Pubblicazioni - Annali 2002

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Prassi e Convenzioni Costituzionali nel Sistema della Libera Res Publica Romana
di Pietro Cerami

SOMMARIO: 

  1. Relatività storica del binomio “produzione – interpretazione” del diritto. 

  2. La produzione del diritto nei sistemi casistico-giurisprudenziali. 

  3. I fattori della constitutio della libera res publica: prassi e convenzioni. 

  4. Il ruolo costitutivo degli exempla (precedenti) 

  5. Il ruolo costitutivo della prassi: in «usu stat ius» (Liv. 27.8.9). 

  6. Le convenzioni costituzionali: terminologia e tipologia. 

  7. Segue: efficacia. 

  8. Segue: casistica. 

  9. Formazione e consolidazione di regole consuetudinarie attraverso l’impiego inveterato di exempla

  10. Riflessioni conclusive.

 

 

 

1. RELATIVITÀ STORICA DEL BINOMIO “PRODUZIONE-INTERPRETAZIONE” DEL DIRITTO.

 

Mi sembra opportuno premettere all’esame specifico del binomio “prassi-convenzioni costituzionali” - che limiterò peraltro, in questa sede, al periodo della libera res publica - qualche breve considerazione sulla relatività storica del rapporto “produzione-interpretazione” del diritto, nel quale si concreta e nel quale si risolve la complessa ed assai dibattuta problematica delle fonti del diritto.

Parlo di relatività storica, perché i problemi afferenti alla produzione ed alla interpretazione del diritto possono essere impostati e risolti non già in chiave astrattamente teoretica, sibbene in prospettiva eminentemente storica, tenuto conto delle peculiarità dei singoli ordinamenti e delle connesse concezioni del diritto.

Astraendo dai singoli complessi d’esperienza del passato e del presente è tuttavia possibile enucleare, con specifico riferimento al nostro tema (produzione ed interpretazione del diritto), due fondamentali tipi di sistemi giuridici fra loro nettamente differenziati: sistemi di tipo casistico-giurisprudenziale e sistemi di tipo legislativo-statuale.

I primi sono caratterizzati ─ come è noto ─ dalla distinzione istituzionale (più o meno marcata) fra organi di normazione ed organi di applicazione; dal “centralismo” statale (più o meno totalizzante) e dal connesso principio della “gerarchia” delle fonti.

I predetti caratteri costituirono, fra il XVII ed il XIX secolo, i presupposti tecnico-giuridici di due notissime teorie della scientia iuris:

a) la teoria delle fonti, incentrata sul rapporto di causalità genetica fra “fattori” di produzione ed “ordine” prodotto e sulla formulazione normativa del rapporto gerarchico fra i diversi fattori di produzione;

b) la teoria dell’interpretazione, incentrata sulla configurazione. dell’enunciato precettivo come prius logico e cronologico del procedimento interpretativo e sulla natura fondamentalmente strumentale (cioè: di concretizzazione, adeguazione, specificazione) dell’attività interpretativa rispetto al dato normativo da interpretare.

E’ noto, altresì, che nei confronti delle predette teorie sono stati formulati non pochi rilievi critici, alimentati, peraltro, dal declino del centralismo statale e dalla visione codicistica del diritto.

I risultati più maturi della revisione critica delle predette teorie possono essere individuati nel ridimensionamento della “giustapposizione” produzione-interpretazione del diritto, da un lato, e nella riscoperta della “centralità” del momento interpretativo nella teoria e nella pratica del diritto: centralità su cui verte, in particolare, un recentissimo saggio di Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria[1].

Ma se l’ermeneutica costituisce il filtro attraverso cui pausa il diritto in ogni sua manifestazione, è sicuramente innegabile ed incontrovertibile che l’interprete ha avuto ed ha una diversa funzione ed una diversa importanza a seconda dell’influenza più o meno diretta ed efficace che ha avuto ed ha nel processo di produzione del diritto. Questa influenza è massima nelle esperienze storiche di tipo casistico-giurisprudenziale, caratterizzate dalla sostanziale concentrazione della produzione e dell’interpretazione in una classe di “esperti”: iuris periti, nel sistema romano dell’età preclassica e classica; giudici, nei sistemi di Common Law; è minore nelle esperienze di tipo legislativo-statuale.

 

 

 

2. LA PRODUZIONE DEL DIRITTO NEI SISTEMI CASISTICO-GIURISPRUDENZIALI.

 

Nei sistemi di tipo giurisprudenziale, che si sono formati e sviluppati al di fuori del monopolismo normativo dello stato-istituzione, produzione ed interpretazione non costituiscono affatto attività fra loro nettamente differenziate per natura (creativa nel primo caso; ricognitivo-intelletiva nel secondo) e titolarità (organi di normazione nel primo caso; organi di applicazione nel secondo), sibbene interne “modalità” di estrinsecazione dei ‘munera’ iuris periti. In particolare, il diritto romano storico risulta contraddistinto, sino all’età del principato, dalla “centralità” del ruolo del iuris peritus nel contesto dell’intero processo di formazione e sviluppo del diritto, in piena sintonia con la ben nota affermazione di Pomponio, secondo cui «constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus per quem possit cottidie in melius produci» (D.1.2.2.13).

La centralità del ruolo del giurista, nel contesto storico del processo formativo del diritto, è data dalla circostanza che tutte le manifestazioni dell’esperienza giuridica, dal fatto ─ inteso come “dato-realtà” ─ all’enunciato dispositivo dipendono dalla mediazione giurisprudenziale, nel senso che assumono rilevanza e pregnanza se ed in quanto vengano “filtrati” dal giurista[2]. È esattamente questo il senso della celebre definizione ulpianea della iuris prudentia come «divinarum humanarumque rerum notitia, iusti atque iniusti scientia» (D.1.1.10.2 = I. 1.1.1). La definizione sottolinea due distinti, ma complementari momenti della attività del giurista: a) la conoscenza dei fatti e dei rapporti sociali nei loro aspetti laico-religiosi: notio (giuridicità latente); b) la determinazione tecnico-professionale della loro valenza giuridica: scientia (giuridicità formalizzata). S’inserisce, appunto, in questa prospettiva il responso di Alfeno Varo «in causa ius esse positum» (D. 9.2.52.2), da cui Baldo ricavò il noto aforisma ‘ex facto oritur ius’.

Il passaggio dalla giuridicità latente (del fatto) alla giuridicità formalizzata (dell’enunciato) si traduce nella configurazione di “linee” o “modelli” di condotta sociale, intesi ed assunti più che come comandi imperativi (norme), come princìpi direttivi (regole).

Sotto questo profilo, è estremamente significativo che nel linguaggio dei giuristi romani non ricorrano né la locuzione “fonti del diritto”, che sottende una prospettiva eziologico-derivativa (rapporto di causalità genetica fra fattori e prodotto), tipica della concezione statualistica del diritto, né il termine “norma”, correlato anch’esso ─ come è stato sottolineato dall’Orestano[3] - alla visione statualistica ed imperativistica della fenomenologia giuridica. Con ben diversi segni linguistici i giuristi romani esprimono l’idea della produzione del diritto e l’idea dell’enunciato formalizzato. La produzione del diritto è prevalentemente espressa con la forma verbale ‘constituere’ ─ da cui discende l’espressione pomponiana «viae iuris constituendi» (D. 1.2.2.11), che implica e sottende una prospettiva eminentemente storico-enumerativa ─ ovvero con altre equivalenti forme verbali, quali ‘statuere’, ‘condere’, ‘praecipere’, ‘dare’, ‘componere’[4]. L’idea dell’enunciato formalizzato, ovvero dell’atto che stabilisce un “criterio”, è normalmente espressa con «regula» (Paul. D. 50.17.1), «praeceptum» (Ulp. D.1.1.10.1), ‘edictum’: tutti termini sorti ed impiegati in contesti semiologici ed ideologici immuni da condizionamenti statualistici ed imperativistici.

All’originaria “centralità” del giurista subentra, nel corso del Basso Impero, in forme sempre più accentuate, la “centralità” dell’autorità imperiale. In particolare, il cambiamento coinvolge, in maniera radicale, il binomio produzione-interpretazione, che subisce significative e rilevanti trasformazioni, imputabili soprattutto a due fattori: a) la formulazione legislativa di un “ordine” gerarchico fra i diversi fattori di produzione (attuata, per la prima volta, nel Codex Theodosianus, e precisamente nei titoli I-IV del libro I; b) la rigorosa distinzione, normativamente sanzionata, fra interpretazione creativa, riservata all’imperatore, «conditor et interpres iuris» (C. 1.14.12.3), ed interpretazione ricognitivo-applicativa, attribuita alle diverse categorie di operatori del diritto (iudices, advocati, professores iuris), ed esplicabile, peraltro, entro i limiti di ben precise regole legali d’interpretazione.

Orbene, dal sistema giuridico del Basso Impero discendono, in definitiva, i sistemi affermatisi, nell’Europa continentale, nel corso dell’età dell’assolutismo dinastico. Depone in tal senso, fra l’altro, la formula politico-ideologica ‘ex deo rex, ex rege lex’, che riecheggia due complementari direttive di politica del diritto accolte nella compilazione giustinianea: a) l’origine divina del potere: «Deo auctore nostrum gubernantes imperium, quod nobis a celesti maiestate traditum est»  (Const. Deo auctore, pr.); b) la concentrazione della produzione e della interpretazione creativa nell’autorità imperiale: «leges condere soli imperatori concessum est, et leges interpretari solum dignum imperio esse oportet» (C. 1.14.12.3)[5].

 

 

 

3. I FATTORI DELLA CONSTITUTIO DELLA LIBERA RES PUBLICA: PRASSI E CONVENZIONI.

 

La centralità della iuris prudentia nel processo formativo dell’esperienza giuridica romana si estende ─ sino all’avvento del dispotismo del Basso Impero ─ all’«universum ius» (Cic., de leg., 1.4.14), comprensivo tanto del ius afferente allo status rei publicae (ius publicum), quanto del ius di cui i privati in civitate utuntur (ius privatum).

Lo strumento tecnico attraverso il quale si esplica la funzione creativa della iuris prudentia  è dato dall’interpretatio, che appare contraddistinta, sino a tutta l’età classica, da univoche note di “creatività” e di “politicità”, dal momento che risulta ispirata ad evidenti direttive di politica del diritto.

Mi sembra, tuttavia, innegabile ─ e, al tempo stesso, comprensibile ─ che l’interpretazione di fatti, di princìpi e regole di ordine costituzionale si caratterizzi rispetto a quella afferente ai rapporti privati per una più spiccata valenza politica, imputabile tanto all’oggetto (ordinamento politico), quanto ai soggetti (organi politici) del procedimento ermeneutico.

Il pensiero giuspubblicistico romano fu pienamente consapevole ─ sino all’avvento del principato ─ della necessità di distinguere, in materia d’interpretazione costituzionale, fra “interpretazione politica”, connessa alla dialettica degli organi di governo e dei gruppi sociali (partes rei publicae) ed “interpretazione dottrinale”, connessa alla iuris prudentia, intesa come conoscenza tecnico-professionale dello status rei publicae, distinta sia dalla historia (storiografia), che dalla antiquitatis memoria (antichistica), ancorché correlata a quest’ultime sotto diversi profili: rilievo delle personalità politiche e degli exempla; fattualità degli instituta civilia; genesi e sviluppo delle necessitudines[6].

In questo specifico contesto s’innestano il rilievo e la valenza tecnico-costituzionale della prassi e delle convenzioni costituzionali, che, nel loro insieme, concorrono a determinare le regole ed i princìpi organizzativi della constitutio rei publicae, intesa ed assunta in senso strutturale-funzionale, cioè come “struttura fondamentale” (costituzione materiale) e non già come “legge fondamentale” (carta costituzionale).

La prassi è data da una serie di molteplici applicazioni[7] di exempla (precedenti), che possono consistere o in comportamenti di personalità politiche, comunemente accettati ed imitati[8], o in veri e propri accordi fra organi politici e/o gruppi sociali (partes rei publicae).

Il reiterato impiego (exempla inveterata) e la progressiva stabilizzazione dei precedenti nella prassi danno vita ─ in un sistema costituzionale aperto, qual è quello della libera res publica ─ a vere e proprie “regole consuetudinarie”.

Sotto questo profilo non è certo un caso che il problema della prassi e delle convenzioni sia stato posto ed analizzato dalla dottrina inglese[9], che inerisce e trae alimento da un’esperienza contraddistinta da strettissime analogie con quella della libera res publica Romana.

Sulla scia del pensiero inglese, la dottrina giuspubblicistica italiana ha affrontato il tema delle “convenzioni costituzionali”, assumendole come “regole collegate con il diritto”[10], accanto a leggi e consuetudini costituzionali.

Traendo spunto dalla “scoperta” delle convenzioni, Giuseppe Branca in uno scritto dedicato a Massimo Severo Giannini[11] e in “Alcuni Appunti” pubblicati postumi, a cura di Luigi Garofalo, Vincenzo Mannino e Leo Peppe[12], aveva acutamente sottoposto all’attenzione dei romanisti la opportunità di riesaminare, alla luce della dottrina delle convenzioni costituzionali, il dibattuto tema delle anticipazioni e duplicazioni di leggi e di norme consuetudinarie. In una siffatta prospettiva, Branca aveva addotto come banco di prova della fondatezza della sua proposta le testimonianze storiche relative alla provocatio ad populum, all’auctoritas patrum, al S.C. de Bacchanalibus.

In questa sede cercherò di illustrare il “ruolo costitutivo” svolto, nella prassi della libera res publica, dalle convenzioni costituzionali, il cui valore politico-costituzionale va ben oltre i limiti del problema storico-giuridico delle anticipazioni e delle duplicazioni di leggi e consuetudini, per assurgere a vero e proprio “leitmotiv” del costituzionalismo della res Romana, come provano la terminologia e la cospicua ed articolata casistitica costituzionale della libera res publica.

 

 

 

4. IL RUOLO COSTITUTIVO DEGLI EXEMPLA (PRECEDENTI).

 

exemplum, inteso ed assunto come condotta o accordo ‘ad cuius similitudinem aliquod fieri potest’[13], esplica, nell’ambito delle strutture organizzative della libera res publica, una funzione eminentemente “costitutiva”, nel senso che assurge a “parametro” di costituzionalità[14], nella duplice veste di “elemento generatore del sistema” e di “criterio di valutazione” all’interno del sistema stesso.

Nella sua specifica veste di elemento generatore del sistema, 1’exemplum costituisce un actus instituendi, cioè una condotta politica tipicizzantesi, colta nel momento in cui si pone, per la convenienza politica che ne discende[15] e per il consenso che riesce a suscitare[16], come matrice di una condotta tipica e, quindi, come anello di un assetto organizzativo.

Nello specifico ruolo di “criterio di valutazione”, 1’exemplum rappresenta un costante punto di riferimento per stabilire, nella concreta quotidianità della dialettica politica, la “ritualità” o meno di soluzioni e decisioni[17], in perfetta sintonia, peraltro, con una opinione assai diffusa, secondo cui «quod exemplo fit, id etiam iure fieri» (Cic., ad fam., 4.3.1). E’ del tutto evidente che ‘iure fieri’ esprime qui ─ come in altri casi[18] ─ non già l’idea della conformità ad una “norma” prestabilita, sibbene l’idea della conformità a precedenti e, più in generale, l’idea della legittimità rituale (conformità a modelli di azioni tipicizzate).

Intesi ed assunti come criteri di valutazione della costituzionalità di decisioni o soluzioni, gli exempla vanno interpretati tenendo conto non tanto della esteriorità della condotta, quanto piuttosto del consilium eorum a quo ipsa exempla nata sunt. Assume notevole rilievo, sotto questo profilo, un brano della nona Filippica di Marco Tullio Cicerone:

 

Cic., Phil., 9.1.3: «Ut igitur alia, sic hoc, C. Pansa, praeclare quod et nos ad honorandum Ser. Sulpicium cohortatus es et ipse multa copiose de illius laude dixisti. Quibus a te dictis nihil praeter sententiam dicerem, nisi P. Servilio, clarissimo viro, respondendum putarem, qui hunc honorem statuae nemini tribuendum censuit nisi ei qui ferro esset in legatione interfectus. Ego autem, patres conscripti, sic interpretor sensisse maiores nostros, ut causam mortis censuerint, non genus esse quaerendum. Etenim cui legatio ipsa morti fuisse, eius monumentum extare voluerunt, ut in bellis periculosis obirent homines legationis munus audacius. Non igitur exempla maiorun quaerenda, sed consilium est eorum, a quo exempla nata sunt, explicandum».

[Come dunque in altre circostanze, così anche in questa, C. Pansa hai con tanta saggezza deciso, esortando anche noi ad onorare Servio Sulpicio ed hai tu stesso pronunciato un ampio ed eloquente elogio di lui. Alle considerazioni da te svolte non avrei altro da aggiungere, salvo il mio voto, se non ritenessi necessaria una risposta a Publio Servilio, uomo eminentissimo, il quale ha sostenuto che l’onore di una statua possa essere attribuito soltanto a colui che sia stato ucciso col ferro nell’espletamento di un’ambasceria. Io invece, senatori, così interpreto l’intento dei nostri antenati: che si debba considerare la causa, non il genere di morte. Vollero, infatti, che fosse eretta una statua a colui al quale l’ambasceria avesse procurato la morte, allo scopo di invogliare i cittadini ad accettare con più coraggio l’incarico di un’ambasceria in guerre pericolose. Non basta, pertanto, ricercare condotte esemplari di antenati, ma occorre altresì stabilire l’intento di quest’ultimi, che ha dato luogo alle condotte stesse].

 

La nona Filippica, pronunziata da Cicerone in Senato il 4 febbraio del 43 a.C., costituisce l’elogio funebre del giurista Servio Sulpicio Rufo, deceduto nell’espletamento di un’ambasceria ad Antonio, di cui era stato incaricato dal senato. Il predetto brano verte sulla costituzionalità o meno della proposta di erezione di una statua al capo dell’ambasceria, alla luce degli exempla maiorum. La tesi di Cicerone, in contrasto con il diverso punto di vista del senatore Publio Servilio, è che gli exempla debbano essere valutati ─ al pari, potremmo aggiungere, di altri parametri ─ con specifico riguardo alla ‘mens’ degli autori della condotta tipica, assunta come “criterio di valutazione”.

 

 

 

5. IL RUOLO COSTITUTIVO DELLA PRASSI: «IN USU STAT IUS» (Liv., 27.8.9).

 

È noto che i giuspubblicisti romani, da Catone a Cicerone, erano pienamente consapevoli dell’importanza e della “centralità” della prassi nel processo formativo dello status rei publicae al punto da ravvisare le ragioni dell’asserito primato della costituzione romana, rispetto a quelle di altri popoli del mondo antico, proprio nella circostanza che l’assetto organizzativo di Roma (nostrae civitatis status) si era formato «rerum usu ac vetustate», nel corso di secoli e di generazioni (Cic., de re pub., 2.1.9).

In particolare, la prassi (usus), risultante dalla stabilizzazione di exempla (precedenti), costituisce la matrice di “regole descrittive ed orientative”, che vengono assunte, in sede ermeneutica, come criteri di valutazione e, quindi, come parametri di costituzionalità.

In questa prospettiva assume notevole rilievo la locuzione ‘in consuetudinis usu stare ius’, che ricorre in un brano degli Annali di Tito Livio, in rapporto ad una contentio de iure publico esplosa, nel 209 a.C., fra il flamen Dialis C. Valerio Flacco ed il pretore P. Licinio, in ordine al preteso diritto dei membri del flaminato di partecipare alle sedute del senato, pur in assenza di una formale iscrizione degli stessi nelle liste senatorie:

 

Liv., 27.8.7-10: «Huius famae consensu elatus ad iustam fiduciam sui rem intermissam per multos annos ob indignitatem flaminum priorum repetuit, ut in senatum introiret. 8.Ingressum eum curiam cum P. Licinius praetor inde eduxisset, tribunos plebis appellavit. Flamen vetustum ius sacerdotii repetebat: datum id cum toga praetexta et sella curuli ei flamonio esse. 9.Praetor non exoletis vetustate annalium exemplis stare ius, sed recentissimae cuiusque consuetudinis usu volebat: nec patrum nec avorum memoria Dialem quemquam id ius usurpasse. 10.Tribuni rem inertia flaminum oblitteratam ipsis, non sacerdotio damno fuisse cum aequum censuissent, ne ipso quidem contra tendente praetore, magnu adsensu patrum plebisque flaminem in senatum introduxerunt, omnibus ita existimantibus magis sanctitate vitae quam sacerdotii iure eam rem flaminem obtinuisse».

[Indotto da questa unanime stima ad una giustificata fiducia in sé stesso, reclamò una prerogativa da molti anni caduta in disuso per indegnità dei precedenti flamini: quella di partecipare alle sedute del senato. Introdottosi egli nella Curia, avendolo il pretore P. Licinio espulso da lì, si appellò ai tribuni della plebe. Il flamine reclamava un’antica prerogativa sacerdotale: sarebbe stata attribuita al flaminato con la toga pretesta e la sella curule. Il pretore sosteneva che la “costituzionalità” di una prerogativa dovesse essere desunta non già da precedenti annalistici caduti in disuso per vetustà, sibbene dalla prassi della più recente consuetudine: nessun Diale, a memoria di padri ed avi, aveva esercitato più quella prerogativa. I tribuni, avendo giudicato equo che la prerogativa caduta in desuetudine, per inerzia dei flamini, avesse nuociuto a quest’ultimi, non al sacerdozio, disposero l’ammissione del flamine in senato, con il consenso unanime dei senatori e del popolo, e senza opposizione alcuna del pretore, avendo tutti convenuto che il flamine aveva ottenuto quella prerogativa più per la probità della sua vita, che non per privilegio sacerdotale].

 

Le contrapposte tesi di Flacco e Licinio muovono, in ultima analisi, dal medesimo presupposto: la concezione e la configurazione della prassi come specifico “parametro di costituzionalità”, alla cui stregua può essere affermato o negato il ius introeundi in senatum del flamen Dialis[19]. Mi sembra esattamente questo il senso della frase ‘non exoletis vetustate annalium stare ius, sed recentissimae cuiusque consuetudinis usu’, nell’ambito della quale il verbo ‘stare’ esprime un vincolo strutturale anormativo[20], nella misura in cui sottende una “regola” non già prescrittiva, sibbene descrittiva ed orientativa, fondata sulla prassi e sul communis consensus.

Le divergenze attengono invece alle modalità di accertamento degli exempla ed alla necessità della persistenza o meno della prassi e del consensus. Valerio Flacco, muovendo dall’originario actus instituendi vetustum ius, datum cum toga praetexta et sella curulis[21] ─ sosteneva che la configurabilità del ius introeundi dovesse essere accertata unicamente ‘vetustate annalium’. Il pretore Licinio sosteneva, per contro, che il preteso ius introeundi dovesse essere accertato non già in base a precedenti annalistici da tempo disapplicati (non exoletis exemplis stare ius), sibbene ‘memoria patrum ac avorum’, in base alla quale nessun flamine, nel corso delle ultime generazioni (recentissimae consuetudinis usu), aveva più partecipato alle sedute del senato.

Orbene, la contentio venne risolta dai tribuni, sollecitati proprio da Valerio Flacco, a favore del flamen Dialis, con la motivazione che, nel caso di specie, l’inertia flaminum ‘ipsis, non sacerdotio damno fuisse’. Motivazione, questa, che non implica affatto un’opzione di principio per il punto di vista di Valerio Flacco, quanto piuttosto una valutazione politico-comparativa della specificità del caso e dei limiti della recentissima consuetudo. Quest’ultima, presupponendo e comportando la consolidazione di un contrarius consensus attorno a nuove ed opposte regole di condotta, esplica, in via di principio, effetti dissolventi nei confronti delle regole precedenti: magis…quam iure sacerdotii. Tuttavia, la recentissima consuetudo, nella misura in cui si risolve, al pari della pregressa prassi, in una “regola descrittiva”[22], non preclude affatto il ricorso a soluzioni diverse, che siano giustificate, caso per caso, da motivi di opportunità politica e siano sorrette dal generale consenso: ne contra tendente praetore; magnu adsensu patrum plebisque; omnibus existimantibus.

Il predetto brano offre, in definitiva, una eloquente testimonianza del concorso e dell’intreccio, nell’ambito della dialettica politico-costituzionale della libera res publica, fra la prassi (o, più precisamente, le regole orientative scaturenti dalla stabilizzazione dei precedenti) e le convenzioni costituzionali, che possono, a loro volta, fungere da precedenti (exempla).

 

 

 

6. LE CONVENZIONI COSTITUZIONALI: TERMINOLOGIA E TIPOLOGIA

 

Si è già premesso (supra, § 3) che il valore politico-giuridico delle convenzioni costituzionali, lungi dall’essere circoscrivibile al problema storico-giuridico delle anticipazioni e delle duplicazioni di leggi e norme consuetudinarie, assurge a vero e proprio ‘leitmotiv’ del costituzionalismo della libera res publica.

In questa prospettiva mi sembra utile, prima di procedere all’analisi della cospicua e complessa casistica costituzionale (infra, § 8), premettere qualche breve cenno alla terminologia ed alla tipologia del processo formativo delle convenzioni costituzionali.

Orbene, l’idea delle convenzioni costituzionali, comprensiva delle modalità del procedimento formativo («ex diversis animi motibus colligere et venire», si potrebbe dire con Ulpiano: D. 2.14.1.3), quanto del risultato («in unam sententiam decurrere»: D. 2.14.1.3), è normalmente e tecnicamente espressa ─ come possiamo desumere, in particolare, dal lessico liviano ─ sia con il verbo ‘convenire’[23], sia con verbi e locuzioni equivalenti, denotativi, al pari di ‘convenire’, di “scelte concordate” o, più in generale, di soluzioni condivise ed accettate in base a valutazioni di opportunità politico-sociali, alimentate e condizionate da rapporti di forza fra organi costituzionali e gruppi politici: placere, concedere, de concordia agere, magnus adsensus, omnibus existimantibus, consensus omnium[24].

Con specifico riguardo ai soggetti che in unam sententiam decurrunt è possibile isolare, in base alla variegata casistica liviana, i seguenti tipi di accordi:

 

A) Accordi fra contitolari della stessa magistratura.

Si tratta, precisamente, di accordi che esorbitano dal normale ambito della comparatio ─ strumento di determinazione della sfera di competenza[25]-, nella misura in cui si concretano nell’adozione di comuni direttive politiche nella gestione della carica (cfr. Dion. Hal., 5.13.1-2). Rientrano, in particolare, in questo schema:

─ le intese fra consoli in tema di renuntiatio elettorale, come possiamo desumere (prescindendo qui dalla storicità dell’episodio) da Liv., 3.21.8: «Communiter inde edicunt ne quis L. Quintium consulem faceret; si quis fecisset, se id suffragium non observaturos»[26];

- le intese fra consoli in tema di triumphus, come attesta Liv., 28.9.9-10: «inter ipsos, ne, cum bellum communi animo gessissent triumphum separarent, ita convenit…ut M. Livium quadrigis urbem ineuntem milites sequerentur, C. Claudius equo sine militibus inveheretur»[27].

 

B) Accordi interorganici.

Rientrano in questa ampia categoria:

─ le intese fra tribuni della plebe e magistrati patrizi (Liv., 4.6.8; 27.6.2-9);

─ le intese fra tribuni della plebe e senato (Liv., 3.31.7; 7.1.6);

─ le intese fra senato e tribuni della plebe, seguite da approvazione dei concilia plebis (Liv., 27.5.17-19; 27.6.10-11);

─ le intese fra senato e console sottoposte ad approvazione dei concilia (Liv., 27.6.7) o dei comitia (Liv., 7.16.7);

─ l’adesione, concordiae causa, del senato ad istanze dei tribuni della plebe (Liv., 4.6.3; 7.21.4).

 

C) Accordi fra organi costituzionali e gruppi politici[28] nel corso ed a seguito di conciones (Liv., 4.6.1: «cum in concionem et consules intervenissent») o di consilia principum (riunioni private di maggiorenti: Liv., 4.6.6).

 

 

 

 

7. SEGUE : EFFICACIA

 

L’accordo fra organi supremi e/o gruppi politici - nel contesto, assai complesso e variegato, di una fitta rete di necessitudines (formazioni sociali) - si traduce - come si è già premesso (supra, § 5) in un exemplum, la cui efficacia è normalmente circoscritta al caso che lo ha determinato (“regola” del caso), pur nella sua potenziale idoneità a consolidarsi nella prassi.

L’efficacia dell’accordo, inteso ed assunto come “regola del caso”, si estende a tutti i “tipi” di convenzioni costituzionali, comprese quelle che sfociano in formali deliberazioni delle assemblee popolari (comitia e concilia). Quest’ultime, infatti, pur risolvendosi in atti complessi, fondati sul comune impegno di diverse volontà politiche (magistrati, senato, tribuni, cives), conservano, per tutto il periodo della libera res publica ─ in conformità, peraltro, al noto principio decemvirale ‘quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esto’[29] ─ la natura ed il valore di “regole del caso”, in vista del quale sono state emanate, e la loro efficacia non va oltre il limite del puro e semplice precedente. È ben possibile, tuttavia, che contestualmente, ovvero in seguito all’iter formativo della convenzione, le parti politiche adottino rimedi idonei ad impedire che la soluzione concordata si trasformi in un exemplum, ad cuius similitudinem aliquod fieri potest.

Significativo appare, in tal senso, il caso del cosiddetto colpo di mano di Sutri (Liv., 7.16.7-8) del 357 a.C[30].

In quella circostanza, come é noto, il console Gneo Manlio fece votare ai suoi soldati, riuniti per tribù in castris, una proposta con la quale si istituiva un’imposta del 5% sul valore dello schiavo manomesso. Il senato, tenuto conto del vantaggio finanziario della deliberazione, concesse l’auctoritas: quia ea lege haud parvum vectigal inopi aerario additum esset. I tribuni della plebe, pur non essendo contrari al contenuto ed allo scopo del provvedimento, temendo che il procedimento adottato a Sutri (votazione tributim in castris) potesse costituire un pericoloso precedente (non tam lege quam exemplo moti), fecero votare un plebiscito, in forza del quale venne comminata la pena di morte a chiunque, in futuro, avesse osato ripetere l’anomala procedura adottata da Manlio a Sutri: ne quis postea populum sevocaret, capite sanxerunt.

 

 

 

8. SEGUE: CASISTICA

 

Le strutture organizzative ed i princìpi direttivi della libera res publica risultano introdotti, integrati o modificati in larga misura, alla luce della copiosa e variegata casistica ─ dei primi secoli, soprattutto, prescindendo qui dal periodo della crisi ─ da accordi, intese e compromessi fra organi supremi e/o parti politiche.

Prescindendo in questa sede dalle testimonianze storiche relative alla provocatio ad populum, all’auctoritas patrum ed al S.C. de Bacchanalibus ─ già addotte da Branca come banco di prova della sua ipotesi[31] ─ le convenzioni costituzionali più significative del periodo della libera res publica possono essere enucleate, alla luce dei profili terminologico-sostanziali della tradizione annalistica, in base allo schema seguente:

 

A) Per quanto attiene in particolare alle strutture e ai princìpi fondamentali del nuovo regime politico ─ temporaneità della suprema carica (Cic., de rep., 2.32.56); separazione fra funzioni sacrali e funzioni politico-militari (Dion. Hal., 5.1.4; Liv., 2.2.1); delimitazione della coercitio magistratuale (Cic., de rep., 2.31.54); lectio e conscriptio senatus (Liv., 2.1.10-11); ius iurandum populi «neminem Romae passuros regnare» (Liv., 2.1.8-11; 2.2.5; Dion. Hal., 5.5.1) ─ la fattualità del loro processo formativo è fuori discussione. Specificamente, si tratta di una fattualità imputabile non soltanto a comportamenti di rilevanti personalità politiche (G. Bruto, P. Valerio, T. Larcio, L. Valerio Potito, M. Orazio Barbato, etc.), ma anche ad accordi ed equilibri fra forze politiche. S’inseriscono, appunto, in quest’ottica tanto il rilievo di Tito Livio, secondo cui le riforme istituzionali innescate dalla cacciata dei Tarquini favorirono la concordia dei cittadini e la buona armonia fra patrizi e plebei: «Id mirum quantum profuit ad concordiam civitatis iungendosque patribus plebis animos» (Liv., 2.1.11); quanto l’affermazione di Cicerone, secondo cui nei primi tempi della libera res publica tutto era controllato con grande autorità dagli ottimati con l’acquiescenza del popolo: «omnia summa cum auctoritate a principibus cedente populo tenebantur» (de rep., 2.32.56).

 

B) Secessione plebea e conseguenti accordi politici fra patriziato e plebe.

 

La tradizione annalistica (liviana ed alicarnassense, soprattutto) si sofferma non poco sulle complesse trattative che seguirono alla notissima secessione plebea degli inizi del V secolo a.C., nel corso di accesi dibattiti in senato ed in conciones (Liv., 2.32.1-12; Dion. Hal., 6.50-84). Al termine delle animate discussioni si pervenne, con il determinante apporto di Menenio Agrippa (Liv., 2.32.8-12; Dion. Hal., 6.83-84; Flor., 1.17[23].1.2), ad un accordo, che fu raggiunto, secondo la versione liviana[32], a queste condizioni: che i plebei avessero propri magistrati inviolabili, ai quali spettasse il diritto di intervento contro i consoli (o, più verosimilmente, contro il magister populi), e che a nessuno dei patrizi fosse lecito assumere questa magistratura:

 

«Agi deinde de concordia coeptum, concessumque in condiciones, ut plebi sui magistratus essent sacrosanti, quibus auxilii latio adversus consules essent, neve cui patrum capere eum magistratum liceret» (Liv., 2.33.1).

 

C) Istituzione e composizione del Decemvirato legislativo.

 

La tradizione annalistica e la storiografia giuridica descrivono e qualificano ─ in termini sostanzialmente convergenti ─ l’innovazione istituzionale del 451 a.C., consistente nella surrogazione del decemvirato alle magistrature ordinarie (Liv., 3.33.1: «iterum mutatur forma civitatis….ad decemviros…venerat, translato imperio»), come “risultato politico” di accordi ed equilibri fra organi costituzionali (senato, magistrati patrizi, tribuni della plebe) e gruppi sociali (patriziato e plebe). Esplicite sono, in tal senso le attestazioni di Livio (3.32-33), Dionigi di Alicarnasso (10.54-57), Pomponio (D. 1.2.2.4) e Gaio (nella versione di Giovanni Lido 1.43):

 

─ Liv., 3.32.6-7: «Placet creari decemviros sine provocatione, et ne quis eo anno alius magistratus esset. Admiscerenturne plebei controversia aliquamdiu fuit; postremo concessum patribus, modo ne lex lulia de Aventino aliaeque sacratae leges abrogarentur»;

─ Dion. HaI., 10.55.3-4 (proposta di Appio Claudio, condivisa da organi e gruppi politici);

─ Pomp., D. 1.2.2.4 (l.s. ench.): «Placuit publica auctoritate decem constitui viros, per quos… civitas funderetur legibus». (cfr. pure D. 1.2.2.24: «Et cum placuisset leges quoque ferri, latum est ad populum, uti omnes magistratu se abdicarent, quo decemviri constitui anno uno»);

─ Lid., de magistr., 1.34: «Il giurista Gaio, dopo la questura[33], descrive la magistratura decemvirale, secondo la traduzione, con queste parole: ‘A causa della gran confusione delle leggi, poiché non erano scritte, essendo cresciuta la discordia fra i magistrati e la plebe, tutte le magistrature furono soppresse per volontà comune del senato e del popolo, e la cura dello Stato fu affidata a soli dieci uomini» [trad. it. G. Labruna, Mutatur forma civitatis, Catania 1994, p. 93].

 

D) Accordo de conubio ed istituzione del tribunato militare con potestà consolare.

 

L’accordo de conubio, frutto di un compromesso politico, costituisce, come è noto, un momento ed un aspetto della dialettica politica relativa alla partecipazione dei plebei alla suprema magistratura ed ai munera militiae.

Annota, in proposito, Livio (4.6.3-4): «nec ante finis contentionum fuit, cum et tribunum acerrimum auctorem plebes nacta esset et ipsa cum eo pertinacia certaret, quam victi tandem patres ut de conubio ferretur concessere, ita maxime rati contentionem de plebeiis consulibus tribunos aut totam deposituros aut post bellum dilaturos esse, contentamque interim conubio plebem paratam dilectui fore».

Un corollario dell’accordo de conubio può essere considerato, in definitiva, la convenzione costituzionale in forza della quale venne istituto il tribunato militare con potestà consolare. In seguito a veti tribunizi, private riunioni di maggiorenti (consilia principum) e compromessi politici, si convenne di procedere alla elezione di tribuni militum consulari potestate, in sostituzione della suprema magistratura ordinaria: «Per haec consilia eo deducta est res, ut tribunos militum consulari potestate promiscue ex patribus ac plebe creari sinerent[34], de consulibus creandis nihil muteretur; eoque contenti tribuni, contenta plebs fuit» (Liv., 4.6.8)[35].

 

E) «Initium censurae, magis necessarii quam speciosi ministerii procuratio» (Liv., 4.8.2-7).

 

Le origini della censura, sorta come magistratura di modesto rilievo («parva res»: Liv., 4.8.2), sono connesse a ragioni di efficienza della gestio rei publicae (necessità di esonerare i consoli da una ‘res speciosa’, qual era il censimento), ampiamente analizzate in senato (443 a.C.) e sostanzialmente condivise dagli stessi tribuni della plebe, per non apparire contrari, in via di principio, persino in questioni di poco conto: «et, id quod tunc erat, magis necessarii quam speciosi ministerii procurationem intuentes, ne in parvis quoque rebus incommode adversarentur, haud sane tetendere» (Liv., 4.8.6).

 

F) Convenzioni de consule plebeio, de praetore urbano e de curuli aedilitate (Li., 6.42.9-12; 7.1; 7.6).

 

Nel 367 a.C., in seguito ad aspri contrasti politici, che avrebbero potuto provocare secessioni e guerre civili (Liv., 6.42.10), le discordie furono placate e la concordia ordinum venne ristabilita (Liv., 6.42.12) in conformità alle condizioni proposte dal dittatore M. Furio: il patriziato concesse alla plebe il console plebeo; la plebe concesse al patriziato l’unico pretore con il compito di ius dicere in urbe: «per dictatorem condicionibus sedatae discordiae sunt concessumque ab nobilitate plebi de consule plebeio, a plebi nobilitati de praetore uno, qui ius in urbe diceret, ex patribus creando» (Liv., 6.42.11).

L’intesa venne estesa all’elezione di due edili curuli. Tuttavia, poiché i tribuni mal sopportavano che, in cambio di un console plebeo, i patrizi avessero ottenuto tre magistrati patrizi ed avendo avuto il senato ritegno ad imporre che si eleggessero gli edili curuli fra i patrizi, si convenne che gli edili fossero reclutati ad anni alterni dalla plebe; in seguito non si fece alcuna distinzione: «non patientibus tacitum tribunis quod pro consule uno plebeio tres patricios magistratus curulibus sellis praetextatos tamquam consules sedentes nobilitas sibi sumpsisset, praetorem quidam etiam iura reddentem et collegam consulibus atque iisdem auspiciis creatum, verecundia inde imposita est senatui ex patribus iubendi aediles curules creari. Primo ut alternis annis ex plebe fierent convenerat: postea promiscuum fuit» (Liv., 7.1.5-6).

Per quanto attiene, in particolare, all’accordo ‘de consule plebeio’, è da sottolineare che quest’ultimo diede vita ad un “precedente” fortemente contestato sino al 321 a.C., come possiamo evincere dal fatto che soltanto a partire dal 320 a.C. riuscirà a consolidarsi definitivamente nella prassi costituzionale.

 

G) Cursus honorum: cumulo, iterazione, intervallo, tempus ad petendum.

 

I princìpi fondamentali in tema di cursus honorum affondano le radici in exempla e convenzioni che si vennero progressivamente consolidando nella prassi prima della loro formalizzazione (e parziale integrazione: certus ordo magistratuum) legislativa, in forza soprattutto della lex Villia del 180 a.C. (Liv., 40.44.1) e della lex Cornelia de magistratibus dell’81 a.C.

In particolare, il fondamento convenzionale dei princìpi relativi al cumulo ed al divieto di iterazione può essere desunto da una puntuale osservazione di Tito Livio in ordine ad una serie di plebisciti proposti dal tribuno Lucio Genucio (che non fosse lecito prestare denaro ad interesse; che a nessuno fosse lecito assumere la stessa carica entro 10 anni; che nessuno esercitasse due magistrature nello stesso anno; che fosse consentita l’elezione di due consoli plebei) nel contesto della sedizione plebea del 342 a.C.:

«Quae si omnia concessa sunt plebi, apparet haud parvas vires defectionem habuisse» (Liv., 7.42.2).

Orbene, il termine ‘concedere’ sottende ed implica un rapporto di forza sfociato, concordiae causa, nell’adozione di soluzioni imposte da ragioni di opportunità politica[36].

Il consolidamento di tali princìpi nella prassi trova conferma, per quanto attiene specificamente al divieto di iterazione, nel punto di vista dei tribuni della plebe del 217 a.C., i quali, in contrasto con il punto di vista del dittatore Q. Fulvio, «neque magistratum continuari satis civile esse aiebant» (Liv., 27.6.4).

La natura convenzionale dell’intervallo biennale, verosimilmente introdotto da accordi-exempla, può essere dedotto da una lettera di Cicerone del Maggio-Giugno del 43 a.C., nella quale ricorre la locuzione ‘tempus quasi legitimum ad petendum’, che allude inequivocabilmente alla formazione consuetudinaria della regola, commisurabile, per quanto attiene alla sua efficacia, a quella propria della legge comiziale.

 

H) Dictatoris dictio ex plebiscito (210 a.C.: Liv., 27.5.15-19).

 

Un rilevante “caso” di convenzione costituzionale é dato dall’episodio della dictatoris dictio ex plebiscito del 210 a.C.: rilevante nella misura in cui documenta l’efficacia derogativa e disapplicativa degli accordi costituzionali nei confronti di precedenti e contrastanti consuetudini costituzionali.

L’episodio s’inserisce nelle complesse vicende politico-militari della seconda guerra punica, che avevano impegnato entrambi i consoli in carica, Marco Claudio Marcello e Marco Valerio Levino. Nell’imminenza dei comizi consolari per l’anno 209 a.C., il senato, in un primo tempo, aveva deliberato di richiamare a Roma M. Caudio Marcello, il quale precisò per lettera che riteneva dannoso per la res publica allontanarsi da Annibale, anche di una sola orma di piede (Liv., 27.4.1). Parve, quindi, miglior soluzione richiamare dalla Sicilia il console M. Valerio Levino (Liv., 27.4.3-4). Quest’ultimo, dopo essere rientrato a Roma, svolse in senato una dettagliata relazione sulla situazione militare in Africa. Ascoltata la relazione, il senato ritenne che le particolari esigenze belliche non avrebbero consentito al console di fermarsi a Roma per convocare e presiedere i comizi consolari. Invitò, pertanto, il console a provvedere alla nomina di un dittatore con l’esclusivo compito di convocare e presiedere i comizi consolari (dictator comitiorum habendorum causa). Poiché il console dichiarò che avrebbe proceduto alla nomina del dittatore in Sicilia, ed i senatori obiettavano che non era ammissibile la dictatoris dictio extra Romanum agrum (Liv., 27.5.15), il tribuno della plebe M. Lucrezio sollevò espressamente in senato la questione. Il senato deliberò che il console, prima di allontanarsi dall’Urbe, «populum rogaret quem dictatorem dici placeret, eumque quem populus iussisset diceret dictatorem; si consul noluisset, praetor populum rogaret; si ne is quidem vellet, tum tribuni ad plebem ferrent» (Liv., 27.5.16). Ma, avendo il console precisato che non avrebbe presentato la rogatio al popolo, per il fatto che la nomina del dittatore rientrava nella sfera della propria competenza e che avrebbe, altresì, proibito al pretore (s’intende, in forza della maior potestas) di presentare la relativa proposta al popolo, i tribuni della plebe proposero e la plebe approvò che fosse nominato dittatore Q. Fulvio, che si trovava a Capua (Liv., 27.5.17). Partito di nascosto il console, notte tempo, il senato rivolse l’invito all’altro console, M. Claudio Marcello, a recarsi a Roma ed a nominare dittatore «quem populus iussisset» (Liv., 27.5.18): «Ita a M. Claudio consule Q. Fulvius dictator dictus, et ex eodem plebis scito ab Q. Fulvio dictatore P. Licinius Crassus pontifex maximus magister militum dictus» (Liv., 27.5.19).

excursus liviano prova, in modo inequivoco, che la disceptatio in ordine alla dictatoris dictio extra Romanum agrum venne composta in base ad un accordo fra senato, tribuni, concilia e console, che se ribadiva, da un lato, il risalente principio della dictatoris dictio in agrum Romanum, introduceva, dall’altro, contra mores institutaque maiorum, una rilevante deroga alla tradizionale configurazione della dictatoris dictio come precipua prerogativa istituzionale del consolato («suae potestatis esset»: Liv., 27.5.17; cfr. Liv., 8.23.15; 9.38.14; Varr., de l. l., 5.14.82).

 

I) Elezione del presidente dei comizi elettorali (a. 210 a.C.: Liv., 27.6.4-9).

 

Un secondo, non meno significativo, caso di “convenzione costituzionale” è attestato da Livio nel contesto degli eventi dell’anno 210 a.C., già sopra richiamato.

Nel corso dello svolgimento dei comizi centuriati per l’elezione dei consoli dell’anno 209 a.C., convocati e presieduti dal già menzionato dictator comitiorum habendorum causa, Q. Fulvio, la centuria prerogativa aveva designato Q. Fulvio e Q. Fabio (Liv., 27.6.3), ma i tribuni della plebe C. e L. Arrenio posero il veto, ritenendo incompatibile con i princìpi costituzionali («satis civile esse») l’elezione di un magistrato in carica («magistratum continuari») e, a fortiori ─ cosa assai più grave ─, di colui che presiedeva i comizi («eum ipsum creari, qui consilia haberet»: Liv., 27.6.4). Il principio, oggetto del rilievo tribunizio, era ovviamente quello in base al quale ‘ne semet ipsum creare posset’: principio mai disatteso, come sottolinea altrove lo stesso Livio («nemo umquam fecisset»: Liv., 3.35.8).

Al termine di un acceso dibattito, nel corso del quale il dittatore aveva tentato di avallare l’orientamento comiziale con l’autorità del senato, nonché con plebisciti e precedenti (Liv., 27.6.6-9), i tribuni convennero con lo stesso dittatore di rimettere la soluzione al senato. I senatori ritennero che le circostanze politico-militari del momento imponevano che la cura dei supremi interessi dello Stato fosse affidata ad anziani ed esperti condottieri. I comizi vennero, quindi, tenuti regolarmente con l’assenso degli stessi tribuni, e risultarono eletti Q. Fabio Massimo, per la quinta volta, e Q. Fulvio Flacco, per la quarta volta:

 

Liv., 27.6.9-11: «His orationibus cum diu certatum esset, postremo ita inter dictatorem ac tribunos convenit, ut eo, quod censuisset senatus, staretur. 10. Patribus id tempus rei publicae visum est, ut per veteres et expertos bellique peritos imperatores res publica gereretur: itaque moram fieri comitiis non placere. 11. Concedentibus tribunis comitia habita; declarati consules Q. Fabius Maximus quintum Q. Fulvius Flaccus quartum».

 

L’episodio conferma pienamente la peculiare efficacia derogatoria che veniva comunemente attribuita e riconosciuta, in sede di ‘contentio de iure publico’[37], alle convenzioni costituzionali rispetto a risalenti e consolidate “regole costituzionali”, qual era appunto, nel caso di specie, quella in base alla quale «ne semet ipse creare posset» (Liv., 3.35.8).

 

9. FORMAZIONE E CONSOLIDAZIONE DI REGOLE CONSUETUDINARIE ATTRAVERSO L’ IMPIEGO INVETERATO DI EXEMPLA.

 

Si è già avuto modo di precisare (supra, § 5) che la formazione e la consolidazione di regole consuetudinarie affonda le radici nella prassi (usus), correlata alla progressiva stabilizzazione di exempla (precedenti).

La storia costituzionale della libera res publica offre, infatti, accanto ad un’ampia casistica di convenzioni costituzionali (supra, § 8), anche una variegata gamma di regole consuetudinarie, che, nel loro insieme, alimentano la ‘disceptatio de iure publico’, nella misura in cui fungono da “parametri costituzionali”, sia nell’emersione che nella composizione delle controversie costituzionali, correlate pur sempre agli interessi economici e politici ed ai connessi legami di ordine ideologico, propri delle diverse ‘formazioni sociali” (necessitudines), che concorrono a comporre la realtà costituzionale della libera respublica.

Illustrando il ruolo costituzionale dei precedenti (supra § 4), della prassi (supra § 5) e delle convenzioni costituzionali (supra § 6-8), ho avuto già modo di richiamare, in termini più o meno espliciti, gli enunciati delle seguenti regole consuetudinarie: ‘honorem statuae ei qui ferro in legatione interfectus esset, tribuendum est’ (supra § 4), ‘ius introeundi in senatum’ (supra § 5), ‘ne quis populum sevocaret’ (supra § 7), ‘ne semet ipsum creare posset’ (supra § 8 sub I), ‘dictio dictatoris in Romanum agrum’ (supra § 8 sub H), ‘certus ordo magistratuum’, ‘ne magistratum continuari satis civile esse’ (supra § 8 sub G).

Ho altresì anticipato che le regole consuetudinarie, intese ed assunte come regole descrittive ed orientative (supra § 5) scaturiscono dal reiterato impiego e dalla progressiva stabilizzazione dei precedenti nella prassi (supra § 3). Procederò ora all’esame di alcune “regole” esplicitamente configurate nelle fonti, con specifico riguardo al loro iter formativo, come ‘consuetudines’. Mi riferisco, in particolare, al vetustum ius sacerdotii di ‘in senatum introiri’, al rapporto census-dilectus, al binomio ‘iussum populi-auctoritas patrum’.

 

A) Del vetustum ius sacerdotii, oggetto di una contentio esplosa, nel 209 a.C., fra il Flamen Dialis C. Valerio Flacco ed il pretore P. Licinio, mi sono già occupato in sede di esame del ruolo costitutivo della prassi (supra § 5).

Mi sembra, pertanto sufficiente ribadire qui che i contrapposti punti di vista di Flacco e Licinio circa le modalità di accertamento degli exempla e la necessità della persistenza o meno della prassi convergono su un punto fondamentale: la configurazione della ‘consuetudo’ come regola descrittiva fondata sulla stabilizzazione della prassi, ancorché quest’ultima possa essere vetustissima o recentissima.

 

B) Per quanto attiene alla regola consuetudinaria afferente al rapporto ‘census-dilectus’ è di notevole rilievo il seguente brano dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo:

 

Val. Max., Facta et dicta memor., 2.3.1: «Laudanda etiam populi verecundia est, qui inpigre se laboribus et periculis militiae offerendo dabat operam ne imperatoribus capite censos sacramento rogare esset necesse, quorum nimia inopia suspecta erat, ideoque his publica arma non committebant. Sed hanc diutina usurpatione formatam consuetudiem C. Marius capite censum legendo militem abrupit».

[E’ anche da lodare la discrezione del popolo, il quale, offrendosi operativamente alle fatiche ed ai pericoli della milizia, faceva sì che i generali non coinvolgessero nel servizio militare i nullatenenti, la cui estrema povertà suscitava sospetti; pertanto a costoro non veniva affidato il servizio militare. Ma C. Mario interruppe questa consuetudine, fondata su una prassi inveterata, procedendo all’arruolamento dei proletarii].

 

Nel trascritto brano Valerio Massimo configura come regola consuetudinaria il risalente e consolidato raccordo funzionale fra census e dilectus: raccordo travolto dalla riforma mariana della leva militare, che avviò una nuova e diversa regola consuetudinaria in tema di dilectus[38].

 

C) Con riferimento alla regola consuetudinaria afferente al binomio ‘iussum populi-auctoritas patrum’ assume particolare rilievo il seguente brano del Commento di Servio ‘Ad Aeneidem’ (scritto verosimilmente fra il 420 ed il 430 a.C.), già peraltro richiamato da Branca nei suoi “Appunti”[39] a sostegno dell’ipotesi ─ dedotta, in particolare, da Liv., 7.17.6-9 ─ che, ancor prima del 339 a.C., l’auctoritas potesse essere preventiva, nel senso che la deliberazione dei senatori “solo plerumque interveniva dopo il voto del popolo”:

 

Serv., ad Aen., 9.190: «“Populusque patresque” transfert in Troianos Romanam consuetudinem, ut solet plerumque: prius enim iubebat aliquid populus, postea confirmabat senatus». [“Il popolo ed i senatori”: trasporta in ambiente troiano la consuetudine Romana, comunemente osservata: prima infatti il popolo deliberava qualcosa, che il senato poi confermava].

 

Le parole ‘populusque patresque’, oggetto del commento serviano, fanno parte del discorso rivolto da Niso ad Eurialo (entrambi seguaci di Enea) nel contesto dello scontro fra i Rutuli ed i Troiani: ‘Aenean acciri omnes, populusque patresque, exposcunt’ [Tutti, popolo e senatori, richiedono che Enea sia richiamato].

Dopo aver osservato che Virgilio ha, in ultima analisi, trasportato in ambiente troiano una formula tipicamente romana, Servio ha cura di precisare che tale formula si traduce in una regola orientativa che non esclude affatto il ricorso a soluzioni diverse. Mi sembra esattamente questo il senso della frase ‘ut solet plerumque’.

 

 

10. RIPLESSIONI CONCLUSIVE

 

Al termine di questo excursus su precedenti, convenzioni, prassi e regole consuetudinarie nel contesto delle strutture organizzative della libera res publica mi sembra utile richiamare l’attenzione su un notissimo brano del libro 84 Digestorum di Salvio Giuliano, inserito dai compilatori giustinianei nel titolo ‘De legibus senatusque consultibus et longa consuetudine’ dei Digesta:

 

D. 1.3.32.1 (Iul., 84 dig.): «Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur…Nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit, tenebunt omnes: nam quid interest suffragio populus voluntatem suam declaret an rebus ipsis et factis? quare rectissime etiam illud receptum est, ut leges non solum suffragio…sed etiam tacito consensu omnium per desuetudinem abrogentur».

 

Del brano, oggetto di due diverse interpretazioni storico-ricostruttive, proposte rispettivamente da Antonio Guarino e da Filippo Gallo, mi sono occupato anch’io in un recente contributo in onore del Prof. Gallo, qui presente[40].

In questa sede mi limiterò soltanto a sottolineare:

a) che l’efficacia vincolante delle leggi e delle consuetudini (nos teneant) risiede essenzialmente nel loro radicamento nella prassi sociale (quod iudicio populi receptae sunt);

b) che le leggi e le consuetudini costituiscono diverse, ma equivalenti, manifestazioni della volontà popolare, non avendo rilievo alcuno il fatto che quest’ultima venga attuata suffragio ovvero rebus ipsis et factis;

c) che l’equivalenza fra leggi e consuetudini comporta che le prime possono essere abrogate anche per desuetudine;

d) che la realtà sociale costituisce, nell’ambito dell’esperienza giuridica della libera res publica ─ ed in parte del primo principato ─ una sorta di “magma giuridico” (giuridicità latente: supra § 2), da cui il iuris peritus enuclea, in sede d’interpretatio, le regole descrittive ed orientative (giuridicità formalizzata: supra § 2): regole, queste, che acquistano pregnanza e certezza proprio grazie alla funzione ‘determinativa’ dell’interpretatio prudentium (Iul.,  D. 1.3.11)[41].

Note:

[1] F. VIOLA-G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Bari 1999.

[2] Di realtà “filtrata” dai giuristi parla R. ORESTANO, Rapporti, norme ed elaborazione nella scienza del diritto. Linee per una descrittiva, in Annali Macerata (1982), pp. 152 ss.

[3] R. ORESTANO, Norma statuita e norma statuente. Contributo alle semantiche di una metafora, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XIII, n. 2 (1993), pp. 313 ss.

[4] Sul punto rinvio a quanto ho precisato in Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana3,  Torino 1996, pp. 50 ss.

[5] L’unico limite al potere legislativo del sovrano é dato dalla legge divina. In tal senso J. BODIN, Les six livres de la République, 1576, trad. it. I sei libri dello Stato di J. Bodin, a cura di I. PARTENI, vol. I, Capo VIII, Torino 1964, rist. 1998, pp. 345 ss.

[6] P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 60 ss.

[7] Cic., de leg., 2.1 «rerum usu ac vetustate»; Liv., 27.8.9 «consuetudinis usu»; Cic., pro Caec., 16.45 «multis in rebus usitatis».

[8] Cic., in Verr., II,  3.90.210: «ea quae probat populus Romanus exempla, non quae condemnat sequamur»; Res Gestae Divi Aug., 8.5: «Legibus novis me auctore latis multa exempla maiorum exolescentia iam ex nostro saeculo reduxi et ipse multarum rerum exempla imitanda posteris tradidi»; Cic., de re publ., 2.17.31: «isque (T. Hostilius) de imperio suo exemplo Pompili populum consuluit curiatim».

[9] Cfr. praecipue A. V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution3, London 1959, pp. 417 ss.; G. TREVES, Convenzioni costituzionali, in Enc. dir., vol. X , 1962, pp. 524 ss.

[10] G. U. RESCIGNO, Le convenzioni costituzionali, Padova 1972, p. 10.

[11] G. BRANCA, Convenzioni costituzionali e antica repubblica romana, in AA.VV., Scritti in onore Massimo Severo Giannini, vol. I, Milano 1988, pp. 75 ss., ripubblicato in Diritto e storia. L’esperienza giuridica di Roma attraverso le riflessioni di antichisti e giusromanisti contemporanei. Antologia a cura di A. Corbino, Padova 1995, pp. 85 ss

[12] Alcuni Appunti di G. Branca sulle “convenzioni costituzionali” nell’antica Roma, a cura di L. GAROFALO, V. MANNINO e L. PEPPE, in BIDR, 30 (1988), pp. 689 ss .

[13] In conformità alla più ampia accezione del termine ‘exemplum’: v., in proposito, FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, sub voce ‘exemplum’, p. 347.

[14] Sul profilo formale e sostanziale (assiologico) del parametro di costituzionalità v., da ultimo, con specifico riguardo alla moderna dottrina costituzionalistica, S. PAJNO, L’integrazione comunitaria del parametro di costituzionalità, Torino 2001, pp. 17 ss.

[15] Sull’utilitas come fondamento e giustificazione di ‘nova exempla’, v. praecipue Liv., 4.4.1: «Nullane res nova institui debet? et quod nondum est factum…ea ne si utilia quidem sunt fieri oportet?».

[16] Sul consensus v., in particolare, Cic., in Verr., II, 3.90.210, citato supra, nt. 8. V. pure Liv., 4.6.8: «contenti tribuni, contenta plebs fuit»; Liv., 27.8.10: « Magnu adsensu patrum plebisque».

[17] Depongono in tal senso, sotto il profilo positivo (legittimità rituale), locuzioni del tipo: «exempla sumere» (Cic., de imp. Gn. Pomp., 15.44); «exemplis tuemur» (Tac., Ann., 11.5.7); «dictator causam comitiorum. . . exemplis tutabatur» (Liv., 27.6.6); «ad maiorum exempla revocare» (Cic., pro Planc,. 5.12); «omnium fere exemplo» (Cic., Ad fam., 2.15.4); «potentissimorum duorum exemplo» (Cic., Ad fam., 2.15.4); sotto il profilo negativo (illegittimità rituale), espressioni quali: «exempla corrumpere» (Cic., pro rege Deit. 12.32); «contra exempla» (Cic., de imp. Gn. Pomp., 20.60); «quod umquam ante factum erat» (Liv., 22.8.5; Cic., de leg., 3.9.20).

[18] Liv., 4.7.5: «nec exemplo…fieret»; Cic., de imp. Gn. Pomp., 20.60: «Ne quid novi fiat contra exempla…maiorum»; Cic., in Verr., II, 3.50.102: «aliorum exemplo…fecisse»; Caes., de bello Gall., 1.8.3: «negat se…exemplo populi Romani posse iter ulli per provinciam dare».

[19] Nel processo formativo di tale ius occorre distinguere il momento iniziale (actus instituendi), coincidente con l’«exemplum Numae Pompili» (Varr., de l.l., 7.3.45), dalla successiva prassi.

[20] La frase liviana riecheggia il celebre verso di Ennio «moribus antiquis res stat Romana virisque» (Ann., 500), su cui rinvio a quanto ho avuto modo di precisare in Potere ed ordinamento, cit., pp. 107 ss.

[21] Cfr. supra, nt. 19.

[22] Preciso in tal senso quanto ho sostenuto in Breviter su Iul. D.1.3.32 (Riflessioni sul trinomio lex, mos, consuetudo), in AA.VV., Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al prof. P. Gallo, vol. I, Napoli 1997, pp. 130 ss.

[23] Convenire: Liv., 27.6.9: «inter dictatorem ac tribunos convenit»; 28.9.4: «inter consules…convenit»; 6.15.4: «Mihi patribusque Romanis ita de ceteris rebus cum plebe conveniat»; 7.1.6: «Primo ut alternis annis ex plebe fierent (aediles) convenerat»; 3.31.8: «de legibus conveniret»; 5.17.5: «comitia interpellantibus tribunis plebis donec convenisset prius ut maior pars tribunorum militum ex plebe crearetur»; 30.40.12: «Patres igitur iurati -ita enim convenerat- censuerunt uti consules provincias inter se compararent»; 2.23.14: «non modo inter patres sed ne inter consules quidem ipsos satis conveniebat» (profilo negativo: mancato accordo).

[24] Comuniter edicere: Liv., 3.21.8: «Communiter inde edicunt (consules) ne quis L. Quinctium consulem faceret». Placere: Liv., 3.32.6: «Placet creari decemviros sine provocatione»; Pomp., D. 1.2.2.4: «Placuit publica auctoritate decem constitui viros». Concedere: Liv., 2.33.1: «concessum in condiciones ut plebi sui magistratus essent sacrosancti»; 3.32.7: «Postremo concessum patribus, modo ne lex Icilia de Aventino aliaque sacratae leges abrogarentur»; 6.42.11: «concessum ab nobilitate plebi de consule plebeio, a plebe nobilitati de praetore»; 27.6.11: «Concedentibus tribunis»; 7.42.2: «Quae si omnia concessa sunt plebi, apparet haud parvas vires defectionem habuisse»; 4.6.3: «ne ante finis contentionum fuit…quam victi tandem patres de connubio ferretur concessere». Cfr. pure Cic., de rep., 2.32.56: «omnia summa cum auctoritate a principibus cedente populo tenebantur». Sinere: Liv., 3.31.7: «legum latores…sinerent creari»; 4.6.8: «Per haec consilia eo deducta est res, ut tribunos militum consulari potestate promiscue ex patribus ac plebis creare sinerent». De concordia agere: Liv., 2.33.1: «Agi deinde de concordia coeptum» (apologo di M. Agrippa); 3.33.8: «Et in unica concordia inter ipsos» (Decemviri); 7.21.4: «Patres.. concordiae causa observare legem Liciniam comitiis consularibus iussere»; 5.7.1: «concordiam ordinum maiorem…Veios fecit»; 6.42.12: «Ita ab diutina ira tandem in concordiam redactis ordinibus». Magnus adsensus: Liv., 27.8.10: «magnu adsensu patrum plebisque»; 5.9.7: «cum omnium adsensu comprobata oratio esset». Omnibus existimantibus: Liv., 27.8.10: «omnibus ita exist…magis sanctitate vitae quam sacerdotii iure eam rem flaminem obtinuisse». Consensus omnium: Liv., 5.9.8: «Magistratus, victi consensu omnium, comitia tribunorum militum habuere».

[25] Liv., 6.30.3; 8.22.9; 25.41.10; 30.40.12; 32.8.2; 40.17.8; 4.26.11.

[26] L’episodio, di discussa storicità, risale al 460 a.C. Sulla facoltà di non renuntiare v. Gell., N.A., 7.9.1; Vell., 2.92.4; Val. Max., 3.8.3; Liv., 8.15.9.

[27] Sul brano A. PETRUCCI, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996, pp. 92 e 150 ss.

[28] Liv., 2.33.1; 3.32.6-7; 4.6.3-8; 5.7.1; 5.9.8; 6.15.4; 6.42.11-12; 27.8.10.

[29] In proposito P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 129 ss.

[30] Sul punto A. DI PORTO, Il colpo di mano di Sutri e il plebiscitum de populo non sevocando (A proposito della lex Manlia de vicesima manumissionum), in AA.VV., Legge e società nella repubblica romana, vol. I, Napoli 1981, pp. 307 ss.

[31] Per l’auctoritas patrum v. infra, § 9. Per la provocatio ad populum mi limito qui a richiamare l’interessante osservazione di Livio, secondo cui «causam renovandae saepius haud aliam fuisse reor, quam quod plus paucorum opes quam libertas plebis poterat» (10.9.4). In proposito P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 153 ss. e nt. 98; L. GAROFALO, Appunti sul diritto criminale nella Roma monarchica e repubblicana, Padova 1997, p. 198. Quanto al S.C. de Bacchanalibus, il valore “precettivo” del suo contenuto trova la sua ragion d’essere nel magnus terror e nel generale assenso che l’inchiesta e l’istruttoria sulle associazioni segrete, che si erano diffuse rapidamente dall’Etruria a Roma «velut contagione morbi» (Liv., 39.9.1), avevano suscitato nell’opinione pubblica al termine della dettagliata relazione svolta, in concione, dal console Postumio (Liv., 39.15-16). Assenso rafforzato, peraltro, dalla successiva lettura del testo del S.C. (Liv., 39.17.1) e poi consolidatosi con il plebiscito confermativo delle misure premiali disposte dal senato (Liv., 39.19.7). Sul testo epigrafico del S.C. vedi B. ALBANESE, Per l’interpretazione del S.C. de Bacchanalibus (186 a.C.), in AA.VV., Vincula iuris. Studi in onore di Mario Talamanca, vol. I, Napoli 2001, pp. 3 ss. Sui provvedimenti premiali P. CERAMI, ‘Accusatores populares’, ‘Delatores’, ‘Indices’. Tipologia dei “collaboratori di giustizia” nell’antica Roma, in AUPA, 45.1 (1999), pp. 166 ss.; e in INDEX, 26 (1998), pp. 130 ss.

[32] I profili pattizi della vicenda ricorrono pure nella versione alicarnassense, a conclusione del discorso di Menenio Agrippa: «I pegni che garantiranno questi patti e che vi daranno la sicurezza sono tutti quelli che le leggi e la tradizione stabiliscono per chi pone fine ad una inimicizia. Il senato conformerà con una votazione e convaliderà legalmente gli accordi che avremo steso per iscritto. Piuttosto si scrivano qui di vostro pugno le vostre richieste ed il senato le accetterà. Del fatto poi che le concessioni fatte ora siano definitive e che in seguito il senato non proporrà qualcosa di contrario, siamo garanti in primo luogo noi ambasciatori…., in secondo luogo tutti i senatori che saranno indicati per iscritto nel decreto» (Dion. Hal., 6.84.1-2).

[33] Verosimilmente, Gaio trattava dell’argomento nel suo Commentario Ad legem XII tabularum, esplicitamente citato da Lido in de mag., 1.86. Sul rapporto fra i due brani e sulla controversa questione delle “fonti” di Lido v. J. CAlMI, Burocrazia e diritto nel De magistratibus di Giovanni Lido, Milano 1984, pp. 160 ss. (con citazione ed analisi della lett.).

[34] Risultarono eletti soltanto patrizi. Significativo appare, sotto questo profilo, il commento di Livio: «Eventus eorum comitiorum docuit alios animos in contentione libertatis dignitatisque, alios secundum deposita certamina incorrupto iudicio esse» (4.6.11).

[35] Cfr. Dion. Hal., 11.56-61.

[36] Sul contenuto e sulle finalità dei plebisciti proposti da L. Genucio v. L. FASCIONE, La legislazione di Genucio, in AA.VV., Legge e società nella repubblica romana, a cura di F. SERRAO, vol. II, Napoli 2000, pp. 179 ss., il quale sottolinea opportunamente l’impiego liviano del verbo ‘concedere’ come termine denotativo «dell’atto finalmente remissivo degli ottimati nei confronti della richiesta plebea» (p. 203).

[37] P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 62 ss (pp. 65 ss., per quanto attiene, in particolare, al brano liviano).

[38] Sul punto P. CERAMI, Breviter su Iul. D.1.3.32, cit., p. 132.

[39] In BIDR, 30 (1988) (cit., supra, nt. 12), p. 697.

[40] P. CERAMI, Breviter su Iul. D.1.3.32, cit., pp. 118 ss.

[41] Sul punto P. CERAMI, Potere ed ord., cit., p. 56.


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