i
coeredi, se non proprio una communio
in senso stretto, ciò che ne costituì probabilmente il precedente
storico[89]. Il
che può ben spiegarsi, crediamo, tenendo presente la già sottolineata
diversità dell'antico consorzio dalla più recente communio.
Quest'ultima reca in sé, quasi geneticamente iscritta nella sua ideale
struttura parziaria, una potenzialità di scioglimento che il giudizio
divisorio ha la funzione, per l'appunto, di tradurre in atto attraverso
il frazionamento del patrimonio in parti materialmente individuate in
proporzione alle quote, da assegnare in titolarità solitaria ai
condividenti. Il consortium no, la sua struttura monolitica lo rende assolutamente
refrattario ad ogni forma di scissione e in nessun altro modo esso può
venir meno, in origine, se non nell'uno o nell'altro dei due soli modi
già visti: o per concentrazione della titolarità del patrimonio
nell'unico consorte superstite, o per estromissione dalla stessa
titolarità di tutti i consortes
sopravvissuti al frater che,
spingendo fino al limite massimo l'esercizio della sua integrale
legittimazione a disporre, abbia attribuito l'intero patrimonio al suo
erede testamentario. Eccetto
che in questi due modi, il consortium
era, prima dell'introduzione del iud.
fam. erc., una realtà ineliminabile, e noi riteniamo che neanche
quando fu introdotto il iudicium
il suo esperimento potesse, direttamente, metterne in gioco l'esistenza.
I limiti materialmente fissati dall'arbiter
al potere di disposizione di ciascun consorte non incidevano, ammesso
che si percepisse allora la distinguibilità dei due piani, né su
quello della posizione giuridica soggettiva degli interessati, né su
quello del patrimonio: come il ius
succesionis era e restava plurimo e solidale, così pure il
patrimonio restava, anche dopo il giudizio,
formalmente uno ed integro. Pur
senza intaccare, tuttavia, la formale unità del patrimonio, la sua
segmentazione ad opera dell'arbiter[90]
in portiones viriles
costituiva il presupposto che avrebbe reso possibile, a più o meno
breve distanza di tempo dall'esperimento del iudicium, la trasformazione di quelle portiones in patrimoni a sé stanti, e aperto così la strada al
verificarsi di un fenomeno sconosciuto all'esperienza giuridica
primitiva: la scissione del patrimonio ereditario in una pluralità di
nuclei patrimoniali autonomi. Perché ciò si realizzasse, perché la pars divenisse un totum,
occorreva che diventasse autonomo anche il corrispondente titolo
giuridico: occorreva cioè che, morto il consorte assegnatario della
porzione, gli si sostituissero i suoi successori, ex
testamento o ab intestato,
prendendo il suo posto, non più ovviamente in qualità di consortes rispetto ai fratres
sopravvissuti, ma sulla base di un distinto ed autonomo ius successionis. Solo diventando oggetto di un diritto
indipendente, quell'insieme di beni, fino ad allora solo materialmente
individuato, sarebbe assurto a sua volta al ruolo di entità giuridica
indipendente. Lo
smembramento del patrimonio ereditario, che in epoca successiva
costituirà l'effetto diretto ed immediato del iud.
fam. erc., all'inizio fu invece una conseguenza automatica
dell'evento al cui verificarsi era stato preordinato in via primaria dal
legislatore decemvirale l'esperimento dell'azione: e cioè il
progressivo subentrare ai fratres dei loro rispettivi successori nelle portiones a suo tempo determinate in sede di iudicium. Non fu infatti per abbattere il consortium che venne introdotto il iud. fam. erc., ma, secondo l'ipotesi qui affacciata, per
programmare secondo il piano di ripartizione predisposto dall'arbiter
il futuro ingresso nel patrimonio familiare degli eredi di tutti i
consorti. 5
__ Destinata
anch'essa ad incidere sul preesistente regime del consortium fraterno era un'altra disposizione decemvirale[91]
secondo cui <<ea quae in
nominibus sunt… ipso iure in portiones hereditarias… divisa sunt>>[92]. La
sua presenza nelle XII Tavole, attestata da una tradizione tarda[93]
ma più che attendibile[94],
presuppone la risalenza ad epoca predecemvirale del principio della
trasmissibilità mortis causa dei
rapporti obbligatori, o almeno di alcuni di essi[95].
Non si vede infatti come avrebbe potuto prevedersi che i nomina si dividono ipso iure
secondo le porzioni ereditarie senza un precedente e già consolidato
riconoscimento di una loro attitudine a trasmettersi agli eredi. Anteriormente
alle XII Tavole, perciò, è lecito pensare che in caso di pluralità di
eredi - presupposto necessario e sufficiente, questo, per
l'instaurarsi del consortium -
anche i nomina, trasmettendosi
insieme ai corpora, venivano
ad imputarsi solidalmente ai consortes
così come il dominio sugli stessi corpora.
Ecco da ciò venir fuori un aspetto piuttosto misconosciuto[96]
- e del resto perfettamente coerente con quello a tutti noto - del
primitivo regime del consorzio ereditario: dove non solo, come ben si
sa, gli elementi materiali del patrimonio erano oggetto di una pluralità
di poteri dominicali concorrenti tra loro senza reciproche limitazioni,
ma anche crediti e debiti, a quanto pare, spettavano a tutti e gravavano
su tutti in misura integrale. Proprio
ad eliminare gli immaginabili inconvenienti connessi a questo secondo
aspetto del regime consortile mirò, è dato allora supporre, il
precetto sulla divisione ipso iure
dei nomina ereditari; precetto che nel generale disegno di riforma del consortium
concepito dai decemviri dovette rivestire un ruolo complementare
rispetto a quello che introdusse l'a.
f. erc. In tutti e due, infatti, si riflette visibilmente l'unitario
intento di razionalizzare le strutture giuridiche del consortium
attraverso un riequilibrio su base parziaria delle reciproche posizioni
soggettive dei consorti in ordine alle diverse componenti del
patrimonio. Questo
sistema a doppio binario, inaugurato dalle XII Tavole, per cui gli
elementi materiali del patrimonio ereditario si sottopongono al iud. f. erc. mentre i rapporti obbligatori si dividono ipso
iure, continuò ad essere applicato ininterrottamente fino a
Giustiniano. Furono sempre e soltanto i corpora
hereditaria a costituire specificamente oggetto del iudicium[97],
ed anche quando nell'ambito operativo di quest'ultimo vennero attratte res
hereditariae non corporales[98],
nonché le praestationes
personales[99]
relative a rapporti obbligatori sorti
dallo stato
di comunione[100],
rimase fermo il principio che <<Ceterae…
res p r a e t e r
n o m i n a veniunt
in hoc iudicium (scil. familiae erciscundae)>> (Ulp. 19 ad
ed. D. 10, 2, 4 pr.)[101].
E ancora in età postclassica si giustificò quest'esclusione dal iudicium
delle obbligazioni ereditarie con l'espresso richiamo alla disposizione
decemvirale che ne aveva stabilito la divisibilità ipso
iure[102]. Si
capisce però che, come nel corso del tempo l'a. f. erc. venne ad acquistare una funzione diversa dall'originaria,
trasformandosi da mezzo di rimodellamento del consorzio secondo criteri
di parziarietà in mezzo di scioglimento della communio
hereditaria, così deve supporsi che il principio della divisio
ipso iure dei nomina
avesse in origine una portata differente da quella assunta in epoca
successiva. La negazione classica del venire
in iudicium delle obbligazioni ereditarie si spiega con il fatto che
esse si dividono in base al puro e semplice schema delle quote d'eredità
spettanti a ciascun coerede fin dal momento in cui è venuta in essere
la stessa coeredità: senza bisogno, cioè, dell'intervento del giudice,
necessario invece per attuare, sempre secondo le quote, la divisio
dei corpora. Sia, perciò,
che i coeredi esperiscano fra loro il iudicium,
sia che decidano di rimanere in comunione, ciascuno di loro dovrà, in
quanto titolare dell'hereditas
insieme agli altri, agire ed esser convenuto per le obbligazioni
acquistate iure hereditario
esclusivamente nei limiti della sua quota. Che i nomina
si dividano ipso iure
significa, dunque, che essi si dividono senza bisogno del iudicium, indipendentemente da
esso[103].
In
modo del tutto diverso, riteniamo, doveva invece essere inteso il
principio in età decemvirale; nel senso che la sua operatività non
poteva, allora, che esser subordinata all'esperimento del iudicium.
Fintantoché i consorti non avessero, con l'apposita postulatio, ottenuto l'intervento dell'arbiter familiae erciscundae, essi erano e restavano tutti titolari
di un'indiscriminata signoria sulle
componenti materiali del patrimonio. In presenza di tale
presupposto sembra da escludere potesse trovare applicazione il
principio della divisio ipso iure dei
nomina. Ove invece lo si
ammettesse, si dovrebbe infatti immaginare che i coeredi, ancora tutti i
titolari in solidum del
patrimonio relativamente alle sue componenti materiali, ne fossero al
tempo stesso titolari ciascuno pro
portione relativamente ai nomina:
con la paradossale conseguenza che l'eventuale vittoria o l'eventuale
sconfitta seguita all'esperimento dell'azione personale intentata pro
portione da o contro il singolo consorte si sarebbe inevitabilmente
risolta in un incremento o in una perdita per il patrimonio di tutti[104].
Sembra
preferibile, perciò, pensare che la divisio
ipso iure dei nomina
ereditari sia stata concepita dal legislatore decemvirale come un
fenomeno connesso all'esperimento del iudicium,
verificabile solo sul presupposto dell'avvenuta assegnazione ai consorti
di porzioni materialmente determinate del patrimonio ereditario. E'
possibile, in altre parole, che <<ipso
iure>> significhi, per quel tempo, che il fenomeno accennato
si produceva, sì, al di fuori, separatamente, dalla sfera operativa del
iudicium, ma non indipendentemente da esso, sì piuttosto come una
sorta di autonomo riverbero sul piano dei nomina
dell'effetto prodotto dal giudizio su quello dei corpora. 6
__ Coordinandosi
<<ipso iure>> ai
risultati dell'opera dell'arbiter,
quest'ulteriore effetto riguardante i nomina
veniva dunque a completare in modo coerente la prospettiva dei vantaggi
legati al passaggio dal regime solidaristico del consorzio al nuovo e più
razionale sistema di coeredità a struttura parziaria; e ciò avrà
contribuito verosimilmente ad incentivare un sempre più massiccio
ricorso al iud, fam. erc., che
costituiva, per l'appunto, la via d'accesso a tale sistema. Si
inserisce probabilmente in questo contesto l'entrata in uso della
locuzione <<ercto non cito>>
per indicare il vecchio consortium
a "dominio plurimo integrale" rispetto a quello di nuovo tipo
instaurabile tra i coeredi attraverso l'esperimento dell'azione. Questa
esigenza di differenziazione sul piano espressivo dovette imporsi, non
tanto in relazione ai possibili residui casi di mantenimento tra i fratres sui dell'antico regime consortile per loro deliberata
astensione dal iudicium,
quanto piuttosto in relazione ad un certo sviluppo che, in età non
precisabile, ma forse non di poco posteriore alle XII Tavole, portò il
ramo semiinaridito del primitivo consorzio ad attecchire fruttuosamente,
almeno per qualche tempo, al di là del terreno ereditario. Lo
sviluppo in questione riguarda il cd.
consorzio imitativo o artificiale, ricordato da Gai. 3, 154a
subito dopo il breve cenno alla remotissima forma di società <<legitima simul et naturalis>> che si instaurava tra i sui
heredes alla morte del pater
familias: <<Alii
quoque qui volebant eandem habere societatem poterant id consequi apud
praetorem certa[105]
legis actione>>. Trattandone,
com'è notissimo, in relazione alla societas
iuris gentium[106],
Gaio presenta le due figure di consorzio, tra fratelli e tra estranei,
in una prospettiva che li accomuna sotto tre profili per i quali
entrambe differiscono dalla stessa societas
iuris gentium: tutt'e due, infatti, integrano un <<genus
societatis proprium civium Romanorum>>; tutt'e due seguono lo
stesso regime basato sul concorrere di diritti paritetici; tutt'e due,
infine, sono istituti desueti, nella cui descrizione, infatti, Gaio non
abbandona mai l'uso dei verbi al passato[107].
Se, e quanto, in questo passato che ormai le ha inghiottite entrambe, le
due figure di consorzio siano tra loro distanziate, questo è un aspetto
che non interessa affatto dal punto di vista unificatore da cui si pone
il giurista; al quale, evidentemente, basta solo aver fatto cenno a
quelli che sono per lui i lontani antenati civilistici dell'istituto di
cui sta trattando. Questo
loro abbinamento da parte di Gaio nel profondo di un'antichità non
scandita da piani storici successivi sembra aver influenzato alcuni
moderni studiosi, i quali inclinano infatti a trattarli come istituti
grosso modo coevi, con il più o meno esplicito convincimento, dunque,
che anche il consorzio tra estranei appartenga alla stessa epoca
predecemvirale cui si tende generalmente a far risalire il consorzio
fraterno[108]. Contro
quest'altissima risalenza del consorzio imitativo, si oppongono, però,
alcune considerazioni che inducono ad abbassarne notevolmente l'epoca
d'origine. Riesce difficile, intanto, immaginare già operanti in
un'economia agricolo-pastorale, qual era fondamentalmente quella d'età
anteriore alle XII Tavole, le esigenze mercantil-imprenditoriali, al cui
incipiente diffondersi va invece collegata la comparsa di questo
conclamato precursore civilistico della societas
omnium bonorum[109]. Soprattutto,
però, riesce difficile pensare che questo consorzio tra estranei, la
cui instaurabilità per volere degli interessati postula una sua
simmetrica attitudine a cessare per loro stesso volere, si modellasse
(come in effetti si modellava, stando alle parole di Gaio) sul consorzio
fraterno in un'epoca in cui quest'ultimo si costituiva e si estingueva
per cause affatto indipendenti dalla volontà dei fratres[110],
e con inconvenienti tali da farlo certo apparire, allora, più un
modello da sfuggire che da prendere ad
exemplum. In
rapporto a tali difficoltà può assumere, crediamo, un valore non
trascurabile, nella frase <<Alii… poterant id consequi apud praetorem certa legis actione>>,
la menzione del pretore, ove la si interpreti, non come un anacronismo
dovuto ad un errore di prospettiva storica da parte di Gaio, ma come un
intenzionale riferimento all'organo magistratuale nella cui sfera
d'azione ebbe origine il nostro istituto[111]; e dunque come dato
utilizzabile per l'inquadramento temporale di quest'ultimo[112].
Un inquadramento, peraltro, che appare assai ragionevole, non solo in
relazione ai mutamenti economici sopravvenuti nel 4° secolo[113],
e sul cui sfondo si presta bene ad esser collocata questa societas ceterorum quale prima sperimentazione civilistica della societas
iuris gentium; ma anche in relazione agli effetti, nel frattempo
maturati e ormai ampiamente visibili nella realtà giuridico-sociale,
della riforma del consorzio ereditario attuato dalle XII Tavole. L'introduzione
dell'a. f. erc. aveva, come s'è
visto[114],
offerto ai coeredi la possibilità di far cessare quando volessero i
gravi inconvenienti della solidarietà consortile, il cui eventuale
mantenimento dipendeva ormai dalla consensuale astensione dei fratres
dall'esperimento dell'azione. Proprio perché liberato dagli aspetti
svantaggiosi prima legati alla sua irrimediabile coattività, l'arcaico
regime patrimoniale del consortium
fratrum suorum poteva adesso proporsi come modello sfruttabile dalle
nascenti imprese mercantili[115]. Alle
rischiose prospettive affrontate, per esempio, dai pionieri del
commercio transmarino è da pensare si addicesse assai bene
l'eccezionale unità di interessi stabilita tra i soci dall'avvenuta
fusione della totalità dei rispettivi averi in un'unica massa
patrimoniale, di cui tutti fossero divenuti titolari in
solidum come lo divenivano rispetto al patrimonio familiare i fratres
sui alla morte del pater[116].
Tenuto conto, inoltre, della probabile inesistenza dell'a. pro socio al tempo di questa vetusta societas ceterorum[117],
si pensi quale insostituibile vantaggio dovesse rappresentare per i soci
la divisio ipso iure dei nomina
che si prospettava, nel modello fraterno, in connessione al volontario
abbandono del regime della proprietà solidale![118] Sarà stata, per
l'appunto, l'esigenza di dar un nome specifico a
questo modello
che si
voleva "imitare"
tra i soci, a dar
origine all'uso - forse
[1] Gai 3.154: <<sed ea quidem societas, de qua loquimur, id est, quae nudo consensu contrahitur, iuris gentium est; itaque inter omnes homines naturali ratione consistit. 154.a Est autem aliud genus societatis proprium ciuium Romarorum. olim enim mortuo patre familias inter suos heredes quaedam erat legitima simul et naturalis societas quae appellabatur ercto non cito, id est dominio non diuiso: erctum enim dominium est, unde erus dominus dicitur: ciere autem diuidere est: unde caedere et secare [et diuidere] dicimus. 154.b Alii quoque qui uolebant eandem habere societatem, poterant id consequi apud praetorem certa legis actione. in hac autem societate fratrum ceterorumue, qui ad exemplum fratrum suorum societatem coierint, illud proprium erat, [unus] quod uel unus ex sociis communem seruum manumittendo liberum faciebat et omnibus libertum adquirebat: item unus rem communem mancipando eius faciebat, qui mancipio accipiebat…>>. Per i problemi di ricostruzione del testo, qui trascritto secondo E. SECKEL-B. KUBLER, Gai Institutionum commentarii quattuor7, Lipsiae, 1935, si veda, fondamentalmente, l'editio princeps di V. ARANGIO-RUIZ, PSI.1182. Frammenti di Gaio, in <<Papiri Greci e Latini (Pubbl. Soc. Italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto)>>, XI, 1935. [2] Un'indagine ad ampio raggio sul consorzio e su vari aspetti della relativa problematica, in M. BRETONE, <<Consortium>> e <<communio>>, in <<Labeo>>, VI, 1960, 163 ss., con richiami e discussione della letteratura precedente. V. inoltre, A. GUARINO, Comunione (dir. rom.), in <<ED>>, VIII, Milano, 1961, 232 ss.; J. F. LEUBA, Origine et nature des legs per praeceptionem, Lausanne, 1962, 157 ss.; J. GAUDEMET, Les communautés familiales, Paris 1963, pp. 63 ss.; A. TORRENT, <<Consortium ercto non cito>>, in <<AHDE>>, 1964, 479 ss.; P. VOCI, Diritto ereditario romano, I2, 1967, 59 ss., 77 ss.; M. G. BIANCHINI, Studi sulla societas, Milano 1967; D. STOJCEVIC, 'Gens, consortium, familia', in Studi E. Volterra, I, Milano, 1971, 425 ss.; M. KASER, Neue Literatur zur "societas", in <<SDHI>>, 1975, 278 ss.; S. TONDO, Il consorzio domestico nella Roma antica, in <<Atti e Mem. Accad. La Colombaria>>, XL, Firenze, 1975, 131 ss. (su cui A. GUARINO, La tradizione globale, in <<Labeo>>, xxxiii, 1977, 216 ss.); ID., Ancora sul consorzio domestico nella Roma antica, in <<SDHI>>, L, 1994, 601 ss.; A. D'ORS, "Societas" y "consortium", in <<Revista de estudios històricos-juridìcos de la Universidad Catòlica de Valparaiso>>, 1977, 33 ss.; G. MacCORMACK, Hausgemeinschaft and Consortium, in Zeitschr. f. Rechtswiss., LXXXVI.1, 1977, 1 ss.; L. GUTIERREZ-MASSÓN, Del "consortium" a la "societas" I. "Consortium ercto non cito", Madrid, 1987 (su cui G. FRANCIOSI, Ancora sul <<consortium>>, in <<Labeo>> XXXVII, 1991, 269 ss.); M. TALAMANCA, Società (dir. rom.), in <<ED.>>, ILII, 1990, 814 ss.; G. FRANCIOSI, "Gentiles familiam habento". Una riflessione sulla cd. proprietà collettiva gentilizia, in Ricerche sull'organizzazione gentilizia romana, III, Napoli, 1995, 37 ss. (su cui I. PIRO, <<Consortium>>, <<Heredium>> e storia dello <<Ius gentilicium>>, in <<Labeo>> XLV, 1999, 269 ss.); L. MONACO, Hereditas e mulieres. Riflessioni in tema di capacità successoria in Roma antica, Napoli, 2000, 31 ss. (ove ulteriore bibliografia sul Consortium). [3] La questione si collega strettamente a quella riguardante il carattere volontario o meno del consorzio, in modo tale che divisibilità e indivisibilità hanno finito per configurarsi in dottrina come i rispettivi corollari delle opposte tesi della volontarietà e della coattività del consorzio. E' appena il caso di precisare che la questione di cui parliamo è sempre stata posta con riferimento ad epoca predecemvirale, considerandosi generalmente fuor di dubbio che le XII tavole, a prescindere dal problema se con portata innovativa o solo confermativa, disciplinarono la divisione giudiziale del consorzio ereditario (v. però, infra, nt. 17). All'argomento fu dedicato un autonomo studio da C. A. MASCHI, Disertiones. Ricerche intorno alla divisibilità del consortium nel diritto romano antico, Milano, 1935, dove si trovano ricordati e variamente criticati gli autori (FADDA, KARLOWA, LEIST, ALBERTARIO, LASTIG, COHN) che avevano in precedenza, con qualche o senza alcun fondamento, sostenuto la tesi dell'originaria indivisibilità del consorzio, tesi in seguito ripresa, per quanto ci risulta, solo da P. FREZZA, Consortium, in <<NNDI>>, IV, Torino, 1959, 246 e VOCI, Istituzioni di Dir. Romano3, Milano, 1964, 204 (passato poi sul versante dottrinale opposto: cfr. infra, nt. 8). Per gli altri fautori, oltre Maschi, della tesi contraria, v. infra, nt. 8. [4]
Non interferisce con tale generale riconoscimento la non
pacifica interpretazione dell'aggettivo <<legitima>>,
usato da Gaio per qualificare la <<societas
inter suos heredes>>. Intorno ai due diversi indirizzi
d'opinione facenti capo, rispettivamente, a T. MOMMSEN e a L.
MITTEIS, per cui l'aggettivo sarebbe da intendere, o con riferimento
all'<<unverruckbares
Urrecht>> o nel senso di <<conforme alla, regolata
dalla, lex (XII
tab.?)>>, v. i ragguagli bibliografici forniti da BRETONE,
<<Consortium>>,
cit., 174, nt. 22, cui adde
l'isolata opinione di P. COLLINET, Les
Nouveaux Fragments des Institutes de Gaius, in
<<RH>> 4.13, 1934, 104, che scorge in quell'aggettivo il
riferimento ad un actus legitimus, secondo questo autore necessario per dar vita al consortium.
A noi sembra che nel contesto di Gai 3.154 l'aggettivo assuma un suo
specifico significato in rapporto all'opposto valore della
"naturalità", che inerisce, non solo alla societas
iuris gentium cui la societas
fratrum suorum viene contrapposta, ma anche alla stessa
antichissima societas in questione che era, come dice Gaio <<legitima
simul et n a t u r a l i s>>. In questo suo
accostamento a <<naturalis>>,
<<legitima>>
non può, infatti, non evocare l'opposizione sistematica
inizialmente posta da Gaio tra ius
civile e ius gentium: quest'ultimo "costituito" dalla naturalis
ratio (1.1), l'altro scomponibile in una pluralità di elementi
rappresentata in Gai 1.2-7 come l'insieme di iura
(populi Romani) incentrato sull'astratto paradigma della lex.
Alla luce di tale fondamentale premessa il <<legitima>>
di Gai 3.154 a. sembra
alludere semplicemente all'appartenenza della societas
così qualificata a quel ius
che verso l'inizio dell'opera era stato presentato, per l'appunto,
nel suo essenziale incardinarsi sulla lex.
L'inquadramento di questa societas
tra gli istituti del ius
civile non impedisce tuttavia a Gaio di scorgerne l'intima
rispondenza ai principi della naturalis
ratio: ragione per la quale, in modo singolarmente non
contraddittorio, essa gli appare qualificabile come
"civile" e al
tempo stesso "naturale". [5] Non del tutto definita rimane tuttavia la figura del consorzio dal punto di vista del suo inquadramento nell'ambito della fenomenologia successoria. L'ipotesi, recentemente affacciata da TONDO, Ancora sul consorzio domestico cit., 607, di un suo possibile instaurarsi anche tra sui vocati all'hereditas per testamento, trova a nostro avviso un insuperabile ostacolo nelle parole di Gaio: <<Olim enim mortuo patre familias inter suos heredes quaedam erat… societas…>>, da cui appare certo che il venir in essere di tale societas si collega direttamente e unicamente alla morte del pater, con conseguente esclusione di una sua possibile dipendenza da una qualunque manifestazione di ultima volontà dello stesso pater. Riaffermata pertanto, in conformità con la communis opinio, l'esclusiva appartenenza del consortium al terreno della successione ab intestato, rimarrebbe da stabilire in presenza di quali presupposti la morte del pater familias desse luogo all'automatico instaurarsi del consorzio. Presupposto più che ovvio era, si capisce, che egli lasciasse una pluralità di sui. Meno ovvio invece e mai posto, per quanto ci risulta, nel dovuto risalto, è l'ulteriore presupposto che il pater defunto fosse al momento della morte unico titolare del patrimonio familiare: non ne condividesse, cioè, la titolarità con altri fratres consortes. Circostanza, quest'ultima, che avrebbe irrimediabilmente privato i suoi discendenti di ogni possibilità di succedergli ab intestato. Su ciò, v. infra, § 3, ntt. 59 e 70. [6] Non ha quasi più seguito oggi la dottrina che, accentuando il carattere familiare del consorzio e sminuendone i profili patrimonialistici, vi vedeva raffigurato un istituto comparabile con la "Haugemeinschaft" dei diritti germanici. Per la confutazione di questa dottrina, massimamente sviluppata da F. WIEACKER, Societas. Hausgemeinschaft und Erwerbsgesellschaft, I, Weimar, 1936, e Hausgenossenschaft und Erbeinsetzung. Uber die Anfange des romichen Testaments, Festschrift Siber, I, Leipzig, 1941, 3 ss., è stato determinante, fra altri, l'appassionato contributo di B. ALBANESE, La successione ereditaria in diritto romano antico, estr. <<AUPA>>, XX, 1949, 69 ss. Per un quadro d'insieme del problema e della relativa letteratura, v. BRETONE, <<Consortium>>, cit., 165 ss., che inclina dal canto suo (178 ss.) a rivalutare in qualche modo gli aspetti familiari dell'antico rapporto associativo. Sulla stessa scia GAUDEMET, Les communautés familiales, cit., 68 s e BIANCHINI, Studi sulla societas, cit., 6 ss. [7] In questi termini è posta la questione da MASCHI, Disertiones, cit., 9. [8] Per i sostenitori della divisibilità nella letteratura meno recente (PERNICE, FERRINI, SOLAZZI, GIRARD, PEROZZI,), v. MASCHI, op. cit., 11 ss. Con maggior o minor impegno, hanno manifestato in seguito la loro adesione alla tesi ora detta, WIEACKER, Societas cit., 105, nt. 2; G. CORNIL, Du Mancipium au Dominium, in Festschrift Koschaker, I, Berlin 1939, 411 e 425; A. HAGERSTROM, Der romische Obligationsbegriff. II. Beil. 5, Uppsala Leipzig, 1941, 153, 157; ALBANESE, La successione ereditaria cit. 53 ss.; ARANGIO-RUIZ, La società in diritto romano, Napoli, 1950, 6 s.; C. GIOFFREDI, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane, Roma, 1955, 230 s.; BROGGINI, Iudex arbiterve. Prolegomena zum Officium des rom. Privatrichter, Koln-Graz., 1957, 157, 162 s.; TONDO, Il consorzio domestico cit., 206 ss.; TALAMANCA, Società, cit., 816. L'affermazione della divisibilità si fonda generalmente sull'asserita volontarietà del consortium (supra, nt. 3), presupposto accolto in dottrina con una varietà di declinazioni che non è possibile in questa sede soffermarsi ad analizzare. [9] Sull'alternativa <<erctum non citum>> - <<ercto non cito>>, v., per tutti, TONDO, op. cit., 138 s. [10] Gai 3.154 a:<<…societas quae appellabatur ercto non cito…>> (interamente citato supra, nt.1); Gell. 1.9.12: <<…anticum consortium, quod… appellabatur ercto non cito>> (su cui v. tra poco, in questo stesso paragrafo). Sull'assonanza tra i due passi, cfr. ARANGIO-RUIZ, PSI. 1182, cit., 34. [11] Un esauriente quadro delle diverse opinioni in TONDO, Il consorzio domestico, cit., 139 ss., che lo arricchisce da parte sua con una proposta interpretativa ulteriormente diversa, su cui v. TALAMANCA, Società cit., 815, nt. 12. [12] Cfr. TALAMANCA, op. loc. cit. [13] Cfr. MASCHI, Disertiones cit., 8; HAGESTROM, Der rom. Obligationsbegriff II, Beil. 5, cit., 157; ALBANESE, La successione ereditaria cit., 58; GIOFFREDI, Diritto e processo cit., 230; LEUBA, Origine et nature cit., 162; VOCI, Diritto ereditario romano, I2, cit., 63; TONDO, Il consorzio domestico, cit., 207, nt. 2; GUTIERREZ-MASSÓN, Del <<consortium>>, cit., I, 123. [14] Possibilità ammesse entrambe da TALAMANCA, Società cit. 815, nt. 12 (<<la denominazione presuppone la divisibilità del consortium, s o p r a g g i u n t a o d o r i g i n a r i a c h e f o s s e>> [spaziato nostro]), il quale si sottrae in tal modo all'obiezione opponibile invece a quanti si avvalgono dell'argomento in questione in base all'indimostrato presupposto che il nome debba necessariamente essere coevo all'istituto cui si riferisce (così, esplicitamente, TONDO, op. cit., 139: <<dovrà trattarsi di formula coeva alla stessa c o s a ch'essa mirava a designare>>). [15] Per tale congettura v. infra, § 6. [16] Cfr. A. BERGER, Zur Entwicklungsgeschichte der Teilungsklagen im klass. rom.Recht, Weimar, 1912, 5 ss. [17] Si capisce perciò il risalto assunto dal citato passo di Gaio nell'ambito della questione qui discussa. Addotto in passato come testimonianza dell'indivisibilità del consorzio in epoca predecemvirale (cfr., ad es., E. ALBERTARIO, I nuovi frammenti di Gaio [PSI. XI Nr. 1182], in Studi di diritto romano, V, Milano, 1937, 468), esso costituisce invece per l'opposta tesi, oggi dominante, uno scomodo ostacolo che si cerca in vari modi di eludere. Delle due principali linee argomentative seguite al riguardo, la più radicale è quella che mette in dubbio l'attendibilità della notizia gaiana inscrivendola nella generale tendenza dei giuristi classici a riportare alle XII Tavole le origini dell'intero ordinamento giuridico: cfr., ad. es., A. PERNICE, Parerga I. Zum romischen Gesellchaftsvertrage, in <<ZSS>>, III, 1882, 70, nt. 2; TONDO, Il consorzio domestico, cit., 208 s., TALAMANCA, Società, cit., 816, nt. 28. Per quanto concerne l'altro indirizzo che, senza negare la verità storica del collegamento tra XII Tavole e a.f. erc., si limita a ridurre in un modo o nell'altro la portata innovativa delle disposizioni decemvirali in materia, v. infra, nt. 19. [18] Cfr. VOCI, Diritto ereditario romano, cit., I2, 63, 78. [19] Cfr. ad es. MASCHI, Disertiones, cit., 16 s.; ALBANESE, La successione ereditaria, cit., 48 s., 57; ID., Il processo privato romano delle legis actiones, Palermo, 1987, 104 s. Secondo una variante di questo stesso orientamento interpretativo l'innovazione decemvirale sarebbe consistita nell'aver fornito a ciascun coerede la possibilità di ottenere con l'azione, anche contro la volontà degli altri, la divisione dell'eredità, che in precedenza si sarebbe potuta ottenere invece solo con il consenso di tutti: cfr. CORNIL, Du Mancipium au Dominium, cit., 411 e 425; BROGGINI, Iudex arbiterve, cit., 157, 162 ss.; GAUDEMET, Les communautés familiales, cit., 74 s. [20] Vicenda che effettivamente trae origine dalle XII tavole, non soltanto nel senso che l'azione formulare di divisione dell'eredità fu storicamente preceduta dalla legis actio messa dai decemviri a disposizione dei coeredi <<volentes a communione discedere>>, ma anche nel senso che la formula di quell'azione è il risultato di un adattamento evolutivo dell'antica iudicis postulatio, chiaramente riprodotta nei verba della demonstratio: sul punto, da ultimo, TALAMANCA, Il riordinamento augusteo del processo privato, in AA.VV., Gli ordinamenti giudiziari di Roma imperiale (Atti Copanello 1996), 131 ss. [21] N.A. 1.9.12.: <<Sed id quoque non praetereundum est, quod omnes, simul atque a Pythagora in cohortem illam disciplinarum recepti erant, quod quisque familiae pecuniae habebat, in medium dabat et coibatur societas inseparabilis, tamquam illud fuit anticum consortium quod iure atque verbo Romano appellabatur ercto non cito>>. [22] TONDO, Il consorzio domestico, cit., 207, che però, armato di non troppo affilate argomentazioni grammaticali, non rinunzia a muovere da parte sua un ulteriore attacco all'inespugnabile testo gelliano. [23] E tutti accomunati, comunque, dal richiamo a PERNICE, Parerga I. Zum rom. Gesellschaftsvertrage, cit., 72, che per primo ritenne di liquidare l'espressione gelliana <societas inseparabilis>> riducendola ad <<eine reine Redensart>>. [24] Gai 3.154 b. [25] Su cui, v. per tutti, ALBANESE, La successione ereditaria, cit., 60 ss. [26] Cfr., ad es. S. SOLAZZI, Glosse a Gaio II, in Studi per il XIV Cent. della Codif. giustin., Pavia, 1934, 448; ID., <<Tutoris auctoritas>> e <<consortium>>, in <<SDHI>>, XII, 1946, 34 s., secondo cui uno dei fratelli avrebbe esercitato da solo su concorde designazione di tutti gli altri il potere di gestione. Questa congettura, per lo più respinta dalla dottrina, è ripresa nella sostanza da VOCI, Dir. ered. rom., cit., I2, 64 (una parziale adesione all'opinione di Solazzi in GUARINO, Comunione [dir. rom.], cit., 237 nt. 25). Largamente diffusa è l'ipotesi di un possibile ricorso al ius prohibendi (v. la letteratura citata in KASER, Das rom. Privatrecht, I2, Munchen, 1971, 100, nt. 40), rispetto a cui v. le giuste perplessità di TONDO, Il consorzio domestico, cit., 190, nt. 1, e TALAMANCA, Società, cit., 816, nt. 25. Più convincente, a nostro avviso, ALBANESE, La successione ereditaria, cit., 60 ss., il quale collega il funzionamento di un così singolare regime all'efficace prevenzione che contro l'eventualità di abusi e contrasti tra fratelli doveva esercitare la tradizionale impostazione su base fiduciaria della maggior parte degli istituti romani più antichi, tra cui, per l'appunto, la coeredità. In senso analogo, già ARANGIO-RUIZ, PSI 1182 cit., 40; e poi anche GAUDEMET, Les communautes familiales, cit., 72. [27] Inconcepibile non solo per noi, ma già per gli stessi giuristi romani di età progredita che escludevano perentoriamente la possibilità di un dominium o di una possessio duorum in solidum: cfr. Ulp. 28 ad ed. D. 13.6.5.15, Tryph. 18 disp. D. 49.17.19.3 e soprattutto Paul. D. 41.2.3.5: <<…plures eandem rem in solidum possidere non possunt: contra naturam quippe est, ut cum ego aliquid teneam, tu quoque id tenere videaris… non magis enim eadem possessio apud duos esse potest, quam ut tu stare videaris in eo loco, in quo ego sto, vel in quo ego sedeo, tu sedere videaris>>. [28] La questione è stata più volte sollevata in dottrina. Risente evidentemente dell'influenza dovuta alla concezione del consortium come <<familienrechtlicher Verband>>, la risposta di KASER, Neue literatur, cit., 283 s., per il quale <<eine so vollkommene Vergemeinschaftung aller Vermogensguter>> sarebbe semplicemente il riflesso di un'altrettanto <<volkommene Lebensgemeinschaft>> tra i consorti, a sua volta rispecchiante l'essenziale ruralità dell'economia romana primitiva. Questa diagnosi è dichiaratamente conforme a quella fornita da W. KUNKEL, Ein unbeachtetes Zeugnis uber das rom. consortium, in <<Annales Fac. de droit, d'Istanbul>>, IV, 1954, 56 ss., in base soprattutto a Plin. ep. 8, 18, 1-6, testimonianza sulla cui utilizzabilità ai fini della ricostruzione giuridica dell'antico consortium ci sembrano da condividere le riserve di BRETONE, <<Consortium>> cit., 211 ss. In un'ottica non troppo lontana in fondo da quella di Kaser, si pone lo stesso BRETONE, op. cit., 181 ss., quando individua nel <<vincolo personale di fraternitas che stringe insieme i consortes… il fondamento dell'ampio potere di disposizione riconosciuto a ciascuno"; su posizioni analoghe, TONDO, Ancora sul consorzio cit., 610 s., che, dal canto suo, disseziona la supposta <<idea ispiratrice>> del particolare regime patrimoniale del consortium nei due distinti fattori della <<fraternità>> e della <<suità>>. Per la passata dottrina che, sulle orme di Pietro Bonfante, tendeva a risolvere la singolarità del "dominio plurimo integrale" in base al confronto con la titolarità collegiale dell'imperium magistratuale, v. La letteratura essenziale in TONDO, op. cit., 611, ntt. 63-66, cui adde FREZZA, Consortium, cit., 247, e ID., L'istituzione della collegialità in diritto romano, in Studi S. Solazzi, Napoli, 1948, 529 ss. [29] E spiega pure, cogliamo l'occasione di aggiungere, il parallelo fenomeno della consovranità consolare. Che tra consorzio ereditario e collegio magistratuale, infatti, vi sia una stretta analogia sotto il profilo della pari legittimazione dei membri all'esercizio integrale del potere, è un dato innegabile (a prescindere dai dubbi - supra nt. 28 - circa l'estendibilità del parallelo sul piano della facoltà di veto); ed è alto merito di P. Bonfante e dei suoi seguaci l'averlo posto in particolare risalto. Solo che il rilevarlo non serve ad eliminare, ma semmai a raddoppiare, il problema che tutti e due i fenomeni accennati pongono allo storico: quello, cioè, di capire perché mai, nel passaggio (storico-costituzionale in un caso, giusprivatistico-patrimoniale nell'altro) da un unico titolare (rex o pater familias) a una pluralità di successori (consules o fratres sui), il potere (imperium o dominium), invece di frazionarsi, continuasse a spettare integralmente a tutti i nuovi titolari come se ciascuno fosse ancora l'unico. Duplice e grave interrogativo che trova, a nostro sommesso avviso, un'unica e piuttosto elementare risposta nella non avvenuta acquisizione, fino ad epoca repubblicana discretamente avanzata, dell'idea di quota, concetto <<troppo sottile>> (cfr. C. FADDA, Consortium, collegia magistratuum, communio, in Studi B. Brugi, Palermo, 1910, 149) per non essere a lungo, assai a lungo, rimasta di là da venire. [30] Cfr., ad es. ARANGIO-RUIZ, PSI. 1182, cit., 40 s.; ID., La società, cit., 15; E. LEVY, Neue Bruchstucke aus den Institutionen des Gaius, in ZSS, V, 1934, 289; FREZZA, Consortium, cit., 247; BRETONE, <<Consortium>>, cit., 180; VOCI, Dir. ered. rom., cit., I2, 64; GAUDEMET, Les communautés familiales, cit., 71; KASER, Neue Literatur, cit., 283; FRANCIOSI, "Gentiles familiam habento", cit., 38. [31] Con un'insigne eccezione: ARANGIO-RUIZ, La società cit., 15: <<…chi ha organizzato la comunità familiare secondo il criterio del condominio solidale non lo ha fatto per imporre ai fratelli sui heredes un regime capriccioso e indubbiamente incomodo, ma perché a nessuno era ancora venuta in mente la possibilità di un condominio parziario, nel quale i compartecipi potessero compiere gli atti di disposizione giuridica limitatamente alle loro quote>>. Considerazione, tuttavia, dalla quale l'illustre romanista non si sentì obbligato a trarre la, pur necessaria, illazione dell'indivisibilità del consorzio (infra, nt. 51). Sulla necessità di riportare congiuntamente all'inesistenza del concetto di quota tanto il condominio solidale tanto l'indivisibilità del consortium v., invece, ALBANESE, La successione ereditaria, cit., 57, che però si prospetta tale necessità solo in astratto, per escluderla subito dopo in base ad argomentazioni che indurrebbero a negare l'estraneità del concetto di quota all'antica struttura del consorzio. [32] Cfr. FREZZA, L'istituzione della collegialità, cit., 538, nt. 54, che a proposito di tali difficoltà richiama Ulp. 43 ad. Sab. D.39.2.40.4. [33] Cfr. M. CIPOLLA, Aritmetica razionale, Torino, 1940, 123; ID., Algebra elementare, Torino, 1947, 5. [34] Cfr. J. D. BARROW, La luna nel pozzo cosmico. Contare, pensare, essere, trad. it., Milano, 1994, 144 ss. [35] Sul precoce propagarsi nell'Italia centrale di influenze provenienti da città della Magna Grecia, v. J. HEURGON, Rome et la Méditerranée Occidentale jusqu'aux guerres puniques2, 1980, Paris, 179 ss. [36] Su tale trasformazione, v. E. PERUZZI, Money in early Rome, Firenze, 1985, 65 ss. [37] Per il periodo delle guerre puniche e le fonti essenziali sulle relative vicende monetarie, v. PERUZZI, op. cit., 66 s. e nt. 3. Altre fonti attinenti al tema qui accennato in R. THOMSEN, Early Roman Coinage, I2, s. loc. [Copenaghen], Nationalmuseet, 1974, 19 ss. [38] Su cui v. M. H. CRAWFORD, Roman republican coinage, I, Cambridge, 1974, 35 ss. [39] Per la forma <<pondo libras>>, v. Paul. Fest., verb. sign. s.v. grave aes (LINDSAY, 87); Varr. l. lat. 5, 36, 182; Plin. n.h.33.158, su cui Peruzzi, Money, cit., 66, nt. 2. [40] V., per tutti, PERUZZI, op. cit., 39 ss. [41] Nel senso, non di sottomultiplo dell'as, ma di materiale frazione di metallo che unita ad altre 11 dello stesso peso avrebbe dato il peso di un as: cfr. PERUZZI, op. cit., 66. [42] La scala dei rapporti accennati si può veder riflessa al completo nel lessico monetale riprodotto da Varr. l. lat. 5, 36, 171-172. [43] Varr. l. lat. 5, 36, 169. [44] Nel sistema bimetallico descritto da Varrone si calcola in rapporto all'as (di bronzo) anche il valore delle monete d'argento (nummi): l. lat. 5, 36, 173. [45] Un quadro sintetico di tali variazioni in THOMSEN, From libral <<aes grave>> to uncial <<aes>> reduction, in AA.VV., Les a <<dévaluations>> à Rome. Époque républicaine et impériale (Atti Éc. française, Roma, 1978), 9 ss. [46] Per la tradizionale e tenace concezione dell'hereditas come organico complesso unitario, v. ALBANESE, La successione ereditaria, cit., 85 ss., 224 ss., 329 ss. [47] Si veda anche, in proposito, Volusii Maeciani distributio item vocabula ac notae partium in rebus quae constant pondere numero mensura (Metrol. script., ed. HULSTSCHE, II, 61), dov'è messa in risalto, proprio nell'incipit di quest'operetta dedicata da V. Meciano ad Antonino Pio, la rilevanza dell'<<assis distributio>> in materia di heredis institutio. Un richiamo alle quaestiones sollevate dai veteres in rapporto a casi di non facile determinazione di quote di legato (o anche di eredità o fedecommesso) si trova in Imp. Iustinianus A. Iuliano pp. C. 6, 37, 23, dove vengono ricordate come <<ratiocinatoribus dignae>> le <<computationes>> cui si ricorreva per risolvere le quaestiones accennate. Da notare che i rapporti tra totum e partes continuano nel linguaggio dell'imperatore, come già in quello dei veteres, ad essere espressi in unciae. [48] Per la conformità ad una tradizione tipicamente romana del metodo di misurazione su base duodecimale, v., in particolare, Varr. l. lat. 5, 6, 34; Varr. r. rust. 1, 10, 2; e Front. limit.2 (LACHMANN, I, 30, 10). [49] TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 409, il quale, basandosi sull'asserita <<ineliminabilità>> della quota ai fini della divisione, segue un ragionamento opposto al nostro: invece di trar argomento da quella giusta premessa per escludere la praticabilità della stessa divisione in un'epoca cui era ancora sconosciuta, come molti ritengono, l'idea di quota, egli sembra argomentarne, al contrario, un'altissima risalenza dell'idea ora detta, dando a quanto pare per presupposta un altrettanto antica risalenza della pratica della divisione. Una parziale modifica di questa linea argomentativa in Societas, cit., 817, nt. 28, con considerazioni sulla difficoltà per lo storico di riuscire ad immaginare in che modo si potesse giungere coattivamente alla divisione del consorzio prima dell'introduzione della l.a. per iudicis arbitrive postalationem. [50] Infra, § 4. [51] Verso una simile possibilità propende, per esempio, ARANGIO-RUIZ, La società, cit., 6, nt. 5. [52] Possibilità affacciata da E. RABEL, Erbengemeinschaft und Gewàhrleistung: rechtsvergleichende Bemerkungen zu den neuen Gaiusfragmenten, in Mnemosyna Pappulias, Atene, 1934, 201; C. ARNO', Il contratto di società, Torino, 1938, 40 s., 47 s.; ARANGIO RUIZ, PSI. 1182,cit., 36; ID., La società, cit., 8; contra, BRETONE, <<Consortium>>, cit., 180. [53] Contro congetture di questo tipo si indirizza il rilievo di TALAMANCA, Società, cit., 816, che <<non si hanno tracce nelle fonti dell'esistenza di grossi raggruppamenti familiari cui si applicasse il regime del nostro istituto, il che sarebbe stato inevitabile nel caso che il consortium si perpetuasse per varie generazioni>>; ed ha lo stesso riferimento, probabilmente, il garbato monito che TONDO, Il consorzio domestico, cit., 207, rivolge ai sostenitori della primitiva inscindibilità del consortium per non aver <<drammatizzato l'esito pratico a cui avrebbe condotto il presunto originario regime dell'indivisibilità>>. [54] Parola, questa, che non si vede come altrimenti poter intendere se non nel senso suo proprio di "fratelli", che ad ARANGIO RUIZ, La società, cit., 8, appare invece <<pericolosamente restrittivo>>. [55] Sul punto, cfr. GAUDEMET, Les communautés, cit., 72 ss., (non immune da contraddizioni). [56] Non ha, per quanto risulta, alcun fondamento l'opinione che il consortium si sciogliesse in seguito alla morte, o capitis deminutio, di uno qualsiasi dei consorti. Per tale opinione v. KASER, Das rom. Privatrecht, cit., I2, 101; TALAMANCA, La società, cit. 816. [57] Restringimento da non intendere certo, né in chiave di accrescimento, né tanto meno di successione dei fratres al consors defunto: fenomeni implicanti entrambi l'idea di quota e proprio per questo giustamente esclusi da ARANGIO-RUIZ, La società, cit., 9, nt. 1 (con riferimento al ius adcrescendi) e da BRETONE, <<Consortium>>, cit., 180 (con riferimento alla successione intestata). [58] Contra ARANGIO-RUIZ, La società, cit., 8 s., che, a proposito degli accennati discendenti trova <<naturale che questi prendessero nel già esistente consorzio la posizione del padre loro>>. Questa frase dà spunto ad una replica di carattere generale: ciò che a noi sembra <<naturale>> poteva non esserlo affatto nella primordiale esperienza del consorzio. In fondo è proprio questa la principale difficoltà per lo storico che si accosta ad un istituto tanto remoto: spogliarsi del suo abito mentale per riuscire a concepire ciò che per lui è inconcepibile. [59] Poco convincente la congettura di BRETONE, <<Consortium>>, cit., 180, che i discendenti dei consortes defunti restassero sottoposti ai fratres superstiti, e la morte dell'ultimo frater desse luogo al ricostituirsi del consorzio tra tutti i sui delle diverse stirpi, ormai divenuti autonomi. Non solo, infatti, si rievoca così l'inverosimile immagine di una comunità che si va espandendo di generazione in generazione in misura esponenziale, ma soprattutto si viene ad urtare contro Gai. 3, 154a, che descrive la <<legitima simul et naturalis societas>> con univoco riferimento ai soli f r a t r e s sui. Anche se difficile da credere, la realtà doveva essere un'altra: che alla morte dell'ultimo frater il consorzio si ricostituiva tra i suoi figli (i soli che fossero fratres tra loro) con completa esclusione dei figli degli altri fratres (su ciò, infra, § 4.). A meno che, si capisce, il consorte sopravvissuto non avesse destinato il patrimonio ad un erede da lui designato per testamento (calatis comitiis o in procinctu): circostanza, questa, che avrebbe impedito ovviamente di ricostituirsi del consorzio tra gli eventuali sui del testatore. [60] Sull'inconsistenza degli argomenti testuali addotti qualche volta dalla passata dottrina per escludere la legittimazione dei consortes a testare, v. BRETONE, op. cit., 181, nota 15. [61] Lucida impostazione del problema in BRETONE, op. cit., 180 s., il quale, a proposito della questione se il consorte potesse o meno far testamento, scrive che ammettendo tale possibilità <<si deve anche giungere alla conseguenza - rigorosa sul piano logico ma aberrante sul piano pratico - che mediante il testamento egli disponesse validamente dell'intero patrimonio, così come mancipava validamente l'intera res singola o liberava con la manumissione il servus communis>>. Il che lo porta ad escludere, per absurdum, l'ipotizzata legittimazione dei consorti a far testamento. Ragionamento ineccepibile meno che in un punto: e cioè, propriamente, nell'essere condotto per absurdum. Invece che <<rigorosa sul piano logico ma aberrante sul piano pratico>> bisognerebbe dire a nostro avviso <<aberrante (dal nostro punto di vista) sul piano pratico, ma rigorosa sul piano logico (della logica propria di un regime che ignorava la quota)>>: in modo da arrivare per questa via a concludere, esattamente, non solo che nulla (contrariamente a quanto pensa Bretone) impedisce di ipotizzare la possibilità per ogni consorte di far testamento, ma anche (con le parole dello stesso Bretone) <<che mediante il testamento egli disponesse validamente dell'intero patrimonio, così come mancipava validamente l'intera res singola o liberava con la manumissione il servus communis>>. [62] Contro il presunto carattere tassativo di tale menzione, e le arbitrarie illazioni che ne traeva CORNIL, Du Mancipium au Dominium, cit., 426, v. ALBANESE, La successione ereditaria, cit., 66 s. [63] V. ARANGIO-RUIZ, PSI. 1182, cit., 8. Sulle probabili dimensioni dello spazio a disposizione dello scriba egiziano prima dell'attacco con il tema del mandato, v. ID. La società, cit., 4 s. [64] Per congetture d'altro tipo sugli sviluppi del discorso nella parte andata perduta del manoscritto egiziano, v. BRETONE, <<Consortium>>, cit., 172 s.; BIANCHINI, Studi sulla societas, cit., 14 s. e KASER, Neue Literatur, cit., 283, nt. 18. [65] Supra, nt. 26. [66] Sulla vasta incidenza del valore della fides nell'ordinamento primitivo, v., per tutti, ALBANESE, Premesse allo studio del diritto privato romano, Palermo, 1978, 115 ss. [67] Il che non deve far pensare che i fratres e le rispettive familiae si vedessero così privati di ogni loro mezzo di sussistenza. A sdrammatizzare l'eventualità prospettata nel testo, può forse servire il richiamo alle vaste dimensioni assunte fin da un'età antichissima dalle varie forme di sfruttamento dell'ager publicus e alla relativamente scarsa rilevanza in termini economici che rivestiva, al confronto, il fenomeno del dominium (di cui il consortium costituiva un arcaico modo di atteggiarsi sotto specie di "proprietà plurima integrale" sul patrimonio familiare): su ciò, per un inquadramento generale, v. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà e signoria in Roma antica, I, Roma, 1992. E' lecito pensare perciò che l'essere esclusi dalla titolarità dell'hereditas fosse un'evenienza assai meno grave di quanto possa apparire, ove la si collochi in un'epoca in cui ad assicurare principalmente le risorse vitali era probabilmente un tipo di signoria esulante da ogni schema dominicale e successorio, come il possesso di terre dello Stato. [68] Rarità dovuta, in epoca predecemvirale, a due ordini di fattori tra loro collegati: da una parte l'oggettiva ristrettezza dei limiti imposti dall'ordinamento per la realizzazione dei soli <<duo genera testamentorum>> noti all' "inizio" (cfr. Gai. 2, 101); dall'altra la normalità secondo natura, certo sentita in modo particolarmente intenso da una cultura primitiva, della successione ab intestato dei sui: concezione che trapela dalla <<naturalis societas>> di cui parla Gai. 3.154a a proposito del consorzio fraterno (nonché da Gai. 2, 157 e da Paul. 2 ad. Sab. D. 28, 2, 11), e alla quale doveva collegarsi la tendenza a confinare l'impiego del testamento ai soli casi di mancanza di sui heredes. Sull'originaria rarità e sussidiarietà del testamento rispetto alla delazione ab intestato, v. VOCI, Dir. ered. rom., cit., I2, 19. [69] Che integra anch'essa, quasi superfluo sottolinearlo, un'ipotesi di successione ab intestato (cfr. supra, nt. 5). [70] Sempre che, beninteso, esistesse quello che in età predecemvirale costituiva il presupposto necessario perché alla morte del pater familias si collegasse la delazione ab intestato del patrimonio ereditario: e cioè che lo stesso pater familias fosse, al momento della morte, titolare unico del patrimonio. Il che non poteva darsi, come già detto, laddove egli avesse in quel momento dei fratres sui ancora viventi: circostanza in presenza della quale la sua morte non avrebbe prodotto alcuna conseguenza sul piano successorio, né rispetto ai fratres sopravvissuti, i quali sarebbero rimasti, come lo erano già (solo, adesso, in numero più ridotto) titolari in solidum del patrimonio, né rispetto agli eventuali filii sui, ai quali la successione al pater era preclusa per le ragioni viste supra, § 3. Sulle innovazioni decemvirali in ordine a tale situazione, v. infra, in questo stesso paragrafo. [71] Sulla cangiante accezione di fides secondo l'evolversi della coscienza giuridica, v. ALBANESE, Premesse allo studio del diritto privato romano, cit., 115 ss. [72] Si trattò, in realtà, di un intervento normativo multiplo, nel quale l'introduzione del iud. fam. erc. e il connesso precetto sulla divisio ipso iure dei nomina hereditaria (su cui infra, § 5), furono concepiti dal legislatore decemvirale in funzione della disciplina prevista in Tab. 5, 4-5, nel quadro di un generale ed organico disegno di riforma del preesistente sistema successorio ab intestato prevalentemente basato sul consortium fraterno. Per i pochi cenni cui ci si deve, in questa sede, limitare sull'importante tema, v. infra, nt. 88. [73] Cfr. FIRA, I, 41. [74] Supra, § 1. [75] Omettendo, dato il carattere non contenzioso di questa particolare applicazione della legis actio, lo scambio di battute che era necessario invece, secondo Gai. 4, 17, ad impostare ritualmente la controversia sottesa all'altra applicazione <<de eo quod ex stipulatione petitur>>. [76] Cfr. Ulp. 19 ad ed. D. 10, 2, 2 pr.; Gai 2, 219. [77] Per tutti questi aspetti ci si permetta di rinviare al nostro Studi sulla divisione giudiziale I. Divisio e vindicatio, in AUPA, XLII, 1992, 259 ss. [78] Varr. re rust. 1, 10, 2; Paul.-Fest. verb. sign. s.v. centuriatus (LINDSAY, 47); Liv. 8, 21, 11; Plin. Nat. Hist. 19, 50. Sull' heredium romuleo, v., da ultimo, A. MARCONE, Storia dell'agricoltura romana, Roma, 1997. [79] Paul.-Fest. verb. sign. s.v. viritim (LINDSAY, 519): dicitur dari, quod datur per singulos viros. Cato (inc 6): <<praeda quae capta est viritim divisa>>. [80] Non c'è nulla nell'intera tradizione romana che permetta di pensare alla remota esistenza di qualche principio che potesse giustificare delle sperequazioni di trattamento tra fratelli in sede di spartizione dell'eredità paterna, del tipo di quelli che in altre antiche legislazioni imponevano un trattamento di favore per il primogenito o per il celibe, etc. (cfr., ad es., con riferimento alle leggi medio-assire, C. SAPORETTI, Antiche leggi, Milano, 1998, 337). [81] Per le ragioni che, pur nella quasi totale assenza di testimonianze dirette, inducono a presupporre l'esistenza in età decemvirale di questo misterioso istituto, v., per tutti, ALBANESE, Il processo privato romano delle legis actiones, cit., 37, 48 ss., 109. [82] Non è possibile, allo stato delle nostre conoscenze, stabilire se avessero rapporto con l'attività dell'arbiter la <<clarigatio ercti citi>> menzionata da Quint., Inst. or. 7, 3, 13; o la pronuncia dei verba <<quibus erctum cieri oporteat>> cui allude il noto Cic. De orat. 1, 56, 237; o non si trattasse piuttosto di formalità riguardanti la legis actio che si svolgeva in iure. Si è pensato, inoltre, ad un'assegnazione di parti reali del patrimonio individuate per mezzo di estrazione a sorte: S. PEROZZI, Parentela e gruppo parentale, in BIDR, XXXI, 1921, 119; v. anche MASCHI, Disertiones, cit., 46 s. Riguardo a tale congettura, basata sull'etimologia di consortium da sors, si può osservare che Paul.-Fest. verb. sign. s.v. sors (LINDSAY, 381) (richiamato da MASCHI, op. cit., 39) fa derivare, sì, <<consortium>> da <<sors>>, ma nel significato "sors=patrimonium", che è distinto nello stesso passo dall'altro "sors=quod cuique accidit in sortiendo". [83] In quest'ultimo senso si orienta, al contrario, la communis opinio: v., per tutti, KASER, Das rom. Privatrecht, cit., I2, 100. [84] Per il valore da attribuire alla doppia qualifica di <<legitima>> e di <<naturalis>>, usata per tale societas da Gai. 3, 154a, v. supra, nt. 4. [85] Cfr. TALAMANCA, Societas, cit., 817, nt. 32. [86] Si tratta di ragioni connesse a quanto si accennerà infra, nt. 88. [87] L'ipotesi che la transizione dal condominio solidale (consortium) e quello per quote (communio) sia avvenuta non direttamente, ma attraverso una fase in cui <<l'idea della frazione spettante a ciascuno sulla cosa comune ha dovuto cominciare ad affacciarsi solo come misura delle parti materiali da assegnarsi al momento della divisione>>, si trova abbozzata (con le parole appena citate) in ARANGIO-RUIZ, La società, cit., 15. [88] Tab. 5, 4: <<Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto>>.Si ritiene generalmente che questa norma sia frutto di una semplice trasposizione sul piano legislativo di una disciplina già applicata in precedenza secondo i mores. Per ragioni che ci spiace davvero di non poter neanche provare a sintetizzare in questa nota, noi riteniamo, al contrario, che al citato precetto debba attribuirsi una notevole portata innovativa rispetto al preesistente sistema successorio. In proposito ci limiteremo ad una sola osservazione che trae spunto da quelle già fatte supra, § 4, intorno alle conseguenze originariamente derivanti dall'inesistenza del concetto di quota. Una di tali conseguenze era che se il pater moriva mentre si trovava in consorzio con altri fratres, ciò precludeva ai suoi discendenti ogni possibilità di successione. Il che vuol dire (come accennato supra nt. 70) che la vocazione ab intestato dei sui era a quel tempo limitata ai soli casi in cui il frater fosse stato al momento della morte unico titolare del patrimonio familiare, circostanza questa che nel caso, certo normale, di pluralità di sui, avrebbe portato all'automatico instaurarsi tra questi della legitima simul et naturalis societas di cui parla Gai. 3, 154a. Nel sistema decemvirale si presuppone, invece, il principio dell'incondizionata vocazione ab intestato dei sui: questi succedono al pater intestatus senza più il grave limite originariamente imposto dall'inscindibilità del consortium fraterno. Se ci si chiede come abbia potuto realizzarsi il superamento di tale limite, noi crediamo di poter rispondere che questo superamento venne realizzato dalle stesse XII Tavole nel quadro di un complesso disegno di straordinaria portata innovativa: un disegno nell'ambito del quale la riforma del consortium, attuata con l'introduzione del iudicium familiae erciscundae, fu concepita dal legislatore decemvirale in organica connessione con la riforma del sistema successorio attuato con i precetti di tab. 5, 4 e 5 (a loro volta strettamente connessi a quello, non meno rivoluzionario, di tab. 5, 3). Va da sé che simili affermazioni esigono di essere sostenute da una base argomentativa che ci auguriamo di poter quanto prima fornire in una sede appropriata. [89] L'idea di un'originaria applicazione dell'a.f. erc. in funzione, non dissolutiva del consortium, ma costitutiva di una comunione secondo parti determinate dall'arbiter, ricorre anche in ARANGIO-RUIZ, PSI. 1182, cit., 36 s., nel contesto di un'ipotesi, del tutto differente da quella da noi prospettata nel testo (ipotesi ripresa dall'Autore in Il nuovo Gaio. Discussione e revisioni, in BIDR n.s. I=XLII, 1934, 598). Sviluppando un ragionamento basato su un'asserita analogia del consorzio familiare descritto da Gaio con un tipo di comproprietà noto all'antico diritto egiziano, l'illustre romanista arriva a sostenere che l'erciscere era all'inizio un atto distinto dal ciere: l'uno aveva luogo quando i fratelli, o anche i loro discendenti, decidevano di vivere, o continuare a vivere, in consorzio, e consisteva nel farsi fissare dall'arbitro le quote spettanti a ciascuno; l'altro, aveva luogo allorchè si era deciso di por fine alla comunione e consisteva nella divisione da operare secondo lo <<schema matematico>> precedentemente stabilito dall'arbiter familiae erciscundae. Tralasciando le differenze più visibilmente emergenti dal confronto tra quest'ipotesi e quella da noi proposta nel testo, vorremmo solo rimarcare la loro diversità sotto l'aspetto che apparentemente le accomuna: anche noi riteniamo che l'antico arbiter famialie erciscundae si limitasse soltanto a fissare le parti, non però delle parti ideali (come pensava Arangio-Ruiz), sì piuttosto delle parti materialmente individuate; e non in vista di un'eventuale futura divisione, o <<ciere>> che dir si voglia, sì piuttosto per render possibile la successione rispetto a tutti i consorti dei relativi eredi, il cui progressivo subentrare nel patrimonio ne avrebbe, come stiamo per dire nel testo, provocato automaticamente il graduale smembramento in una pluralità di nuclei patrimoniali autonomi secondo il piano di frazionamento stabilito dall'arbiter. Nel quale piano è dunque fissato lo schema, non di una futura eventuale divisione, ma della successione degli eredi nelle già distinte parti materiali del patrimonio: successione il cui futuro e necessario verificarsi renderà superflua la divisione. [90] La parola per designare questa segmentazione, che incrinava l'unità del patrimonio senza produrne la scissione, era, forse, <<disertio>>, apax legomenon conservato da Paul.-Fest., verb. sign. s.v. disertiones (LINDAY, 63): <<divisiones patrimoniorum inter consortes>>. Nulla, in effetti, in questa scarna testimonianza permette di considerarne sicura la riferibilità all'antichissimo consorzio inter suos heredes (secondo il giusto rilievo di ALBANESE, La successione ereditaria, cit. 58). Ammesso tuttavia, con questa dovuta riserva, che il passo riguardi il consorzio fraterno, sarebbe possibile scorgervi una preziosa reliquia terminologica rispecchiante la sostanziale diversità degli effetti prodotti dall'a. f. erc. nella sua originaria applicazione al consorzio ereditario rispetto a quelli, propriamente divisori, che essa produrrà in ordine alla più recente communio. Interessante, ma troppo fragile il complesso di argomentazioni sviluppate sulla base del passo in questione da MASCHI, Disertiones, cit., 32 ss., per sostenere la risalenza alle origini della divisibilità del consortium. [91] Tab. 5, 9: cfr. FIRA, I, 41. [92] Imp. Gordianus A. Pompeio militi C. 3, 36, 6. [93] Paul. 23 ad ed. D. 10, 2, 25, 9 e 13; Imp. Diocletianus AA. et CC. Corneliae C. 2, 3, 26; Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Apolausto C. 4, 16, 7; Impp. Valerianus et Gallienus AA. Tauro C. 8, 31, 1. In modo univoco, anche se indiretto, il principio appare riferito alle XII Tavole pure in Impp. Severus et Antoninus AA. Modestino C. 4, 2, 1 e Imp. Antoninus A. Claudio C. 8, 35, 1. [94] Cfr. BERGER, Vi sono nei Digesti citazioni interpolate della legge delle dodici tavole?, in Studi Riccobono, I, Palermo, 1936, 608 ss. [95] In questo senso, v., per tutti, VOCI, Dir. ered. rom., cit., I2, 46 ss. [96] Emblematico, in proposito, TALAMANCA, Societas, cit., 815 s.: <<Il consortium ercto non cito comprendeva soltanto i beni materiali… mentre, già (?) nelle XII Tavole, era prevista la divisione ipso iure fra i coeredi…>>. Il punto interrogativo (nostro) sta ad indicare la questione che viene, come si vede, elegantemente elusa: qual era, cioè, nel consortium il regime dei nomina prima delle XII Tavole? [97] Cfr. ARICO' ANSELMO, Studi sulla divisione giudiziale, cit., 303 ss., 326, 345 ss. [98] E cioè l'usufrutto, nei casi di fundus legatus deducto usu fructu e di usus fructus legatus servo hereditario, rispettivamente prospettati da Ulp. 19 ad ed. D. 10, 2, 14, 1 e Paul. 23 ad ed. D. 10, 2, 15. Per la questione <<Usus fructus an in iudicium (scil. fam.erc.) deducatur>>, posta da Ulpiano in D. 10, 2, 14, 1, v. ARICO' ANSELMO, op. cit., 312 ss. [99] Per questa discussa categoria, v. BERGER, Zur Entwicklungsgeschichte der Teilungsklagen, cit., 101 ss. [100] Sul principio generale del venire in iudicium familiae erciscundae delle praestationes personales, v. Ulp. 19 ad ed. D. 10, 2, 22, 4. Applicazioni particolari di questo principio, ad es., in Ulp. 19 ad ed. D. 10, 2, 16, 4; 20, 7; 22, 5; 24 pr. [101] Non è da considerarsi una deroga a questo principio la possibilità prevista, in termini generali, da Gai. 7 ad ed. prov. D. 10, 2, 3, e che si vede tradotta in pratica in Scaev. 1 resp. D. 20, 5, 11 e Scaev. 6 dig. D 20, 5, 14. Una divisio dei nomina per mezzo di cautiones interpositae, alternativo a quello della divisio ipso iure, è previsto in Ulp. 19 ad ed. D. 10, 2, 2, 5. Su ciò, v. ARICO' ANSELMO, Studi sulla divisione giudiziale, cit., 303, nt. 28. [102] V. Le fonti citate supra, ntt. 92 e 93. [103] Interpretazione conforme a quella generalmente seguita in dottrina (cfr., per tutti, VOCI, Dir. ered. rom., cit., I2, 50), a prescindere dalla questione, per quel che ci risulta mai sollevata, se tale interpretazione possa ritenersi valida anche per l'età arcaica. [104] In senso analogo TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, cit., 408, il quale, accettando la comune opinione secondo cui <<Le XII Tavole stabilivano che, indipendentemente dalla divisione, i rapporti di obbligazione del defunto si dividevano ipso iure tra gli eredi>>, accetta pure, senza trovarla paradossale, la conseguenza che <<Gli atti di disposizione o di acquisto compiuti in base ad un rapporto obbligatorio venivano, comunque, ad avere effetti, sul piano dei diritti reali, per tutti i consortes>>. [105] Cepta nell'editio princeps (r. 31). Si segue qui la lettura proposta da LEVY, Neue Bruchstucke aus den Institutionen des Gaius, cit., 267, e accolta da ARANGIO-RUIZ, Il nuovo Gaio, cit., 575. [106] Relazione che dopo la scoperta del Gaio antinoense ha attirato, com'è notissimo, l'interesse degli studiosi verso il problema del collegamento sul piano storico tra consortium e societas consensuale: per un'esauriente sintesi in proposito, v. TALAMANCA, Societas, cit. 817 s., con gli essenziali richiami bibliografici. [107] Ha certamente valore di presente storico l'<<Est (autem aliud genus societatis)>> all'inizio di Gai. 3, 154a, che suggerì a LEVY, Neue Bruchstucke aus den Institutionen des Gaius, cit., 292 s., di pensare al consortium ercto non cito come ad un istituto ancora vigente al tempo di Gaio (opinione accolta da FREZZA, in SDHI, I, 1935, 193 e più recentemente ripresa da BIANCHINI, Studi sulla societas, cit.). [108] Cfr., ad es., TONDO, Il consorzio domestico, cit., 197 s., per il quale, rispetto alla questione della risalenza del consorzio artificiale, le XII Tavole costituirebbero un termine non post quem. [109] Dalla rappresentazione, larghissimamente condivisa, della societas omnium bonorum come struttura negoziale direttamente derivante dal consortim, si discosta GUARINO, "Societas consensu contracta" (1972), ora in La società in diritto romano, Napoli, 1988, 11 ss., su cui v. WIEACKER, in IURA, XXIV, 1973, 243 ss. e KASER, Neue Literatur, cit., 303 ss. [110] Sulle cause estintive del consorzio fraterno in età predecemvirale, v. supra, § 3. Quanto alla sua costituzione, le parole di Gaio (<<Olim enim mortuo patre familias inter suos heredes quaedam erat… societas…>>) collegano direttamente il venir in essere del consorzio alla morte del pater familias, lasciando così intendere univocamente che esso veniva ad instaurarsi in modo affatto indipendente dalla volontà dei fratres sui (v. già, supra, nt. 5). L'univocità di tale interpretazione è oggi pacificamente riconosciuta (v., per tutti, TONDO, Ancora sul consorzio domestico, cit., 602), anche se ciò non implica affatto un abbandono della tesi della "volontarietà" del consorzio: tesi evergreen, ancor oggi dominante in quella sua particolare accezione che subordina alla volontà dei fratres sui, non l'instaurarsi del consorzio (per questa versione estrema, sostenuta da COLLINET, supra, nt. 4), sì piuttosto il suo mantenersi in vita. Intesa in questo senso, la "volontarietà" del consorzio costituisce l'ovvio correlato della sua divisibilità, tesi altrettanto largamente seguita, come s'è visto supra, § 1: posto infatti che il consorzio si istituisce automaticamente tra i fratres, la sua durata dipenderebbe, secondo l'opinione dominante, dalla loro volontà di astenersi dalla divisio. [111] Per la lettura qui proposta occorre solo spostare il punto grave della traduzione da <<certa legis actione>> ad <<apud praetorem>>, intendendo la frase, non nel senso che gli <<Alii>> realizzavano questa possibilità (<<poterant id consequi>>) attraverso un'apposita legis actio da esperire presso il pretore, sì piuttosto nel senso che essi realizzavano questa possibilità <<presso il pretore>>, cioè grazie all'intervento del pretore, da quando questi permise loro di <<id consequi>> per mezzo di un'apposita legis actio. L'intervento del pretore sarà consistito nell'autorizzare in sede d'esercizio della iurisdictio l'impiego "negoziale" di una qualche legis actio appositamente adattata, tra quelle esistenti, al fine di dar vita al consorzio tra estranei. La qualifica di <<certa>> sembra porre l'accento sulla specifica rispondenza di questo rito alla funzione accennata e fa pensare, quindi, ad una forma esclusivamente escogitata per tale impiego. Ciò porta a valutare con qualche perplessità la corrente identificazione di questa legis actio con una in iure cessio, negozio che ha invece una indubbia varietà di applicazioni. Senza dire che non si riesce a comprender bene come avrebbe potuto servire a metter in comune gli averi di più soggetti un atto i cui effetti traslativi (i soli che possano qui venire in questione, essendo ovviamente fuori causa quelli costitutivi ed estintivi) implicano acquisto per una parte e perdita per l'altra. Alla funzione accennata risponderebbe meglio, forse, una pluralità di vindicationes, non parallele e seguite da un <<allseitiges tacere>> come pensava LEVY, Neue Bruchstucke aus den Institutionen des Gaius, cit., 290, ma contrapposte proprio come nella l.a. sacramenti, o comunque convergenti da diverse direzioni su un insieme di cose separatamente appartenenti ai vari vindicantes, ma simbolicamente rappresentate in iure in qualche forma unitaria; e seguite, poi, non da una serie di reciproche sfide al sacramentum, sì piuttosto da un'unica addictio, che operava la communicatio dei beni e ne rendeva tutti proprietari in solidum. [112] Contra, TONDO, Il consorzio domestico, cit., 197 s., ma con argomenti a nostro avviso scarsamente persuasivi. [113] Cade, com'è noto, nel 348 a.C. il primo trattato politico-commerciale tra Roma e Cartagine, almeno secondo la tradizione rappresentata da Liv. 7, 27, 2; Diod. 16, 69, 1 e Oros., hist., 3, 7, 1: cfr. MOMMSEN, Romische Chronologie bis auf Caesar, Berlin, 1859, 320 ss e A. ALFOLDI, Romische Fruhgeschichte, Heidelberg, 1976, 119. Per i problemi legati alla differente cronologia polibiana, v. B. SCARDIGLI, I trattati Romano-cartaginesi, Pisa, 1991, 30 ss. Pure alla metà del 4° secolo pare risalire la fondazione di Ostia, altro evento certamente collegato non solo alla crescita della potenza navale di Roma, ma anche al già imponente sviluppo raggiunto dal traffico commerciale romano nell'epoca considerata (sui dati forniti dagli scavi e sulla tradizione relativa alla fondazione del castrum di Ostia, ampia discussione in F. COARELLI, I santuari, il fiume, gli empori, in Storia di Roma I. Roma in Italia, Torino, 1988, 136 ss.) [114] Supra, § 4. [115] Insostenibile, a nostro avviso, l'identificazione dei ceteri, <<qui ad exemplum fratrum suorum societatem coierint>> con la categoria dei coheredes extranei, secondo la congettura affacciata da LEVY, Neue Bruchstucke aus den Institutionen des Gaius, cit., 289; H. LÉVY-BRUHL, Nouvelles études sur le très ancien droit romain, Paris, 1934, 58 s.; GAUDEMET, Étude sur le régime juridique de l'indivision en droit romain, Paris, 1934, 13, nt.2. Questa congettura, giudicata probabile da BIANCHINI, Studi sulla societas, cit., 9, nt. 18, è stata sviluppata ultimamente da TONDO, Il consorzio domestico, cit., 194 ss. (ma v. anche ID., Ancora sul consorzio domestico, cit., 606 s.), sulla base di un certo rapporto che bisognerebbe sottintendere istituito nel testo gaiano tra fratres sui e ceteri come termini rinvianti all'opposizione heredes domestici - heredes extranei. Senza discutere il valore di quest'argomento esegetico, vorremmo solo osservare che in età predecemvirale - età cui questo studioso riporta la pratica del consorzio inter alios (cfr. supra, nt. 108) - non si vede tra quali altri soggetti, all'infuori dei domestici heredes, possa immaginarsi instaurabile una situazione di coeredità. Se si considera che gli eventuali fratres sopravvissuti al defunto - i quali, escludendo i filii dello stesso defunto, formano rispetto a quest'ultimo la categoria degli adgnati proximi - non integrano ancora, nell'età accennata, una categoria di successori ab intestato (quale sarà prevista da tav. 5,4), non avendo essi bisogno di acquistare iure hereditario un patrimonio di cui, secondo il primigenio regime del consortium, sono già e restano titolari in solido dopo la morte del fratello consorte, se si considera tutto ciò, dicevamo, non resta, a ben guardare, che la sola ipotesi di una coeredità ex testamento: che però è pochissimo credibile potesse già configurarsi nell'epoca in questione. [116] Possono utilmente richiamarsi al riguardo alcuni aspetti di carattere generale, come, ad esempio, la scarsità di porti lungo le coste nell'epoca considerata, che obbligava sovente ad effettuare lo scambio delle merci addirittura in mare aperto (cfr. Strab. Geogr. 5, 3, 5), o il complicato insieme di divieti con cui le potenze rivali si tutelavano, nei trattati internazionali, da reciproche violazioni delle proprie aree di influenza (cfr. Polyb. 3, 22, 5-9; 23, 1, 6; 24, 2-16), ai quali divieti poteva collegarsi per i mercanti di mare la necessità di ridurre al minimo la sosta negli scali commerciali e la durata delle contrattazioni. In situazioni del genere si capisce come ogni socio dovesse esser libero da ogni impaccio ed in grado di disporre nella più piena autonomia: esigenza che, non essendo ancora sorti all'orizzonte i contratti consensuali, potè esser soddisfatta riproducendo artificialmente tra i soci quella comunione di beni e di fortune naturalmente vigente tra i fratres dopo la morte del pater famialias, e implicante per ognuno una completa indipendenza dispositiva. Ad apprezzare i vantaggi di un simile regime, tanto da volerlo riprodurre per libera scelta, si dovette arrivare però, come si accenna nel testo, solo dopo che il consorzio fraterno si fu trasformato in una societas separabilis: perché degli estranei potessero di propria volontà entrare in un regime di così rigorosa e impegnativa solidarietà come quello dei fratelli, bisognava che agli stessi fratelli fosse stato già riconosciuta la possibilità di uscirne. Dacché l'a.f. erc., che le XII tavole misero a disposizione dei fratres per lo scopo ora detto, fu all'inizio e rimase sempre un mezzo esclusivamente riservato ai coeredi (cfr., ad es., Gai. 7 ad ed. prov. D. 10, 2, 1; Ulp. 19 ad ed D. 10, 2, 2 pr.; Paul. 2 quaest. D. 10, 2, 36), deve supporsi che gli "imitatori" esperissero per lo scopo accennato un mezzo differente, da identificare probabilmente con la stessa certa legis actio servita prima a costituire fra loro il consorzio e adesso usata in funzione opposta, secondo l'antico principio del contrarius actus (da escludere una possibile applicazione al fine in questione dell'actio communi dividundo, essendo quest'ultima posteriore alla creazione dell'actio pro socio come si argomenta con sicurezza da Paul. 23 ad ed D. 10, 3, 1.). [117] Si ritiene, com'è noto, che la comparsa dei iudicia bonae fidei, o delle loro protoforme, non sia anteriore alla metà del III secolo a.C.: cfr. TALAMANCA, Societas, cit. 818. [118] Una divisio ipso iure che doveva in questo caso attuarsi, non, ovviamente, in portiones hereditarias, sì piuttosto in proporzione all'entità dei rispettivi apporti iniziali dei soci. [119] Secondo la suggestiva congettura proposta, in un diverso ordine di idee, da ARANGIO-RUIZ, La società, cit., 10, nt. 2 (e accettata da BIANCHINI, Studi sulla societas, cit., 12, nt. 26). In tema, v. anche COLLINET, Nouveaux fragments des Institutes des Gaius, cit., 103.
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