Pubblicazioni - Annali 2002 |
Prassi
e Convenzioni Costituzionali nel Sistema della Libera Res Publica
Romana |
SOMMARIO:
1.
RELATIVITÀ STORICA DEL BINOMIO PRODUZIONE-INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO. Mi
sembra opportuno premettere allesame specifico del binomio
prassi-convenzioni costituzionali - che limiterò peraltro, in questa
sede, al periodo della libera res publica - qualche breve
considerazione sulla relatività storica del rapporto
produzione-interpretazione del diritto, nel quale si concreta e nel
quale si risolve la complessa ed assai dibattuta problematica delle fonti del
diritto. Parlo
di relatività storica, perché i problemi afferenti alla produzione ed alla
interpretazione del diritto possono essere impostati e risolti non già in
chiave astrattamente teoretica, sibbene in prospettiva eminentemente storica,
tenuto conto delle peculiarità dei singoli ordinamenti e delle connesse
concezioni del diritto. Astraendo
dai singoli complessi desperienza del passato e del presente è tuttavia
possibile enucleare, con specifico riferimento al nostro tema (produzione ed
interpretazione del diritto), due fondamentali tipi di sistemi giuridici fra
loro nettamente differenziati: sistemi di tipo casistico-giurisprudenziale e
sistemi di tipo legislativo-statuale. I
primi sono caratterizzati ─ come è noto ─ dalla distinzione
istituzionale (più o meno marcata) fra organi di normazione ed organi di
applicazione; dal centralismo statale (più o meno totalizzante) e dal
connesso principio della gerarchia delle fonti. I
predetti caratteri costituirono, fra il XVII ed il XIX secolo, i presupposti
tecnico-giuridici di due notissime teorie della scientia iuris: a)
la teoria delle fonti, incentrata sul rapporto di causalità genetica fra fattori
di produzione ed ordine prodotto e sulla formulazione normativa del
rapporto gerarchico fra i diversi fattori di produzione; b)
la teoria dellinterpretazione, incentrata sulla configurazione.
dellenunciato precettivo come prius logico e cronologico del
procedimento interpretativo e sulla natura fondamentalmente strumentale (cioè:
di concretizzazione, adeguazione, specificazione) dellattività
interpretativa rispetto al dato normativo da interpretare. E
noto, altresì, che nei confronti delle predette teorie sono stati formulati
non pochi rilievi critici, alimentati, peraltro, dal declino del centralismo
statale e dalla visione codicistica del diritto. I
risultati più maturi della revisione critica delle predette teorie possono
essere individuati nel ridimensionamento della giustapposizione
produzione-interpretazione del diritto, da un lato, e nella riscoperta della
centralità del momento interpretativo nella teoria e nella pratica del
diritto: centralità su cui verte, in particolare, un recentissimo saggio di
Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria[1]. Ma
se lermeneutica costituisce il filtro attraverso cui pausa il diritto in
ogni sua manifestazione, è sicuramente innegabile ed incontrovertibile che
linterprete ha avuto ed ha una diversa funzione ed una diversa importanza a
seconda dellinfluenza più o meno diretta ed efficace che ha avuto ed ha
nel processo di produzione del diritto. Questa influenza è massima nelle
esperienze storiche di tipo casistico-giurisprudenziale, caratterizzate dalla
sostanziale concentrazione della produzione e dellinterpretazione in una
classe di esperti: iuris periti, nel sistema romano delletà
preclassica e classica; giudici, nei sistemi di Common Law; è minore nelle
esperienze di tipo legislativo-statuale. 2.
LA PRODUZIONE DEL DIRITTO NEI SISTEMI CASISTICO-GIURISPRUDENZIALI. Nei
sistemi di tipo giurisprudenziale, che si sono formati e sviluppati al di
fuori del monopolismo normativo dello stato-istituzione, produzione ed
interpretazione non costituiscono affatto attività fra loro nettamente
differenziate per natura (creativa nel primo caso; ricognitivo-intelletiva nel
secondo) e titolarità (organi di normazione nel primo caso; organi di
applicazione nel secondo), sibbene interne modalità di estrinsecazione
dei munera iuris periti. In particolare, il diritto romano
storico risulta contraddistinto, sino alletà del principato, dalla
centralità del ruolo del iuris peritus nel contesto
dellintero processo di formazione e sviluppo del diritto, in piena sintonia
con la ben nota affermazione di Pomponio, secondo cui «constare non potest
ius, nisi sit aliquis iuris peritus per quem possit cottidie in melius produci»
(D.1.2.2.13). La
centralità del ruolo del giurista, nel contesto storico del processo
formativo del diritto, è data dalla circostanza che tutte le manifestazioni
dellesperienza giuridica, dal fatto ─ inteso come dato-realtà
─ allenunciato dispositivo dipendono dalla mediazione
giurisprudenziale, nel senso che assumono rilevanza e pregnanza se ed in
quanto vengano filtrati dal giurista[2].
È esattamente questo il senso della celebre definizione ulpianea della iuris
prudentia come «divinarum humanarumque rerum notitia, iusti atque iniusti
scientia» (D.1.1.10.2 = I. 1.1.1). La definizione sottolinea due distinti, ma
complementari momenti della attività del giurista: a) la conoscenza dei fatti
e dei rapporti sociali nei loro aspetti laico-religiosi: notio
(giuridicità latente); b) la determinazione tecnico-professionale della loro
valenza giuridica: scientia (giuridicità formalizzata). Sinserisce,
appunto, in questa prospettiva il responso di Alfeno Varo «in causa ius esse
positum» (D. 9.2.52.2), da cui Baldo ricavò il noto aforisma ex facto
oritur ius. Il
passaggio dalla giuridicità latente (del fatto) alla giuridicità
formalizzata (dellenunciato) si traduce nella configurazione di linee
o modelli di condotta sociale, intesi ed assunti più che come comandi
imperativi (norme), come princìpi direttivi (regole). Sotto
questo profilo, è estremamente significativo che nel linguaggio dei giuristi
romani non ricorrano né la locuzione fonti del diritto, che sottende
una prospettiva eziologico-derivativa (rapporto di causalità genetica fra
fattori e prodotto), tipica della concezione statualistica del diritto, né il
termine norma, correlato anchesso ─ come è stato sottolineato
dallOrestano[3]
- alla visione statualistica ed imperativistica della fenomenologia giuridica.
Con ben diversi segni linguistici i giuristi romani esprimono lidea della
produzione del diritto e lidea dellenunciato formalizzato. La produzione
del diritto è prevalentemente espressa con la forma verbale constituere
─ da cui discende lespressione pomponiana «viae iuris constituendi»
(D. 1.2.2.11), che implica e sottende una prospettiva eminentemente
storico-enumerativa ─ ovvero con altre equivalenti forme verbali, quali
statuere, condere, praecipere, dare,
componere[4].
Lidea dellenunciato formalizzato, ovvero dellatto che stabilisce un
criterio, è normalmente espressa con «regula» (Paul. D. 50.17.1), «praeceptum»
(Ulp. D.1.1.10.1), edictum: tutti termini sorti ed impiegati in
contesti semiologici ed ideologici immuni da condizionamenti statualistici ed
imperativistici. Alloriginaria
centralità del giurista subentra, nel corso del Basso Impero, in forme
sempre più accentuate, la centralità dellautorità imperiale. In
particolare, il cambiamento coinvolge, in maniera radicale, il binomio
produzione-interpretazione, che subisce significative e rilevanti
trasformazioni, imputabili soprattutto a due fattori: a) la formulazione
legislativa di un ordine gerarchico fra i diversi fattori di produzione
(attuata, per la prima volta, nel Codex Theodosianus, e precisamente
nei titoli I-IV del libro I; b) la rigorosa distinzione, normativamente
sanzionata, fra interpretazione creativa, riservata allimperatore, «conditor
et interpres iuris» (C. 1.14.12.3), ed interpretazione
ricognitivo-applicativa, attribuita alle diverse categorie di operatori del
diritto (iudices, advocati, professores iuris), ed
esplicabile, peraltro, entro i limiti di ben precise regole legali
dinterpretazione. Orbene,
dal sistema giuridico del Basso Impero discendono, in definitiva, i sistemi
affermatisi, nellEuropa continentale, nel corso delletà
dellassolutismo dinastico. Depone in tal senso, fra laltro, la formula
politico-ideologica ex deo rex, ex rege lex, che riecheggia due
complementari direttive di politica del diritto accolte nella compilazione
giustinianea: a) lorigine divina del potere: «Deo auctore nostrum
gubernantes imperium, quod nobis a celesti maiestate traditum est»
(Const. Deo auctore, pr.); b) la concentrazione della produzione
e della interpretazione creativa nellautorità imperiale: «leges condere
soli imperatori concessum est, et leges interpretari solum dignum imperio esse
oportet» (C. 1.14.12.3)[5]. 3.
I FATTORI DELLA CONSTITUTIO DELLA LIBERA RES PUBLICA: PRASSI E
CONVENZIONI. La
centralità della iuris prudentia nel processo formativo
dellesperienza giuridica romana si estende ─ sino allavvento del
dispotismo del Basso Impero ─ all«universum ius» (Cic., de leg.,
1.4.14), comprensivo tanto del ius afferente allo status rei
publicae (ius publicum), quanto del ius di cui i privati in
civitate utuntur (ius privatum). Lo
strumento tecnico attraverso il quale si esplica la funzione creativa della iuris
prudentia è dato dallinterpretatio,
che appare contraddistinta, sino a tutta letà classica, da univoche note
di creatività e di politicità, dal momento che risulta ispirata
ad evidenti direttive di politica del diritto. Mi sembra, tuttavia, innegabile ─ e, al tempo stesso, comprensibile ─ che linterpretazione di fatti, di princìpi e regole di ordine costituzionale si caratterizzi rispetto a quella afferente ai rapporti privati per una più spiccata valenza politica, imputabile tanto alloggetto (ordinamento politico), quanto ai soggetti (organi politici) del procedimento ermeneutico. Il
pensiero giuspubblicistico romano fu pienamente consapevole ─ sino
allavvento del principato ─ della necessità di distinguere, in
materia dinterpretazione costituzionale, fra interpretazione
politica, connessa alla dialettica degli organi di governo e dei gruppi
sociali (partes rei publicae) ed interpretazione dottrinale,
connessa alla iuris prudentia, intesa come conoscenza
tecnico-professionale dello status rei publicae, distinta sia dalla historia
(storiografia), che dalla antiquitatis memoria (antichistica), ancorché
correlata a questultime sotto diversi profili: rilievo delle personalità
politiche e degli exempla; fattualità degli instituta civilia;
genesi e sviluppo delle necessitudines[6]. In questo specifico contesto sinnestano il rilievo e la valenza tecnico-costituzionale della prassi e delle convenzioni costituzionali, che, nel loro insieme, concorrono a determinare le regole ed i princìpi organizzativi della constitutio rei publicae, intesa ed assunta in senso strutturale-funzionale, cioè come struttura fondamentale (costituzione materiale) e non già come legge fondamentale (carta costituzionale). La
prassi è data da una serie di molteplici applicazioni[7]
di exempla (precedenti), che possono consistere o in comportamenti di
personalità politiche, comunemente accettati ed imitati[8],
o in veri e propri accordi fra organi politici e/o gruppi sociali (partes
rei publicae). Il
reiterato impiego (exempla inveterata) e la progressiva stabilizzazione
dei precedenti nella prassi danno vita ─ in un sistema costituzionale
aperto, qual è quello della libera res publica ─ a vere e
proprie regole consuetudinarie. Sotto questo profilo non è certo un caso che il problema della prassi e delle convenzioni sia stato posto ed analizzato dalla dottrina inglese[9], che inerisce e trae alimento da unesperienza contraddistinta da strettissime analogie con quella della libera res publica Romana. Sulla
scia del pensiero inglese, la dottrina giuspubblicistica italiana ha
affrontato il tema delle convenzioni costituzionali, assumendole come
regole collegate con il diritto[10],
accanto a leggi e consuetudini costituzionali. Traendo
spunto dalla scoperta delle convenzioni, Giuseppe Branca in uno scritto
dedicato a Massimo Severo Giannini[11]
e in Alcuni Appunti pubblicati postumi, a cura di Luigi Garofalo,
Vincenzo Mannino e Leo Peppe[12],
aveva acutamente sottoposto allattenzione dei romanisti la opportunità di
riesaminare, alla luce della dottrina delle convenzioni costituzionali, il
dibattuto tema delle anticipazioni e duplicazioni di leggi e di norme
consuetudinarie. In una siffatta prospettiva, Branca aveva addotto come banco
di prova della fondatezza della sua proposta le testimonianze storiche
relative alla provocatio ad populum, allauctoritas patrum, al
S.C. de Bacchanalibus. In
questa sede cercherò di illustrare il ruolo costitutivo svolto, nella
prassi della libera res publica, dalle convenzioni costituzionali, il
cui valore politico-costituzionale va ben oltre i limiti del problema
storico-giuridico delle anticipazioni e delle duplicazioni di leggi e
consuetudini, per assurgere a vero e proprio leitmotiv del
costituzionalismo della res Romana, come provano la terminologia e la
cospicua ed articolata casistitica costituzionale della libera res publica. 4.
IL RUOLO COSTITUTIVO DEGLI EXEMPLA (PRECEDENTI). Lexemplum,
inteso ed assunto come condotta o accordo ad cuius similitudinem aliquod
fieri potest[13],
esplica, nellambito delle strutture organizzative della libera res
publica, una funzione eminentemente costitutiva, nel senso che
assurge a parametro di costituzionalità[14], nella duplice veste di
elemento generatore del sistema e di criterio di valutazione
allinterno del sistema stesso. Nella
sua specifica veste di elemento generatore del sistema, 1exemplum
costituisce un actus instituendi, cioè una condotta politica
tipicizzantesi, colta nel momento in cui si pone, per la convenienza politica
che ne discende[15]
e per il consenso che riesce a suscitare[16],
come matrice di una condotta tipica e, quindi, come anello di un assetto
organizzativo. Nello
specifico ruolo di criterio di valutazione, 1exemplum
rappresenta un costante punto di riferimento per stabilire, nella concreta
quotidianità della dialettica politica, la ritualità o meno di
soluzioni e decisioni[17],
in perfetta sintonia, peraltro, con una opinione assai diffusa, secondo cui «quod
exemplo fit, id etiam iure fieri» (Cic., ad fam., 4.3.1). E del
tutto evidente che iure fieri esprime qui ─ come in altri
casi[18]
─ non già lidea della conformità ad una norma prestabilita,
sibbene lidea della conformità a precedenti e, più in generale, lidea
della legittimità rituale (conformità a modelli di azioni tipicizzate). Intesi
ed assunti come criteri di valutazione della costituzionalità di decisioni o
soluzioni, gli exempla vanno interpretati tenendo conto non tanto della
esteriorità della condotta, quanto piuttosto del consilium eorum a quo
ipsa exempla nata sunt. Assume notevole rilievo, sotto questo profilo, un
brano della nona Filippica di Marco Tullio Cicerone: Cic.,
Phil., 9.1.3: «Ut igitur alia, sic hoc, C. Pansa, praeclare quod et
nos ad honorandum Ser. Sulpicium cohortatus es et ipse multa copiose de illius
laude dixisti. Quibus a te dictis nihil praeter sententiam dicerem, nisi P.
Servilio, clarissimo viro, respondendum putarem, qui hunc honorem statuae
nemini tribuendum censuit nisi ei qui ferro esset in legatione interfectus. Ego
autem, patres conscripti, sic interpretor sensisse maiores nostros, ut causam
mortis censuerint, non genus esse quaerendum. Etenim cui legatio ipsa morti
fuisse, eius monumentum extare voluerunt, ut in bellis periculosis obirent
homines legationis munus audacius. Non igitur exempla maiorun quaerenda, sed
consilium est eorum, a quo exempla nata sunt, explicandum». [Come dunque in altre circostanze, così anche in questa, C. Pansa hai con tanta saggezza deciso, esortando anche noi ad onorare Servio Sulpicio ed hai tu stesso pronunciato un ampio ed eloquente elogio di lui. Alle considerazioni da te svolte non avrei altro da aggiungere, salvo il mio voto, se non ritenessi necessaria una risposta a Publio Servilio, uomo eminentissimo, il quale ha sostenuto che lonore di una statua possa essere attribuito soltanto a colui che sia stato ucciso col ferro nellespletamento di unambasceria. Io invece, senatori, così interpreto lintento dei nostri antenati: che si debba considerare la causa, non il genere di morte. Vollero, infatti, che fosse eretta una statua a colui al quale lambasceria avesse procurato la morte, allo scopo di invogliare i cittadini ad accettare con più coraggio lincarico di unambasceria in guerre pericolose. Non basta, pertanto, ricercare condotte esemplari di antenati, ma occorre altresì stabilire lintento di questultimi, che ha dato luogo alle condotte stesse]. La
nona Filippica, pronunziata da Cicerone in Senato il 4 febbraio del 43 a.C.,
costituisce lelogio funebre del giurista Servio Sulpicio Rufo, deceduto
nellespletamento di unambasceria ad Antonio, di cui era stato incaricato
dal senato. Il predetto brano verte sulla costituzionalità o meno della
proposta di erezione di una statua al capo dellambasceria, alla luce degli exempla
maiorum. La tesi di Cicerone, in contrasto con il diverso punto di vista
del senatore Publio Servilio, è che gli exempla debbano essere
valutati ─ al pari, potremmo aggiungere, di altri parametri ─ con
specifico riguardo alla mens degli autori della condotta tipica,
assunta come criterio di valutazione. 5.
IL RUOLO COSTITUTIVO DELLA PRASSI: «IN
USU STAT IUS» (Liv., 27.8.9). È
noto che i giuspubblicisti romani, da Catone a Cicerone, erano pienamente
consapevoli dellimportanza e della centralità della prassi nel
processo formativo dello status rei publicae al punto da ravvisare le
ragioni dellasserito primato della costituzione romana, rispetto a quelle
di altri popoli del mondo antico, proprio nella circostanza che lassetto
organizzativo di Roma (nostrae civitatis status) si era formato «rerum
usu ac vetustate», nel corso di secoli e di generazioni (Cic., de re pub.,
2.1.9). In
particolare, la prassi (usus), risultante dalla stabilizzazione di exempla
(precedenti), costituisce la matrice di regole descrittive ed
orientative, che vengono assunte, in sede ermeneutica, come criteri di
valutazione e, quindi, come parametri di costituzionalità. In
questa prospettiva assume notevole rilievo la locuzione in consuetudinis
usu stare ius, che ricorre in un brano degli Annali di Tito Livio, in
rapporto ad una contentio de iure publico esplosa, nel 209 a.C., fra il
flamen Dialis C. Valerio Flacco ed il pretore P. Licinio, in ordine al
preteso diritto dei membri del flaminato di partecipare alle sedute del
senato, pur in assenza di una formale iscrizione degli stessi nelle liste
senatorie: Liv., 27.8.7-10: «Huius famae consensu elatus ad iustam fiduciam sui rem intermissam per multos annos ob indignitatem flaminum priorum repetuit, ut in senatum introiret. 8.Ingressum eum curiam cum P. Licinius praetor inde eduxisset, tribunos plebis appellavit. Flamen vetustum ius sacerdotii repetebat: datum id cum toga praetexta et sella curuli ei flamonio esse. 9.Praetor non exoletis vetustate annalium exemplis stare ius, sed recentissimae cuiusque consuetudinis usu volebat: nec patrum nec avorum memoria Dialem quemquam id ius usurpasse. 10.Tribuni rem inertia flaminum oblitteratam ipsis, non sacerdotio damno fuisse cum aequum censuissent, ne ipso quidem contra tendente praetore, magnu adsensu patrum plebisque flaminem in senatum introduxerunt, omnibus ita existimantibus magis sanctitate vitae quam sacerdotii iure eam rem flaminem obtinuisse». [Indotto
da questa unanime stima ad una giustificata fiducia in sé stesso, reclamò
una prerogativa da molti anni caduta in disuso per indegnità dei precedenti
flamini: quella di partecipare alle sedute del senato. Introdottosi egli nella
Curia, avendolo il pretore P. Licinio espulso da lì, si appellò ai tribuni
della plebe. Il flamine reclamava unantica prerogativa sacerdotale: sarebbe
stata attribuita al flaminato con la toga pretesta e la sella curule. Il
pretore sosteneva che la costituzionalità di una prerogativa dovesse
essere desunta non già da precedenti annalistici caduti in disuso per vetustà,
sibbene dalla prassi della più recente consuetudine: nessun Diale, a memoria
di padri ed avi, aveva esercitato più quella prerogativa. I tribuni, avendo
giudicato equo che la prerogativa caduta in desuetudine, per inerzia dei
flamini, avesse nuociuto a questultimi, non al sacerdozio, disposero
lammissione del flamine in senato, con il consenso unanime dei senatori e
del popolo, e senza opposizione alcuna del pretore, avendo tutti convenuto che
il flamine aveva ottenuto quella prerogativa più per la probità della sua
vita, che non per privilegio sacerdotale]. Le
contrapposte tesi di Flacco e Licinio muovono, in ultima analisi, dal medesimo
presupposto: la concezione e la configurazione della prassi come specifico
parametro di costituzionalità, alla cui stregua può essere affermato o
negato il ius introeundi in senatum del flamen Dialis[19].
Mi sembra esattamente questo il senso della frase non exoletis vetustate
annalium stare ius, sed recentissimae cuiusque consuetudinis usu,
nellambito della quale il verbo stare esprime un vincolo
strutturale anormativo[20], nella misura in cui
sottende una regola non già prescrittiva, sibbene descrittiva ed
orientativa, fondata sulla prassi e sul communis consensus. Le
divergenze attengono invece alle modalità di accertamento degli exempla
ed alla necessità della persistenza o meno della prassi e del consensus.
Valerio Flacco, muovendo dalloriginario actus instituendi ─ vetustum
ius, datum cum toga praetexta et sella curulis[21]
─ sosteneva che la configurabilità del ius introeundi dovesse
essere accertata unicamente vetustate annalium. Il pretore
Licinio sosteneva, per contro, che il preteso ius introeundi dovesse
essere accertato non già in base a precedenti annalistici da tempo
disapplicati (non exoletis exemplis stare ius), sibbene memoria
patrum ac avorum, in base alla quale nessun flamine, nel corso delle
ultime generazioni (recentissimae consuetudinis usu), aveva più
partecipato alle sedute del senato. Orbene,
la contentio venne risolta dai tribuni, sollecitati proprio da Valerio
Flacco, a favore del flamen Dialis, con la motivazione che, nel caso di
specie, linertia flaminum ipsis, non sacerdotio damno fuisse.
Motivazione, questa, che non implica affatto unopzione di principio per il
punto di vista di Valerio Flacco, quanto piuttosto una valutazione
politico-comparativa della specificità del caso e dei limiti della
recentissima consuetudo. Questultima, presupponendo e comportando la
consolidazione di un contrarius consensus attorno a nuove ed opposte
regole di condotta, esplica, in via di principio, effetti dissolventi nei
confronti delle regole precedenti: magis
quam iure sacerdotii.
Tuttavia, la recentissima consuetudo, nella misura in cui si risolve,
al pari della pregressa prassi, in una regola descrittiva[22],
non preclude affatto il ricorso a soluzioni diverse, che siano giustificate,
caso per caso, da motivi di opportunità politica e siano sorrette dal
generale consenso: ne contra tendente praetore; magnu adsensu patrum
plebisque; omnibus existimantibus. Il
predetto brano offre, in definitiva, una eloquente testimonianza del concorso
e dellintreccio, nellambito della dialettica politico-costituzionale
della libera res publica, fra la prassi (o, più precisamente, le
regole orientative scaturenti dalla stabilizzazione dei precedenti) e le
convenzioni costituzionali, che possono, a loro volta, fungere da precedenti (exempla). 6.
LE CONVENZIONI COSTITUZIONALI: TERMINOLOGIA E TIPOLOGIA Si
è già premesso (supra, § 3) che il valore politico-giuridico delle
convenzioni costituzionali, lungi dallessere circoscrivibile al problema
storico-giuridico delle anticipazioni e delle duplicazioni di leggi e norme
consuetudinarie, assurge a vero e proprio leitmotiv del
costituzionalismo della libera res publica. In
questa prospettiva mi sembra utile, prima di procedere allanalisi della
cospicua e complessa casistica costituzionale (infra, § 8), premettere
qualche breve cenno alla terminologia ed alla tipologia del processo formativo
delle convenzioni costituzionali. Orbene,
lidea delle convenzioni costituzionali, comprensiva delle modalità del
procedimento formativo («ex diversis animi motibus colligere et venire», si
potrebbe dire con Ulpiano: D. 2.14.1.3), quanto del risultato («in unam
sententiam decurrere»: D. 2.14.1.3), è normalmente e tecnicamente espressa
─ come possiamo desumere, in particolare, dal lessico liviano ─
sia con il verbo convenire[23],
sia con verbi e locuzioni equivalenti, denotativi, al pari di convenire,
di scelte concordate o, più in generale, di soluzioni condivise ed
accettate in base a valutazioni di opportunità politico-sociali, alimentate e
condizionate da rapporti di forza fra organi costituzionali e gruppi politici:
placere, concedere, de concordia agere, magnus
adsensus, omnibus existimantibus, consensus omnium[24]. Con
specifico riguardo ai soggetti che in unam sententiam decurrunt è
possibile isolare, in base alla variegata casistica liviana, i seguenti tipi
di accordi: A)
Accordi fra contitolari della stessa magistratura. Si
tratta, precisamente, di accordi che esorbitano dal normale ambito della comparatio
─ strumento di determinazione della sfera di competenza[25]-,
nella misura in cui si concretano nelladozione di comuni direttive
politiche nella gestione della carica (cfr. Dion. Hal., 5.13.1-2). Rientrano,
in particolare, in questo schema: ─
le intese fra consoli in tema di renuntiatio elettorale, come possiamo
desumere (prescindendo qui dalla storicità dellepisodio) da Liv., 3.21.8:
«Communiter inde edicunt ne quis L. Quintium consulem faceret; si quis
fecisset, se id suffragium non observaturos»[26]; -
le intese fra consoli in tema di triumphus, come attesta Liv.,
28.9.9-10: «inter ipsos, ne, cum bellum communi animo gessissent triumphum
separarent, ita convenit
ut M. Livium quadrigis urbem ineuntem milites
sequerentur, C. Claudius equo sine militibus inveheretur»[27]. B)
Accordi interorganici. Rientrano
in questa ampia categoria: ─
le intese fra tribuni della plebe e magistrati patrizi (Liv., 4.6.8;
27.6.2-9); ─
le intese fra tribuni della plebe e senato (Liv., 3.31.7; 7.1.6); ─
le intese fra senato e tribuni della plebe, seguite da approvazione dei concilia
plebis (Liv., 27.5.17-19; 27.6.10-11); ─
le intese fra senato e console sottoposte ad approvazione dei concilia
(Liv., 27.6.7) o dei comitia (Liv., 7.16.7); ─
ladesione, concordiae causa, del senato ad istanze dei tribuni della
plebe (Liv., 4.6.3; 7.21.4). C)
Accordi fra organi costituzionali e gruppi politici[28]
nel corso ed a seguito di conciones (Liv., 4.6.1: «cum in concionem et
consules intervenissent») o di consilia principum (riunioni private di
maggiorenti: Liv., 4.6.6). 7.
SEGUE : EFFICACIA Laccordo
fra organi supremi e/o gruppi politici - nel contesto, assai complesso e
variegato, di una fitta rete di necessitudines (formazioni sociali) -
si traduce - come si è già premesso (supra, § 5) in un
exemplum, la cui efficacia è normalmente circoscritta al caso che lo
ha determinato (regola del caso), pur nella sua potenziale idoneità a
consolidarsi nella prassi. Lefficacia
dellaccordo, inteso ed assunto come regola del caso, si estende a
tutti i tipi di convenzioni costituzionali, comprese quelle che sfociano
in formali deliberazioni delle assemblee popolari (comitia e concilia).
Questultime, infatti, pur risolvendosi in atti complessi, fondati sul
comune impegno di diverse volontà politiche (magistrati, senato, tribuni, cives),
conservano, per tutto il periodo della libera res publica ─ in
conformità, peraltro, al noto principio decemvirale quodcumque
postremum populus iussisset, id ius ratumque esto[29]
─ la natura ed il valore di regole del caso, in vista del quale
sono state emanate, e la loro efficacia non va oltre il limite del puro e
semplice precedente. È ben possibile, tuttavia, che contestualmente, ovvero
in seguito alliter formativo della convenzione, le parti politiche
adottino rimedi idonei ad impedire che la soluzione concordata si trasformi in
un exemplum, ad cuius similitudinem aliquod fieri potest. Significativo
appare, in tal senso, il caso del cosiddetto colpo di mano di Sutri (Liv.,
7.16.7-8) del 357 a.C[30]. In
quella circostanza, come é noto, il console Gneo Manlio fece votare ai suoi
soldati, riuniti per tribù in castris, una proposta con la quale si
istituiva unimposta del 5% sul valore dello schiavo manomesso. Il senato,
tenuto conto del vantaggio finanziario della deliberazione, concesse lauctoritas:
quia ea lege haud parvum vectigal inopi aerario additum esset. I
tribuni della plebe, pur non essendo contrari al contenuto ed allo scopo del
provvedimento, temendo che il procedimento adottato a Sutri (votazione tributim
in castris) potesse costituire un pericoloso precedente (non tam lege
quam exemplo moti), fecero votare un plebiscito, in forza del quale venne
comminata la pena di morte a chiunque, in futuro, avesse osato ripetere
lanomala procedura adottata da Manlio a Sutri: ne quis postea populum
sevocaret, capite sanxerunt. 8.
SEGUE: CASISTICA Le
strutture organizzative ed i princìpi direttivi della libera res publica
risultano introdotti, integrati o modificati in larga misura, alla luce della
copiosa e variegata casistica ─ dei primi secoli, soprattutto,
prescindendo qui dal periodo della crisi ─ da accordi, intese e
compromessi fra organi supremi e/o parti politiche. Prescindendo
in questa sede dalle testimonianze storiche relative alla provocatio ad
populum, allauctoritas patrum ed al S.C. de Bacchanalibus
─ già addotte da Branca come banco di prova della sua ipotesi[31]
─ le convenzioni costituzionali più significative del periodo della libera
res publica possono essere enucleate, alla luce dei profili
terminologico-sostanziali della tradizione annalistica, in base allo schema
seguente: A)
Per quanto attiene in particolare alle strutture e ai princìpi fondamentali
del nuovo regime politico ─ temporaneità della suprema carica (Cic., de
rep., 2.32.56); separazione fra funzioni sacrali e funzioni
politico-militari (Dion. Hal., 5.1.4; Liv., 2.2.1); delimitazione della coercitio
magistratuale (Cic., de rep., 2.31.54); lectio e conscriptio
senatus (Liv., 2.1.10-11); ius iurandum populi «neminem Romae
passuros regnare» (Liv., 2.1.8-11; 2.2.5; Dion. Hal., 5.5.1) ─ la
fattualità del loro processo formativo è fuori discussione. Specificamente,
si tratta di una fattualità imputabile non soltanto a comportamenti di
rilevanti personalità politiche (G. Bruto, P. Valerio, T. Larcio, L. Valerio
Potito, M. Orazio Barbato, etc.),
ma anche ad accordi ed equilibri fra forze politiche. Sinseriscono,
appunto, in questottica tanto il rilievo di Tito Livio, secondo cui le
riforme istituzionali innescate dalla cacciata dei Tarquini favorirono la
concordia dei cittadini e la buona armonia fra patrizi e plebei: «Id mirum
quantum profuit ad concordiam civitatis iungendosque patribus plebis animos»
(Liv., 2.1.11); quanto laffermazione di Cicerone, secondo cui nei primi
tempi della libera res publica tutto era controllato con grande autorità
dagli ottimati con lacquiescenza del popolo: «omnia summa cum auctoritate
a principibus cedente populo tenebantur» (de rep., 2.32.56). B)
Secessione plebea e conseguenti accordi politici fra patriziato e plebe. La
tradizione annalistica (liviana ed alicarnassense, soprattutto) si sofferma
non poco sulle complesse trattative che seguirono alla notissima secessione
plebea degli inizi del V secolo a.C., nel corso di accesi dibattiti in senato
ed in conciones (Liv., 2.32.1-12; Dion. Hal., 6.50-84). Al termine
delle animate discussioni si pervenne, con il determinante apporto di Menenio
Agrippa (Liv., 2.32.8-12; Dion. Hal., 6.83-84; Flor., 1.17[23].1.2), ad un
accordo, che fu raggiunto, secondo la versione liviana[32],
a queste condizioni: che i plebei avessero propri magistrati inviolabili, ai
quali spettasse il diritto di intervento contro i consoli (o, più
verosimilmente, contro il magister populi), e che a nessuno dei patrizi
fosse lecito assumere questa magistratura: «Agi deinde de concordia coeptum, concessumque in condiciones, ut plebi sui magistratus essent sacrosanti, quibus auxilii latio adversus consules essent, neve cui patrum capere eum magistratum liceret» (Liv., 2.33.1). C)
Istituzione e composizione del Decemvirato legislativo. La tradizione annalistica e la storiografia giuridica descrivono e qualificano ─ in termini sostanzialmente convergenti ─ linnovazione istituzionale del 451 a.C., consistente nella surrogazione del decemvirato alle magistrature ordinarie (Liv., 3.33.1: «iterum mutatur forma civitatis .ad decemviros venerat, translato imperio»), come risultato politico di accordi ed equilibri fra organi costituzionali (senato, magistrati patrizi, tribuni della plebe) e gruppi sociali (patriziato e plebe). Esplicite sono, in tal senso le attestazioni di Livio (3.32-33), Dionigi di Alicarnasso (10.54-57), Pomponio (D. 1.2.2.4) e Gaio (nella versione di Giovanni Lido 1.43): ─ Liv., 3.32.6-7: «Placet creari decemviros sine provocatione, et ne quis eo anno alius magistratus esset. Admiscerenturne plebei controversia aliquamdiu fuit; postremo concessum patribus, modo ne lex lulia de Aventino aliaeque sacratae leges abrogarentur»; ─ Dion. HaI., 10.55.3-4 (proposta di Appio Claudio, condivisa da organi e gruppi politici); ─
Pomp., D. 1.2.2.4 (l.s. ench.): «Placuit publica auctoritate decem
constitui viros, per quos
civitas funderetur legibus». (cfr. pure
D. 1.2.2.24: «Et cum placuisset leges quoque ferri, latum est ad populum, uti
omnes magistratu se abdicarent, quo decemviri constitui anno uno»); ─
Lid., de magistr., 1.34: «Il giurista Gaio, dopo la questura[33],
descrive la magistratura decemvirale, secondo la traduzione, con queste
parole: A causa della gran confusione delle leggi, poiché non erano
scritte, essendo cresciuta la discordia fra i magistrati e la plebe, tutte le
magistrature furono soppresse per volontà comune del senato e del popolo, e
la cura dello Stato fu affidata a soli dieci uomini» [trad. it. G. Labruna, Mutatur forma civitatis, Catania 1994, p. 93]. D)
Accordo de conubio ed istituzione del tribunato militare con potestà
consolare. Laccordo
de conubio, frutto di un compromesso politico, costituisce, come è
noto, un momento ed un aspetto della dialettica politica relativa alla
partecipazione dei plebei alla suprema magistratura ed ai munera militiae. Annota,
in proposito, Livio (4.6.3-4): «nec ante finis contentionum fuit, cum et
tribunum acerrimum auctorem plebes nacta esset et ipsa cum eo pertinacia
certaret, quam victi tandem patres ut de conubio ferretur concessere, ita
maxime rati contentionem de plebeiis consulibus tribunos aut totam deposituros
aut post bellum dilaturos esse, contentamque interim conubio plebem paratam
dilectui fore». Un
corollario dellaccordo de conubio può essere considerato, in
definitiva, la convenzione costituzionale in forza della quale venne istituto
il tribunato militare con potestà consolare. In seguito a veti tribunizi,
private riunioni di maggiorenti (consilia principum) e compromessi
politici, si convenne di procedere alla elezione di tribuni militum
consulari potestate, in sostituzione della suprema magistratura ordinaria:
«Per haec consilia eo deducta est res, ut tribunos militum consulari
potestate promiscue ex patribus ac plebe creari sinerent[34], de consulibus creandis
nihil muteretur; eoque contenti tribuni, contenta plebs fuit» (Liv., 4.6.8)[35]. E)
«Initium censurae, magis necessarii quam speciosi ministerii procuratio»
(Liv., 4.8.2-7). Le
origini della censura, sorta come magistratura di modesto rilievo («parva res»:
Liv., 4.8.2), sono connesse a ragioni di efficienza della gestio rei
publicae (necessità di esonerare i consoli da una res speciosa,
qual era il censimento), ampiamente analizzate in senato (443 a.C.) e
sostanzialmente condivise dagli stessi tribuni della plebe, per non apparire
contrari, in via di principio, persino in questioni di poco conto: «et, id
quod tunc erat, magis necessarii quam speciosi ministerii procurationem
intuentes, ne in parvis quoque rebus incommode adversarentur, haud sane
tetendere» (Liv., 4.8.6). F)
Convenzioni de consule plebeio, de praetore urbano e de
curuli aedilitate (Li., 6.42.9-12; 7.1; 7.6). Nel
367 a.C., in seguito ad aspri contrasti politici, che avrebbero potuto
provocare secessioni e guerre civili (Liv., 6.42.10), le discordie furono
placate e la concordia ordinum venne ristabilita (Liv., 6.42.12) in
conformità alle condizioni proposte dal dittatore M. Furio: il patriziato
concesse alla plebe il console plebeo; la plebe concesse al patriziato
lunico pretore con il compito di ius dicere in urbe: «per
dictatorem condicionibus sedatae discordiae sunt concessumque ab nobilitate
plebi de consule plebeio, a plebi nobilitati de praetore uno, qui ius in urbe
diceret, ex patribus creando» (Liv., 6.42.11). Lintesa
venne estesa allelezione di due edili curuli. Tuttavia, poiché i tribuni
mal sopportavano che, in cambio di un console plebeo, i patrizi avessero
ottenuto tre magistrati patrizi ed avendo avuto il senato ritegno ad imporre
che si eleggessero gli edili curuli fra i patrizi, si convenne che gli edili
fossero reclutati ad anni alterni dalla plebe; in seguito non si fece alcuna
distinzione: «non patientibus tacitum tribunis quod pro consule uno plebeio
tres patricios magistratus curulibus sellis praetextatos tamquam consules
sedentes nobilitas sibi sumpsisset, praetorem quidam etiam iura reddentem et
collegam consulibus atque iisdem auspiciis creatum, verecundia inde imposita
est senatui ex patribus iubendi aediles curules creari. Primo ut alternis
annis ex plebe fierent convenerat: postea promiscuum fuit» (Liv., 7.1.5-6). Per
quanto attiene, in particolare, allaccordo de consule plebeio,
è da sottolineare che questultimo diede vita ad un precedente
fortemente contestato sino al 321 a.C., come possiamo evincere dal fatto che
soltanto a partire dal 320 a.C. riuscirà a consolidarsi definitivamente nella
prassi costituzionale. G)
Cursus honorum: cumulo, iterazione, intervallo, tempus ad petendum. I
princìpi fondamentali in tema di cursus honorum affondano le radici in
exempla e convenzioni che si vennero progressivamente consolidando
nella prassi prima della loro formalizzazione (e parziale integrazione: certus
ordo magistratuum) legislativa, in forza soprattutto della lex Villia
del 180 a.C. (Liv., 40.44.1) e della lex Cornelia de magistratibus
dell81 a.C. In
particolare, il fondamento convenzionale dei princìpi relativi al cumulo ed
al divieto di iterazione può essere desunto da una puntuale osservazione di
Tito Livio in ordine ad una serie di plebisciti proposti dal tribuno Lucio
Genucio (che non fosse lecito prestare denaro ad interesse; che a nessuno
fosse lecito assumere la stessa carica entro 10 anni; che nessuno esercitasse
due magistrature nello stesso anno; che fosse consentita lelezione di due
consoli plebei) nel contesto della sedizione plebea del 342 a.C.: «Quae
si omnia concessa sunt plebi, apparet haud parvas vires defectionem habuisse»
(Liv., 7.42.2). Orbene,
il termine concedere sottende ed implica un rapporto di forza
sfociato, concordiae causa, nelladozione di soluzioni imposte da
ragioni di opportunità politica[36]. Il
consolidamento di tali princìpi nella prassi trova conferma, per quanto
attiene specificamente al divieto di iterazione, nel punto di vista dei
tribuni della plebe del 217 a.C., i quali, in contrasto con il punto di vista
del dittatore Q. Fulvio, «neque magistratum continuari satis civile esse
aiebant» (Liv., 27.6.4). La
natura convenzionale dellintervallo biennale, verosimilmente introdotto da
accordi-exempla, può essere dedotto da una lettera di Cicerone del
Maggio-Giugno del 43 a.C., nella quale ricorre la locuzione tempus quasi
legitimum ad petendum, che allude inequivocabilmente alla formazione
consuetudinaria della regola, commisurabile, per quanto attiene alla sua
efficacia, a quella propria della legge comiziale. H)
Dictatoris dictio ex plebiscito (210 a.C.: Liv., 27.5.15-19). Un
rilevante caso di convenzione costituzionale é dato dallepisodio
della dictatoris dictio ex plebiscito del 210 a.C.: rilevante nella
misura in cui documenta lefficacia derogativa e disapplicativa degli
accordi costituzionali nei confronti di precedenti e contrastanti consuetudini
costituzionali. Lepisodio
sinserisce nelle complesse vicende politico-militari della seconda guerra
punica, che avevano impegnato entrambi i consoli in carica, Marco Claudio
Marcello e Marco Valerio Levino. Nellimminenza dei comizi consolari per
lanno 209 a.C., il senato, in un primo tempo, aveva deliberato di
richiamare a Roma M. Caudio Marcello, il quale precisò per lettera che
riteneva dannoso per la res publica allontanarsi da Annibale, anche di
una sola orma di piede (Liv., 27.4.1). Parve, quindi, miglior soluzione
richiamare dalla Sicilia il console M. Valerio Levino (Liv., 27.4.3-4).
Questultimo, dopo essere rientrato a Roma, svolse in senato una dettagliata
relazione sulla situazione militare in Africa. Ascoltata la relazione, il
senato ritenne che le particolari esigenze belliche non avrebbero consentito
al console di fermarsi a Roma per convocare e presiedere i comizi consolari.
Invitò, pertanto, il console a provvedere alla nomina di un dittatore con
lesclusivo compito di convocare e presiedere i comizi consolari (dictator
comitiorum habendorum causa). Poiché il console dichiarò che avrebbe
proceduto alla nomina del dittatore in Sicilia, ed i senatori obiettavano che
non era ammissibile la dictatoris dictio extra Romanum agrum (Liv.,
27.5.15), il tribuno della plebe M. Lucrezio sollevò espressamente in senato
la questione. Il senato deliberò che il console, prima di allontanarsi
dallUrbe, «populum rogaret quem dictatorem dici placeret, eumque quem
populus iussisset diceret dictatorem; si consul noluisset, praetor populum
rogaret; si ne is quidem vellet, tum tribuni ad plebem ferrent» (Liv.,
27.5.16). Ma, avendo il console precisato che non avrebbe presentato la rogatio
al popolo, per il fatto che la nomina del dittatore rientrava nella sfera
della propria competenza e che avrebbe, altresì, proibito al pretore
(sintende, in forza della maior potestas) di presentare la relativa
proposta al popolo, i tribuni della plebe proposero e la plebe approvò che
fosse nominato dittatore Q. Fulvio, che si trovava a Capua (Liv., 27.5.17).
Partito di nascosto il console, notte tempo, il senato rivolse linvito
allaltro console, M. Claudio Marcello, a recarsi a Roma ed a nominare
dittatore «quem populus iussisset» (Liv., 27.5.18): «Ita a M. Claudio
consule Q. Fulvius dictator dictus, et ex eodem plebis scito ab Q. Fulvio
dictatore P. Licinius Crassus pontifex maximus magister militum dictus»
(Liv., 27.5.19). Lexcursus
liviano prova, in modo inequivoco, che la disceptatio in ordine alla dictatoris
dictio extra Romanum agrum venne composta in base ad un accordo fra
senato, tribuni, concilia e console, che se ribadiva, da un lato, il
risalente principio della dictatoris dictio in agrum Romanum,
introduceva, dallaltro, contra mores institutaque maiorum, una
rilevante deroga alla tradizionale configurazione della dictatoris dictio
come precipua prerogativa istituzionale del consolato («suae potestatis esset»:
Liv., 27.5.17; cfr. Liv., 8.23.15; 9.38.14; Varr., de l. l., 5.14.82). I)
Elezione del presidente dei comizi elettorali (a. 210 a.C.: Liv., 27.6.4-9). Un
secondo, non meno significativo, caso di convenzione costituzionale è
attestato da Livio nel contesto degli eventi dellanno 210 a.C., già sopra
richiamato. Nel
corso dello svolgimento dei comizi centuriati per lelezione dei consoli
dellanno 209 a.C., convocati e presieduti dal già menzionato dictator
comitiorum habendorum causa, Q. Fulvio, la centuria prerogativa aveva
designato Q. Fulvio e Q. Fabio (Liv., 27.6.3), ma i tribuni della plebe C. e
L. Arrenio posero il veto, ritenendo incompatibile con i princìpi
costituzionali («satis civile esse») lelezione di un magistrato in carica
(«magistratum continuari») e, a fortiori ─ cosa assai più
grave ─, di colui che presiedeva i comizi («eum ipsum
creari, qui consilia haberet»: Liv., 27.6.4). Il principio, oggetto del
rilievo tribunizio, era ovviamente quello in base al quale ne semet
ipsum creare posset: principio mai disatteso, come sottolinea altrove
lo stesso Livio («nemo umquam fecisset»: Liv., 3.35.8). Al
termine di un acceso dibattito, nel corso del quale il dittatore aveva tentato
di avallare lorientamento comiziale con lautorità del senato, nonché
con plebisciti e precedenti (Liv., 27.6.6-9), i tribuni convennero con lo
stesso dittatore di rimettere la soluzione al senato. I senatori ritennero che
le circostanze politico-militari del momento imponevano che la cura dei
supremi interessi dello Stato fosse affidata ad anziani ed esperti
condottieri. I comizi vennero, quindi, tenuti regolarmente con lassenso
degli stessi tribuni, e risultarono eletti Q. Fabio Massimo, per la quinta
volta, e Q. Fulvio Flacco, per la quarta volta: Liv.,
27.6.9-11: «His orationibus cum diu certatum esset, postremo ita inter
dictatorem ac tribunos convenit, ut eo, quod censuisset senatus, staretur. 10.
Patribus id tempus rei publicae visum est, ut per veteres et expertos bellique
peritos imperatores res publica gereretur: itaque moram fieri comitiis non
placere. 11. Concedentibus
tribunis comitia habita; declarati consules Q. Fabius Maximus quintum Q.
Fulvius Flaccus quartum». Lepisodio
conferma pienamente la peculiare efficacia derogatoria che veniva comunemente
attribuita e riconosciuta, in sede di contentio de iure publico[37],
alle convenzioni costituzionali rispetto a risalenti e consolidate regole
costituzionali, qual era appunto, nel caso di specie, quella in base alla
quale «ne semet ipse creare posset» (Liv., 3.35.8). 9.
FORMAZIONE E CONSOLIDAZIONE DI REGOLE CONSUETUDINARIE ATTRAVERSO L IMPIEGO
INVETERATO DI EXEMPLA. Si
è già avuto modo di precisare (supra, § 5) che la formazione e la
consolidazione di regole consuetudinarie affonda le radici nella prassi (usus),
correlata alla progressiva stabilizzazione di exempla (precedenti). La storia costituzionale della libera res publica offre, infatti, accanto ad unampia casistica di convenzioni costituzionali (supra, § 8), anche una variegata gamma di regole consuetudinarie, che, nel loro insieme, alimentano la disceptatio de iure publico, nella misura in cui fungono da parametri costituzionali, sia nellemersione che nella composizione delle controversie costituzionali, correlate pur sempre agli interessi economici e politici ed ai connessi legami di ordine ideologico, propri delle diverse formazioni sociali (necessitudines), che concorrono a comporre la realtà costituzionale della libera respublica. Illustrando
il ruolo costituzionale dei precedenti (supra § 4), della prassi (supra
§ 5) e delle convenzioni costituzionali (supra § 6-8), ho avuto già
modo di richiamare, in termini più o meno espliciti, gli enunciati delle
seguenti regole consuetudinarie: honorem statuae ei qui ferro in
legatione interfectus esset, tribuendum est (supra § 4), ius
introeundi in senatum (supra § 5), ne quis populum
sevocaret (supra § 7), ne semet ipsum creare posset
(supra § 8 sub I), dictio dictatoris in Romanum agrum (supra
§ 8 sub H), certus ordo magistratuum, ne
magistratum continuari satis civile esse (supra § 8 sub
G). Ho
altresì anticipato che le regole consuetudinarie, intese ed assunte come
regole descrittive ed orientative (supra § 5) scaturiscono dal
reiterato impiego e dalla progressiva stabilizzazione dei precedenti nella
prassi (supra § 3). Procederò ora allesame di alcune regole
esplicitamente configurate nelle fonti, con specifico riguardo al loro iter
formativo, come consuetudines. Mi riferisco, in particolare, al vetustum
ius sacerdotii di in senatum introiri, al rapporto census-dilectus,
al binomio iussum populi-auctoritas patrum. A)
Del vetustum ius sacerdotii, oggetto di una contentio esplosa,
nel 209 a.C., fra il Flamen Dialis C. Valerio Flacco ed il pretore P. Licinio,
mi sono già occupato in sede di esame del ruolo costitutivo della prassi (supra
§ 5). Mi
sembra, pertanto sufficiente ribadire qui che i contrapposti punti di vista di
Flacco e Licinio circa le modalità di accertamento degli exempla e la
necessità della persistenza o meno della prassi convergono su un punto
fondamentale: la configurazione della consuetudo come regola
descrittiva fondata sulla stabilizzazione della prassi, ancorché
questultima possa essere vetustissima o recentissima. B)
Per quanto attiene alla regola consuetudinaria afferente al rapporto census-dilectus
è di notevole rilievo il seguente brano dei Facta et dicta memorabilia
di Valerio Massimo: Val.
Max., Facta et dicta memor., 2.3.1: «Laudanda etiam populi verecundia
est, qui inpigre se laboribus et periculis militiae offerendo dabat operam ne
imperatoribus capite censos sacramento rogare esset necesse, quorum nimia
inopia suspecta erat, ideoque his publica arma non committebant. Sed hanc
diutina usurpatione formatam consuetudiem C. Marius capite censum legendo
militem abrupit». [E
anche da lodare la discrezione del popolo, il quale, offrendosi operativamente
alle fatiche ed ai pericoli della milizia, faceva sì che i generali non
coinvolgessero nel servizio militare i nullatenenti, la cui estrema povertà
suscitava sospetti; pertanto a costoro non veniva affidato il servizio
militare. Ma C. Mario interruppe questa consuetudine, fondata su una prassi
inveterata, procedendo allarruolamento dei proletarii]. Nel
trascritto brano Valerio Massimo configura come regola consuetudinaria il
risalente e consolidato raccordo funzionale fra census e dilectus:
raccordo travolto dalla riforma mariana della leva militare, che avviò una
nuova e diversa regola consuetudinaria in tema di dilectus[38]. C)
Con riferimento alla regola consuetudinaria afferente al binomio iussum
populi-auctoritas patrum assume particolare rilievo il seguente brano
del Commento di Servio Ad Aeneidem (scritto verosimilmente fra il
420 ed il 430 a.C.), già peraltro richiamato da Branca nei suoi Appunti[39]
a sostegno dellipotesi ─ dedotta, in particolare, da Liv., 7.17.6-9
─ che, ancor prima del 339 a.C., lauctoritas potesse essere
preventiva, nel senso che la deliberazione dei senatori solo plerumque
interveniva dopo il voto del popolo: Serv.,
ad Aen., 9.190: «Populusque patresque transfert in Troianos
Romanam consuetudinem, ut solet plerumque: prius enim iubebat aliquid populus,
postea confirmabat senatus». [Il popolo ed i senatori: trasporta in
ambiente troiano la consuetudine Romana, comunemente osservata: prima infatti
il popolo deliberava qualcosa, che il senato poi confermava]. Le
parole populusque patresque, oggetto del commento serviano, fanno
parte del discorso rivolto da Niso ad Eurialo (entrambi seguaci di Enea) nel
contesto dello scontro fra i Rutuli ed i Troiani: Aenean acciri omnes,
populusque patresque, exposcunt [Tutti, popolo e senatori, richiedono
che Enea sia richiamato]. Dopo
aver osservato che Virgilio ha, in ultima analisi, trasportato in ambiente
troiano una formula tipicamente romana, Servio ha cura di precisare che tale
formula si traduce in una regola orientativa che non esclude affatto il
ricorso a soluzioni diverse. Mi sembra esattamente questo il senso della frase
ut solet plerumque. 10.
RIPLESSIONI CONCLUSIVE Al
termine di questo excursus su precedenti, convenzioni, prassi e regole
consuetudinarie nel contesto delle strutture organizzative della libera res
publica mi sembra utile richiamare lattenzione su un notissimo brano
del libro 84 Digestorum di Salvio Giuliano, inserito dai compilatori
giustinianei nel titolo De legibus senatusque consultibus et longa
consuetudine dei Digesta: D.
1.3.32.1 (Iul., 84 dig.): «Inveterata consuetudo pro lege non immerito
custoditur
Nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod
iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus
probavit, tenebunt omnes: nam quid interest suffragio populus voluntatem suam
declaret an rebus ipsis et factis? quare rectissime etiam illud receptum est,
ut leges non solum suffragio
sed etiam tacito consensu omnium per
desuetudinem abrogentur». Del
brano, oggetto di due diverse interpretazioni storico-ricostruttive, proposte
rispettivamente da Antonio Guarino e da Filippo Gallo, mi sono occupato
anchio in un recente contributo in onore del Prof. Gallo, qui presente[40]. In
questa sede mi limiterò soltanto a sottolineare: a)
che lefficacia vincolante delle leggi e delle consuetudini (nos teneant)
risiede essenzialmente nel loro radicamento nella prassi sociale (quod
iudicio populi receptae sunt); b)
che le leggi e le consuetudini costituiscono diverse, ma equivalenti,
manifestazioni della volontà popolare, non avendo rilievo alcuno il fatto che
questultima venga attuata suffragio ovvero rebus ipsis et factis; c) che lequivalenza fra leggi e consuetudini comporta che le prime possono essere abrogate anche per desuetudine; d) che la realtà sociale costituisce, nellambito dellesperienza giuridica della libera res publica ─ ed in parte del primo principato ─ una sorta di magma giuridico (giuridicità latente: supra § 2), da cui il iuris peritus enuclea, in sede dinterpretatio, le regole descrittive ed orientative (giuridicità formalizzata: supra § 2): regole, queste, che acquistano pregnanza e certezza proprio grazie alla funzione determinativa dellinterpretatio prudentium (Iul., D. 1.3.11)[41].
Note:
[1] F. VIOLA-G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Bari 1999. [2] Di realtà filtrata dai giuristi parla R. ORESTANO, Rapporti, norme ed elaborazione nella scienza del diritto. Linee per una descrittiva, in Annali Macerata (1982), pp. 152 ss. [3] R. ORESTANO, Norma statuita e norma statuente. Contributo alle semantiche di una metafora, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XIII, n. 2 (1993), pp. 313 ss. [4] Sul punto rinvio a quanto ho precisato in Potere ed ordinamento nellesperienza costituzionale romana3, Torino 1996, pp. 50 ss. [5] Lunico limite al potere legislativo del sovrano é dato dalla legge divina. In tal senso J. BODIN, Les six livres de la République, 1576, trad. it. I sei libri dello Stato di J. Bodin, a cura di I. PARTENI, vol. I, Capo VIII, Torino 1964, rist. 1998, pp. 345 ss. [6] P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 60 ss. [7] Cic., de leg., 2.1 «rerum usu ac vetustate»; Liv., 27.8.9 «consuetudinis usu»; Cic., pro Caec., 16.45 «multis in rebus usitatis». [8] Cic., in Verr., II, 3.90.210: «ea quae probat populus Romanus exempla, non quae condemnat sequamur»; Res Gestae Divi Aug., 8.5: «Legibus novis me auctore latis multa exempla maiorum exolescentia iam ex nostro saeculo reduxi et ipse multarum rerum exempla imitanda posteris tradidi»; Cic., de re publ., 2.17.31: «isque (T. Hostilius) de imperio suo exemplo Pompili populum consuluit curiatim». [9] Cfr. praecipue A. V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution3, London 1959, pp. 417 ss.; G. TREVES, Convenzioni costituzionali, in Enc. dir., vol. X , 1962, pp. 524 ss. [10] G. U. RESCIGNO, Le convenzioni costituzionali, Padova 1972, p. 10. [11] G. BRANCA, Convenzioni costituzionali e antica repubblica romana, in AA.VV., Scritti in onore Massimo Severo Giannini, vol. I, Milano 1988, pp. 75 ss., ripubblicato in Diritto e storia. Lesperienza giuridica di Roma attraverso le riflessioni di antichisti e giusromanisti contemporanei. Antologia a cura di A. Corbino, Padova 1995, pp. 85 ss [12] Alcuni Appunti di G. Branca sulle convenzioni costituzionali nellantica Roma, a cura di L. GAROFALO, V. MANNINO e L. PEPPE, in BIDR, 30 (1988), pp. 689 ss . [13] In conformità alla più ampia accezione del termine exemplum: v., in proposito, FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, sub voce exemplum, p. 347. [14] Sul profilo formale e sostanziale (assiologico) del parametro di costituzionalità v., da ultimo, con specifico riguardo alla moderna dottrina costituzionalistica, S. PAJNO, Lintegrazione comunitaria del parametro di costituzionalità, Torino 2001, pp. 17 ss. [15] Sullutilitas come fondamento e giustificazione di nova exempla, v. praecipue Liv., 4.4.1: «Nullane res nova institui debet? et quod nondum est factum ea ne si utilia quidem sunt fieri oportet?». [16] Sul consensus v., in particolare, Cic., in Verr., II, 3.90.210, citato supra, nt. 8. V. pure Liv., 4.6.8: «contenti tribuni, contenta plebs fuit»; Liv., 27.8.10: « Magnu adsensu patrum plebisque». [17] Depongono in tal senso, sotto il profilo positivo (legittimità rituale), locuzioni del tipo: «exempla sumere» (Cic., de imp. Gn. Pomp., 15.44); «exemplis tuemur» (Tac., Ann., 11.5.7); «dictator causam comitiorum. . . exemplis tutabatur» (Liv., 27.6.6); «ad maiorum exempla revocare» (Cic., pro Planc,. 5.12); «omnium fere exemplo» (Cic., Ad fam., 2.15.4); «potentissimorum duorum exemplo» (Cic., Ad fam., 2.15.4); sotto il profilo negativo (illegittimità rituale), espressioni quali: «exempla corrumpere» (Cic., pro rege Deit. 12.32); «contra exempla» (Cic., de imp. Gn. Pomp., 20.60); «quod umquam ante factum erat» (Liv., 22.8.5; Cic., de leg., 3.9.20). [18] Liv., 4.7.5: «nec exemplo fieret»; Cic., de imp. Gn. Pomp., 20.60: «Ne quid novi fiat contra exempla maiorum»; Cic., in Verr., II, 3.50.102: «aliorum exemplo fecisse»; Caes., de bello Gall., 1.8.3: «negat se exemplo populi Romani posse iter ulli per provinciam dare». [19] Nel processo formativo di tale ius occorre distinguere il momento iniziale (actus instituendi), coincidente con l«exemplum Numae Pompili» (Varr., de l.l., 7.3.45), dalla successiva prassi. [20] La frase liviana riecheggia il celebre verso di Ennio «moribus antiquis res stat Romana virisque» (Ann., 500), su cui rinvio a quanto ho avuto modo di precisare in Potere ed ordinamento, cit., pp. 107 ss. [21] Cfr. supra, nt. 19. [22] Preciso in tal senso quanto ho sostenuto in Breviter su Iul. D.1.3.32 (Riflessioni sul trinomio lex, mos, consuetudo), in AA.VV., Nozione formazione e interpretazione del diritto dalletà romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al prof. P. Gallo, vol. I, Napoli 1997, pp. 130 ss. [23] Convenire: Liv., 27.6.9: «inter dictatorem ac tribunos convenit»; 28.9.4: «inter consules convenit»; 6.15.4: «Mihi patribusque Romanis ita de ceteris rebus cum plebe conveniat»; 7.1.6: «Primo ut alternis annis ex plebe fierent (aediles) convenerat»; 3.31.8: «de legibus conveniret»; 5.17.5: «comitia interpellantibus tribunis plebis donec convenisset prius ut maior pars tribunorum militum ex plebe crearetur»; 30.40.12: «Patres igitur iurati -ita enim convenerat- censuerunt uti consules provincias inter se compararent»; 2.23.14: «non modo inter patres sed ne inter consules quidem ipsos satis conveniebat» (profilo negativo: mancato accordo). [24] Comuniter edicere: Liv., 3.21.8: «Communiter inde edicunt (consules) ne quis L. Quinctium consulem faceret». Placere: Liv., 3.32.6: «Placet creari decemviros sine provocatione»; Pomp., D. 1.2.2.4: «Placuit publica auctoritate decem constitui viros». Concedere: Liv., 2.33.1: «concessum in condiciones ut plebi sui magistratus essent sacrosancti»; 3.32.7: «Postremo concessum patribus, modo ne lex Icilia de Aventino aliaque sacratae leges abrogarentur»; 6.42.11: «concessum ab nobilitate plebi de consule plebeio, a plebe nobilitati de praetore»; 27.6.11: «Concedentibus tribunis»; 7.42.2: «Quae si omnia concessa sunt plebi, apparet haud parvas vires defectionem habuisse»; 4.6.3: «ne ante finis contentionum fuit quam victi tandem patres de connubio ferretur concessere». Cfr. pure Cic., de rep., 2.32.56: «omnia summa cum auctoritate a principibus cedente populo tenebantur». Sinere: Liv., 3.31.7: «legum latores sinerent creari»; 4.6.8: «Per haec consilia eo deducta est res, ut tribunos militum consulari potestate promiscue ex patribus ac plebis creare sinerent». De concordia agere: Liv., 2.33.1: «Agi deinde de concordia coeptum» (apologo di M. Agrippa); 3.33.8: «Et in unica concordia inter ipsos» (Decemviri); 7.21.4: «Patres.. concordiae causa observare legem Liciniam comitiis consularibus iussere»; 5.7.1: «concordiam ordinum maiorem Veios fecit»; 6.42.12: «Ita ab diutina ira tandem in concordiam redactis ordinibus». Magnus adsensus: Liv., 27.8.10: «magnu adsensu patrum plebisque»; 5.9.7: «cum omnium adsensu comprobata oratio esset». Omnibus existimantibus: Liv., 27.8.10: «omnibus ita exist magis sanctitate vitae quam sacerdotii iure eam rem flaminem obtinuisse». Consensus omnium: Liv., 5.9.8: «Magistratus, victi consensu omnium, comitia tribunorum militum habuere». [25] Liv., 6.30.3; 8.22.9; 25.41.10; 30.40.12; 32.8.2; 40.17.8; 4.26.11. [26] Lepisodio, di discussa storicità, risale al 460 a.C. Sulla facoltà di non renuntiare v. Gell., N.A., 7.9.1; Vell., 2.92.4; Val. Max., 3.8.3; Liv., 8.15.9. [27] Sul brano A. PETRUCCI, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996, pp. 92 e 150 ss. [28] Liv., 2.33.1; 3.32.6-7; 4.6.3-8; 5.7.1; 5.9.8; 6.15.4; 6.42.11-12; 27.8.10. [29] In proposito P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 129 ss. [30] Sul punto A. DI PORTO, Il colpo di mano di Sutri e il plebiscitum de populo non sevocando (A proposito della lex Manlia de vicesima manumissionum), in AA.VV., Legge e società nella repubblica romana, vol. I, Napoli 1981, pp. 307 ss. [31] Per lauctoritas patrum v. infra, § 9. Per la provocatio ad populum mi limito qui a richiamare linteressante osservazione di Livio, secondo cui «causam renovandae saepius haud aliam fuisse reor, quam quod plus paucorum opes quam libertas plebis poterat» (10.9.4). In proposito P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 153 ss. e nt. 98; L. GAROFALO, Appunti sul diritto criminale nella Roma monarchica e repubblicana, Padova 1997, p. 198. Quanto al S.C. de Bacchanalibus, il valore precettivo del suo contenuto trova la sua ragion dessere nel magnus terror e nel generale assenso che linchiesta e listruttoria sulle associazioni segrete, che si erano diffuse rapidamente dallEtruria a Roma «velut contagione morbi» (Liv., 39.9.1), avevano suscitato nellopinione pubblica al termine della dettagliata relazione svolta, in concione, dal console Postumio (Liv., 39.15-16). Assenso rafforzato, peraltro, dalla successiva lettura del testo del S.C. (Liv., 39.17.1) e poi consolidatosi con il plebiscito confermativo delle misure premiali disposte dal senato (Liv., 39.19.7). Sul testo epigrafico del S.C. vedi B. ALBANESE, Per linterpretazione del S.C. de Bacchanalibus (186 a.C.), in AA.VV., Vincula iuris. Studi in onore di Mario Talamanca, vol. I, Napoli 2001, pp. 3 ss. Sui provvedimenti premiali P. CERAMI, Accusatores populares, Delatores, Indices. Tipologia dei collaboratori di giustizia nellantica Roma, in AUPA, 45.1 (1999), pp. 166 ss.; e in INDEX, 26 (1998), pp. 130 ss. [32] I profili pattizi della vicenda ricorrono pure nella versione alicarnassense, a conclusione del discorso di Menenio Agrippa: «I pegni che garantiranno questi patti e che vi daranno la sicurezza sono tutti quelli che le leggi e la tradizione stabiliscono per chi pone fine ad una inimicizia. Il senato conformerà con una votazione e convaliderà legalmente gli accordi che avremo steso per iscritto. Piuttosto si scrivano qui di vostro pugno le vostre richieste ed il senato le accetterà. Del fatto poi che le concessioni fatte ora siano definitive e che in seguito il senato non proporrà qualcosa di contrario, siamo garanti in primo luogo noi ambasciatori ., in secondo luogo tutti i senatori che saranno indicati per iscritto nel decreto» (Dion. Hal., 6.84.1-2). [33] Verosimilmente, Gaio trattava dellargomento nel suo Commentario Ad legem XII tabularum, esplicitamente citato da Lido in de mag., 1.86. Sul rapporto fra i due brani e sulla controversa questione delle fonti di Lido v. J. CAlMI, Burocrazia e diritto nel De magistratibus di Giovanni Lido, Milano 1984, pp. 160 ss. (con citazione ed analisi della lett.). [34] Risultarono eletti soltanto patrizi. Significativo appare, sotto questo profilo, il commento di Livio: «Eventus eorum comitiorum docuit alios animos in contentione libertatis dignitatisque, alios secundum deposita certamina incorrupto iudicio esse» (4.6.11). [35] Cfr. Dion. Hal., 11.56-61. [36] Sul contenuto e sulle finalità dei plebisciti proposti da L. Genucio v. L. FASCIONE, La legislazione di Genucio, in AA.VV., Legge e società nella repubblica romana, a cura di F. SERRAO, vol. II, Napoli 2000, pp. 179 ss., il quale sottolinea opportunamente limpiego liviano del verbo concedere come termine denotativo «dellatto finalmente remissivo degli ottimati nei confronti della richiesta plebea» (p. 203). [37] P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 62 ss (pp. 65 ss., per quanto attiene, in particolare, al brano liviano). [38] Sul punto P. CERAMI, Breviter su Iul. D.1.3.32, cit., p. 132. [39] In BIDR, 30 (1988) (cit., supra, nt. 12), p. 697. [40] P. CERAMI, Breviter su Iul. D.1.3.32, cit., pp. 118 ss. [41] Sul punto P. CERAMI, Potere ed ord., cit., p. 56. |
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