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LETTURE   LONDINESI
di Salvatore  Riccobono
(maggio 1924)

“Diritto romano e diritto moderno”

a cura di Giuseppe Falcone

G. Giappichelli Editore – Torino
Palermo
febbraio 2004

 

 

Premessa

Per la loro natura e destinazione didattiche - ma a quanto alto livello! - queste pagine riccoboniane, oggi per la prima volta messe felicemente a disposizione degli studiosi secondo l'auspicio di Salvatore Riccobono jr. e per meritoria opera di Giuseppe Falcone, non contengono né esegesi particolareggiate, né prospettive innovative. Nel 1924 infatti, una significativa parte delle possenti indagini sulla stipulatio, sulla voluntas, sull'evoluzione storica del diritto romano postclassico e molti altri temi toccati in queste Letture Londinesi erano già da alcuni anni state scritte, ed erano venute a rivoluzionare, in modo mai sperimentato né prima né dopo, la scienza romanistica. Tuttavia non posso escludere che uno studio attento di questo testo riccoboniano possa scoprire, magari in una nota o in un cenno fugace, un quid novi da approfondire e sviluppare. Tanto è il talento, e anzi, per usare la parola esatta, tanto è il genio che si rivela con generosità in queste lezioni di sintesi.

 

Genio, ho detto, ed effettivamente in questa breve opera traspare ad ogni pagina una potenza intellettuale che lascia sorpreso anche un lettore che abbia studiato bene le testimonianze dell'attività del grande studioso. Una potenza intellettuale che si rivela in modo evidentissimo già nel modo tipico con cui anche qui Riccobono tratta le nostre fonti. È un modo che, per qualche verso, certamente corrisponde formalmente a quello che dovette essere il metodo dei Glossatori. Ogni testo è presente, vivissimo, alla mente dell'autore, che, non di rado fiducioso in una equivalente dottrina nei suoi ascoltatori (o lettori), richiama un frammento solo con menzione di una sua frase o singola parola. Io stesso ricordo con emozione quelle poche occasioni in cui, all'inizio dei miei studi, appena laureato, ebbi la fortuna di assistere ad esegesi svolte dal Riccobono nell antica sede del nostro glorioso e minuscolo Seminario Giuridico. Il Maestro, un paio di volte, mi pregò di passargli il Digesto giustinianeo aperto alla pagina «dove» ‑ diceva ad esempio ‑ «sa, Giuliano dice che nelle stipulazioni deducuntur species aut genera (ed alludeva a D.45.1.54 pr.), o «dove Papiniano distingue tra actio e petitio » (e pensava a D. 44. 7. 28). Ed io naturalmente nella mia abissale ignoranza di principiante ero costretto a chiedere l'indicazione numerica, che mi veniva fornita con un filo di impazienza. Credo che nessuno nel secolo scorso, in Italia o fuori, abbia conosciuto il Corpus iuris come lo conosceva Riccobono.

 

Ma il vigore intellettuale di cui ho parlato si rivela anche e soprattutto nell'inimitabile capacità di tracciare grandi sintesi approfondite su tutti i fondamentali temi toccati in queste pagine: la volontà negoziale, lo sviluppo del contratto e del patto in relazione alla conventio, la fusione nella prassi della cognitio extra ordinem tra ius civile, ius gentium, ius honorarium.

 

Ne viene fuori una trattazione sintetica che risulta ancora oggi affascinante per coerenza, lucidità e incisività. E per di più, data la sicura corrispondenza (certo in qualche misura, e non pedissequamente) tra queste pagine e le parole che furono effettivamente dette nelle “Letture”, si possono trovare straordinari modi espressivi che faranno conoscere Riccobono meglio di quanto avviene attraverso la conoscenza di altre sue opere di più severo impianto.

 

Porterò solo tre esempi. A pagina 24, sul piano delle riflessioni preli­minari sul presunto influsso delle scuole d'oriente sull'evoluzione del dirit­to romano, si leggono frasi come: «Queste conclusioni producono un senso di maraviglia e di sbigottimento», o «Alle affermazioni fantastiche di cui è piena la letteratura contemporanea è tempo di reagire con grande vigo­re» (pagina 25). A pagina 32, rileva che Giustiniano usa talvolta parole «forti e a volte volgari» ed ha «un atteggiamento sprezzante» per le «for­me antiche del ius civile e dello stesso ius honorarium». A pagina 43, ri­levata la «coincidenza sostanziale e verbale ... tra i testi ciceroniani e quel­li giuridici», in ordine al «contrapposto tra litterae, scriptum, verba, formula, da una parte e mens, velle, sentire, sententia, voluntas, opinio, animus, dall'altra», esclama: «Se la critica contemporanea l'ha ignorato, ne sconta la pena dacché è ridotta a brancolare tra le tenebre». Espressio­ni di pari o anche maggiore vivezza si leggono ad ogni passo.

 

Però quel che più conta, almeno a mio avviso, è un altro dato. Un'attenta lettura di queste mirabili lezioni è ancor oggi indispensabíle per chi voglia tentare di conoscere sinteticamente le prospettive generali della storia del diritto romano. Al di là della contingenza di certe polemiche, si può rilevare la permanenza della validità delle idee guida principali. E soprattutto si può conseguire facilmente, e direi gioiosamente, una visione d'insieme sui valori del diritto romano, anche e soprattutto per il nostro tempo. Un tempo che per alcuni versi apparentemente si allontana vertiginosamente dall'antico mondo del diritto di Roma, e che invece non può farne a meno, salvo che si voglia ridurre l'esperienza giuridica ad una pratica burocratica computerizzabile.

 

                                                                 Bernardo Albanese

 

 

 


 

Avvertenza

 

L’opera che si pubblica è il dettato delle lezioni sul tema “Diritto romano e diritto moderno”  tenute da Salvatore Riccobono a Londra nel mese di maggio del 1924 (l’invito ufficiale della University of London parla di  “two lectures” per i giorni mercoledì  28 e giovedì 29 maggio; tuttavia, a p. 111 compare un riferimento ad uno  “studio che insieme abbiamo compiuto nei giorni passati”, e ripetutamente Riccobono parla di “questo corso”: cfr. pp. 34, 55, 78 e 119).   Ne esistono due versioni manoscritte: una dello stesso Riccobono, redatta su colonne fitte di richiami, inserimenti interlineari, correzioni e limature, e spesso circondate da notazioni a margine; e una di Lauro Chiazzese, che ha ricopiato e ricomposto  in ordine il manoscritto del Maestro, e che peraltro è stata successivamente rivista dal Riccobono, il quale vi ha inserito alcune  aggiunte.  Di quest’ultima versione esiste una traduzione in lingua inglese, letta dal Riccobono nell’University College of London. Un primo controllo  comparativo delle due predette versioni manoscritte  è stato da me effettuato  insieme con Salvatore Riccobono jr., devoto e appassionato custode della memoria dello zio.

Il titolo “Letture Londinesi” è quello indicato dal Riccobono stesso in espliciti e ripetuti rinvii presenti  in uno studio concluso nel 1925 e  pubblicato l’anno successivo nei  Mélanges G.Cornil (“Fasi e fattori dell’evoluzione del diritto romano”: cfr. p. 266 nt. 2; p. 307; p. 308), ove l’Autore precisa trattarsi di un contributo inedito.

Non di rado il contenuto delle note  a piè di pagina è nei due manoscritti appena accennato; talvolta, esso manca del tutto.  In simili casi, ho inserito tra i segni < > il contenuto che mi è sembrato imposto  o suggerito dal testo al quale la nota è aggiunta, cercando, peraltro, di mantenere anche nella forma il modo di citare comunemente adottato dal Riccobono. Lo stesso dicasi per alcune piccole integrazioni nel testo.

 

                        Giuseppe Falcone


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salvatore  Riccobono

 

 

 

 

 

LETTURE   LONDINESI

(maggio 1924)

 

                                             “Diritto romano e diritto moderno”

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                         


                                                                          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                             Parte I

                                            

                            Il Problema della voluntas

INTRODUZIONE

 

Il diritto creato da Roma costituisce ancora in molti Stati la base larga degli ordinamenti giuridici, ed è inoltre elemento essenziale della civiltà moderna. Il mondo civilizzato accorre sempre a quella sorgente inesauribile di esperienza e di dottrine, ed è sicuro che senza il diritto romano la nostra civiltà non sarebbe quella che è in fatto.

La vita del diritto romano si è svolta in due grandi periodi. Il primo periodo di formazione, durato più di un millennio, che per agevolezza computiamo dalle XII Tavole sino a Giustiniano.

Il secondo periodo di propagazione, da Giustiniano fino al tempo presente.

Ma già nello stesso primo periodo esso spiegò la sua azione civilizzatrice. Come le legioni romane, il diritto fu non solo uno strumento nel consolidare il dominio di Roma sul mondo antico, ma di più esso riuscì realmente a formare di tutti gli abitanti dell’Impero cittadini di Roma. Certo, la sua forza di espansione e di conquista apparisce più sorprendente nel secondo periodo, dacché essa non si affievolisce né si arresta ma agisce sempre più vigorosa nel mondo.

Nel 1909, in questa Università, un grande Maestro della storia del diritto di tutti i popoli, il prof. Paul Vinogradoff, trattò con genialità di esposizione e con profondità di pensiero del diritto romano nell’Europa medievale, della diffusione, come egli disse, del dirito romano dopo la scomparsa del corpo, nel quale esso aveva visto la luce.

E’ ovvio che per quel che riguarda questo periodo io posso riferirmi in tutto a quell’esposizione. Anzi, come io ho tratto da quell’opera l’ispirazione al presente corso, così vorrei avere l’ambizione di seguirla come modello nel tracciare i punti fondamentali che riguardano la formazione e la trasformazione del diritto romano, onde poter spiegare le ragioni della sua eterna giovinezza. Vorrei, dunque, che le mie lezioni avessero il carattere di una introduzione all’opera insigne del Maestro.

In verità noi abbiamo bisogno di renderci conto della meravigliosa vitalità del diritto romano, la quale presenta ora molti punti oscuri e dibattuti.

Si può essere unanimi nel riconoscere che il genio latino trovò nel diritto la sua completa espressione. D’altra parte la diffusione sempre più attiva del diritto romano è un fatto storico indiscutibile. Ma, ove si consideri che il diritto è un fenomeno sociale, soggetto a tutti gli influssi del tempo, e che perciò si forma e si rinnova di continuo, come la sabbia sulla spiaggia del mare al flusso e riflusso delle onde, la sopravvivenza del diritto romano a quelle condizioni in cui esso nacque e si svolse suscita gravi problemi e dubbi nella nostra scienza.

Vi è, forse, ostentazione nel celebrare i Romani creatori del diritto di tutti i popoli? E’, forse, solo l’arte o la scienza del diritto antico, che esercitano un potente fascino sul nostro spirito, come un mirabile prodotto di erudizione o un oggetto di archeologia?

Si può decisamente rispondere: no. A parte che il diritto romano è un modello unico di elaborazione scientifica del fenomeno giuridico, esso ha pregio e forza certamente come norma di condotta degli uomini nel consorzio civile. Vale a dire, esso ci mette in grado di adempire con costantissima disciplina i nostri doveri qualunque sia la nostra attività nella vita, pubblica e privata; ci mette in grado di conseguire i beni supremi della vita, con giusta proporzione e con severa coscienza. Noi siamo, dunque, attratti da motivi reali ad adattare le istituzioni giuridiche dei romani ai nostri bisogni; perché esse rispondono al nostro modo di vedere, di sentire, di agire. E sono tali perché esse, nei fondamenti e nelle norme, ci appariscono  come l’espressione più verace dell’esperienza romana nel campo del diritto.

Quest’affermazione non contraddice la legge della evoluzione: la quale non può avere un ritmo uniforme e generale come una legge di meccanica. Al contrario nella vita sociale e nella vita del diritto vi sono principi fondamentali che hanno quasi la stabilità che si nota nelle leggi fisiche. Gli ordinamenti della famiglia, della proprietà, dell’eredità e quelli che regolano le relazioni tra gli uomini nel campo del diritto privato; l’assoluta subordinazione degli interessi personali ai doveri di cittadini,[1] la devozione alla patria sino al sacrificio, l’ordine e la disciplina sociale nella vita pubblica, si sono sperimentati, e sono in realtà, i fattori principali del progresso umano. E quegli ordinamenti e quelle virtù hanno il nome di Roma, sono la gloria di Roma; e costituiscono la più valida garenzia del progresso dell’umanità. E se questo patrimonio di civiltà che ha sviluppato un ingente tesoro di beni e di forze, si è arricchito nel mondo moderno di tutte le libertà, per tutti gli uomini, queste non possono vivere che nello Stato, secondo la concezione romana, che realizza in ogni momento l’impero irresistibile della legge, e proclama la massima incisa non nel bronzo ma nella stessa coscienza di ogni cittadino: Salus Rei publicae suprema lex esto.[2]

Ma si dirà, e l’etica cristiana? L’interrogazione vuol esprimere, evidentemente, un motivo essenziale di contrasto tra il diritto antico e il moderno, a causa del nuovo atteggiamento spirituale dell’umanità determinato dal Cristianesimo, e che si riflette necessariamente su tutte le manifestazioni della vita, su tutti i valori umani e in primo luogo sul diritto. Ma si risponde. L’errore della scuola storica del sec. XIX, la quale negò l’influenza del Cristianesimo sul diritto antico, è ora patente. L’opposizione del Summer Maine,[3] che fu la più seria e riuscì a prevalere fino al periodo più recente, si è ormai svotata. Il grande scrittore, infatti, accusò di leggerezza coloro che ammettevano l’influenza cristiana, ricordando «la rigidezza di tutti i corpi del diritto». Egli si partiva, cioè, da quella concezione che si ebbe finora del diritto romano, caratterizzato, almeno nei suoi principi fondamentali, come un corpo di diritto rigido, quasi impermeabile, dalle XII Tavole fino a Giustiniano. Ora si sa, invece, in grazia delle recenti indagini, che il diritto romano accolse elementi nuovi nel periodo della decadenza, quando, per ragioni che saranno più oltre esposte, non solo esso perdette la sua rigidezza, ma si dissolvette e divenne per così dire materia fluida. La sentenza del Maine è, dunque, anacronistica ormai; quantunque gli storici del diritto continuino a ripetere che l’influenza cristiana sul diritto si fece sentire nel Medioevo e non nell’epoca romana. Ma, inoltre, è opportuno fin da ora notare, che l’influenza cristiana, per la maniera come operò e si attuò nel diritto, non deve riguardarsi come una forza esteriore ed estranea; perché essa era stata preparata, gradualmente, dalle dottrine stoiche, nel momento più fulgido della elaborazione scientifica del diritto. Le quali dottrine, assunte dal cristianesimo, acquistarono tutta la potenza che solo il sentimento sa sviluppare. Qulle idee diffuse nel popolo, nella nuova forma, divennero passione e azione, e crearono, in uno dei periodi più tormentati e desolati che la storia ricordi, una nuova coscienza nella umanità ansiosa di pace, di cui le aspirazioni si trasfusero immediatamente nel corpo del diritto.

 

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Sino al principio del sec. XIX non sorsero dubbi sull’origine e sul valore assoluto del diritto romano, e i problemi che oggi discutiamo non si presentarono nella nostra scienza. La voce di Hotman nel secolo XVI si elevò piuttosto contro la forma dell’insegnamento, infarcito di arcaiche reminiscenze.

La scuola del diritto naturale riprese la tradizione giuridica che veniva dalla Glossa e dai Commentatori, la sfrondò di tutto quello che era contingente, artificioso, ingombrante, e riuscì a consolidare la sostanza delle dottrine e l’impero del diritto romano sul mondo moderno. Essa trovò nel Corpus iuris gli elementi di una matura esperienza e i primi fondamenti ai suoi canoni.

La scuola storica tedesca avrebbe dovuto mettere in chiaro i motivi dell’eterna giovinezza del diritto romano. Ma essa si rivolse in primo luogo all’esame delle fonti; fece insieme della storia  e della dommatica, ma tutto imperfettamente, con mezzi inadeguati. Tuttavia, il Savigny (Geschichte de R.R. im Mittelalter), grande signore della scienza del diritto, disse che tutte le innovazioni introdotte da Giustiniano con le sue costituzioni s’erano maturate da sé stesse nel periodo postclassico, per naturale evoluzione. L’opinione del Savigny è in sostanza vera; ma di essa non poté egli dare la dimostrazione, perché la critica delle fonti non era ancora nata.

Così le cause del mutamento del diritto, in quanto appariva già a prima vista nella Codificazione di Giustiniano, rimanevano occulte. Onde due spiegazione, che meritano sopra le altre di essere ricordate, furono successivamente tentate.

Un prima attribuì tutto il valore del diritto romano, come fattore essenziale della civiltà moderna, all’innesto fecondo di elementi germanici sul vecchio tronco latino; dal quale innesto sarebbero derivati nuovi germi vitali, sviluppi e ordinamenti più congrui al progresso della vita sociale. E in proposito si notavano: il principio di equità, il principio di socialità, la fides germanica, elementi essenziali del processo del diritto moderno e in primo luogo il principio della prova legale, e così via. E siccome tutta questa sostanza di diritto, ritenuta nuova in confronto alla pura tradizione romana, emergeva in grande rilievo nella Glossa, e vi appariva fondata sui testi del Corpus iuris, si inventò la leggenda che il Glossatori – cioè i Dottori della Scuola di Bologna, i quali gittarono le basi donde poi si svolse il diritto comune di Europa – avessero nelle loro interpretazioni ammodernati i testi di legge, attribuendo a quelli un contenuto che rispondeva più alla pratica ed alle esigenze dei nuovi tempi che alla lettera dei testi medesimi. Io non devo fare qui la critica di questa ricostruzione storica del diritto, perché essa è ormai abbandonata. E se per forza di inerzia, si trascini ancora nelle opere di civilisti e di storici, ormai è troppo noto che i documenti dell’alto Medioevo nulla possono provare per lo sviluppo del diritto, dal momento in cui riapparvero alla luce i libri di Giustiniano, i quali dispersero, dapprima in Italia, tutti gli elementi germanici, come il sole dissolve le nebbie del mattino.

La seconda spiegazione tende oggi a riportare più indietro il rinnovamento del diritto romano, al periodo romano-bizantino, e l’attribuisce all’influsso che vi esercitarono le consuetudini orientali, e in particolare l’attività giuridica delle Scuole, in primo luogo di quella di Berito. Il ricco materiale papirologico dissepolto nell’Egitto negli ultimi 30 anni ha alimentato potentemente questa credenza. Sino al punto che si è potuto affermare che l’opera di Giustiniano ha un’impronta tutta orientale. Il Collinet[4] l’ha ritenuta appunto formata essenzialmente di elementi orientali. Ed egli ha preteso altresì di svolgere e proseguire, così facendo, l’opera famosa del Mitteis, Das Reichsrecht und Volksrecht, apparsa nel 1891. L’equivoco sarà chiarito più oltre. Fin da ora, però, devo dire che il pensiero del Mitteis fu ben lontano, in ogni momento della sua attività scientifica, da una simile concezione; e che l’opera citata non ha nulla a che vedere col carattere orientale del Corpus iuris.

Nondimeno, nell’ultimo decennio, questa nuova visione storica ha affascinato i cervelli giovani. Tutta la costruzione dommatica del diritto giustinianeo, in particolare, s’è riportata ai giuristi Bizantini. Cosicché via via s’è venuto a negare, per conseguenza, che il diritto elaborato dai Romani abbia avuto in sé stesso gli elementi del suo ulteriore sviluppo ed i caratteri di universalità per cui fu sempre celebrato.

Io devo esprimere subito il mio pensiero in proposito. Non nego l’influsso della sapienza greca nel mondo latino; dacché a volerlo eliminare Roma perderebbe uno dei caratteri più espressivi della sua potenza spirituale. Nel diritto, in particolare, che rappresenta la più alta manifestazione del suo genio, Roma fuse certamente tutti gli elementi della civiltà antica, nazionali e stranieri, ne approfondì il contenuto umano, ne scoperse i caratteri immutabili, creò un sistema giuridico di più vasta e duratura applicazione, e dentro gli schemi rigidi del diritto suo elaborò e foggiò il diritto di tutte le genti. Ma quando avvenne ciò, e come avvenne? Ecco l’argomento di alto interesse storico e direi drammatico, cui noi dobbiamo rivolgere la nostra attenzione.

La critica moderna ha voluto rispondere a quelle domande con precipitazione, nel modo or ora detto. Or se la nuova visione storica fosse esatta, essa segnerebbe nel campo della storia del diritto la più grande scoperta finora fatta. Se fosse vera, essa dovrebbe manifestarsi, appena segnalata, da innumerevoli prove nelle constitutiones di Giustiniano e in tutto il Corpus iuris, nella tradizione giuridica del periodo bizantino e nel processo di formazione dell’opera legislativa. Ma al posto della dimostrazione noi troviamo il vuoto assoluto.

Io affermo, in contrario, che se prescindiamo dalla recezione di singole consuetudini ellenistiche per le quali emerge soltanto, per la sua speciale importanza, l’uso della scrittura, sostituitosi già nella pratica alle forme orali romane, il Corpus iuris apparisce, come fu sempre ritenuto, il monumento che racchiude in sé tutta la tradizione giuridica romana in blocco, con tutti i suoi elementi eterogenei, del diritto arcaico e del diritto nuovo.

Ma prima di venire alla dimostrazione di questa verità, che è l’argomento precipuo del corso, bisogna sgombrare il terreno dal cumulo delle prove fantasiose e dalle favole che in contrario si sono addotte e narrate.

 

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Nessun documento esiste che provi un indirizzo di studi o una qualsiasi attività originale nelle scuole d’Oriente, dal III al VI secolo. L’omaggio reso da Giustiniano a Berito è illustrato dai frammenti Sinaitici, venuti alla luce nel 1889. Certamente Berito mantenne accesa la fiaccola della tradizione romana, almeno nel tempo più vicino a Giustiniano, con lo studio più largo delle opere dei grandi giureconsulti di Roma. Era già molto in un periodo di decadenza; ma era tutto. Nessun nome è tramandato degli antecessores più antichi. Delle generazioni più prossime alla Compilazione si ricordano i nomi degli hrwej Cyrillus, Domninus, Demosthenes, Eudoxius, Patricius, Amblicus. Ma nessuna dottrina è loro attribuita, nessun punto di diritto illustrato con nuove vedute. Il silenzio di Giustiniano in proposito, o meglio degli antecessores beritesi, che facevano parte della Commissione, è significativo. Non si può supporre che l’ignoranza, l’invidia o la vanità dei Commissari giungesse fino a tal punto da coprire d’oblio le glorie del loro passato. In contrario si nota, che a Eudoxius e a Patricius sono largite lodi verbali,[1] e di Cyrillus, o hrwoj, è ricordata giusto una raccolta dalle opere dei giuristi di “pacta contra legem” in un commentario twn definitwn.[2] L’opera corrispondeva, dunque, perfettamente al metodo che si osserva nei frammenti Sinaitici, che contengono numerosi confronti nei singoli punti trattati.

In secondo luogo i commenti e le chiose ai testi di legge, che si leggono negli scholia dei Basilici provenienti in buona parte dai contemporanei di Giustiniano, anzi dagli stessi antecessores che avevano preso parte alla Compilazione, si sono ritenuti arbitrariamente come prodotti tralaticii delle scuole,[3] e precisamente nei punti nei quali passi interpolati del Corpus iuris corrispondono, rispetto alla terminologia e alle nozioni dommatiche, ai commenti greci, e sembrano o si ritengono in contrasto con la tradizione giuridica classica.

E’ ovvio che una siffatta conseguenza è affrettata e destituita di fondamento. Le versioni e i commenti dei greci, contenuti nei Basilici, hanno certamente elementi pregiustinianei, ma essi provengono da fedeli traduzioni dei testi giuridici latini, che correvano nelle scuole e nella pratica. E riguardo, poi, ai punti che collimano con le interpolazioni, per la terminologia e il contenuto dommatico, è da vedere: in primo luogo, quel che è più ovvio, se il commento sia stato eseguito sui passi della Compilazione; in secondo luogo se gli elementi ritenuti bizantini non derivino in realtà dai testi classici, alterati e ricomposti comunque per la forma, ai fini della Codificazione. In questa seconda ipotesi, la leggenda dell’attività scolastica bizantina  e del carattere orientale dell’opera di Giustiniano svanisce del tutto. Intanto si constata che la critica moderna non ha approfondito quest’indagine, che deve avere preliminarmente per obiettivo lo studio delle dottrine romane, dai punti di partenza ai punti di arrivo, nell’opera mirabile della giurisprudenza classica. Senza una siffatta indagine qualsiasi conclusione storica o dommatica rimane campata in aria.  La critica moderna nulla ha fatto in questo senso. Ha avuto fretta di conchiudere, adottando la massima: testo interpolato, ergo bizantino, ergo scolastico. Così essa è arrivata ad attribuire ai Bizantini la paternità della maggior parte e, considerate le teorie, della parte migliore del Corpus iuris. Per dare qualche esempio fin d’ora citerò: la dottrina del contractus; degli effetti della compravendita e precisamente della massima: perfecta emptione periculum ad emptorem respicit; della rappresentanza; della simulazione; delle praesumptiones; e soprattutto ha attribuito ai Bizantini, ad elaborazioni scolastiche, tutta la dommatica del ius civile e d’istituti di diritto penale, rinnovata, come si è preteso, in base all’elemento della voluntas. Sotto quest’ultimo aspetto, tutte le parole o le frasi che hanno riferimento all’elemento intenzionale: animus, mens, adfectus, sentire, velle le ha attribuite ai Bizantini, dovunque si rinvengano, anche in Gaio, e non solo per la forma, ma come elementi intrusi nella dommatica giuridica.[4] Di più, essa vuol vedere nella nuova terminologia bizantina “natura actionis”, “natura contractus” il risultato d’una intensa elaborazione scolastica  delle figure di diritto.

Questi esempi sono sufficienti per intendere come si è arrivati a stabilire una perfetta equazione tra interpolazioni giustinianee e nuove concezioni bizantine. Essendo, come ora si sa, la parte che più emerge nel Corpus iuris costituita dalle interpolazioni, tirate le somme, il diritto giustinianeo viene dichiarato un diritto nuovo, orientale, sia per il processo di formazione sia per i suoi caratteri sostanziali. Queste conclusioni producono un senso di maraviglia e di sbigottimento. L’opera mirabile della giurisprudenza classica, rimasta inesplorata e dimenticata nelle nuove indagini, s’è ritenuta del tutto sommersa. Ma, com’è evidente, le conclusioni ricavate da indagini condotte in una maniera così unilaterale e superficiale non possono essere serie.  Esse non possono dare una rappresentazione integrale e organica dello sviluppo del diritto, e dei fattori che concorsero alla sua formazione e alla sua evoluzione. Alle affermazioni fantastiche di cui è piena la letteratura contemporanea è tempo di reagire con grande vigore. Né c’è da escogitare nulla di nuovo; ma per la maggiore utilità e dignità della nostra Scienza solo s’impone un ritorno agli elementi tradizionali, con fede più viva, con quella maggiore sicurezza che viene dalle molte indagini fatte e dai molti errori e traviamenti riconosciuti. Ed in primo luogo bisogna rimettere al suo posto eminente la “voluntas” che costituì il punto di partenza e l’elemento centrale di tutto lo sviluppo della dommatica giuridica, e quindi dell’elaborazione scientifica compiuta dalla giurisprudenza classica. Eliminata questa forza, come s’è preteso di fare, non soltanto cade la mirabile opera romana, ma non si può intendere tutto il processo storico dell’evoluzione del diritto nei secoli posteriori. Perciò a questo problema noi dobbiamo rivolgere particolare attenzione, come all’obiettivo principale del nostro esame.

Gli altri punti sono di secondaria importanza, e si smaltiscono facilmente. Così la decantata elaborazione giuridica rivelata dalle frasi “fusij thl agwghj, fusij tou sunallagmatou” si riduce a nulla. Sparite nel sec. IV le formulae nel processo, la pratica del diritto postclassico dovente appunto surrogare ai termini desunti dagli schemi delle azioni altri termini per indicare il rapporto o la figura di diritto dal lato sostanziale. La frase “natura iuris, aequitatis” è del latino classico.[5] Ma a parte ciò, Gaio III,129 = I.3,25,2 parla precisamente di natura societatis,[6] e IV, 33 di natura actionis, onde il termine da sostituire era pronto. L’opera elementare di Gaio, come si sa, divenne nel periodo postclassico nell’Oriente e nell’Occidente, il catechismo giuridico per i nuovi discenti, onde la scuola nel nostro caso nulla aveva da creare. E la voce “natura” prese il luogo non solo delle formulae, ma anche delle speciali solennità romane. Nel fr. 5pr. D.18.5 la frase: acceptilatio ... non sua natura fu sostituita probabilmente alla originale: non solemnitate verborum. Questa surrogazione, che può ritenersi accertata in tutte le applicazioni accennate, era sotto ogni aspetto eccellente e opportuna. Altre volte i compilatori sostituirono alle forme romane dei negozi solenni o alle denominazioni delle formulae le parole: actio, ius, obligatio, contractus. Ciò perché: mentre per i Romani il diritto era un sistema di actiones comprendente le due grandi categorie di actiones civiles e actiones honorariae, che perciò rappresentavano veramente la complessione del diritto; nel periodo postclassico invece via via che si operava la fusione dei due ordinamenti, civile e praetorium, si veniva formando un sistema di figure di diritto, definite in modo omogeneo secondo la propria struttura, sostanza o natura.

Né diversa è l’origine della praesumptiones iuris, che si sono gabellate d’origine scolastica. Questa congettura è veramente assurda. Le presunzioni, ovviamente, derivano dalla pratica giudiziaria. Venute meno le formulae ficticiae e le forme solenni dei negotia, le decisioni contenute nei testi classici, che da quelle dipendevano, erano mantenute ferme, ma necessariamente il fondamento di esse si doveva riportare a presunzioni, le quali si riferivano ora ad un presupposto di fatto o di diritto, che era ammesso come esistente nella formula ficticia, ora alla solennità orale, che di fatto non aveva avuto luogo. Esempi occorreranno nel corso del nostro esame, sia relativi ai punti messi in evidenza sia relativi ad altri dello stesso genere e che io considero di secondaria importanza. Non indugiamo pertanto su questi minuti argomenti. Piuttosto può essere utile indicare fin da ora le cause che hanno condotto la critica moderna su una falsa strada e a conclusioni così lontane dalla verità. Di queste cause mi sembrano avere un’importanza generale e diretta le seguenti tre:

 

a) La critica moderna si è disorientata perché ha abbandonato il terreno solido delle cognizioni storiche relative alla formazione del Corpus iuris. Le notizie che dà Giustiniano nelle costituzioni introduttive alle singole parti della Compilazione si sono ritenute non degne di fede, Giustiniano è stato giudicato un vanitoso menzognero, un impostore, come lo rappresenta con animo malevolo Procopio nella sua storia arcana. Hofmann[7] nel 1900 credette di poter annunziare questa grande scoperta. Fondandosi principalmente sulla rapidità sorprendente con cui l’opera legislativa fu compiuta, egli negò che i Compilatori avessero potuto realmente compiere tutto il lavoro, che millantano riguardo ai Digesti; che avessero, cioè, potuto leggere tutte le opere, farne gli estratti, eseguire un numero stragrande d’interpolazioni in modo da rinnovare tutto il diritto, in soli tre anni. L’ipotesi del Bluhme,[8] che dall’ordine dei frammenti nei Digesti aveva desunto e rivelato la divisione e l’ordine dei lavori delle Commissioni, gli apparve infondata. Egli sostenne all’opposto che in realtà l’opera dovette esser composta in base ad un ms. dei libri di Ulpianus ad Edictum e ad Sabinum che era già annotato e ampliato. E ammise inoltre che i Compilatori avessero utilizzato poche opere dei giuristi direttamente, e più ancora compilazioni private e ufficiose, quaderni di lezioni di professori e simili elementi. Ma tutte queste conclusioni dell’Hofmann furono nettamente respinte dalla critica; la quale riconobbe unanime la intangibilità dell’ipotesi del Bluhme, che risulta da elementi precisi offerti dal Corpus iuris e non da millanterie di Giustiniano.

Tuttavia la tesi dell’Hofmann fu ripresa con più serietà e corredo di studi da un valoroso giovane nel 1913, dal Peters,[9] il quale più radicalmente sostenne che i Digesti altro non fossero che un adattamento e una rielaborazione di un’opera già composta dalle generazioni precedenti a Giustiniano. Il Peters s’illuse di trovare elementi dimostrativi nella tradizione giuridica bizantina, e disse che le paragrafai di Theophilus, che conosciamo dai Basilici, si riferivano a quell’esemplare pregiustinianeo. Egli ribadiva così l’idea di una tradizione scolastica bizantina, la quale avrebbe condotto ad un rinnovamento delle dottrine romane e alla formazione, come lo chiamo in Italia il Rotondi,[10] di un Predigesto. E se anche la tesi del Peters fu demolita nei suoi fondamenti più diretti, nondimeno dalla sua opera si parte la leggenda di una tradizione scolastica bizantina, viva e operosa, di cui oggi tutti parlano, i giovani scrittori, per averla veduta con gli occhi della fantasia. Un’opera più recente, che avrebbe dovuto essere conclusiva in questo ramo di studi, ed è semplicemente  eclettica, quella di H.Krüger,[11] non ha portato nessuna nuova luce sull’argomento. Lo dichiara sinceramente lo stesso autore, il quale sulle orme del Longo e del De Francisci, si è affaticato a seguire la formazione dei Digesti in base agli elementi che offrono le costituzioni emanate da Giustiniano nel corso del lavoro della Compilazione. Il risultato della fatica è quasi nullo. In definitiva, dunque, le sudate ricerche e i tentativi fatti per chiarire sia l’origine del nuovo diritto sia la formazione del Corpus iuris sono riusciti vani. Ciò perché la critica moderna, rifiutate tutte le notizie che della sua opera dà il legislatore, s’è ritrovata smarrita in un vasto deserto.

 

b) La seconda causa è dipendente dalla prima, illustrata sopra. La critica senza guida s’è abbandonata alla ricerca delle interpolazioni, in base alle quali ha voluto ricostruire la storia e la dommatica del diritto, senza curarsi, né degli ammonimenti di Giustiniano né della giurisprudenza classica. Questa è richiamata bensì, ma solo per dar risalto al contrasto, considerata del resto come un corpo esausto, caduto per via «come corpo morto cade». Grave errore di metodo questo; perché la disintegrazione degli elementi interpolatizi nei testi non è possibile senza la conoscenza più profonda delle dottrine classiche; e mancata questa conoscenza, fatalmente, il giudizio è riportato regolarmente ai soli elementi esteriori e filologici. Così via via è invalso l’uso di fare la critica dei testi col sussidio dei vocabolari speciali. Si fa un elenco di vocaboli o di forme o di frasi che ricorrono in un numero considerevole di testi, varî per il contenuto, per gli autori e per il tempo della redazione, e si pronunzia una condanna, un giudizio che spesso investono punti fondamentali della tradizione giuridica. E inoltre è invalso l’uso di condannare un periodo, uno squarcio e pure tutto un passo per un’incongruenza formale, per un vocabolo usato in un senso meno comune, per una costruzione inusitata e così via. Per citare alcuni esempi, non si salva più un testo che presenti: ubi nel significato temporale, igitur iniziale, quamvis per quamquam, potestas=facultas, e così i testi con quippe, atquin, circa in senso traslato, citra etc. E non si salvano poi dalla critica  testi che contengono un riferimento alla voluntas, all’animus, alla mens, all’adfectus, che vi funzionano come elementi decisivi. E così la critica ha tentato, come ho detto, di rifare la storia e la dommatica basandosi su quegli elementi disintegrati dai testi; è arrivata a non vedere la compenetrazione intima, se non esteriore, che tutti gli elementi hanno nei testi, e che deriva dagli esemplari originali, comunque siano stati sformati; ed è arrivata a non intendere che le interpolazioni, per sé stesse, non hanno un significato decisivo, essendo state eseguite, nel maggior numero dei casi, per ragioni formali ai fini della codificazione. Invece, la critica moderna vuol disfare il fatto, che è rappresentato da tutta la tradizione giuridica in blocco, da quella classica a Giustiniano, e da questa ai Glossatori e ai tempi moderni. E in queste condizioni non è eccessivo dire che essa, rotto ogni freno, corre alla impazzata, alla perdizione. Il Corpus iuris, dobbiamo riaffermarlo, è un’opera assai complessa, ed è un’opera di scienza. Come tale esso non può essere studiato e valutato dagli elementi esteriori, formali, filologici; i quali non possono costituire che un semplice mezzo di indagine, per facilitare lo studio più profondo degli elementi sostanziali. Notevole è poi che i filologi stessi sono rimasti impressionati per l’ardimento  dei giovani giuristi nell’analisi e nei giudizi delle fonti latine. Il Kalb argutamente definì una siffatta attività “Die Jagd nach den Interpolationen”. E noi dobbiamo essere persuasi che in realtà in quel campo il pericolo di giudicar male è sempre possibile. La lingua latina, nel periodo imperiale, per cause molteplici e intuitive, subì notevoli variazioni. La trattazione dei fenomeni grammaticali, lessicali, sintattici fu sempre agitata fatica degli eruditi. E’ forse opportuno ricordare che i migliori scrittori, anche della Repubblica, offrono esempi di uso di parole e di forme che i critici condannano inesorabilmente nei Digesti. Ubi temporale è in Cesare, bell. civ. 1,23 ubi illuscit; igitur iniziale in Cic. de leg. I. <18 e 45>, e quasi normale in Sallustio; e, senza volere trarne alcuna conseguenza, noto che in Vergil. Egl. 3,84 si legge la frase robusta: quamvis est rustica. La moderazione e la prudenza s’impongono, dunque, in questo campo. Il Kalb, d’altro canto, consigliando ai giuristi somma circospezione, si spinse fino a dire che il giudizio delle interpolazioni nel Corpus iuris dovesse essere riservato alla competenza dei filologi. Affermazione assurda, anche questa, rispetto ad un’opera così tecnica, così varia, così ricca di contenuto. I filologi non sono in grado d’intendere quel che vi si contiene. E perché questa affermazione non suoi offesa ai vivi, riferisco un aneddoto che riguarda il Poliziano. Si narra che B. Socino, grande giurista del sec. XV, conversando un giorno in Siena col Poliziano gli avesse chiesto il significato della frase “suus heres”; e non avendo questi saputo rispondere il Socino avrebbe soggiunto: Idcirco contine te intra tuum praesepe, Politiane, et iuris studiosos relinque.

Ma dopo queste osservazioni particolari, devo subito soggiungere che con ciò io non intendo menomare il merito grandissimo che alla critica filologica si deve riconoscere nell’analisi del Corpus iuris. Intendo dire solo che una o più osservazioncelle formali possono servire come mezzo o spinta a un’indagine più profonda del testo, dal lato storico e dommatico. E’ evidente che ciò non si ottiene affrontando un numero considerevole di passi di contenuto assai vario, per cui l’ufficio dell’interprete si tramuta in un trastullo di collezionista. Con le conoscenze invece che possediamo, la critica usata convenientemente deve dare frutti meravigliosi per la storia e la dommatica del diritto. La critica finora è mancata al suo più alto compito per difetto di metodo, e ciò per le ragioni che ho esposto ora e nel numero che precede.

 

c)  Una terza causa, connessa intimamente alla precedente, è il distacco profondo che s’è operato tra la nuova e la precedente letteratura romanistica, la quale è senza dubbio la più imponente che esista nel campo del sapere.  Si tratta di un’immensa congerie di studi e di commenti sul Corpus iuris, dalla Glossa alla Scuola storica del sec. XIX, che non può essere ignorata né trascurata. La critica contemporanea ha creduto di aver spiccato un volo così alto per l’intelligenza del Corpus iuris da non aver bisogno di altri sussidii, né delle esperienze di antichi interpreti né delle indagini e dei risultati dei più recenti. Questa iattanza è grandemente pregiudizievole al progresso della scienza.  Gli interpreti del passato, con mezzi più limitati, ebbero del contenuto del Corpus iuris una conoscenza così profonda, che noi non possiamo più raggiungere.Con grande varietà d’indirizzi e di tendenze, nel corso di otto secoli, il diritto romano fu scrutato in ogni senso da uomini di grande intelletto e di grande cultura, onde può dirsi, specialmente nel campo della dommatica, che nulla di essenzialmente nuovo resti più a dire.

Ma per ciò la critica deve avere oggi il suo compito speciale: quello di chiarire i punti oscuri, specie dal lato storico, di eliminare le controversie che si sono propagate sino ai codici moderni, di semplificare le dottrine e di determinare il corso dell’evoluzione del diritto romano.

 

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Ricondotte, dunque, tutte le cause, che hanno prodotto un vero sbandamento nella nostra scienza, ad un comune denominatore, cioè al subitaneo e violento distacco da tutta la tradizione giuridica, che aveva saldi fondamenti nelle dottrine dei classici, nell’opera e nelle dichiarazioni di Giustiniano, nelle interpretazioni e ricostruzioni di tante generazioni di giuristi, possiamo subito e sicuramente indicare il rimedio per toglierla dal punto morto in cui essa si è venuta a cacciare. Quel che s’impone, già l’ho detto, è la restaurazione degli elementi tradizionali, violentemente spezzati negli ultimi decenni: ritornare dunque alla tradizione, perché in essa è la verità; ritornare a Giustiniano, che è la nostra guida più sicura; questo deve essere il nostro programma. I nuovi metodi di indagini acquisteranno allora un sicuro e chiaro carattere scientifico. Tutti i risultati della critica più perfezionata andranno a inquadrarsi allora sullo sfondo ampio di quella tradizione giuridica, che si è svolta organicamente, lentamente sino a Diocleziano, e poi tumultuariamente nel periodo della decadenza, da Costantino a Giustiniano, ma sempre in base agli ordinamenti e agli elementi medesimi creati e elaborati da Roma. Nell’ultimo periodo, ora accennato, si dovette compiere, necessariamente, una grande selezione e semplificazione delle istituzioni giuridiche romane. La pratica, senza la guida della giurisprudenza, e priva ormai di quel supremo moderatore, quale era stato il pretore romano, dovette ridursi ad assumere di tanta ricchezza solo quel tanto che era necessario all’amministrazione della giustizia. La legislazione, miserabile nella forma e nelle direttive, rispecchia le condizioni dei tempi e la cultura giuridica dei tempi, e non fu in grado né di comprendere i nuovi bisogni né di dirigere il movimento del diritto.  Questa stato di cose è reso manifesto dai fatti e da tutti i documenti che conosciamo, da tutta la storia di quel fortunoso periodo, ed ha maggiore imponenza d’ogni più elaborata indagine critica o esposizione dottrinale.  A tutte le conclusioni della critica contemporanea, che suppone una attività scolastica capace di rinnovare il diritto nel periodo bizantino, noi opponiamo per ora due constatazioni, ben più efficaci d’ogni più sottile ricerca. Opponiamo due note, le più acute che soverchiano tutte le altre nelle costituzioni di Giustiniano e in tutta l’opera legislativa, e cioè:

 

a) Il dispregio e il dileggio del legislatore per tutte le forme antiche del ius civile e dello stesso ius honorarium, in quanto queste ultime si riferivano a mezzi ed espedienti procedurali creati dal pretore per supplire, aiutare o correggere il ius civile. Le parole che usa Giustiniano sono forti e a volte volgari: amputare, corrigere, respuere; scrupolositas, verbositas, prolixitas, difficultas, oscuritas, subtilitas; observatio subtilis, supervacua, inanis, inutilis, superflua; ambages, circuitus, inextricabiles circuitus, formido veteris iuris etc.

Inintellegibili a primo aspetto si presentano tutte queste frasi irriverenti poste accanto alla “reverentia” che il legislatore professa per gli antichi. La quale, poi, era vera e sicuramente determinata dalla ammirazione più profonda e più sincera per il diritto di Roma, considerato già fin d’allora come la verità e la luce per gli uomini di tutte le terre. C’è dunque una contraddizione grossolana? No. Noi sappiamo ora che quell’atteggiamento sprezzante deriva dal fatto che i giuristi bizantini non avevano visto sopravvivere nella pratica del loro tempo alcuna traccia di quell’intricato e complesso sistema di diritto, che nei libri dei giuristi appariva loro un inestricabile labirinto di giri, rigori ed enimmi. Essi si riferivano alle forme, non al contenuto del diritto romano. Essi conoscevano dalla pratica quelle stesse norme di diritto, contenute nelle opere dei giuristi e attuate con i medesimi effetti directo, recta via, senza le ambagi e difficoltà inventate dal pretore.[12]

  

b) Le frasi tenebrose con le quali il legislatore caratterizza il diritto nell’ultimo periodo, dopo Costantino: nube plenum, obscurum, ambiguum, confusum, conturbatum,[13] onde egli, in conformità al compito assunto, ascrive a suo merito di aver ridotto in armonia, chiarito e semplificato tutto,[14] ut sit manifestum et quid antea vacillabat et quid postea in stabilitatem redactum est.[15] Nessuno può pensare che questi termini e riferimenti riguardino lo splendore della giurisprudenza classica. Essi infatti si riferiscono non alle forme, ma al ius, come sostanza. Perciò quei giudizi riguardano lo stato del diritto nel periodo della decadenza, quando venne meno il pretore e la pratica fu abbandonata a sé stessa. Giustiniano non ha, come di solito, una terminologia chiara e costante per indicare quel periodo; scrive: antea, posteritas,[16] veteres, adoperando promiscuamente quest’ultima voce or con riferimento alla giurisprudenza classica or al tempo posteriore. Ma i dubbi e le “contentiones” contemplati e risoluti dal legislatore rivelano, per sé stessi, che la più deplorevole confusione era sopravvenuta in tutto il territorio del diritto, materiale e processuale, dopo Diocleziano, e il nostro giudizio in proposito non può fallire. Le tenebre si addensarono nel periodo della cognitio extraordinaria, più tetre nella materia della procedura. Atti legislativi, documenti e fatti d’ogni ordine lo attestano in modo inequivocabile. Anche Arrianus parla di iuris obscuritas e ius ambiguum. In questo luogo mi contenterò di citare due esempi, che sono caratteristici.

1) Certamente non è concepibile che si deduca in giudizio un rapporto che esisterà nel futuro ma che non costituisce un diritto attuale.[17] Per la legis actio è detto da Paolo: nulla legis actio prodita est de futuro. Sorprende perciò che nello stesso passo Vat. Fragm. 49 si faccia cenno di  decisioni varie a proposito della costituzione d’usufrutto ex certo tempore mediante in iure cessio: il testo dice an in iure cedi an adiudicari possit variatur. Siffatto dubbio non era possibile nel periodo classico. Il testo originale, perciò, fu riassunto dal compilatore, che v’introdusse la notizia delle oscillazioni della pratica rispetto ad un principio inderogabile del processo romano. Il dubbio qui ha grande rilievo. E inoltre l’ammodernamento del testo è confermato dal fatto che il successivo Vat. Fragm. 50 è nell’ultimo tratto un pedestre raffazzonamento compilatorio, con un mucchio di eresie giuridiche. Il verbo “variari”, senz’altra determinazione (es. sententiis) è della bassa latinità e ritorna nei Digesti in frammenti interpolati.

2) L’altro esempio che voglio citare riguarda pure la procedura ed è riportato da Giustiniano nella c. 3 Cod. 7,40. Vi è fatto il caso di un attore che nel libellus conventionis ha riassunto varie ragioni di credito e chiesto in giudizio una somma complessiva, senza specificare le cause dei crediti per cui apud veteres agitabatur an videatur omnes causas in iudicium deduxisse aut vetustissimam earum nihil fecisse. Giustiniano applica anche in questo caso la sua parola preferita “confusio” e decide con grande semplicità: videri ius suum omne in iudicium deduxisse. Nessuno potrà mai supporre che nel processo formulare potesse nascere siffatta confusione. Ma essa era inevitabile dopo l’abolizione delle formulae, quando venne meno la cooperazione del magistrato nel determinare e fissare in uno schema rigoroso l’oggetto della lite. Onde “variatur” e la pratica “vacillat” e si appiglia agli argomenti e ai testi più varii per far prevalere questa o quella decisione, precisamente come fecero poi i consulenti nel Medioevo, i quali rinvenivano nel Corpus iuris leggi per sostenere qualsiasi opinione. Nel caso deciso da Giustiniano, quei tali veteres traevano assai facilmente argomento dai testi relativi al pagamento.[18] Venute meno le formulae delle actiones e le forme solenni degli atti, la pratica brancola nel buio, senza alcuna guida sicura.

 

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Due fatti imponenti, dunque, sono quelli or posti in luce – il dispregio del legislatore per tutte le forme antiche e la confusione in cui il diritto era caduto nella extraordinaria cognitio – dinanzi ai quali svanisce la pompa delle parole e aumenta la forza della realtà.  La quale è tutta a favore della tradizione storica che si è voluta svellere con argomenti frivoli e con fastidiosi vaneggiamenti. La realtà conferma, invece, ed illustra fin nei più minimi particolari tutte le dichiarazioni del legislatore, la psicologia e l’opera dei Commissari, da una parte, e lo stato del diritto nei secoli precedenti alla Codificazione, dall’altra parte. In un rapido riassunto, che deve trovare in questo corso tutto il suo svolgimento, le vicende del diritto in quel periodo nonché il programma e l’esecuzione dell’opera legislativa si determinano come segue.

Il diritto dell’Impero era ufficialmente tutto contenuto ancora nelle opere dei giuristi classici (sia pure designati dalla cosidetta Legge delle Citazioni), nei rescritti imperiali e nelle leggi generali dell’ultimo periodo. Ma caduto il sistema della procedura formulare e via via le forme dei negozi solenni del ius civile, la pratica giudiziaria, senza guida alcuna, tirava avanti alla meglio, attenendosi solo all’osservanza delle norme sostanziali, qualunque fosse la loro origine: ius civile, ius honorarium, ius gentium. Da ciò derivava naturalmente  una grande confusione in tutti gli istituti di diritto e in particolare nei principii direttivi del ius civile che erano rimasti fatalmente tutti rovesciati. Questo fatto non poteva essere occulto, e impose al legislatore la prima norma da seguire nella Codificazione. La c. Deo auctore § 10 ordina: quae leges in veteribus libris positae in desuetudinem abierunt, nullo modo vobis easdem ponere permittimus cum haec tantum optinere volumus quae vel iudiciorum frequentissimus ordo exercuit vel longa consuetudo huius almae urbis comprobavit cet.

La parola “leges” ha nella constitutio il significato di testi giuridici. Il legislatore non conosce evidentemente un’elaborazione del diritto che sia degna d’essere presa in considerazione: egli addita solo la consuetudine, ed in primo luogo quella giudiziaria, come la fonte del diritto nuovo. Onde sono inevitabili due conseguenze:

a) che tra il diritto scritto contenuto nelle opere dei giuristi e il diritto della prassi vi erano differenze essenziali, di cui i caratteri saranno meglio determinati più oltre;

  b) che i Commissari, chiamati a compiere la Codificazione, si trovarono di fronte alle opere dei giuristi, che rappresentavano il diritto in tutta la sua complessità antica (per varietà di ordinamenti, di forme, di mezzi processuali) senza intermediari e senza sussidi di sorta.

Glosse, commenti e passi alterati si dovevano rinvenire, senza dubbio, nelle opere più in voga; ma in essi era sempre attestato lo stato del diritto secondo la pratica o le modificazioni introdotte da leggi; non erano contenute illustrazioni di carattere dommatico o scolastico. Per l’elaborazione del diritto nel senso dommatico mancavano a quell’età tutte le condizioni. I Fragmenta Vaticana e le Sententiae di Paolo, in special modo, portano le tracce di quei prodotti postclassici, dei quali si può determinare con precisione l’origine dalla prassi. Per ciò il legislatore poté concepire il vasto programma, che gli fa onore, di compiere la Codificazione con estratti da tutte le opere dei giuristi, senza distinzione di sorta; i quali estratti dovevano essere posti in armonia col diritto vigente, eliminandovi tutti gli elementi superflui o caduti in desuetudine, e soprattutto semplificando tutto e componendo un corpo di diritto semplice ed omogeneo.

Le costituzioni Deo auctore e Tanta sono chiare e precise, in proposito, cioè riguardo al programma e poi al lavoro compiuto. Le modificazioni introdotte nei testi furono infinite, conformi al disegno e alle necessità legislative: multa et maxima sunt quae propter utilitatem rerum transformata sunt.[19]

Questa è una verità ormai constatata dalle moderne indagini interpolazionistiche. Ora, anzi, noi possiamo dire, che tutti i testi decorati dai nomi dei giuristi furono più o meno profondamente alterati. L’opera fu eseguita tutta di prima mano, rapidamente; perché in sostanza, distribuito il lavoro, si trattava di compiere, in generale, una serie di operazioni meccaniche, per porre i testi in armonia col diritto della pratica. Il punto di riferimento era ben preciso. Del resto, durante il lavoro, decisioni di controversie, abolizione di antichi istituti, riforme generali procedevano di pari passo. E le interpolazioni perciò presentano costantemente gli stessi caratteri. Eseguite barbaramente, in modo diseguale nei vari titoli e negli istituti, raramente contengono visioni dommatiche nuove; e non contengono, soprattutto, la sintesi dello sviluppo percorso dagli istituti giuridici nei due secoli precedenti. I principî ormai arcaici del ius civile vi appariscono ancora in grande rilievo, per quanto spezzati continuamente da norme particolari ed eccezionali. Ma spesso anche nuovi principî generali si contrappongono. Nella realtà sono quelle eccezioni che rappresentano la vera struttura del nuovo diritto.  Onde l’incongruenza di questi elementi è la prova più manifesta che nel periodo postclassico, fino a Giustiniano, mancò l’opera direttiva della scuola, di cui non si vede alcuna traccia. Il legislatore raccolse l’antico e il nuovo, sostanzialmente in uno stato incondito, perché la sua comprensione del mutamento del diritto si arrestò alla superficie, non penetrò più a fondo, sino a vedere l’evoluzione interna delle figure di diritto. Le contraddizioni perciò sono innumerevoli. Del resto la fortuna dell’opera si deve soprattutto al fatto che le decisioni particolari, nella grande maggioranza, sono quelle stesse classiche, corrispondenti al ius praetorium in contrapposto al ius civile. Di questo fatto avremo da dare una particolare dimostrazione.

Per ora chiudiamo questo schema col determinare, come ora può farsi, la natura e i fini delle interpolazioni giustinianee, le quali, come già avvertì il legislatore, assunsero tre forme, quelle cioè di 1. deminutiones, 2. adiectiones, 3.mutationes. L’esperienza in questo campo di studi c’induce peraltro ad aggiungere ancora altre due forme, e cioè: 4.  le fusioni di testi, sia di brani o periodi sia di casi giuridici, che erano distinti nell’esemplare e furono invece ridotti sotto una medesima norma e in unico contesto; 5. estratti formati dai Commissari spesso con singoli e particolari elementi desunti dagli esemplari.

Onde, in concreto, le interpolazioni consistono nella:

1) soppressione d’istituti, forme o vocaboli del ius civile;

2) soppressione d’istituti, mezzi e forme del ius honorarium;

3) soppressione d’istituti e termini propri ai sistemi di procedura del 

    diritto classico;

4) soppressione di controversie di giuristi, di sviluppi di dottrine, di

    nomi di giureconsulti;

5) fusione, per quanto imperfetta, del ius civile, del ius gentium e

    del ius honorarium in un unico corpo di diritto;

6) sostituzione di nuovi termini, o aggiunte o rabberciamenti per

    ricomporre i testi. Nei quali appariscono messi in risalto elementi    

    sostanziali del ius gentium, del ius honorarium, delle leggi 

    imperiali, dell’etica cristiana e della procedura extraordinaria;

7) formazione di nuovi testi, desunti dagli esemplari e contenenti

per lo più una o più decisioni nude, o formulazioni generali e

dommatiche. A questa categoria appartiene un gran numero di

frammenti e di paragrafi sparsi per tutta l’opera.

                  

Nell’insieme, le categorie ora descritte costituiscono la stragrande maggioranza delle interpolazioni del Corpus iuris e segnano il carattere della Compilazione. Interpolazioni d’altra natura, che potrebbero dirsi aberranti, sono rare; e, soprattutto, per il numero sparuto e per il loro contenuto non esercitarono alcuna influenza sullo sviluppo ulteriore del diritto.

Delle principali categorie, sopra enumerate, incontreremo esempi notevoli e caratteristici nel corso delle nostre indagini.

LA  VOLUNTAS  NEGLI  ISTITUTI  DEL IUS CIVILE

 

  L’esposizione finora fatta era destinata a preparare il terreno per la soluzione del problema più arduo, creato dalla scienza contemporanea, la quale nega, come ho detto, l’importanza della volontà che noi consideriamo generatrice degli effetti giuridici. A questo problema dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione. Se la soluzione sarà quella da me preannunziata negli schemi che precedono, alo sviluppo e l’evoluzione del diritto romano saranno chiariti.

Secondo il mio modo di vedere, sulla fine della Repubblica sotto l’influsso delle dottrine greche si nota, nella scienza del diritto, un gagliardo movimento, diretto all’analisi degli elementi naturali racchiusi dentro le figure e le forme dei negozi del ius civile. Fra questi elementi naturali la volontà occupa il primo posto. Secondo la tradizione del ius civile la volontà non aveva alcuna importanza. Il principio sancito dalle XII Tavole per il nexum e il mancipium “uti lingua nuncupassit ita ius esto” era rimasto inalterato, s’era propagato anzi alle nuove forme solenni di negozi, in particolare alla stipulatio. La pronunzia delle parole era tutto; la causa efficiente degli effetti giuridici. La forma perciò era elemento essenziale e tale rimane per tutta l’epoca classica. Affermazioni esplicite  in questo senso si hanno ancora nei giuristi classici, così in Celso nel fr. 99 D.<45,1>, in Paolo nel fr. 38 D.44.7, depurato dalle interpolazioni.[1] Ma ciò non ci autorizza a ritenere che il ius civile sia rimasto immobile. Quel che io assumo, anche per l’epoca classica, è che la volontà fu considerata come un elemento interno, aderente alla forma esterna, per cui l’efficacia del negozio dipende ora dalla volontà manifestata in una forma solenne, secondo la tradizione civilistica. La forma perciò non perde la sua funzione e la sua importanza. Ma la forma ha assunto una sostanza: Verbum caro factum est. Cioè quella che nella vita è forza attiva, come si manifesta apertamente per sé stessa nei negozi iuris gentium, viene ad assumere nel ius civile un posto essenziale anche per l’efficacia del negozio solenne. La volontà scrutata con mirabile penetrazione dalla giurisprudenza entra nell’organismo del diritto. E’ ovvio che questo sviluppo non fu l’opera di un giorno ma di un lavoro di analisi che si manifesta in decisione e massime dei veteres, che suscitano dibattiti e nuove indagini, fino a penetrare in tutti gli istituti di diritto, mutandone sostanzialmente la struttura. La formazione della nuova dottrina si può seguire nella giurisprudenza romana passo a passo, per quanto la mano dei Compilatori del VI sec. d.C. abbia fatto sparire gli elementi più notevoli del grande lavoro della giurisprudenza, che all’epoca adrianea apparisce presso che compiuto. L’inizio si pone certamente nell’epoca ciceroniana. Almeno da questo momento appariscono dubbi, discussioni e dibattiti. Negli scritti di Cicerone si avverte che c’è un fermento di nuova vita, che è il preludio di una più profonda osservazione del fenomeno giuridico e di una più intensa elaborazione scientifica. Come tale il momento si manifesta nella scuola, nella pratica, nelle controversie dei giuristi, e perciò nei primi tentativi di sistemazione del ius civile Cicerone c’informa della frequenza e dell’importanza delle controversie sulla volontà in confronto ai verba.

Top. XXV – Tum opponitur scripto voluntas scriptoris, ut quaeratur, verbane plus, an sententia valere debeant. Ita sunt tria genera quae controversiam in omni scripto facere possint: ambiguum, discrepantia scripti et voluntatis, scripta contraria. XXVI  Iam hoc perspicuum est, non magis in legibus quam in testamentis et in stipulationibus quae ex scripto aguntur posse controversias easdem exsistere.

Non si dica che questa sia una disquisizione retorica. Cicerone attesta controversie pratiche nell’interpretazione di leggi, di testamenti e di stipulazioni. Delle leggi non ci occupiamo, perché il rilievo che la giurisprudenza romana diede alla volontà del legislatore di fronte ai verba è posto in massime incisive note a tutti, e che la critica moderna non ha avuto coraggio di attaccare.[2] C’interessa invece direttamente quel che riguarda i testamenti e le stipulazioni. La forma è fuori questione. Si suppone l’atto perfetto secondo il ius civile. Lo scritto è prodotto dinanzi ai giuristi o dinanzi ai giudici per l’interpretazione del contenuto. Verbane plus, an sententia valere debeant. Qui, come in altri testi, sententia è nel significato etimologico, fondamentale di senso, significato da “sentire”.

L’operetta di Cicerone, da cui il brano è tratto, non si deve mettere da parte, come si suol fare, col pretesto che trattasi di volgarizzamenti di opere greche. E’ fuori discussione, che l’opera scritta per un giurista, per l’amico Trebazio, è nel suo contenuto ripiena di materia giuridica romana.[3] E peraltro è tempo di considerare più adeguatamente le opere filosofiche e retoriche del grande oratore. Il quale, se è vero che ci si presenta in tutte quelle opere come un brillante se non sempre esatto propagatore di dottrine greche, nondimeno è pure fuori dubbio che egli sa trasformare i suoi modelli in sostanza romana e con espressioni vive illuminare i problemi dello spirito e del mondo romano. Ma sull’argomento in esame il dubbio non può nascere. Il problema dell’efficacia della voluntas di riscontro o in opposizione ai verba è agitato in tutte le opere di Cicerone. La controversa è viva in tutto il campo del diritto; e Cicerone rispetto ad essa è coerente, sostiene con fervore la prevalenza della voluntas nei testamenti e nelle stipulazioni, investe gli avversari con vivacità, a volte con ironia, perché, almeno in ciò, la sua convinzione è sincera ed è  profonda. Lo desumo dall’esempio pratico più cospicuo, che egli riporta ripetutamente, con passione, per provare il suo assunto. Si tratta delle celebre causa Curiana dibattuta dinanzi i Centumviri, con grande concorso di popolo, assistita dai principi del foro del tempo, Mucio Scevola e Crasso.  E’ necessario avere sott’occhio la relazione che ne fa Cicerone, in maniera più diffusa in Brutus, che riporto in appendice insieme ai passi di confronto. Cicerone scrive:

Brutus, LII. – M. Curium, cum ita heres institutus esset “si pupillus ante mortuus esset, quam in suam tutelam venisset, pupillo non nato, heredem esse non posse.

Questa era la tesi contraria sostenuta da Mucio con grande fervore e con grande apparato di erudizione. Mucio difendeva tutta la veneranda tradizione del ius civile. Cicerone continua:

quid ille non dixit de testamentorum iure, de antiquis formulis? quemadmodum scribi oportuisset, si etiam filio non nato heres institueretur? quam captiosum esse populo quod scriptum esset, negligi et opinione quaeri voluntates et interpretatione disertorum scripta simplicium hominum pervertere. Quam ille multa de auctoritate patris sui, qui semper ius illud esse defenderat? ... multa de conservando iure civili?

Ma non meno vigorosa era la replica di Crasso:

deinde hoc voluisse eum qui testamentum fecisset, hoc sensisse, quoquomodo filius non esset, qui in suam tutelam venisset, sive non natus sive ante mortuus, Curius heres ut esset; ita scribere plerosque et id valere et valuisse semper.

Ed altrove insiste: ego autem defenderem hoc eum mente fuisse, qui testamentum  fecisset, ut, si filius non esset, qui in suam tutelam veniret M.Curius esset heres.

E Cicerone, collocandosi appassionatamente dalla parte di Crasso, investe Scevola con ironia, e scrive:

tu libellis aut praeceptis soceri tui causam M.Curii defendisti, non arripuisti patrocinium aequitatis et defensionem testamentorum ac voluntatis mortuorum....omnis oratio (sc. Mucii) versata est in eo ut scriptum plurimum valere oportere defenderet. At in hoc genere pueri apud magistros exercentur omnes, eum in eiusmodi causis alias scriptum alias aequitatem defendere docentur.

Meraviglioso squarcio di storia della scienza giuridica questo rappresentato con tanta vivezza da Cicerone. E’ il problema centrale più arduo del diritto civile che emerge già nel sec. VII di Roma e si dibatte nel foro e nelle scuole. Deve prevalere la dichiarazione, nella sua forma letterale, o la volontà? Il rigore delle formole o l’equità? Cicerone nel rovesciare d’un colpo tutta la tradizione arcaica di precetti e di formole del ius civile, mette sul trono l’equità, gli elementi naturali dei negozi e quindi la volontà contro le formole. Scevola difende strenuamente la tradizione degli avi per salvare il ius civile dalle nuove correnti pervertitrici. Cicerone aveva torto, certamente, imbevuto di dottrine greche, obliava in questo punto che tutta la gloria e la potenza di Roma scaturiva dalla costanza, dal culto della tradizione pubblica e privata. Il diritto, in particolare, ha una disciplina severa. E’ fuso nel vivere, come l’aria. Si muta giorno per giorno, ma deve maturare in continue esperienze i germi d’una nuova giustizia, che segue il corso d’una vita più intensa. E’ come la sorgente del limpido rivo perenne che mai si arresta e si espande silenziosamente. – Ma dal dibattito così serrato scaturisce, ad ogni modo, una verità, che è insofisticabile. Anche in Roma era apparso un germe nella vita del diritto che era destinato a compiere una mirabile opera di ricostruzione e di scienza. S’era rivelata la volontà, la quale, come dice Aristotele, precede a determinare ogni azione. Se essa domina, dunque, ogni azione e quindi anche l’espressione, ed opera tra gli uomini come una forza della natura, anche nel diritto deve manifestare la sua potenza. Non si insistiamo per ora su ciò. Quel che più preme è mettere in maggiore evidenza i termini del problema, presentato da Cicerone in tutte le opere, e le parole che egli adopera. Il problema è quello stesso che apparisce in mille passi del Corpus iuris; se nei negozi, cioè, debba prevalere la dichiarazione secondo il suo tenore letterale o la volontà effettiva di colui che ha emesso la dichiarazione. Il contrapposto è quindi tra litterae, scriptum, verba, formula da un parte e mens, velle, sentire, sententia, voluntas, opinio, animus, dall’altra. L’importanza di questa coincidenza sostanziale e verbale che si riscontra in ordine al nostro problema tra i testi ciceroniani e quelli giuridici non può essere ignorata. Se la critica contemporanea l’ha ignorata, ne sconta la pena, dacché s’è ridotta a brancolare tra le tenebre. E due punti sono ancora da rilevare dal testo di Cicerone concernente la causa Curiana. Il primo, che la causa è riportata come esempio dei problemi che si agitano nel diritto civile: hoc est in medio iure civili versari – quod ambigitur inter peritissimos. Il secondo, che il tema si dibatte nelle scuole: pueri apud magistros exercuntur omnes...alias scriptum alias aequitatem defendere docentur.

Siamo quindi in medio iure civili, non nel campo del retorica, come attestano – e questa è la prova definitiva – dibattiti e controversie tra i giuristi contemporanei di Cicerone.

Si trattava di determinare il significato e la comprensione della parola suppellex. Servio e Tuberone aprono il dibattito, cui prendono parte molti giuristi e si chiude con Celso che sembra circuire la nebbiosa realtà, svelarla, rinserrarla in una formola precisa. Celsus 19 dig. scrive:

  fr. 7 § 2 D.33,10 Servius fatetur sententiam eius, qui legaverit adspici oportere, in quam rationem ea solitus sit referre; verum si ea, de quibus non ambigeretur, quin in alieno genere essent, ... non idcirco existimari oportere suppellectili legata ea quoque contineri: non enim ex opinionibus singulorum sed ex communi usu nomina exaudiri debere. Id Tubero parum sibi liquere ait, nam quorsum nomina, inquit, nisi ut demonstrarent voluntatem dicentis?

La controversia trae origine, anche qui, dalle discussioni dei filosofi greci su questo punto riferite ampiamente da Platone nel Cratilo, in cui si discute della ragione dei nomi. Quivi Cratilo sostiene  che i nomi delle cose derivano immediatamente dalla natura e rappresentano la essenza delle cose medesime; Ermogene, invece, che l’origine dei nomi è arbitraria, convenzionale e non naturale. Tuberone segue questa dottrina. Servio quella di Cratilo, la quale assunta dallo Stoicismo prevalse anche tra i giuristi. Ma il dissenso esiste nella soluzione di casi pratici. Q.Mucio sembra abbia dato prevalenza alla mens dicentis, come Tuberone: fr. 33 D. 33,10; invece Cascellio, Ofilio e Labeone alla comune accezione del nome: fr. 10 D. 33,10. Anche Gallo Aquilio era contro Tuberone: 32 § 1 D.34,2, e Cicerone segue la dottrina storica dominante: Brut. 196; inv. II, 54; Part. or. 126: communeque sit hoc praeceptum...quam maxime potuerit ad communem sensum vimque verbi, tum similibus exemplisque eorum qui ita locuti sunt suam definitionem sententiamque confirmat.  Intanto l’esame filosofico dei nomi fatto dai Greci, come si desume dal dialogo sopra citato di Platone, sviscera il problema in tutte le sue relazioni e conseguenze. Si chiede se si debba ammettere una differenza tra i nomi delle cose e quelli degl’individui; e se l’errore di una sillaba possa alterare per sé la designazione delle cose. Socrate dice che l’errore di una sillaba non nuoce, se l’essenza della cosa è significata e soggiunge che quel che si dice dei numeri non si deve applicare alle immagini rappresentate dai nomi. Cratilo è di avviso contrario e dice che l’alterazione  di una sillaba fa sì che si designa qualche cosa d’altro.

I giuristi naturalmente si lasciano guidare dal senso pratico e non seguono le speculazioni dei Greci. Essi affermano che l’errore di una sillaba non nuoce,[4] come non nuoce l’errore del nome di persone o di cose si de corpore constat.[5] Ma questa constatazione dell’identità della cosa designata si riconduce necessariamente  alla mens testatoris,[6] alla conventio nel processo[7] o nei negozi del commercio.[8] I testi interpolati non alterano questo risultato definitivo: dacché i Compilatori dovevano naturalmente espungere controversie e difformità nelle decisioni e mettere in maggior rilievo la volontà, come essi sogliono fare.[9] E nel lavoro di ricomposizione sogliono essi pure conservare  frasi e massime derivate dai Greci, che erano seguite o combattute dai giuristi, ma che nel complesso dell’opera legislativa sono ormai note stonate. In questa categoria annovero la sentenza che si legge nella chiusa del fr. 4 pr. D.30: rerum enim vocabula immutabilia sunt, hominum mutabilia, che era stata superata dalla giurisprudenza romana.  Il celebre esempio riportato da Gaio IV, 11 e 30 a proposito dell’antica procedura è significativo. Per i veteres, dice Gaio, le parole erano “immutabilia” onde chi avesse agito de vitibus succisis invece di ripetere la frase della legge, “de arboribus succisis”, perdeva la lite. Ma appunto questa nimia subtilitas fece venire in odio la forma solenne delle actiones, per il motivo che “vel qui minimum errasset, litem perderet”. L’esempio dimostra in modo chiaro che la coscienza giuridica più progredita si viene sottraendo alla tirannia delle forme solenni.

Questa revisione della dottrina concernente i nomi delle cose e l’importanza che viene assumendo nella giurisprudenza la voluntas rispetto ai verba e ai nomina, ci mette in grado di intendere più a fondo la massima di Celso che si legge nel fr. 7 § 2 cit. da cui prendemmo le mosse. Celso interviene nel dibattito tra Servio e Tuberone e vi porta ormai il frutto di una matura esperienza con una formula precisa e notevole. Celso scrive:

   Sed etsi magnopere me Tuberonis et ratio et auctoritas movet, non tamen a Servio dissentio, non videri quemquam dixisse cuius non suo nomine usus sit: nam etsi prior atque potentior est, quam vox, mens dicentis, tamen nemo sine voce dixisse existimatur; nisi forte et eos qui loqui possunt, conatu ipso et sono quodam kai th anarqrw fwnh dicere existimamus.

Dunque Celso riconosce che la volontà non solo è la forza che precede e determina l’espressione ma è anche più potente di questa nel diritto. La voce è necessaria, certamente. In primo luogo come manifestazione della volontà (non videri quemquam dixisse ... usus sit), ed è necessaria inoltre perché lo esige il ius civile per la forma. Qui abbiamo, dunque, la nozione aristotelica[10] della priorità della mens sulla azione: arch proairesis, ma ricondotto alla disciplina del ius civile. Da questa nozione non dissentiva lo stesso Servio, il quale confessava: sententiam eius qui legarit adspici oportere. Il testo, nelle sue parti fondamentali, che ho qui utilizzate, ha subito di recente la prova del fuoco; infatti il Beseler[11] ha attaccato molti elementi, che però non sono essenziali. L’attributo  “potentior” potrebbe destare sospetto. Ma riflettendo bene sul problema, si deve riconoscere che se nel II secolo si poté definire: ius est ars aequi et boni, è certo che nessun negozio può essere efficace che non tragga forza dalla volontà. Che l’inefficacia sia dichiarata dal ius civile o praetorium non è essenziale per i Romani, quando essi assurgono a considerare il diritto nelle sue finalità. Anche Cicerone assimila le due fonti di frequente: pleraque iure praetorio liberantur nonnulla legibus.[12]

Ed il pensiero di Celso doveva emergere con grande limpidezza nel testo in esame, stroncato nella chiusa dai Compilatori con quel disgraziato nisi forte che ne spezza l’argomentazione vigorosa. Celso illustrava, come io suppongo, la frase “nemo sine voce dixisse existimatur” con l’esempio del muto. Il quale, non potendo parlare, non può compiere negozi solenni. Ma egli ha una volontà, che può esprimere con suoni inarticolati, e questa può essere efficace, come se fosse espressa con la parola, nei negozi iuris gentium.[13] Così la massima di Celso appare nella sua interezza. La mens è potentior; la voce è necessaria per la forma. Questo risultato non ha bisogno di essere illustrato con prove testuali. I Compilatori naturalmente dovettero eliminare questa differenza che non esisteva più nel diritto giustinianeo.[14]

In ogni caso, la massima di Celso segna già il vertice d’un processo storico di grande importanza. Se la mens è potentior, anche nel campo del ius civile, il dominio dei verba vuol dire che tramontava. Essi hanno ora una funzione meramente formale. Non sono più la sostanza del diritto. Il ius civile arcaico si atteneva solo alla vox: “Veteres verba tenuere”. Era quella la civiltà primitiva che sacrificava alla disciplina della vita pubblica e privata le stesse leggi di natura. La giurisprudenza repubblicana aveva posto i fondamenti dell’indagine scientifica nel campo del diritto, che induceva l’analisi degli elementi e delle forze che operano nel diritto e portava a scovrire le ragioni dei responsi e dei giudicati. Cicerone[15] esalta l’opera di Servio in questa direzione. La ricerca della voluntas in confronto ai verba, la prevalenza di quella su questi fu, come ora sappiamo, il tema centrale delle più profonde investigazioni. Il problema si agita ancora nel primo secolo dell’Impero. Giova qui ricordare tre testimonianze di grande valore.

fr. 116 V.<S.> Iavolenus 7 epist. – Quisquis mihil alius filii filiusve heres sit: Labeo non videri filiam contineri, Proculus contra: mihi Labeo videtur verborum figuram sequi, Proculus mentem testantis.

fr. 125 V.S. idem 5 epist. – ... Proculus ... id loquitur, quod ex his quae significantur, sensit ... sensisse existimem.

fr. 19 D. 10,4 Paulus 4 epit. Alfeni – ... respondit: non oportere ius civile calumniari, neque verba captari, sed qua mente quid diceretur animadvertere, ...

E’ vero, dunque, che la mens è prior atque potentior quam vox. La viva aspirazione, espressa con tanto vigore da Cicerone, è divenuta una realtà. Nel campo dei testamenti dobbiamo ritenere la prova completa; e questa non può essere controbattuta dalle centinaia di interpolazioni che si possono constatare. L’ho detto, e ripeterlo giova sino alla sazietà, le interpolazioni furono in questo territorio,come altrove, principalmente determinate da ragioni legislative e formali.

                              

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Ma, si è detto, la prova dell’importanza della volontà nei testamenti non induce necessariamente che si debba dire lo stesso per i negozi inter vivos, e del commercio in particolare. Nei testamenti c’è la disposizione d’un solo, la cui volontà è decisiva e sovrana; invece nei negozi inter vivos si hanno interessi contrastanti e due volontà, né si può ammettere il prevalere della volontà di uno degli agenti. Qui, invece, si è detto e si dice, è la dichiarazione nella sua oggettività che deve essere riconosciuta pienamente efficace. Fare questione di volontà è pericoloso e contrario all’essenza del diritto. I giuristi romani non si riportano alla mens, voluntas, animus, adfectus, ma ad elementi oggettivi. Quod agitur, quod actum est sono di continuo argomento dell’indagine dei giuristi, e la decisione segue in conseguenza di quell’indagine.

Così si esprime l’opposizione alla teoria della volontà. La quale opposizione è nata nella seconda metà del secolo XIX, per opera del Jhering: il quale intese così attaccare il Savigny e la Begriffiurisprudenz che aveva dominato fino a quel tempo incontrastata con la teoria della volontà. Jhering aveva posto nel luogo della volontà l’utilitarismo, il concetto teleologico di diritto, e attese a dimostrare che “lo scopo è il creatore di tutto il diritto”. L’evoluzione del diritto sarebbe determinata dall’interesse, che è necessariamente variabile e contingente. La protezione del diritto sarebbe protezione d’interessi, nell’ambito dei quali le ragioni individuali e quelle sociali sono tenute in equilibrio ed in armonia. Io non ho bisogno qui di prendere posizione di fronte alla teoria del Ihering. Dico soltanto che per determinare la legge dell’evoluzione del diritto occorre anzitutto avere una conoscenza precisa dei fattori dello sviluppo del diritto, nei varii periodi storici, e nego che la scienza abbia il possesso di questi elementi finora. La teoria del Ihering del resto non avuto quel successo che l’autore si attendeva, pur essendo seguita da insigni maestri del diritto.

Nondimeno, l’opposizione alla teoria della volontà è stata assunta ora dalla critica che dirò filologica dei testi di leggi, senza per altro una direzione precisa d’ordine teorico. E l’opposizione ha preso vigore e baldanza negli ultimi decenni, dacché essa ha costruito trincee e castelli con mucchi d’interpolazioni e si ritiene ora invincibile. Così essa ha pervertito la nozione del contractus, che non sarebbe l’accordo di due o più persone su di un oggetto, ma indicherebbe oggettivamente il vincolo giuridico fra due o più persone prodotto da una causa qualsiasi, che non sia il delitto. Ha ricercato e ricerca, dovechessia, i termini che si riportano alla volontà come causa efficiente degli effetti giuridici, e li ritiene tutti intrusi dai Bizantini. Il regno della volontà, dice l’opposizione, è opera bizantina, delle Scuole d’Oriente, da cui l’avrebbe assunto, come una funesta eredità, Giustiniano.

Ma se le interpolazioni, come abbiamo visto rispetto al diritto testamentario, nulla provano contro lo sviluppo della dommatica romana, io devo, qui soprattutto, invocare la vostra pazienza e la vostra attenzione a rifare meco lo stesso cammino nel territorio dei negozi inter vivos prendendo le mosse dall’opera ciceroniana.

 

E’ da segnalare anzitutto il fatto  che Cicerone rispetto al problema in esame non fa differenza tra leggi, testamenti, stipulazioni e pacta conventa.[16]aequum et bonum esige la considerazione della volontà in tutti gli atti in cui la vita del diritto si estrinseca. Cicerone investe con asprezza coloro che seguono l’interpretazione che potremmo chiamare oggettiva degli atti. Egli esclama: calumniatori esse officium verba et litteras sequi, negligere voluntatem (ad Herenn. II, 14), e ripete: scriptum sequi calumniatoris esse, boni iudicis voluntatem scriptoris ... defendere (pro Caec. 23, 65). Rimarchevole che la stessa parola è usata da Alfeno nel fr. sopra citato,[17] nella medesima occasione: non oportere ius civile calumniari, neque verba captari, sed qua mente quid diceretur animadvertere. E’ considerata impostura, cavillazione, dunque, attaccarsi alla parola senza considerare in primo luogo la volontà. Il modello del perfetto interprete è Crasso, secondo Cicerone, perché sostenne sempre l’aequum et bonum. Il contrasto pertanto tra verba e voluntas si manifesta ugualmente nel campo dei negozi del commercio, siano solenni o non solenni. E’ bene però tenere distinte le due categorie e iniziare l’indagine dai negozi solenni. La ragione del contrasto è qui immediata e manifesta, perché la tradizione del ius civile, come sappiamo, non considerava che i verba. Così nella mancipatio, nella in iure cessio e nella stipulatio (sponsio), la quale ultima assunse tutta la disciplina delle solennità quiritarie. Ma la stipulatio domina in Roma tutta la vita del diritto, si mantenne più a lungo delle altre forme solenni, lasciò tracce profonde della sua evoluzione, le quali sono ancora visibili nel Corpus iuris, onde è più agevole rinvenire in essa gli elementi che servano alla nostra dimostrazione.

E qui l’indagine deve prendere le mosse da un celebre testo di Varrone l.l. 69ss. Varrone vuol dare l’etimologia di “spondere” e la riporta a “sponte”, nam id valet et a voluntate. Egli considera questa nozione sotto vari aspetti e nelle sue conseguenze. 71.Qui spoponderat filiam, despondisse dicebant, quod de sponte eius, id est de voluntate, exierat ... Sic despondisse animum quoque dicitur, ut despondisse filiam, quod suae spontis statuerat finem. 72....ad spontem responderent, id est ad voluntatem rogationis, itaque ... si iocandi causa dixit, neque agi potest cum eo ex sponsu. Itaque is qui dicit in tragoedia “Meministine te spondere mihi quotam tuam?” quo sine sponte sua dixit, cum eo non potest agi ex sponsu.

Scrittori recenti, in particolare il Partsch[18] e lo Schulz[19] hanno creduto di sbarazzarsi dell’etimologia e delle nozioni dommatiche che il testo di Varrone contiene, dicendo che lo scrittore latino, seguendo il metodo degli Stoici, deriva l’etimologia dal suono delle parole e dal significato che è loro attribuito; e che, inoltre, egli era forse dominato dalla dottrina aristotelica, secondo la quale la volontà (proairesij) determina gli effetti dei negozi del commercio. Ma, si soggiunge, essendo al contrario accertata la validità della stipulatio conclusa dolo o metu o per simulazione, cioè con un vizio della volontà o senza la volontà, la dottrina riferita si deve ritenere inattendibile e di nessun valore. Deduzioni queste che ognuno riconoscerà subito quanto siano affrettate ed incongrue. Se la nozione è tratta dalla dottrina aristotelica,[20] ciò non vuol dire che non abbia potuto quella esercitare il suo influsso sul diritto di Roma. Il quale influsso poi è provato a dovizia, positivamente, dal fervore con cui Cicerone esige la considerazione della volontà a preferenza dei verba; perché la volontà sarebbe prior atque potentior quam vox, o come dice Aristotele nel l.c. praxewj men oun arch proairesij. La massima di Celso noi non dobbiamo obliarla, perché essa è generale, seppur enunciata a proposito del legato. Dire che il dolus e il metus non impediscono l’esistenza di una valida stipulatio è dire nulla. Perché la dommatica romana considerò quei vizi come cause determinanti dell’atto volitivo che non escludono la realtà dell’atto volitivo. E’ celebre in proposito la frase di Paolo: tamen coactus volui: fr. 21 § 5 D.4,2. Ma l’argomento si ritorce subito e diviene possente a favore della dottrina della volontà: quando si osservi che proprio da un contemporaneo di Cicerone, da Gallo Aquilio, furono proposte le formulae de dolo. Appare allora solo allora l’iniquità di riconoscere efficace un atto volitivo viziato internamente. Ciò vuol dire, se non cavilliamo, riconoscimento della forza della volontà. Dell’atto simulato diremo più oltre. Ma sin da ora possiamo accertare che la critica è fuori strada, ammettendo la validità dell’atto simulato nel periodo storico di cui ci occupiamo. Se si giustifica la validità iure civili dell’atto determinato da metus con la motivazione coactus tamen volui, vuol dire già che ove manchi il “velle” nessun atto può venire ad esistenza, nemmeno un atto solenne. Il contrario era vero nel periodo precedente a Cicerone, quando la forma, i verba per se stessi rappresentavano tutta la sostanza dell’atto, secondo la tradizione del diritto decemvirale. Si aggiunge a tutto ciò che Varrone non era indotto di materie giuridiche e che nella scienza del tempo, professata dagli Stoici, l’etimologia delle parole non si ricavava da leggi fonetiche bensì dalle idee, dappoiché le parole nascendo  fusikwj, naturalmente, rappresentano la verità, sono immagini delle cose. La parola corrisponde al pensiero.[21] Sarebbe perciò strano supporre che Varrone avesse inventato nozioni e conseguenze che non avevano corrispondenza nella vita del diritto. Intanto, la nessuna efficacia della stipulatio ioci causa, considerata da Varrone, è negli stessi termini enunciata, e questa volta in forma dommatica, da Paolo in un’opera elementare.

fr. 35,2 D. 44,7 Paul. 2 Inst. Verborum quoque obligatio constat si inter contrahentes id agatur; nec enim si per iocum puta vel demonstrandi intellectus causa ego tibi dixero: spondes? et ut responderis: spondeo, nascitur obligatio.

E se vogliamo sapere il significato della frase: si – id agatur, che è nel testo, esso è con precisione dichiarato nel tratto precedente che costituisce il § 1, nelle parole: sed etiam hoc animo dari et accipi, ut obligatio constituatur. I due brani sono congiunti da “quoque”. Quel che vale, dunque per il mutuo vale per la stipulatio. L’obligatio nasce nei contratti, solenni e non solenni, in forza dell’animus adstringendae obligationis. Si noti, per quel che dirò in seguito, che “id agitur, actum est” sono frasi che nella sostanza si riportano all’animus, alla volontà; non di uno solo, naturalmente, ma all’accordo di due volontà. Onde ne segue, che se altri mi dà del denaro donandi causa, non nasce obbligazione, perché (non) hoc animo dari et accipi ut obligatio constituatur. E’ l’argomentazione elementare con la quale opera il testo di Paolo. Argomentazione che è confermata da Gaio III, 91 là dove tratta dell’indebitum. Gaio scrive: sed haec species obligationis non videtur ex contractu consistere, quia is, qui solvendi animo dat, magis distrahere vult negotium quam contrahere.

Che anche questo passo gaiano sia stato ritenuto spurio non deve, non può preoccupare. La critica contemporanea è divenuta folle ed arbitraria. La giurisprudenza invece è scienza severissima che si è svolta sotto una dura disciplina ed esige il più vivo rispetto da parte degli interpreti. E per combattere la teoria della volontà nella verborum obligatio, è stato detto pure, incautamente, che vi sono stipulazioni pretorie nelle quali la volontà delle parti non ha alcuna funzione, e vi sono actiones ex stipulatu date senza che sia stata interposta stipulazione, perciò contro la volontà dell’obbligato.[22] Argomenti di nessun valore. Le stipulazioni pretorie non sono convenzionali, non sono atti del commercio, ma sono invece atti giurisdizionali del magistrato imposti alle parti: ab iurisdictione veniunt. Questo carattere è messo in rilievo dai giuristi con grande chiarezza.[23] Le actiones ficticiae ex stipulatu, poi, sono rimedi dei quali il pretore fece largo uso per accordare protezione a casi non contemplati dall’ius civile. Per via delle fictiones il pretore poté promuovere con vigore il progresso del diritto. Ma se si fingeva la civitas, a tal tempo, voleva dir questo forse che il peregrino avesse tutti gli attributi della civitas romana? Ciò è assurdo. Chiudiamo questa dimostrazione generale del problema con un’ultima nota. L’errore che cada su di un elemento essenziale del negozio, es. sull’oggetto, rende nullo il negozio. Rispetto alla stipulatio la constatazione è frequente nelle fonti. Ma Venuleio nell’opera speciale “stipulationum” e certamente nell’introduzione[24] dà il motivo della nullità nei seguenti termini: fr. 137 § 1 D.45,1: nam stipulatio ex utriusque consensu perficitur. Il dissenso dei contraenti è indicato da Venuleio col solito verbo “sentire”, che esprime un momento interno della volontà. L’atto è nullo, dunque, perché manca l’accordo delle volontà sull’oggetto del negozio. E’ quel che dice il giurista. La teoria che ripone tutta la forza del vincolo obbligatorio nei verba, nella solenne dichiarazione, come era nel diritto arcaico, non potrebbe spiegare la nullità per errore. Questo è ovvio. La considerazione dell’errore, di fronte ai verba, fu imposta dall’aequum et bonum, nella fase più progredita del diritto, promossa vigorosamente da Cicerone. Se la motivazione riportata sopra di Venuleio fosse dimostrata interpolata, ciò significherebbe nulla. Il perficitur lo ritengo anch’io interpolato, perché la stipulatio perficitur verbis.[25] Ma tuttavia il valore del consensus non si può disconoscere. La sua forza si palesa nella realtà della decisione, che è causata dal dissenso. Anche Giuliano nel fr. 36 D.41,1 ammette che il dissenso in corpore produce la nullità della mancipatio (traditio, Trib.). E quel che si dice della stipulatio si deve dire, necessariamente, anche degli altri negozi solenni del commercio, cioè della mancipatio, della in iure cessio, della litterarum obligatio, e così via. Testimonianze dirette per questi negozi non ne abbiamo, perché quelle forme di negozi furono espulse dal Corpus iuris. Ma testi profondamente alterati che si riferivano ad esse potremo scoprirli e valutarli adeguatamente, procedendo nelle indagini con la dovuta accortezza.

 

Ed ora è necessario penetrare negli strati più profondi del Corpus iuris per osservare, se possibile, la formazione della nuova dottrina che riconosce nella volontà la forza produttiva di tutti gli effetti giuridici nell’ambito dei negozi. Quel che ho detto finora rappresenta il risultato dello sviluppo della dottrina, tratteggiata a grandi linee. Ma il travaglio della giurisprudenza per arrivare a quella meta sfugge all’esame superficiale, ed è ancora ignorato. Invece il lavoro fu intenso, compiuto da più generazioni di giuristi, particolarmente sino all’epoca adrianea, con viva passione ed animati da nobile emulazione, attraverso osservazioni, tentativi, esperienze, dibattiti, d’ogni giorno, da cui essi erano indotti a rivedere e correggere o limitare responsi, giudicati, regole tradizionali; a creare figure nuove di diritto, a rifare nuove categorie, partizioni e aggregazioni, insomma a costruire giorno per giorno quel mirabile monumento, la scienza del diritto.

Il punto centrale del problema, e quindi dell’indagine, risiede nella struttura dei negozi: i quali, com’è noto, presentano differenze essenziali. I negozi del ius civile sono solenni; quelli del ius gentium non abbisognano di alcuna forma. La essenza dei primi, perciò, consiste nella pronuncia dei verba solemnia e nel compimento di speciali riti; nei secondi, invece, sono elementi naturali, cioè la voluntas e la causa, che determinano il loro riconoscimento e l’efficacia.

Questo contrapposto è assoluto nel diritto antico, cui assegniamo approssimativamente come termine finale l’epoca ciceroniana. Ma la contrapposizione si attenua nel periodo della giurisprudenza classica; nel senso che essa, mercé l’analisi più perspicace degli atti del commercio, pervenne a stabilire che anche nei negozi solenni operano gli stessi elementi naturali che si incontrano nei negozi iuris gentium, cioè la volontà e la causa. Questi elementi, per altro, vengono a costituire nei negozi solenni la struttura interna dell’atto giuridico, perché quella esteriore rimane immutata. Tutti i negozi, quindi, dell’una e dell’altra categoria si pareggiano quanto agli elementi naturali; i quali sono il tutto per i negozi iuris gentium, sono meramente una sottostruttura in quelli iuris civilis. In questi ultimi infatti la solennità è richiesta sempre in modo essenziale, ma il difetto di quei tali presupposti naturali influisce sulla loro efficacia, che resta paralizzata. Che ciò avvenga ipso iure o con mezzi del diritto pretorio non ha grande importanza; perché ciò dipende dagli speciali ordinamenti romani e dal processo di sviluppo degli istituti giuridici che è diretto dall’attività del pretore. Perciò tra tutti gli ordinamenti romani c’è un continuo flusso e riflusso, come ho avvertito più sopra. Quel che qui importa soprattutto è di scoprire e seguire la formazione della dottrina per opera della giurisprudenza, la quale dai casi pratici, analizzati, confrontati e discussi sempre con maggiore perspicacia e profondità, viene elaborando la nuova dommatica del diritto privato. L’opera è compiuta in epoca adrianea, rispetto al problema in esame, e il risultato può essere enunciato nei seguenti termini: la conventio è elemento generale ed essenziale di tutti i negozi del commercio, siano essi solenni o non solenni, cioè del ius civile, del ius gentium o del ius praetorium.

La dimostrazione di questa dottrina deve esser data in una forma necessariamente sintetica in questo corso, indicando i singoli punti presi in esame dai giuristi e la graduale formazione della teoria. E’ ovvio che gli elementi di osservazione noi li ritroveremo negli scritti dei giuristi dell’epoca classica, e non possiamo presumere quindi d’indicare con precisione, ogni volta, i nomi dei giuristi che diedero lo spunto o il maggior contributo al perfezionamento dell’opera. Il progresso della giurisprudenza in ogni tempo è in minima parte dovuto alle osservazioni dei singoli; in gran parte è frutto dell’esperienza accumulata dalla prassi e da più generazioni di giuristi. Ciò specialmente è vero in Roma, dove la tradizione del diritto presenta una continuità mirabilmente disciplinata e l’opera dei giuristi appare come quella di una corporazione fervorosamente votata al culto del diritto.

Premesso ciò, vengo alla dimostrazione.

1) Il ius civile non ammetteva la costituzione d’una obbligazione ad tempus. Onde la stipulatio: quoad vivam dare spondes? si doveva ritenere pura e perpetua. Ma il pretore concesse un’exceptio contro il creditore che richiedesse l’adempimento di quell’obbligazione al di là del termine indicato.[26] Ciò significava, evidentemente, che il pretore contro la regola del ius civile rendeva efficace la convenzione così com’era stata conchiusa dalle parti.

2) Negozi solenni del ius civile che non ammettono dies e condicio si annullano per l’opposizione di una di quelle limitazioni. Così, in ispecie, la mancipatio, la in iure cessio adibite per il trasferimento del dominio o per la costituzione di servitù. Ma se è adoperata per la costituzione di una servitù la stipulatio, allora la servitù vale secondo il ius civile come se fosse costituita senza limitazione di tempo o di condizione. Tuttavia anche qui il pretore tutela la convenzione così come fu conchiusa, mediante exceptio doli. La dottrina si riporta a Sabino e Cassio e fu seguita da Giuliano.[27]

3) La servitù prediale inerisce al suolo e non può avere efficacia la limitazione della servitù alla superficie. Il pretore però per via di exceptio tutela la forma della servitù così come fu costituita.[28]

4) Pel ius civile non si può trasferire la proprietà del suolo senza la superficie; ma il pretore, mediante exceptio, rende tuttavia efficace la limitazione convenuta nel trasferimento.[29]

5) Pel ius civile non si può costituire una servitù di acquedotto o di presa d’acqua ex rivo; dacché essa deve costituirsi a capite. Ma se la costituzione di una simile servitù è fatta per via di pactio e stipulatio, il pretore la protegge,[30] come avviene nel caso esposto sotto il n. 2.

6) Non è ammissibile iure civili la costituzione dell’ usufrutto di una servitù prediale, la quale per sua natura è inerente ai predii. Ma anche qui viene in soccorso il diritto onorario che rende possibile la servitù con vari mezzi, attuando la volontà delle parti o del testatore.[31]

7) Se esiste un negozio bilaterale, es. una compravendita, di cui le obbligazioni reciproche furono dedotte in stipulazioni, come era uso in Roma, avvenuta l’acceptilatio da una parte si infirma insieme l’obbligazione dell’altra parte. Notevolissima questa decisione di Giuliano,[32] la quale è illustrata con una vigorosa e lucida motivazione: acceptilatio in hac causa non [sua natura] sed potestate conventionis valet. Invece di sua natura era nel testo probabilmente “solemnitate verborum”; e ritengo, inoltre, che i Compilatori soppressero nel brano pure l’exceptio doli. Infatti la stipulatio dell’altra parte non poteva estinguersi per l’acceptilatio della obbligazione corrispondente, derivata dalla vendita. Le stipulazioni sono negozi astratti e indipendenti tra loro.[33]  Ma perciò è insigne la decisione e la motivazione di Giuliano, le quali suppongono che nella acceptilatio di una delle obbligazioni reciproche è contenuta una convenzione: ut a negotio discedatur. Questa convenzione implicita doveva esser protetta, secondo la scuola dei Sabiniani, dal pretore, cioè mediante exceptio. Dal testo di Labeone, annotato da Paolo e riferito nel fr. 23 D. 46,4 si potrebbe dedurre che il capo della scuola dei Proculiani non conosceva ancora questa dottrina. E’ ovvio per altro che nella nota di Paolo fu soppressa pure l’exceptio doli. Con l’unificazione del ius civile e praetorium l’effetto dell’estinzione delle due obbligazioni si ha ipso iure. Se così non fosse, si dovrebbe dire che qui la giurisprudenza classica fosse pervenuta a riconoscere la stipulatio e l’acceptilatio come negozi causali. Il che non solo non si può affermare, ma è inoltre contraddetto dallo stesso Paolo il quale nel fr. 3 D.18,5 nel caso identico opera con l’exceptio doli.

8) Tenuta ferma la dimostrazione del caso che precede, diviene intellegibile, malgrado le evidenti interpolazioni, la decisione definitiva dei giuristi rispetto alla acceptilatio nulla per vizio di forma. Il problema è discusso da Ulpiano 48 ad Sab. nel fr. 8pr. D.46,4. Il quale presuppone già che l’acceptilatio nulla abbia il valore di un pactum de non petendo. Così anche Paolo nel fr. 27 § 9 D.2,14. La stessa decisione è data da Ulpiano nel fr. 19pr. D.46,4, che riporta il caso di una acceptilatio fatta al debitore non obbligato “verbis” ma “re”. Anche qui il fondamento delle decisioni non può essere che quello espresso da Giuliano nel fr. 5 D.18,5, cioè che un tale effetto non deriva dall’acceptilatio come atto formale, nullo, bensì potestate conventionis.

9) Gaio III, 179 propone il seguente problema: dato che sia fatta una novatio sub condicione, venuta meno la condicio resta integra certamente la prima obbligazione; ma essa può farsi valere efficacemente? e Gaio dice: sed videamus, num is qui eo nomine agat doli mali aut pacti conventi exceptione possit summoveri, quia videtur inter eos id actum, ut ita ea res peteretur si posterioris stipulationis exstiterit condicio. Qui è sorprendente la proposta del problema. Il quale se fu risoluto nel senso negativo, cioè che l’eccezione non è opponibile,[34] nondimeno prova che la giurisprudenza voleva arrivare alle ultime conseguenze con la teoria già enunciata, cioè che ogni negozio solenne abbia in sé una convenzione. E quel che è più notevole ancora si è che Servio, come Gaio riferisce, andava ancora più in là, dando efficacia immediata alla novatio sub condicione, anche se la seconda stipulazione fosse nulla sin ab initio. Il fondamento del dubbio proposto da Gaio e delle decisioni di Servio era ben quello che andiamo illustrando col nostro esame; vale a dire che nella analisi degli elementi del negozio solenne se ne era scoperto uno interno, la volontà delle parti, che in ogni caso avrebbe dovuto produrre in modo diretto, cioè ipso iure, o almeno indiretto, cioè ope exceptionis, quell’effetto che le stesse parti avevano avuto di mira: quia videtur inter eos id actum, ut ita ea res peteretur si posterioris stipulationis exstiterit condicio. Evidentemente, questa interpretazione non poteva riferirsi all’atto formale, come era stato dichiarato, ma alla volontà effettiva dei contraenti; tanto è vero che Servio deduceva la stessa conseguenza nel caso che la novatio fosse nulla. Anche qui, dunque, la frase id actum si riporta alla volontà dei contraenti, come abbiamo visto nel fr. 35 § 2 D.44,7 esaminato sopra. Servio, come sappiamo, aveva meritato gli elogi di Cicerone per la sua potenza ordinatrice e ricostruttrice delle istituzioni giuridiche.

10) Connessa con la precedente discussione è quell’altra relativa alla purgatio morae, che si agita specialmente nel periodo adrianeo ed è trionfalmente risoluta da Marcello. Dato che il debitore sia in mora nell’adempimento dell’obbligazione, se si addiviene tra le parti ad una novatio sub condicione della stessa obbligazione, in forza di questa la mora si purga, si estingue immediatamente: in promptu contradictio est debitorem, cum stipulanti creditori sub condicione promisit, non videri in solutione hominis cessasse.[35] Secondo la dottrina di Marcello la purgazione della mora è un effetto diretto non del negozio solenne della novatio, che essendo condizionato è ancora imperfetto, ma della convenzione implicita, cioè potestate conventionis,[36] che è nell’atto solenne. Onde ne segue, che se la condicio vien meno o per altri motivi la novatio non ha luogo la mora resta sempre purgata. E se anche la stipulatio novatoria è nulla ab initio la mora resta purgata.[37] Questa dottrina oppugnata da Giuliano e da Venuleio[38] riesce vittoriosa dopo Marcello e fu seguita da tutti i giuristi.

11) Se la donna ha promesso in dote per mezzo della dictio al figlio di famiglia, futuro sposo, il credito che ella aveva contro di lui, quantunque l’effetto della dictio sia in suspenso fino all’avverarsi delle nozze, tuttavia essa non potrà agire nel frattempo de peculio contro il padre. La sua azione, dice Marcello, exceptione pacti conventi summovebitur. Ma il patto dov’è? Non c’è che una risposta: implicito nella solenne dotis dictio; dunque costituito non solemnitate verborum sed potestate conventionis. Ed in proposito è da notare il contrasto che appare tra Labeone e Giavoleno nel fr. 80 D.23,3. Labeone diceva: che se il debitore della donna ha promesso (per mezzo della dictio) di pagare il debito suo al futuro sposo, tuttavia la donna potrà nel frattempo richiedere il suo credito, e che il debitore pagando si libera dalla dictio fatta allo sposo. Che in questo caso si trattasse della dictio e non della stipulatio è evidente. La dictio si perfeziona solo con l’avverarsi delle nozze. La stipulatio invece si perfeziona subito. Nel frattempo la donna, se la promessa fu fatta con la dictio, ha ancora integro il suo diritto di credito. La decisione di Labeone era corretta pel ius civile. Ma Giavoleno nota: falsum est quia ea promissio in pendenti esset, donec obligatio in ea causa est. E’ la stessa decisione di Marcello riportata sopra, ed ha fondamento nella conventio che è implicita nella dictio fatta dal debitore al futuro sposo. Abbiamo qui, dunque, una seconda prova che Labeone non conosceva questa dottrina.

12) La stipulatio esige una forma solenne rigorosa: congruenza dei verba, domanda precedente del futuro creditore, una dizione ordinata, per cui la condicio che si vuole apporre deve precedere il contenuto della obbligazione. Onde se si dice: centum dare spondes, nisi navis ex Asia venerit? la condizione sarebbe inefficace, supervacua, perché posta dopo la obbligazione. Ma tuttavia dice il testo di Paolo:[39] existente condicione locus erit exceptione pacti conventi. Il patto è dunque contenuto in una proposizione che pel ius civile è inutile. Il pretore la rende efficace in conformità alla volontà delle parti. Ed è vano, come fanno i moderni,[40] arzigogolare con le interpolazioni, e ritenere perciò stesso bizantina la decisione. La quale, invece, si coordina a tutte le altre finora esaminate, che discendono in ordine serrato dall’esempio e dalla dottrina di Sabino e Cassio.

13) Colui che aveva un credito da Tizio, stipula dal servo di questo la somma dovuta al padrone. Può agire, chiede Gaio, il creditore contro Tizio facendo valere la causa del credito originario? an exceptione pacti  conventi summoveri [et] possit [et debeat][41], quia pactus videatur ne a Titio petat.[42] Dunque, dalla stipulatio fatta col servo si desume un patto implicito di non chiedere la somma dal debitore con altra azione. La distinzione che fa nel seguito del testo Giuliano è esatta, ma non tocca la saldezza e il fondamento del quesito; il quale fondamento è, come sappiamo, incrollabile nella nuova dottrina dei negozi solenni. Nella stipulazione fatta dal creditore col servo è implicita la conventio di non petere da Tizio.

14) L’effetto più sorprendente della dottrina in esame si ha nella figura dello adiectus solutionis causa. L’adiectus non è titolare dell’obbligazione. Lo stipulante indica un’altra persona che può essere un incapace, cui la prestazione può essere fatta: mihi aut Titio spondes? Ne segue che non si può stabilire nella persona dell’adiectus una diversa prestazione da quella dovuta al creditore stipulante: veluti mihi decem aut Titio hominem. In questo caso l’adiectio è supervacua, è nulla pel ius civile. Nondimeno Gaio scrive:[43] si vero Titio ea res soluta sit, quae in eius persona designata fuerit, licet ipso iure non liberetur promissor, per exceptionem tamen defendi possit. Ammetto che il testo sia stato ritoccato dai Compilatori. In luogo di “dicitur” dovevano essere citati nomi di giuristi (Sabino forse); quidem ...si vero (?); possit è cancellato dal Mommsen. Ma le interpolazioni furono determinate dalla concentrazione del testo. La dottrina è al coperto da ogni dubbio. La designazione di un’altra cosa è inutile pel ius civile e annulla l’adiectio, ma è tuttavia efficace per il ius honorarium. La solenne dichiarazione, dunque, è in parte supervacua; ma siccome tutta la dichiarazione, nella sottostruttura del negozio solenne, è una convenzione, essa per il diritto pretorio è resa efficace integralmente. Nel diritto postclassico, in seguito alla fusione dei due ordinamenti civile e pretorio, l’efficacia della convenzione  è riconosciuta integralmente secondo il ius civile. La liberazione del debitore avviene ipso iure anche se egli paga all’adiectus l’altra cosa designata. In questo senso fu interpolato il fr. 34 § 2 D.46,3 di Giuliano: promissor a me liberatur; il fr. 98 § 6 D.46,3 di Paolo ed altri. Ed erra il Beseler[44] il quale ha voluto intrudere nel testo di Giuliano e in quello di Gaio la controversia circa la datio in solutum che si agitò tra le due scuole di giuristi in Roma. Il sospetto è infondato, ed erronea la ricostruzione dei testi. Infatti, nella datio in solutum si ha una prestazione diversa ma accettata dal creditore che ha diritto di disporre della sua obbligazione. Nell’adiectio supervacua, invece, di cui ci occupiamo, l’adiectus non è in obligatione, quindi non è autorizzato né a ricevere né a consentire un’altra prestazione. A nessun giurista poteva venire in mente di considerare i due casi alla stessa stregua e di sostenere la liberazione ipso iure del debitore, che avesse pagato altra cosa di quella dovuta a chi secondo il ius civile non era autorizzato a ricevere la prestazione. La liberazione per exceptionem, pertanto, aveva per Gaio e per Giuliano fondamento nella nota dottrina di Sabino e Cassio, che ho illustrato con un numero considerevole di esempi.

 

Avvicinando ora ad una ad una tutte le prove e raccogliendo in un fascio i risultati che ne derivano, ci troviamo nelle mani una mirabile ricostruzione dommatica dei negozi solenni, la quale in un punto centrale coincide con quella dei negozi iuris gentium. Tutti i negozi, cioè, siano solenni o non solenni, hanno fondamento nella convenzione. La quale genera sempre i suoi effetti giuridici nei modi e nei limiti voluti dalle parti, in forza della volontà delle parti. Se la convenzione è rivestita di forma solenne, essa opera nel campo del ius civile. Ma se anche il suo contenuto non è riconosciuto dal ius civile e se anche la convenzione sia solo in parte nulla per il ius civile, nondimeno essa deve essere attuata integralmente dalle parti con l’ausilio del pretore. La convenzione, in altri termini, è un elemento naturale di qualsiasi negozio, che seppure non è efficace nel ius civile, è tutelata dal ius honorarium. Ciò esige l’aequum et bonum, che deve essere attuato anche contro la ratio del ius civile per il noto principio: civilis ratio naturalia iura corrumpere non potest.[45]

Gli effetti di questa nuova costruzione dommatica del negozio solenne sono di una grande importanza. In particolare: in essa noi rinveniamo il punto di partenza dello scrollamento di tutte le forme solenni romane le quali sono bensì mantenute intatte, ma come vestimenti delle convenzioni, non più come forze generatrici per se stesse degli effetti giuridici, secondo la tradizione del ius antiquum.

In secondo luogo: la convenzione, conferendo a tutti i negozi una medesima struttura interna, veniva a costituire il punto di base per il pareggiamento di tutti i negozi, reali e obbligatori, solenni e iuris gentium. La differenza era ormai soltanto esteriore, costituita dalle forme verbali; cadute queste, il pareggiamento, anzi l’unificazione sarà completa.

In terzo luogo: ius civile, ius gentium e ius honorarium trovavano nella conventio un elemento comune, regolato da ciascuno dei tre ordinamenti con norme diverse ma dirette in ogni caso ad attuare il contenuto integralmente. Onde, sparite le differenze dei tre ordini nel diritto postclassico, le convenzioni vennero ad avere per se stesse piena efficienza giuridica. Cospicuo l’esempio delle limitazioni di tempo e di condizioni non ammesse in alcuni negozi solenni, per esempio nel trasferimento della proprietà, nella costituzioni di servitù; le quali limitazioni, rese efficaci dal pretore per via di eccezioni, operano nel nuovo diritto ipso iure. Questa frase è nella maggior parte dei casi interpolata nel Corpus iuris, e segna l’avvenuta unificazione del ius civile e praetorium. Ora si rende intellegibile tutta l’evoluzione del diritto romano, determinata dall’elaborazione scientifica della giurisprudenza classica, la quale con l’analisi degli elementi naturali dei negozi veniva preparando la nuova dommatica del diritto. Nel punto centrale che abbiamo esaminato il movimento dottrinario s’inizia all’epoca di Cicerone, ma apparisce più rapido da Sabino all’epoca adrianea. I Sabiniani vi portarono il massimo contributo. Labeone, come abbiamo visto in due punti, non conosce il nuovo indirizzo. Perciò noi troviamo in Giuliano l’espressione più precisa del nuovo domma, nel fr. 5pr. D.18,5 che attribuisce all’acceptilatio un effetto notevolissimo: non <solemnitate verborum> sed potestate conventionis. Ed in Pomponio rinveniamo una formulazione teorica notevolissima, che per quanto sia stata rovinata dai Compilatori, può essere ora intelletta con maggiore approssimazione. Nei libri ad Sab. fr. 27 R.J. Pomponio scriveva: Nec ex praetorio nec ex solenni iure privatorum conventionum quicquam immutandum est, quamvis obligationum causae pactione possint immutari [et ipso iure et] per pacti conventi exceptione.

Che le causae obligationum possano essere mutate da convenzioni “ipso iure” è contraddetto dalla massima iniziale del testo e dagli esempi esaminati sopra. La frase “ipso iure” è perciò anche qui interpolata.[46] Vero è, invece, che le causae obligationum del ius civile possono mutarsi solo indirettamente mercè le convenzioni, che formano la sottostruttura dei negozi solenni, le quali sono tutelate dal pretore per pacti conventi exceptionem. La stessa frase: exceptio pacti conventi ritorna in quasi tutti gli esempi sopra esaminati. E tutti gli esempi illustrano la verità contenuta nel testo di Pomponio.

La giurisprudenza romana aveva con questa mirabile nozione del negozio solenne aperto una via consolare nel territorio del diritto. Riconoscendo la piena efficacia, comunque attuata, delle convenzioni poneva su di uno stesso fondamento il diritto quiritario e il ius gentium; lo poneva su di un elemento naturale, che è nella vita l’energia prima di tutte le azioni umane, e perciò immutabile e indistruttibile. Il diritto ora parla un linguaggio universale, e può per tutte le vie diffondersi nel mondo. Se la prima spinta a questa costruzione dommatica dei negozi l’ebbero i Romani dalla sapienza greca, non si diminuisce perciò la gloria dei giureconsulti di Roma e del pretore romano. Dalla materia grezza offerta dai Greci, i giuristi romani seppero con costanza e precisione latina osservare giorno per giorno i fatti della vita, investigare il rapporto tra l’essenza e la forma degli atti giuridici, e senza nulla rimuovere della tradizione del diritto antico, coordinare, equilibrare le nuove esperienze con la tradizione, in modo da raggiungere la valutazione più perfetta, più reale degli atti umani nel campo del diritto. Il pretore romano segue il movimento della dottrina e ne mette subito i risultati in esperimento con tutti i mezzi che sono a sua disposizione. Noi abbiamo osservato nei casi esaminati questa mirabile armonia tra l’opera della giurisprudenza e quella del pretore; il quale, come ora ho dimostrato più chiaramente, non trae soltanto dalle consuetudini e dalla pratica della vita la spinta alla sua attività, ma anche dalla elaborazione dottrinaria dei giuristi, e insieme ad essi collabora alla formazione del nuovo diritto e della dommatica giuridica. In questa collaborazione sta tutta la forza del progresso incessante e rapido del diritto romano, in essa è il segreto della evoluzione lenta ma sicura del diritto romano.

 

I punti essenziali della dottrina esposta, di cui abbiamo visto l’inizio e il progressivo sviluppo, furono composti in una sintesi definitiva dalla stessa giurisprudenza classica nell’epoca adrianea. Questo è e dev’essere il punto culminante della nostra indagine; il punto cioè in cui la teoria generale dei negozi giuridici ci appare rappresentata dai giuristi con un’ampiezza maestosa elaborata in tutti i particolari e in tutte le direzioni. Certo qui ci troviamo di fronte a difficoltà asprissime. La teoria era formulata ed esposta nelle opere di ius civile, perché essa aveva come centro di irradiazione il ius civile. Ma essendo tutte le figure del diritto nazionale  romano scomparse nel diritto giustinianeo, o almeno essendo state alterate profondamente, il riconoscimento della dottrina non è agevole, dovendosi ricostruire dai testi scomposti, frantumati e rifatti da Giustiniano. Perciò la scienza contemporanea non sa nulla di tutta questa mirabile opera della giurisprudenza. Essa anzi si è preclusa la via a scoprirla e a intenderla, per i metodi superficiali d’indagine che usa, e che l’hanno condotta a ricercare  la luce dove sono le tenebre, nel periodo bizantino, che non aveva né potenza né occasione di creare nulla. Infatti la ricchezza della tradizione romana era così immensa che non solo gli immediati successori, dopo Diocleziano, ma tutte le genti della terra successivamente poterono averne larga parte, vivere di essa, largamente, avendone  pur abbandonato tutti gli elementi superflui, che avevano compiuto la loro funzione storica nella formazione del diritto.

Dei passi che intendo qui utilizzare, e sono appena una mezza dozzina, tre si ritrovano riuniti nel titolo D. de obligationibus et actionibus 44,7, che è il titolo più ricco di dottrine giuridiche che esista nel Corpus iuris; titolo composto dai Compilatori con una selezione di estratti, per lo più brevi, da opere teoriche. Il titolo appare destinato a costituire una introduzione generale alla materia delle obbligazioni, che fu sempre e giustamente considerata il capolavoro della giurisprudenza romana. Non è qui il luogo opportuno di far la critica dei passi e di tentarne la ricostruzione, di cui potrò occuparmi altra volta. Quel che occorre al nostro scopo è di mettere in evidenza il contenuto originario dei passi e far rivivere la dottrina che in essi era esposta. E per altro, rispetto alla critica devo aggiungere: in primo luogo, che i criteri direttive e le prove furono abbondantemente forniti nella esposizione che precede, dove la graduale formazione della dottrina fu messa in grande rilievo; in secondo luogo, che io riconosco anche qui i difetti dei testi, che sono evidenti, ma li ritengo causati dalla necessità in cui si trovarono i Compilatori di dover sopprimere dalle dette leggi la menzione dei negozi solenni romani: mancipatio, in iure cessio, dotis dictio, litterarum obligatio, e conseguentemente dalla necessità di concentrare il dettato a quello che era sostanziale. I testi perciò sono veridici nella sostanza. La soppressione delle forme solenni romane è, poi, un fatto così ovvio, così largamente constatato e documentato dai confronti che possiamo fare con i residui della giurisprudenza classica a noi pervenuti fuori del Corpus iuris, che non abbisogna ogni volta di particolare dimostrazione. Con queste avvertenza passiamo all’esame dei passi, seguendo non l’ordine cronologico che ora più non ci serve, ma l’ordine logico e dommatico in cui la dottrina assumerà maggior rilievo.

1) Il primo testo* appartiene a Iavolenus, estratto dal l. XII epist. S’inizia con la frase: in omnibus rebus, quae dominium transferunt. Ma è certo che al posto dove si legge quella frase sciatta il giurista faceva menzione della mancipatio, della in iure cessio e della traditio, cioè delle tre forme proprie del trasferimento del dominio. Il riferimento medesimo è confermato dalla frase che segue più oltre: sive ea venditio, sive donatio sive conductio (!) sive qualibet alia causa, che è da confrontare con Gai II,8: sive venditionis causa sive ex donationis sive quavis alia ex causa. Si tratta di forme astratte, che servono per qualsiasi causa onde quella enumerazione è stereotipa.[47] Quae dominium transferunt è dizione insospettabile: cfr. V.F. 263 Papin.: dominium transtulit; C.I.L. X,318: ius per venditionem transferri.[48] Se i moderni vogliono ripudiarla è perché operano col criterio fallace della statistica applicata ai vocaboli e ai modi di dire. In ogni caso, però, quell’elemento è fondamentale nel testo dacché sta a distinguere la mancipatio del commercio da quella che è mera forma, dicis causa,[49] per atti nell’ambito del diritto delle persone, di famiglia e testamentario. La dottrina romana, elaborando la categoria dei negozi giuridici che servono al commercio dei beni, dovette distinguere nettamente la mancipatio adibita a questo fine che aveva assunto nella sottostruttura tutti gli elementi del negotium iuris gentium, dalla mancipatio che è mera formalità, apparenza, come nella coemptio,[50] nella mancipatio familiae e così via. Il testo dice, dunque, che nei negozi solenni, che servono al trasferimento del dominio si esige l’accordo delle volontà, adfectus, animus utriusque. La stessa frase ritorna nei fr. 5pr. D.18,5: voluntas utriusque; 137 § 1 D.45,1 utriusque consensus, cioè nei testi che sono fondamentali per la nuova dottrina. Queste espressioni possono essere spurie nella forma ma non per la sostanza. I Compilatori hanno se mai inteso il bisogno di abbreviare la solita dizione romana, che era realistica e prolissa. I Romani non usano la parola “contrahentes” ma invece per la mancipatio o in iure cessio indicano con precisione l’atto che ognuno compie: is qui rem mancipio dat et is qui eam accepit;  is qui rem in iure cedit et is qui eam accepit. Ma giustificate le alterazioni formali del testo non c’è nessun serio motivo per respingere la dottrina; la quale insegna  che i negozi solenni adibiti per il trasferimento del dominio esigono pure l’accordo delle volontà. Ciò è confermato, come sappiamo, dall’affermazione teorica di Paolo, fatta per la stipulatio e per il mutuo nel fr. 3 §§ 1-2 del medesimo titolo (44,7).

2) A breve distanza dal testo esaminato segue Pomponius l. 36 ad Q.Mucium, fr. 57 D.44,7. Il testo s’inizia con la enunciazione: In omnibus negotiis contrahendis, sive bona fide sint sive non sint. La dizione negotium bonae fidei non è classica.[51] La designazione negativa, poi, sive non sint è affatto estranea all’uso classico. Ma evidentemente vuol designare i negotia iuris civilis, solemnia, che dovevano essere, se non elencati, esemplificati nel testo. I Compilatori non avevano bisogno di riprodurre elenchi o esempi, perché la categoria dei negozi solenni era scomparsa, e la stipulatio sopravvissuta si era pareggiata nella sua struttura ai negozi iuris gentium. Perciò essi usano frasi generiche, anche assurde: in omnibus rebus (fr. 55), in omnibus negotiis (fr. 57). La categoria dei negozi del commercio, scomparse le forme solenni, è ora una sola quanto alla struttura. Detto ciò, nessuna ragione abbiamo di infirmare il principio che enuncia il testo, cioè: si error aliquis intervenit...nihil valet, quod acti sit. Gli esempi illustrativi che si leggono nel mezzo del passo sono naturalmente interpolati, in luogo di mancipatio, in iure cessio, stipulatio etc. Il contenuto del testo coincide per altro con quello di Venuleio 137 § 1 D.45,1 ego de alio sensero, tu de alio riferentesi alla stipulatio. E anche nel nostro si legge la frase: aliud sentiat qui...aliud qui... che non deve essere sospettata. La nullità per il dissenso “in corpore” è accertata in tutti i negozi solenni: fr. 36 D.41,1 Iulianus.

3) Precede i testi esaminati, sempre nello stesso titolo, un estratto dal l. 5 Regul. di Modestinus, che riguarda il grave problema dei negozi simulati. Il testo, ridotto ad un misero troncone, può essere riportato:

54 D.44,7 Contractus imaginarii etiam in emptionibus iuris vinculum non optinent, cum fides facti simulatur non intercedente veritate.

La materia della simulazione negli atti giuridici è stata di recente sottoposta ad un rigoroso esame dal Partsch.[52] Io sono ben lontano dalle conclusioni dell’illustre amico e collega di Berlino. Il quale esclude che i giuristi romani avessero mai affermato la nullità del negozio simulato e che avessero potuto riferire le voci “simulatio”, “simulare” ad una convenzione fittizia, apparente, voluta come tale dalle due parti. Con queste premesse affronta la critica del testo e rifiutandone una buona metà lo riduce al seguente periodo: Contractus imaginarii in emptionibus iuris vinculum non optinent.

Una simile ricostruzione deve molto sorprendere. Modestino in un’opera teorica ed elementare impostata con ampiezza avrebbe enunciato soltanto una cosa così banale: che l’emptio, cioè un contratto consensuale, è nulla se simulata. A ciò si deve oppore che Modestino è un giurista del sec. III, l’ultimo dei giureconsulti romano, e che egli aveva nelle opere dei suoi maestri e dei predecessori ben altri elementi sul proposito. Il Partsch espunge “etiam” dal testo perché incomodo. Cancella la motivazione. Nota che la mancipatio è detta già da Gaio imaginaria venditio, onde con la stessa frase non si sarebbe potuto indicare l’atto simulato della mancipatio, la vendita senza prezzo. Quest’ultima osservazione appare grave, a prima vista; ma si riduce a nulla. Ed invero l’aggettivo “imaginaria” etimologicamente e costantemente vale fittizia, apparente, rappresentazione  esteriore cui non corrisponde la realtà. In origine tutti gli elementi della mancipatio rappresentavano la realtà (Gai I,122); in seguito divennero rito dell’atto solenne; e la mancipatio potè essere applicata anche a nuovi usi. Dall’atto solenne seguono gli effetti iure civili, come se si fosse compiuta la venditio, la solutio, la deduzione in servitù, il matrimonio, che potevano anche non esistere nella realtà. Imaginaria perciò è detta la venditio, la solutio, la causa servilis;[53] cioè la causa è fittizia. In questo primo momento la struttura della mancipatio è unica, uguale in tutti i casi. Ma il progresso dell’analisi compiuto ulteriormente dalla giurisprudenza portò alla distinzione tra negozi “dicis causa” nei quali il rito è tutto; e tra negozi del ius commercii, nei quali si richiese inoltre una conventio che deve essere reale qualunque essa sia: così nella mancipatio (fr. 55 D.44,7), così nella acceptilatio (fr. 5pr. D.18,5). La dottrina moderna ignora del tutto questa distinzione.[54] Onde il Partsch ha voluto considerare la struttura della mancipatio come unica, dall’esterno e dall’interno, nei negozi dicis causa e in quelli del commercio. Invece, in quelli dicis causa, come ho detto, è vero che il rito è tutto, e l’effetto giuridico segue attraverso una finzione, or dello stato servile del figlio, che si vuole emancipare, or di un matrimonio che non è voluto dalle parti, e così via. Ma questa non è più la struttura classica della mancipatio usata pel commercio dei beni. In questa, se la causa è fittizia (venditio) ci dev’esse nella realtà una causa vera, se no tutto l’atto è dichiarato fittizio: imaginarius. E’ assurdo pensare la persistenza dell’arcaica struttura della solennità della mancipatio accanto al progresso della teoria del negozio ed allo sviluppo del ius gentium. Come si è visto nel fr. 55 di Giavoleno, la giurisprudenza richiese in questa categoria di atti solenni una convenzione rispondente ad una causa qualsiasi, ma vera. Se è così si spiega che la parola “imaginarius” potè indicare l’atto per sé stesso come fittizio, nel significato etimologico, che è nullo nel commercio dei beni. Qui è la mancipatio imaginaria che è nulla, adoperata per il trasferimento del dominio o per la costituzione di diritti reali, senza la volontà effettiva di volere quel risultato. Il testo in esame parla di contractus. Siccome la mancipatio e la in iure cessio non furono detti contractus io ritengo che la voce fu surrogata ad “actus”. Ed actus [55] imaginarii vale per ciò atti fittizi, apparenti; nello stesso significato che la frase “acta simulata”, più tardi, nel linguaggio di Diocleziano: c. 2 C.I. 4,22. Ed allora acquista rilievo nel nostro passo la voce “etiam” che si è voluta espungere, mentre serviva a includere nella regola i negozi solenni. Per quelli iuris gentium il principio era sicuro. Se non c’è la volonta di vendere, di locare manca il prezzo e non esiste né vendita né locatio.[56] Si distingue divortium verum da simulatum, a secondo la verità.[57] Il significato etimologico di “simulatio” da “similis” [58] coincide con quello di imaginarius. E’ quel che è simile nell’apparenza, senza che vi corrisponda la verità. Il significato di frode, inganno è conseguenziale. I classici l’adoperano spesso nel senso etimologico. Cic., natura deorum II,168: sive ex animo fit, sive simulate, cioè nell’apparenza, contro il volere; Lael. 92: omnium rerum simulatio vitiosa est...delet enim veritatem. In questi esempi il contrapposto è tra simulatio e veritas; apparenza e volontà. Il concetto di dolo non è essenziale. Nelle nostre fonti giuridiche si contrappone pure a veritas. Così nel fr. in esame: simulatur...veritate; cfr. c. 1,2 C.I. 4,22; fr. 64 D.24,1. Stabilito così che imaginarius e simulatus si contrappongono a veritas, le interpolazioni dei testi non possono infirmare la dottrina che appare in grande rilievo nel Corpus iuris, cioè che il negozio simulato è nullo anche se solenne. La ragione, pertanto, della interpolazione del testo in esame sta anche qui nella necessità in cui si trovarono i Compilatori di cancellare la menzione dei negozi solenni. Anche la frase “solemnitas actus” doveva essere nel passo mutata da Triboniano nella frase “fides facti”, che dice nulla. Il Mommsen propone di sostituire a fides la voce species che dice ancor meno. Ho naturalmente ritegno a ricostruire il testo, perché ciò non è possibile. Ma la linea generale della sua struttura originaria si può segnare; e qui è utile farlo “quocumque modo” per mostrare che i Compilatori non lo ampliarono, come pretende il Partsch, ma lo mutilarono gravemente, per le ragioni che ho dette. Con questi avvertimenti il testo di Modestino possiamo supporlo del seguente tenore:

<Actus> imaginarii, etiam in <mancipationibus et in iure cessionibus ...nihil valent, sicut in stipulationibus, quae> iuris vinculum non optinent, cum <solemnitas actus> simulatur <contra fidem> veritatis.

Quel che è rimarchevole si è che il testo dei Digesti conserva tutti gli elementi essenziali dell’originale: imaginarii, non optinent, simulatur, veritate. Così operano, per lo più i Compilatori; i quali traggono dalle leggi “il troppo e il vano”. Le forme e le distinzioni dei negozi erano ormai vane. La categoria dei negozi era divenuta unica, avente unica struttura. E nel testo dei Digesti la massima è quella stessa originale, che l’atto simulato nel commercio – fatta astrazione quindi di quelli dicis causa – è nullo. Or il valore e la forza del mio ragionamento non sta certamente nella ricostruzione del testo, che come qualsiasi ricostruzione è sempre congetturale; sta bensì nella base salda che la dimostrazione ha nei fr. 55 e 57 di Giavoleno e di Pomponio, sopra esaminati. I tre passi sono coordinati tra loro, e stanno in un rapporto di dipendenza strettissimo. Nella forma originaria che avevano, i tre passi contenevano gli stessi elenchi di negozi solenni, e norme di diritto importanti concernenti i medesimi. Perciò li ritroviamo riuniti pure nei Digesti. Le norme le conosciamo. Il negozio solenne del commercio presuppone la volontà delle parti; se c’è dissenso è nullo; se c’è errore è nullo; se la volontà non è effettiva è nullo. La causa può essere una qualsiasi, ma dev’essere vera. Anche questo elemento della causa verrà subito in esame e darà la conferma definitiva alla dottrina che vado disegnando. Se si prova che nella giurisprudenza adrianea cominciò a prevalere l’opinione che per l’efficacia della mancipatio si richiedeva, oltre che l’accordo sulla cosa, anche l’accordo sulla causa, è evidente che per il negozio simulato non ci sarà alcun posto.

Per la stipulatio, per altro, la dottrina era già stata enunciata fin da Varrone. La volontà deve essere seria e reale per produrre effetti giuridici. Così anche Paolo nel fr. 3 § 2 D.44,7. Dobbiamo ritenere che la struttura del negozio iuris gentium abbia influito prima sulla stipulatio, che fu riconosciuta iuris gentium. Indi l’influenza si propagò agli altri negozi del diritto quiritario. Sarebbe stato inconcepibile, infatti, applicare ai peregrini il principio: uti lingua nuncupassit ita ius esto, senza considerazione dell’errore, della simulazione e così via. Il progresso del diritto romano trova la sua più ovvia spiegazione, in ogni senso, nella graduale penetrazione degli elementi naturali dei negozi sul ius civile. L’analisi degli elementi naturali s’era dapprima approfondita nell’ambito dei negozi del ius gentium. Qui c’è dunque un potente influsso del ius gentium sul ius civile.

Se è così, le conclusioni cui è pervenuto finora il Partsch sono inattendibili. Il Parstch opera con i concetti arcaici del ius civile. Il metodo della dimostrazione desta serie preoccupazioni. Egli nega ogni valore al testo di Varrone, che è pur confermato dai giuristi classici. La importante dottrina di Aristotele nel celebre testo Eth. Nic. VI,2 (1139), più volte citato, secondo la quale l’intelligenza attiva vale se congiunta alla verità,[59] avrebbe esercitato, afferma il Partsch, il suo influsso sulla teologia e sulla dommatica giuridica soltanto nel periodo bizantino. Al contrario noi abbiamo constatato che la congruenza della volontà alla verità è già affermata da Varrone nel campo del diritto, e che nei testi ciceroniani e in quelli giuridici l’atto simulatus, imaginarius si determina per la non rispondenza alla verità. La diffusione della dottrina aristotelica nel mondo romano fu quanto mai larga. Cic. or. 3,24: qui tamquam ab animo corpus, sic sententias verbis seiungunt; Lucr. 3,94: animum dico, mentem quam saepe vocamus, in quo consilium vitae regimenque locatum est; cfr. 3,138; Sallust., Cat. 1,2: animi imperio, corporis servitio utimur. Che la volontà sia preminente sull’azione, dice Aristotele nello stesso luogo: Dianoia ... auth gar kai thj poietikhj arcei; e la stessa dottrina è seguita da Celso nel fr. 7 § 2 D.33,10 sopra esaminato: mens prior atque potentior est quam vox. Queste coincidenze, che è bene tener presente, dimostrano che non era riserbato ai Bizantini di scoprire Aristotele e di applicarne le dottrine alla dommatica giuridica.

4) La dottrina che la “conventio” è elemento interno, ma essenziale, in tutti i negozi solenni è infine formulata da S. Pedio in una forma che Ulpiano dice elegante. Pedio vive nell’epoca adrianea, più giovane forse di Giuliano,[60] come si deve ritenere ora pel contributo che egli portò, dopo Giavoleno, alla nostra dottrina. Fu certamente giurista acuto e dotato di speciale potenza di sintesi.[61] Secondo il testo riportato nei Digesti[62] la elegante definizione  di Pedio diceva: nullum esse contractum nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem. Nel testo segue il solo esempio della stipulatio. Il passo è stupido, appunto per il riferimento al contractus e all’obligatio. La critica moderna l’ha quindi gettato nel cestino. Ma se noi, seguendo il nostro metodo, riponiamo in quel luogo la menzione dei negozi solenni, il testo si ravviva e diviene una delle perle più preziose del Corpus iuris, per la conoscenza dello sviluppo della dommatica. Che si debba rianimare rimettendovi al posto la menzione di tutti i negozi solenni  ora non può essere più dubbio. La definizione di Pedio si coordina con gli elementi di analisi che già avevano fissati i giuristi anteriori, nei passi sopra esaminati. Si coordina alla frase di Giuliano rispetto alla acceptilatio nel fr. 5pr. D.18,5, cui è attribuito un effetto ulteriore: potestate conventionis. Il confronto fu fatto dal Cuiacio, che non aveva a sua disposizione i terribili mezzi distruttivi dei moderni, ma conosceva meglio di noi moderni il Corpus iuris. Il Cuiacio rileva l’importanza della massima per la stipulatio, di cui è fatta espressa menzione nel passo. Noi aggiungiamo al posto di contractum e obligationem, tutti i negozi solenni: mancipatio, in iure cessio, dotis dictio, litteris obligatio, stipulatio, acceptilatio. La eleganza della definizione consiste in ciò, che la conventio riconosciuta come “nomen generale” si riscontra in tutti i negozi del commercio, anche in quelli che si compiono “uno loquente” come la in iure cessio, la dotis dictio; e che la conventio in tutti quei negozi non è elemento esteriore dell’atto solenne, bensì interno come l’ho spiegato nella dimostrazione che precede. Quest’ultima constatazione è espressa nel testo nella frase precisa: quae non habeat in se conventionem. Se manca la conventio è nulla la mancipatio, la in iure cessio, la acceptilatio e così di seguito. Se l’atto è simulato non c’è conventio vera e l’atto è nullo. Perciò l’errore che infirma la conventio annulla pure l’atto solenne. Metus e dolus non escludono la conventio, che è bensì vitiosa e perciò oppugnabile  iure praetorio. La frase “habere in se” è adoperata nel fr. 21 D.23,3 a proposito della dotis dictio: “constat habere in se condicionem si nuptiae fuerint secutae”.[63] In entrambi i luoghi la frase ha lo stesso significato e la medesima importanza. La conventio e la condicio sono implicite, interne, nella struttura del negozio. Né vale cancellare i testi da capo a fondo, con un tratto di penna, come usa oggi; dacché i testi più rovinati sono i più preziosi per la conoscenza delle dottrine classiche. Per lo più essi furono devastati dai Compilatori per eliminarvi il ricordo delle forme solenni, e sopprimervi dibattiti, sviluppi, contraddizioni che erano inutili anzi perturbatori nell’opera legislativa. Ma gli elementi che essi riportano sono sempre da valutare con la massima cura, perché nella maggior parte dei casi tra le ceneri c’è del bel foco vivo. Così la definizione di Pedio rispetto alla conventio, elemento interno di tutti i negozi solenni del commercio, segna un mirabile progresso nella dommatica romana, rivelato da un testo barbaramente devastato dai Compilatori, e che la critica moderna ha coperto di dispregio. Fermiamoci, per ora, a questo punto, per considerare l’influenza della causa nel negozio solenne.

 

   Il punto di partenza è che i negozi solenni sono tutti astratti, cioè indipendenti dalla causa, la quale può essere una qualsiasi: venditionis, donationis, dotis e così via. I negozi del ius gentium, invece, sono tutti causali; la causa è manifesta, elemento costitutivo del negozio, cui dà il nome: causa mutui, venditi, locati, mandati e simili. Onde ne segue che tra i negozi del ius civile e negozi del ius gentium esisteva in origine una differenza fondamentale. Nei primi la causa non era elemento costitutivo del negozio; se c’era non era appariscente; ma poteva mancare, essere illecita, essere simulata. Nei secondi ciò non poteva accadere, perché la causa era chiara ed elemento costitutivo del negozio, come si manifesta naturalmente nel mondo degli affari. Per la validità del negozio, pertanto, la causa non veniva in considerazione  nei negozi solenni, mentre in quelli iuris gentium era essenziale. Questo contrasto tra le due categoria di negozi non restò inalterato. E’ proprio nello stesso momento storico in cui la teoria della conventio, elemento generale di tutti i negozi, si afferma che la giurisprudenza pone in campo il problema della causa nei negozi solenni. Il dibattito si manifesta in un passo di Giuliano:

   fr. 36 D.41,1 Cum in corpus quidem quod traditur consentiamus, in causis vero dissentiamus, non animadverto cur inefficax sit traditio.

   Il testo di riferiva alla mancipatio.[64] E’ certo che Giuliano combatteva una dottrina contraria, la quale affermava che nella mancipatio fosse necessaria per la sua efficacia l’accordo pure sulla causa. Questa dottrina non ci reca ora alcuna sorpresa. Dacché, se Giavoleno, maestro di Giuliano, aveva proclamato necessario l’accordo delle volontà per il trasferimento del dominio per mezzo della mancipatio e della in iure cessio, è ovvio che tale accordo doveva riguardare in primo luogo l’oggetto del negozio e insieme la causa del trasferimento. Questo si desume senza grande sforzo dal fr. 55 di Giavoleno D.44,7 sopra esaminato, in cui alla enumerazione della cause venditionis, donationis etc. segue: nisi animus utriusque consentit. Il riferimento del consenso alla causa è dunque immediato. Giuliano ammette che ci debba essere il consenso rispetto all’oggetto, ma lo nega a riguardo della causa. La trattazione giulianea è fatta con accento polemico, ed è vigorosa. Egli oppone infatti che ai fini del trasferimento del dominio l’accordo sulla causa non è essenziale, nemmeno nel ius gentium, essendo sufficiente la volontà di dare da una parte e di ricevere la cosa dall’altra. Un contratto, riteneva certamente Giuliano, non può nascere in siffatte condizioni,[65] ma il dominio passa. Questa era la tradizione giuridica che è seguita ancora da Aristone e da Pomponio.[66] Essa era tuttavia investita in pieno dalla  nuova dottrina di Giavoleno, formulata poi con eleganza da Pedio, per cui in qualsiasi negozio, reale o obbligatorio, si esige una conventio. La quale ovviamente deve riguardare tutti gli elementi naturali del negozio, in primo luogo l’oggetto e la causa, i quali nella trattazione di qualsiasi affare nel commercio sono inscindibili. Onde la nuova dottrina prevale subito nella giurisprudenza come è attestato da un passo di Ulpiano disput. 18 D.12,1, dove è citato Giuliano ed esaminato lo stesso caso. Il fr. 18 è certo interpolato; ma l’alterazione fu determinata, come al solito, per eliminare dall’opera legislativa la controversia. Il periodo: magisque nummos accipientis non fieri, cum alia opinione acceperit, è sostanzialmente  genuino, contiene la decisione ulpianea. Il magis è indizio, quando è genuino, di un progresso compiuto dalla giurisprudenza su di un punto di diritto controverso. E la soluzione definitiva nel senso indicato da Ulpiano è accertata poi in un testo fondamentale di Paolo, accolto nei Digesti:

     31pr. D.41,1 Numquam nuda traditio transfert dominium, sed ita, si venditio aut aliqua iusta causa praecesserit, propter quam traditio sequeretur.

   Anche questo testo fu mutilato dai Compilatori. I quali vi eliminarono la mancipatio e la in iure cessio,[67] e la solita, complessa designazione delle causae transferendi dominii. Ma la dottrina è sicura. Essa deriva organicamente, dalla analisi del problema fatta da Giavoleno che noi conosciamo dal fr. 55 D.44,7. La coincidenza tra i due testi non si può disconoscere, ed ora dovrebbe essere manifesta.

   Nell’acceptilatio rinveniamo un altro esempio della nuova dottrina, nel fr. 14 D.46,4, che è dello stesso Paolo. Il passo è certamente interpolato.[68] Ma questo fatto non è decisivo per l’attribuzione della dottrina ai Compilatori. Secondo me, la interpolazione fu determinata dalla necessità di concentrare il testo, che conteneva forse indicazioni sullo sviluppo giurisprudenziale. La decisione intanto è notevole. Essa dice: nisi verum est, quod in acceptilatione demonstratur imperfecta est. La causa, dunque, deve essere vera non fittizia.

   Quest’ultimo passo compiuto dalla giurisprudenza verso il pareggiamento dei negozi solenni e iuris gentium non sorprende, ed era conseguenziale.  Il contrasto tra le due categorie di negozi si attenuava ogni giorno. Riconosciuta come essenziale in tutti i negozi la “conventio”, anche la “causa”, elemento naturale di qualsiasi affare, doveva penetrare nella complessione del negozio solenne, almeno come requisito interno. Si ricordi che la conventio era pure un requisito interno. Ma intanto il pareggiamento dei negozi solenni a quelli iuris gentium era in gran parte compiuto. La struttura interna era ormai identica. L’unico segno di distinzione era nella forma. Ed ora comprendiamo bene tutto lo sviluppo ulteriore. La giurisprudenza, con la considerazione degli elementi naturali dei negozi, veniva travolgendo la legge e il dominio inesorabile  della parola. La voce e le forme servono ora solo a dar veste alla sostanza. Il riconoscimento degli elementi naturali s’impone sempre più, scompiglia la compagine della tradizione del ius civile, o meglio la dissolve e la ricompone con nuovi elementi. La giurisprudenza procede cauta, si serve dell’esperienza su di un immenso materiale osservato con incomparabile acutezza e semplicità di mezzi. La giurisprudenza giunge a dare corpo e sostanza alla scienza del diritto con la scienza della vita.

LA  VOLUNTAS NEGLI ISTITUTI DEL IUS GENTIUM

 

Il ius gentium di regola è libero da forme solenni. In esso la volontà si manifesta naturalmente; ed è l’energia che produce in modo diretto, per sé sola o accompagnata da atti materiali, tutti gli effetti giuridici. Perciò ho espresso anche l’opinione, che la stipulatio dovette, prima in ordine di tempo, subire l’influenza del ius gentium dal momento in cui essa fu resa possibile ai peregrini. Appena iniziatasi l’elaborazione scientifica del diritto si dovette riconoscere anche per la stipulatio la necessità del “consensus utriusque”, donde poi si propagò a tutti i negozi del ius solemne. Comunque sia di ciò, l’affermazione che la volontà è la generatrice di tutti gli effetti nel territorio del ius gentium è così ovvia che non avrebbe bisogno di alcuna dimostrazione. Ma la critica moderna, sorpassando ogni limite ragionevole, è arrivata a investire pure l’importanza della volontà negli istituti del ius gentium. La cosa sembra incredibile, ma è così. Si è intrapresa una caccia spietata specialmente alla parola “animus”, specie se unita a  un participio o a un gerundio, ritenuta dappertutto, o almeno nel maggior numero dei casi, introdotta nei testi dai Compilatori sotto l’influsso della pratica orientale e della dommatica bizantina. Il leader di questo indirizzo è il Partsch,[1] uno dei più insigni scrittori del nostro tempo. Il Pringsheim[2] vi ha portato il contributo di notevoli studi per ricchezza di elementi raccolti. Il Collinet[3] in Francia, il Rotondi[4] e specialmente l’Albertario[5] in Italia seguono con fervore siffatto indirizzo, che per altro in pochi anni si è propagato rapidamente e acquista ogni giorno credito presso i romanisti.[6] Soltanto lo stato così anormale in cui trovasi la nostra scienza m’impone il dovere di indugiare alquanto su questo problema, creato dalla critica odierna, senza molta riflessione. Infatti in questo ordine di indagini c’è l’inconveniente di dover ripetere cose a tutti note e che io volevo evitare. Perciò faro il possibile per contenere, a questo riguardo, la trattazione entro i limiti più generali, toccando solo alcuni punti fondamentali. La causa dell’errore è sempre la stessa; quella di ritenere che là dove si constati un’alterazione del testo o una sicura interpolazione giustinianea, per ciò stesso ci debba essere un pensiero o una dottrina bizantina. Io ammetto, spesso l’alterazione e nego la conseguenza. Né ho bisogno ormai, dopo le esperienze contenute in questo corso, di addurre giustificazioni o una particolare dimostrazione del mio assunto. Procediamo, dunque, nella nostra indagine con quella tranquillità che si conviene.

Consensus, voluntas, animus sono nel territorio del ius gentium le forze dirette cui si riportano tutti gli effetti giuridici. Qui la volontà si manifesta allo scoperto senza l’involucro delle forme. Per ciò è riconoscibile a prima vista. E’ un elemento naturale, che opera nel diritto con la stessa forza e universalità come opera nella vita. Se il fenomeno nel campo della psicologia e delle relazioni sociali fu messo in evidenza dalla filosofia greca, non è men vero che della esperienza si giovarono i Romani nella elaborazione del ius gentium, che trae appunto tutti gli elementi dalla vita stessa, cioè dalla condotta degli uomini, dal loro modo di agire e di sentire. Nel campo degli affari Gaio 3,89ss. indica come fonte delle obbligazioni il contractus, di cui distingue quattuor genera e cioè: contractus re, verbis, litteris, consensu. Nella enumerazione gaiana forse si può rinvenire un ordine cronologico. Nei contratti “re” il primo esempio è costituito dal mutuo, che deriva forse dal nexum, in seguito all’abolizione stabilita dalla lex Poetelia del feroce diritto decemvirale. Comunque sia di ciò, la struttura del contratto “re” e degli altri generi di contratti è ben determinata nell’epoca classica.

- Mutuum. Si perfeziona con la dazione in proprietà di cose fungibili, da cui nasce l’obbligazione da parte dell’accipiente di restituire cose della stessa natura in un termine stabilito. Essenziale, senza dubbio, nel mutuo è la consegna della cosa, senza di che tale negozio non può esistere. Ma la tradizione di cose può essere fatta a varii fini nella vita; e allora come si distingue per esempio il mutuo dalla donazione? La sola dazione, è certo, non basta a riconoscere la natura del negozio. E la dottrina romana determina che l’elemento che distingue l’una dall’altra causa risiede nell’animus. In proposito ci è noto l’importante testo di Paolo che la critica nelle sue scorrerie ha finora ignorato:

fr. 3 § 1 D.44,7 Non satis autem est, dantis esse nummos et fieri accipientis ut obligatio nascatur, sed etiam hoc animo dari et accipi ut obligatio constituatur. Itaque si quis pecuniam suam donandi causa dederit mihi, quamquam et donantis fuerit et mea fiat, tamen non obligabor ei, quia non hoc inter nos actum est.

Ho detto sopra che qui l’actum est si riferisce direttamente all’hoc animo dari et accipi. Si tratta di atti che si compiono senza forme solenni. L’atto materiale è identico tanto nel mutuo che nella donazione. Unico elemento distintivo resta l’animus, cioè la volontà di colui che dà il denaro e quella dell’accipiente. E ove a questo passo di Paolo non si voglia accordare tutta l’autorità che esso ha il diritto di avere, col pretesto che Paolo, come disse Jhering, fu un fanatico costruttore, possiamo rivolgerci al principe dei romani giureconsulti, a Giuliano, per averne migliore insegnamento. In un testo folto di interpolazioni e diligentemente analizzato dai moderni,[7] si legge un periodo che è un gioiello, rispettato onorevolmente dalla critica, e che è del seguente tenore:

fr. 20 D.12,1 Iul. 18 Dig. Si tibi pecuniam donassem, ut tu mihi eandem crederes an credita fieret? Dixi donationem non esse quia non ea mente pecunia daretur ut omnimodo penes accipientem maneret, creditam non esse quia exsolvendi causa magis daretur, quam alterius obligandi.

Dunque, mutuo o donazione sono determinati dalla volontà del dante e dell’accipiente; e nella specie non esiste né donazione né mutuo. Per la donazione manca l’animus donandi, per il mutuo l’animus alterius obligandi, o come dice Paolo: ut obligatio constituatur. La frase “ea mente” è quella che domina l’una e l’altra decisione. E pertanto si potrà fare qualsiasi elenco di interpolazioni con la frase “animo donandi”, dacché queste di fronte a nozioni tecniche così chiare e precise non potranno avere alcuna importanza speciale nella dottrina. Lo stesso Giuliano nell’iniziare la trattazione delle donazioni, ne distingue varie specie, determinate dalla volontà del donante:

fr. 1pr. D.39,5 ... Dat aliquis ea mente ut... § 1 si hac mente donat sponsus sponsae...

Che questo passo sia pure inquinato da interpolazioni, non è un buon motivo per svalorare tutti gli elementi che esso contiene. La critica ha fatto abuso di un tale metodo; col dire, in sostanza, testo interpolato ... ergo non probante. Ma quest’argomentazione, com’è ovvio, non è scientifica.

E per altro si possono additare questioni e decisioni pratiche dei giuristi, dove, se non è fatta espressa menzione di animus, mens, tuttavia il responso è determinato esclusivamente dalla considerazione della volontà dell’agente. Così Scevola nel fr. 58 § 2 D.24,1 esamina la specie seguente. Un figlio di famiglia amministra i beni della madre e col denaro di lei “consentiente ipsa” acquista beni. Il figlio muore in patria potestate”. Ha diritto la madre a ripetere dal marito, che aveva la patria potestas, quel denaro ricavato dal figlio amministratore dei suoi beni? Respondit: si mater obligatum filium in ea pecunia voluit esse...si donavit. Nella specie proposta a Scevola non c’era una convenzione espressa. Il figlio amministrava e faceva acquisti “consentiente matre”. L’esistenza di una obbligazione a restituire il denaro ovvero l’esistenza di una donazione dipende tutta dalla volontà che ebbe la madre. Anche questa decisione si coordina con precisione alla teoria espressa da Giuliano e da Paolo nei testi sopra esaminati. Mancando le forme nei negozi iuris gentium la dazione di cose fungibili può essere: donazione, mutuo e così via. Decisiva è la volontà di chi dà quelle cose e di chi le riceve. Non può esservi mutuo se non c’è la volontà ut obligatio constituatur. E l’obbligazione che nasce dalla dazione di cose può essere di varie specie. Può essere di deposito, di commodato, di pegno, secondo la direzione della volontà delle parti.

- Verbis. Del contractus verbis non ho nulla da aggiungere, perché fu trattato ampiamente sopra. Sarà forse utile ricordare che tra i negozi solenni la stipulatio è designata già da Servio come “contractus stipulationum”.[8] Ma certamente il significato del termine non era allora tecnico.

- Litteris.[9] Nulla di particolare da dire sul contractus litteris, perché fu regolarmente espunto dai Compilatori nei testi del Corpus iuris. Ma l’opinione dominante con buon fondamento insegna che l’obbligazione nasceva dall’iscrizione di una somma di denaro nel codex expensi con la volontà del debitore. Che essa presupponeva una “conventio”  lo sappiamo ora dalla definizione di Pedio riportata nel fr. 1 § 3 D.2,14.

- Consensu. Questa è la più importante categoria dei contratti. Comprende i negozi più frequenti del commercio e che si perfezionano col solo consenso. Gai 3,196: Ideo autem istis modis consensu dicimus obligationis contrahi, quia neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur, sed sufficit eos qui negotium gerunt consensisse. Qui dunque il consenso è caratteristico, e non ha bisogno di altro. La convenzione genera obbligazioni reciproche, per sé stessa, quando sia fatta per una causa riconosciuta dal diritto.

E’ stato detto: se anche nell’obligatio re, verbis, litteris si esige il consensus, allora questa specie ha nulla di caratteristico, perché l’elemento che opera in essa è comune a tutte le altre figure. Anche il contratto “re” esige il consenso. Ma la risposta a questa obiezione è data dallo stesso Gaio, il quale spiega in maniera elementare, che mentre nelle altre figure oltre il consenso “si desidera” un altro elemento: re, verbis, litteris, in questa “sufficit consensisse”. Questa spiegazione mi sembra efficacissima per rafforzare la nozione che abbiamo appreso da Pedio, riferita nel fr. 1 § 3 D.2,14, che è bene tenere sempre presente. Possiamo dire, dunque, il consenso è elemento comune a tutti i contratti, in primo luogo nel campo del ius gentium. Ma vi hanno negozi in cui esso opera direttamente e da sé solo; vi sono negozi i quali abbisognano di altri elementi: re, verbis, litteris – ma anche questi “habent in se conventionem”; cioè la presuppongono nella loro struttura. Sarebbe opera superflua fare elenchi di passi delle fonti giuridiche che indicano il consensus come caratteristico di tutti i negozi dell ius gentium. Se ne potrebbero raccogliere centinaia. Né può la nozione del contractus che si perfeziona “consensu” essere comunque oscurata e menomata da qualche testo in cui l’animus vendendi o simili frasi possano essere dimostrati interpolati. Rivolgiamoci piuttosto a considerare altre figure nelle quali l’elemento della volontà è oggi battuto con maggior persistenza.

- Obbligazioni ex variis causarum figuris. I contractus non comprendono tutte le figure di obbligazioni. Gaio nel fr. 1 D.44,7, cioè sempre nel celebre titolo “De obligationibus et actionibus”, alle due categorie fondamentali di obbligazioni che nascono da contratto o da delitto, ne aggiunge una complessiva: aut proprio quodam iure ex variis causarum figuris.

La espressione gaiana è felicissima, per quanto sia stata flagellata dal Perozzi.[10] Infatti vi hanno obbligazioni che derivano dal testamento (legatum per damnationem), dalla tutela, dalla mancipatio (actio auctoritatis): delle quali può dirsi con eleganza e precisione che derivano da “proprio quodam iure”, cioè dal ius testamenti, dal ius tutelae, dal ius mancipationis e così via. Tutto ciò è ovvio; qualunque sia la costruzione dommatica inventata da Giustiniano per queste figure di obbligazioni. Ma nemmeno queste speciali figure esauriscono le fonti delle obbligazioni. Ve ne sono altre autorevolissime, in cui l’elemento della volontà è stato investito con particolare energia dalla dottrina contemporanea.

- Obbligazioni quasi ex contractu. Si tratta in primo luogo dell’indebitum e della negotiorum gestio, che non possono annoverarsi nella categoria dei contractus, bensì in quella complessa delle variae figurae. La recente dottrina, più volte ricordata, assume, invece, che anche queste figure si debbano per il diritto classico annoverare nell’ordine dei contractus.

E conseguentemente: nega che il consenso sia stato per i giureconsulti romani elemento essenziale e caratteristico del contractus; e nega, inoltre, che nelle figure or ora citate abbia avuta la volontà alcuna influenza sulla nascita delle obbligazioni relative. Or se ciò fosse vero, bisognerebbe dire che il Corpus iuris riporta un diritto tutt’affatto nuovo, nei suoi principi fondamentali, nella terminologia e nell’analisi scientifica delle categorie di diritto. Questo diritto si dovrebbe ritenere essenzialmente di formazione bizantina. E la recente dottrina ha avuto in realtà il coraggio di fare queste affermazioni. Ma si tratta di affermazioni fantastiche. Continuiamo pertanto la nostra indagine con la necessaria rapidità per riconfermare viemaggiormente con nozioni ed esempi incontrovertibili la continuità ininterrotta nel Corpus iuris della tradizione giuridica romana, di norme e di scienza, almeno nei suoi punti fondamentali.

- Indebitum. Dal pagamento di un indebito non nasce un’obbligazione ex contractu. Ciò avverte Gai 3,91: quia is qui solvendi animo dat magis distrahere vult negotium quam contrahere. In questa enunciazione è precisata chiaramente la nozione del contractus che esige l’animus obligandi. Nell’indebito questo non c’è, onde si esclude il contratto come causa dell’obbligazione. Giuliano e Paolo, come sappiamo, insegnano la stessa dottrina. La critica moderna si ribella. C’è l’animus: voilà l’ennemi, onde dichiara il testo spurio. Certo incautamente. Infatti Giuliano nel fr. 20 D.12,1 dà l’identica ragione per negare l’esistenza del mutuo nella specie che egli esaminava: creditam non esse, quia exsolvendi causa magis daretur, quam alterius obligandi.

L’elemento comune ai due testi è che il contratto “re” non nasce ove non vi sia l’animus obligandi. La dazione del denaro non basta per sé. Le frasi coincidono a capello per quanto applicate a specie diverse. E la stessa frase ripete Paulus 17 ad Plautium nel fr. 65 § 3 D.12,6; mancata la causa della prestazione fatta c’è la condictio: quoniam non contrahendi animo dederim.[11] L’idea dommatica è una: quella cioè che il contratto e quindi un’azione da contratto, presuppone una volontà diretta a stringere un’obbligazione. Per negare questa conseguenza si è voluto citare un passo dello stesso Giuliano, il fr. 33 D.12,6. Quivi il sommo giurista fa un confronto tra colui che edifica sul suolo altrui e colui che paga un indebito. Nel primo caso, dice Giuliano, nullum negotium inter nos contrahitur, e quindi non può avere luogo la condictio; nel secondo, col fatto stesso del pagamento, il presente debitore aliquid negotii gerit, onde a lui compete la condictio. Col citare questo testo si commette l’errore di identificare negotium e contractus. Giuliano, invero, non è in contraddizione con sé stesso. Negotium gerere è concetto più largo del contractus.[12] Inoltre si noti la cauta e fine espressione del giurista, il quale non dice “negotium gerit o contrahit”, bensì “aliquid negotii”; appunto per indicare una certa analogia che la specie ha con un negotium, cioè col mutuum.[13] Giuliano pertanto è in questa materia il maestro di Gaio. Il quale, com’è noto, spiega la condictio che si dà a chi ha pagato l’indebito sul fondamento di un’analogia, come nelle actiones ficticiae, proinde...ac si mutuum accepisset. Su queste figure di diritto assimilate ad altre, nella dommatica romana, ritorneremo subito.

- Negotiorum gestio. Il Partsch[14] attribuì, per primo, l’invenzione dell’animus come causa dell’obbligazione nella negotiorum gestio ai giuristi della scuola beritese. Io dissi che il Partsch non ha provato e non arriverà mai a provare il suo assunto.[15] Qui non è il luogo di rifare la dottrina romana e d’indicare dettagliatamente le cause che turbarono la elegante struttura della negotiorum gestio nel Corpus iuris e nella dottrina del diritto comune. Sarà sufficiente pertanto fissare alcuni punti fondamentali. L’actio civilis negotiorum gestorum, directa e contraria, era fondata nella teoria classica sulla volontà del gestore, il quale assumendo “sponte” la gestione di affari altrui l’assumeva con l’animus di obbligare il dominus negotii. L’alienità degli affari amministrati non basta per sé a far nascere le obbligazioni reciproche. Questa nozione è generale nella dommatica romana. La migliore affermazione di essa ci fu tramandata da Paolo nel

fr. 14 § 1 D.10,3 Diversum est enim, cum quasi in rem meam impendo, quae sit aliena, aut communis; hoc enim casu, ubi quasi in rem meam impendo, tantum retentionem habeo, quia neminem mihi obligare volui. At cum puto rem Titii esse, quae sit Maevi, aut esse mihi communem cum alio, quam est, id ago, ut alium mihi obligem; et sicut negotiorum gestorum actio datur adversus eum, cuius negotia curavi...[16]

La dottrina è inequivocabile. Un vincolo giuridico nel campo degli affari non può nascere, se non c’è la volontà dell’agente di obbligare altri a sé. Se questa volontà manca, o se il gestore ignora l’alienità dell’affare, pel ius civile non nasce obbligazione alcuna. Il diritto pretorio soltanto viene in soccorso in questo caso, concedendo al gestore la retentio. E questa massima è generale: sino al punto che tra condomini o coeredi, se uno agisce nell’interesse anche degli altri può chiedere nei iudicia divisoria il rimborso delle spese sul fondamento di un’obbligazione civile. I testi richiedono in questi casi la gestione animo heredis, contemplatione socii.  Che se invece la persona curò le cose comuni come proprie, non nasce obbligazione civile alcuna, ed essa potrà esercitare solo la retentio negli stessi iudicia divisoria. Su questo stesso fondamento si nega la condictio, e si dà solo la retentio, a chi edifica sul suolo altrui. Le applicazioni del principio sono infinite, in tutte le direzioni. Una larga trattazione ne feci nella mia opera più volte citata in questo paragrafo, per cui non occorre qui insistervi.

- Actio funeraria. Aggiungo solo un altro esempio offerto dall’actio funeraria. Questa è una applicazione particolare dell’actio negotiorum gestorum. Il possessore dell’eredità che cura i funerali del testatore, se, soccombendo nel processo, deve restituire l’eredità ha solo la retenzione per le spese funerarie, non una azione: fr. 32pr. D.11,7, e il motivo è dichiarato in una maniera precisa nel fr. 14 § 11 D.11,7: quia non hoc animo fecit quasi alienum negotium gerens. I due passi ora citati sono interpolati,[17] perché nel nuovo diritto la retentio, o l’actio in factum che poteva accordare il pretore in alcuni casi, furono trasformate in azioni civili, come di consueto. E accertato il principio classico, si deve riconoscere ora che il § 7 dello stesso fr. 14 citato, per quanto folto d’interpolazioni, nel fondo riproduce concetti e usi classici, come appare dal confronto con Seneca de benef. V, 20. Il Väzny infatti ha dimostrato bene la necessità e l’uso della testatio da parte di chi assumeva le spese di funerali, onde fosse noto “quo animo funerat”, se per “misericordia” o “negotium heredis gerens”.[18] I rilievi del Väzny hanno anche un valore generale, in quanto provano che, ove sia dimostrata l’alterazione di un testo, non per ciò si deve ritenere bizantino il suo contenuto.

Ma tornando all’argomento principale, dico che la conseguenza ultima è appunto quella affermata più sopra, che le obbligazioni negotiorum gestorum nel diritto classico erano fondate sulla volontà di chi gerisce gli affari altrui.

- Diritto giustinianeo. Per spiegare, poi, la confusione che apparisce su questo punto di diritto nel Corpus iuris, e il caos della dottrina del diritto comune, ricorderò ancora che la confusione e il caos furono determinati dalla fusione  del ius civile e del ius honorarium attuatasi nel Corpus iuris per opera di Giustiniano. Il pretore romano in mille casi svariatissimi aveva accordato actione utiles o in factum, secondo le esigenze dell’equità, in casi per i quali le actiones negotiorum gestorum non potevano aver luogo. Un esempio perspicuo l’abbiamo visto or ora nella funeraria. Ma sparita la differenza tra actiones directae e actiones utiles nella extraordinaria cognitio (fr. 47 D.3,5), Giustiniano fuse in un sol corpo tutte quelle azioni che avevano presupposti tanto diversi, e così la nozione dommatica della negotiorum gestio si sconvolse tutta.

- Negozi quasi ex contractu. Procedendo oltre rispetto alla dottrina classica, affermo: che la gestione di affari altrui intrapresa “sponte” non fu riconosciuta come un contratto, perché mancava la “conventio”. Fu riconosciuta come una speciale figura di obbligazione, fondata sulla volontà del gestore: ut alium sibi obliget.[19] Questa frase, come ora sappiamo, ritorna in tutti i testi teorici, per spiegare, qua l’obbligazione che nasce dal mutuo, altrove quella che nasce dalla gestione, e al contrario per spiegare la mancanza della obbligazione nella causa donandi. L’animus, dunque, è la forza centrale generatrice delle obbligazioni, di vario grado e struttura, nel campo degli affari. E anche alla gestione i Romani assegnarono il suo posto nel sistema delle obbligazioni. Esclusa dalla categoria del contractus,[20] e ovviamente da quella del delictum, la inclusero nelle variae figurae iuris. Ma tra queste essa ha la sua particolare posizione, determinata dalla struttura della formula che era analoga a quella del mandatum. Gaio 3 Aureor. fr. 5pr. D.44,7 dice: eoque nomine proditae sunt actiones quas appellamus negotiorum gestorum, quibus aeque  (scil. sicut in mandato) invicem experiri possunt de eo quod ex bona fide alterum alteri praestari oportet.

E la dottrina la determinò più precisamente come obbligazione che deriva quasi ex mandatu; come già l’indebitum potè essere avvicinato al mutuum, e l’obbligazione, se mai, designata quasi ex mutuo.

Il criterio più sicuro di classificazione era offerto in questo caso dalla struttura della formula. Ciò era ovvio per i Romani, che operano principalmente con le denominazioni delle actiones e quindi con gli schemi procedurali. In proposito c’è un esempio insigne che ebbi occasione d’indicare altrove. Dalla interrogatio in iure, che ha luogo in alcuni casi, deriva un’azione che ha fondamento nella risposta data al convenuto il quale “ex sua responsione convenitur”. La interrogatio procede in  in iure ad imitazione della stipulatio. E’ l’attore che interroga. E la formula era indicata e costruita certamente come se il convenuto fosse “quasi ex stipulatu obligatus”. Tutto questo procedimento appare dai fr. 9 e 11 D.11,1 che subirono naturalmente notevoli alterazioni.[21] In particolare, Giustiniano mutò la frase “quasi ex stipulatu” nell’altra “quasi ex contractu”. L’esempio è assai istruttivo. Dacché esso illumina tutto un processo di sviluppo dovuto certamente alla pratica giudiziaria del periodo postclassico. Mentre i Romani operano con le formulae e per via dei analogia alle formulae: quasi ex mutuo, quasi ex mandato, quasi ex stipulatu; nel diritto postclassico, sparite le formole, l’analogia si rivolse al contractus. Così nacque la categoria generale delle obbligazioni che derivano “quasi ex contractu” e che è ancora viva nel diritto moderno. E se si guarda l’origine storica, essa non è assurda. Ha piuttosto buoni fondamenti teorici, siano pure parziali. L’errore di Giustiniano fu solo quello di aver voluto fare una categoria generale “quasi ex contractu” comprendente l’obbligazione del legato e della tutela che nulla hanno a che vedere coi negozi del commercio. Interpreti antichi osservarono e notarono il carattere arbitrario dell’assimilazione al contratto di quest’ultime figure.[22] E sull’argomento un’ultima osservazione vorrei fare relativa al momento storico in cui questa sistemazione delle cause delle obbligazioni si viene compiendo nell’epoca classica. Noi sappiamo già che il lavoro di formazione delle dottrine ferve per tutto il primo secolo dell’Impero. Nel periodo adrianeo l’opera si avvia al suo compimento. Classificazioni, nozioni generali vengono fissate o almeno tentate: in primo luogo la definizione generale della “conventio” data da Pedio. Le Istituzioni di Gaio non conoscono questi ultimi risultati della dottrina, perché derivano da un’opera tralaticia. Ma la dottrina si svolgeva rapidamente al tempo di Gaio. Egli potè quindi solo nell’opera più larga e più sua, nelle Res cottidianae, alle due fonti principali delle obbligazioni aggiungere quella: ex variis causarum figuris; determinando poi di ciascuno figura di questa classe complesso il fondamento e la individualità. Se ciò è probabile, risulta, di conseguenza, affatto arbitrario parlare, come fanno i critici moderni, di rifacimenti e di elaborazioni delle opere gaiane nel periodo postclassico. Tutte le congetture di simile genere sono campate in aria; perché, senza la cognizione dello sviluppo delle dottrine romane, che è ancora un mito, non si può giudicare il valore delle opere ed attribuire al periodo postclassico il contenuto di esse.

- Acquisto del dominio. Passando ora all’acquisto e alla perdita del dominio con le forme riconosciute dal ius gentium, e in particolare all’acquisto, alla durata e alla perdita del possesso, il valore della volontà risalta, se possibile, viemaggiormente.

Traditio. Gaio nel fr. 9 § 3 D.41,1 ha cura di dare la spiegazione dell’acquisto del dominio per mezzo della tradizione. Egli scrive: nihil enim tam conveniens est naturali aequitati quam voluntatem domini volentis rem suam in alium transferre ratam haberi. Contro questo passo non si sono elevati sospetti.[23] Né questi potrebbero infirmare la dottrina medesima. Che la tradizione assume efficacia in primo luogo dalla volontà è  ormai un principio indiscutibile, dopo quel che abbiamo detto del mutuo, dell’indebito, della donazione. Sappiamo anzi che per Giuliano non si esigeva altro che la volontà, anche se c’era divergenza sulla causa (fr. 36 D.41,1). E lo stesso Giuliano nel fr. 1 § 2 D.41,9 insegna che consegnate le cose allo sposo in vista del futuro matrimonio, il passaggio del dominio o l’inizio dell’usucapione dipende dalla mens del costituente la dote: et Iulianus inquit, si sponsa sponso ea mente tradiderit res, ut non ante eius fieri vellet, quam nuptiae secutae sint, usu quoque capio cessabit.

Nella tradizione, dunque, è possibile quello che non è possibile nella mancipatio, cioè che il dominio delle cose tradite si trasferisca dopo avveratasi una condizione o dopo un certo tempo. La tradizione riceve tutta la sua forza dalla volontà, la quale ne determina con precisione gli effetti. Del resto nel campo del ius gentium, l’elaborazione scientifica delle figure di diritto compiute dalla giurisprudenza arrivò a risultati sorprendenti che potremo più agevolmente seguire con lo studio della teoria del possesso.

Possessio. La dottrina del possesso è tutta una creazione della giurisprudenza classica. I veteres conoscevano il possesso come un fatto materiale stabilito in forza di una causa giusta o ingiusta. Labeone inizia l’analisi del fatto del possesso, e lo scompone in due elementi: uno intenzionale, animus, l’altro fisico, corpus. Prima di Labeone non c’è traccia di quell’elemento intellettuale.[24] E che l’analisi abbia avuto inizio con Labeone si manifesta anche in ciò, che il grande giurista innovatore ritenne possibile acquisto del possesso “solo animo”.[25] Proculo e Nerazio corressero questa dottrina, dicendo che si può acquistare il possesso “solo animo” quando già la cosa sia in potere della persona: si antecedat naturalis possessio.[26] Ma allora il possesso si costituisce per la coesistenza di due elementi, e nel momento della coesistenza medesima, perciò sempre: animo et corpore. Affermato questo punto la teoria si svolse rapidamente in tutte le direzioni, assumendo un’agilità meravigliosa. La dottrina del possesso è il capolavoro della giurisprudenza classica; un superbo prodotto del genio romano, formatosi con l’osservazione acuta dei fatti della vita, analizzati nella loro realtà più viva, nelle forme varie che essi assumono nel travaglio incessante degli uomini attorno ai beni materiali. Si riconobbe infatti, che l’acquisto di cose pesanti o voluminose può compiersi oculis et affectu, quando le cose siano in presenza;[27] anche per mezzo di un custode;[28] se si tratta di un immobile stando in un punto di esso, e con la volontà di volerlo tutto possedere (hac mente);[29] per mezzo di schiavi propri o mercenarii anche liberi, che realizzino l’apprensione materiale delle cose, che l’acquirente vuole avere;[30] ordinando che le cose siano portate in luogo di cui l’acquirente ha piena disponibilità, quindi nella casa propria,[31] o nel fondo, se si tratta di cose destinate al fondo.

Dagli esempi accennati emerge che l’elemento spirituale, appena riconosciuto, viene assumendo un’importanza sempre prevalente nel possesso, non per mera speculazione dottrinaria ma perché tale esso si manifesta nella vita e nel moto incessante degli uomini attorno le cose materiali. Ciò è tanto vero, che se l’acquisto del possesso è originario, in contrapposto all’acquisto per tradizione, allora si richiede la materiale apprensione della cosa. Così nella caccia, non basta che la selvaggina sia ferita mortalmente, ma deve essere presa. Ma anche qui l’apprensione non si richiede sia fatta sempre con le proprie mani; è anche sufficiente che il cinghiale, per esempio, sia caduto nei lacci preparati dal cacciatore. Quel che importa è che la cosa sia realmente in potere dell’acquirente.[32] Se nell’acquisto, dunque, per tradizione il possesso trapassa più facilmente ciò avviene in virtù della volontà, per cui ad un potere di fatto si sostituisce quello di un altro. La cosa può restare nel luogo in cui essa era. Così avviene quando si segnano le travi che si consegnano, o si segna un marchio ad animali che restano nello stesso gregge,[33] o si diano le chiavi all’acquirente  delle merci chiuse in un magazzino che è sul posto.[34]

Rispetto alla durata del possesso l’animo ha un’importanza anche maggiore. Il possesso si mantiene “solo animo” per esempio in luoghi inaccessibili nell’inverno[35] o invasi da inondazione o di cose nascoste in un luogo di cui possiamo smarrire per un certo tempo la memoria. E si mantiene “animo” il possesso di fondi o di cose date in affitto, in deposito, a comodato o comunque affidate alla custodia di altri. E a queste persone se vogliamo trasferire la proprietà non è necessaria la traditio, basta la sola volontà loro manifestata, e che essi vogliano “animo” acquistare possesso e dominio anche senza compiere un nuovo atto di apprensione. Celso ne trasse una ulteriore conseguenza, che la critica odierna ha ritenuto esorbitante, negandone la paternità al giureconsulto romano. Celso insegnò che il possessore di una cosa, se non vuole possedere per sé ma per altri, cessa di possedere e diviene un semplice detentore, ministro dell’altrui possesso. La critica alla dottrina esposta da Celso è infondata.[36] In questo momento, cioè nell’epoca adrianea, si ammise pure che il possesso si può acquistare per mezzo di una persona libera, vale a dire per mezzo del procuratore. Non s’intendeva con ciò violare il principio “per liberam personam non adquiritur” che era inviolabile per il ius civile. Questa specie di acquisto era,  a prima vista, contraria al ius civile, e perciò fu discussa, ma alfine fu ammessa, certo per la considerazione che l’acquisto avviene animo da parte di chi vuole avere il possesso, mentre il procurator realizza solo l’elemento materiale. Secondo la nuova dottrina romana, esso non offende perciò il principio del ius civile.

Lo stesso effetto si ammise nel mutuo. Se l’avente potestà ordina al creditore di consegnare il denaro richiesto a mutuo al proprio servo o al figlio, la numeratio si considera fatta direttamente all’avente potestà, che resta obbligato per il mutuo direttamente, non già mediante azioni pretorie.[37] Lo stesso si riconobbe nel caso che fosse dato ordine di eseguire la numeratio ad una persona libera; o se alcuno dà denaro a mutuo per conto di altri . In quest’ultimo caso il mutuo s’intende contratto col terzo designato, quando ci sia la sua volontà.[38]  Questa felicissima costruzione apparisce appunto nella dottrina del periodo adrianeo, e fu resa possibile dal progresso della teoria del possesso la quale aveva ammesso un acquisto “animo nostro corpore alieno”. L’acquisto del diritto è conseguenziale. Le esigenze della pratica danno sempre nuovo impulso allo sviluppo più largo della dottrina. La giurisprudenza aveva ormai nell’elemento della volontà la forza viva che opera nella vita e dà alle azioni degli uomini la sua impronta.

Quanto alla perdita del possesso essa si verifica ora col venir meno dell’uno o dell’altro elemento: vel corpore vel animo. Col solo animo,come nel caso del constitutum possessorium secondo la costruzione di Celso sopra accennata; onde non può dubitarsi che il possesso può perdersi con la sola “affectio”. Ciò dice Paolo nel fr. 3 § 6 h.t.: itaque si in fundo sis, si tamen nolis eum possidere protinus amittes possessionem. Gaio IV, 153 ci rappresenta il caso inverso: plerique putant animo quoque retinere possessionem... si non relinquendae possessionis animo sed postea reversuri inde discesserimus retinere possessionem videamur. Lo stesso dice Papiniano: fr. 44 § 2 h.t. E lo sviluppo della dottrina si osserva nelle fonti, sino alla formulazione precisa riportata da Ulpiano nel fr. 17 § 1 h.t. Perciò non si può buttar via, come fanno i moderni, la motivazione che si legge nel fr. 37 D.13,7 di Paulus ad Plautium, cum et animus mihi retinendi sit et conducenti non sit animus possessionem adipiscendi. Jhering non ha avuto la giusta sensazione dell’imponente sviluppo della teoria del possesso in base alla volontà, onde ha vituperato Paolo, a proposito di questa motivazione. Vero è che per gli antichi giuristi la causa era decisiva per il trapasso o meno del possesso; ma è certo pure che la dottrina più progredita ricondusse l’esistenza del fatto del possesso ai due elementi: animo et corpore. La causa allora fu considerata soltanto per la possessio civilis. E la durata o la perdita del possesso animo suscitò problemi complicati nella giurisprudenza particolarmente nei casi  di possesso tenuto per mezzo di affittuari o di occupazione clandestina dei fondi, [39] o d’infedeltà del depositario. Ma non è qui il luogo di seguire lo sforzo dei giuristi in ordine a questi punti e alle divergenze d’opinioni di cui si scoprono tracce evidenti in testi manipolati dai Compilatori. Mi rivolgo piuttosto a indicare alcuni problemi speciali, in cui il dibattito fra i giuristi è palese e il risultato cospicuo per la dottrina della volontà.

Traditio brevi manu. Abbiamo visto che il possesso di acquista “solo animo si antecedat naturalis possessio”. Ne segue che per il depositario di una somma di denaro, se riceve in mutuo quella stessa somma dal deponente,  nasce subito il mutuo perché egli acquista la proprietà della pecunia senza bisogno di nuova apprensione: fr. 9 § 9 D.12,1: animo enim coepit possidere. Nel testo sono citati Nerva, Proculo e Marcello. Il nome di Proculo si rinviene anche in fr. 3 § 3 D.41,2, ed è, certo, l’autore della massima, stabilita come conseguenza del principio, che il possesso si acquista “solo animo, si antecedat naturalis possessio”. Non è lecito perciò dubitarne. Nerva filius è poi citato da Papiniano nel fr. 47 D.41,2 a proposito del depositario infedele, cui è attribuito immediato acquisto del possesso con la sola volontà. Se il testo in esame 9 § 9 è difettoso, per l’incongruenza dei verbi (permisi tibi...coepit) non si può per questo metterne in dubbio il contenuto come si è fatto.[40] Il vizio deriva da manipolazioni di forma eseguite dai Compilatori. Il testo fu concentrato, per eliminarvi, forse, dubbi di giuristi e sviluppi. Che il suo contenuto sia classico si desume dal commento di Amblico, vissuto prima di Giustiniano. In uno scolio Stefano[41] riferisce l’entusiasmo di Amblico per il testo, che egli conosceva nella forma originale: apanta gar crhsai metabeblhntai rhmati despoteia nomh sunallagma, kindunoj, agwgh. Ma Stefano nell’inizio della sua nota fa allusione pure alla controversia dei giuristi: Hsan tinej oi legontej...

La decisione è poi confermata da Gaio, che vuol rafforzare il principio della potenza della volontà nel trasferimento e acquisto del dominio per tradizione: fr. 9 § 5 D.41.7 Interdum etiam sine traditione nuda voluntate domini sufficit ad rem transferendam... Onde il problema si riporta al punto di indagare se il depositario ha bisogno di alcun atto per l’acquisto del possesso e del dominio. Nel caso di tradizione Gaio lo esclude certamente come appare dal verbo sufficit che egli adopera. Se è sufficiente a trasferire il dominio vuol dire che il possesso è acquistato; perché è un presupposto. Ma d’altra parte il possesso non s’acquista senza la volontà. La conseguenza è dunque che il depositario animo coepit possidere. Il dubbio è nato soltanto perché si è voluto innestare qui un altro problema, cioè: se il depositario costituisce di avere per sé la cosa depositata commette furto sine contrectatione? La maggioranza dei veteres e poi Sabino e Cassio lo negarono. L’animus infitiandi non basta per ammettersi il furto.[42] Ma è ovvio che i due problemi hanno elementi assai diversi. Nella traditio brevi manu opera la volontà del deponente, e agevola l’acquisto al depositario, il quale al postutto ha la cosa in suo potere; nel caso di furto c’è il danno del deponente, c’è un delitto, con gravi conseguenze, e soprattutto si tratta di un acquisto originario del possesso, che esige l’apprensione corporale della cosa. Tutto ciò per dire che il problema dell’acquisto del possesso solo animo fu dalla giurisprudenza certamente posto, discusso e risoluto in senso diverso, nel caso del mutuo affermativamente, per il furto negativamente. Né ciò significa che i veteres abbiano conosciuto la dottrina dell’animus nel possesso. Significa, invece, che il problema dell’animus nei delitti si presentò alla giurisprudenza, per sé stesso, prima che s’iniziasse l’analisi e lo sviluppo della teoria del possesso. Su questo punto tornerò subito.

Iactus ex nave. L’antica  dottrina ritenne certamente derelictae le merci gettate dalla nave durante la tempesta. Il responso in questo senso era ancora riportato da Minicio, che riferiva dottrine di Sabino e Cassio. L’antica dottrina considerava solo il fatto nella sua spietata oggettività: e decideva: le merci gettate in mare nel momento del pericolo sono abbandonate. La decisione contraria intanto è data da Giavoleno l. 7 ex Cassio nel fr. 21 §§ 1.2 D.41,2, e ribadita da Giuliano nei fr. 8 D.14,2 e 7 D.41,7 entrambi estratti dal l. 2 ex Minicio. Giavoleno nega la derelizione e usa la parola “existimo”; Giuliano (fr. 8 cit.) annota il responso dell’opera di Minicio con la motivazione: qui levandae navis gratia res aliquas proiciunt non hanc mentem ut eas pro derelicto habent. Questa è analisi psicologica fatta dai giuristi, la quale scardina responsi e giudicati degli antichi con una più reale interpretazione dei fatti. I quali per sé stessi non danno elementi sicuri di classificazione. Se si tratta di atti umani il loro valore è segnato dalla volontà che li determina. Il gettito delle merci nel pericolo del naufragio è determinato da disperazione, eseguito con angoscia, non è volontario. La parola “sponte” ricorre nelle decisioni relative alla derelictio. Il iactus ex nave non è sponte. Dai testi perciò apprendiamo che la derelictio presuppone la volontà del proprietario diretta ad abbandonare il dominio. Giuliano usa la solita frase: hanc mentem. Il momento della revisione della dottrina è significativo, cioè nel primo secolo. L’analisi, secondo il genio della giurisprudenza romana, s’inizia sempre dal caso singolo, concreto. Quando esso è risoluto, c’è già un punto fermo da cui si procede a tutte le conseguenze che ne derivano. Nel tema della derelizione, l’opinione di Giavoleno è adottata universalmente. Dopo Giuliano la insegna Gaio negli stessi termini: fr. 9 § 8 D.41,1 quia non eo animo eiciuntur quod quis eas habere non vult.[43] E’ possibile che la regola generale sia stata formulata dai Compilatori, dacché il testo che la riporta è nella chiusa disastroso:[44] I. 2.1.47: Pro derelicto autem habetur, quod dominus ea mente abiecerit ut id rerum suarum esse nollet. Ma non si è per ciò stesso autorizzati a ritenere spuria tutta la dottrina. Gaio IV, 153 esige appunto per l’abbandono del possesso: animus relinquendae possessionis. Il confronto è qui decisivo. Le conseguenze intanto sono notevoli; e germogliano una dopo l’altra, si assommano tutte, discusse e risolute dalla giurisprudenza. Se il dominio delle cose gittate resta immutato non può aver luogo il diritto d’occupazione. Chi le prende non ha il titolo per l’usucapione.[45] Ma che è a dire del possesso? E del furto? Questi problemi non erano così semplici come sembra oggi a noi, edotti dall’esperienza romana. Ulpiano nega che si conservi il possesso delle pietre andate a fondo del Tevere per naufragio: fr. 13pr. D.41,2: dominium me retinere puto, possessionem non puto. Qui dunque non era applicabile la regola “animo retinetur possessio”. Ma questa opinione non poteva essere generale. Ed inoltre, se non c’è interversio possessionis può esservi furto?[46] Gaio l’ammette nel fr. 9 § 8 D.41,1 citato: cfr. 3pr. D.47,9. Ulpiano nel l. 51 ad Sab. fr. 43 § 11 D.47,2 trattava la questione ex professo: quaestio in eo est, an pro derelicto habitum sit? Lo squarcio che segue è orrendo: contiene quattro ipotesi, una presunzione (plerumque, credendum est), quattro situazioni dell’animus, un latino barbaro. Eco i trionfi della critica moderna, la quale dimostrate le interpolazioni, decide: l’animus derelinquentis è bizantino.[47] La frase, dico io, sì, ma non la sostanza. La dottrina è ferma fin da Giavoleno, e nega appunto la derelictio in base all’animus. E la grave interpolazione del passo di Ulpiano si spiega con la solita ragione legislativa. Il problema dell’ammissibilità del furto delle merci gittate nel pericolo del naufragio fu discusso dalla giurisprudenza a cominciare da Giavoleno sotto varii aspetti. Del requisito dell’animus furandi dirò più oltre. Se Ulpiano riferiva ampiamente, com’egli suol fare, lo sviluppo della dottrina, era necessario l’energico intervento dei Compilatori per rabberciare i varii elementi del testo che essi sanno poi colorire a modo loro. Questo sanno fare e fanno i Bizantini, sempre. Nuove dottrine, maturate dalle scuole, non ne conoscono. Si fa un bell’elogio a quelle scuole orientali attribuendo loro le sciocchezze più madornali. E sommamente sorprende rispetto alla critica di questo testo il procedimento dell’amico Berger, il quale nell’esame del problema, di cui ci occupiamo, comincia proprio dal passo di Ulpiano, considerandolo come la chiave di tutta la dottrina del Corpus iuris, onde svalora le note di Giavoleno e di Giuliano, nega lo sviluppo della giurisprudenza su questo punto, e fa anch’egli, critico tanto severo e moderato, almeno questa volta, il modernista.

 

- La volontà nei delitti.  L’importanza della volontà nei delitti emerge con maggiore chiarezza nelle fonti, onde la dimostrazione ne è più agevole e può essere contenuta in limiti molto ristretti. Del resto la critica moderna ha rispettato in questo campo la volontà.[1] Solo l’Albertario l’ha voluto investire, dimostrando una grande fretta di conchiudere. Quel che è molto rimarchevole si è che l’influsso della dottrina aristotelica si manifestò vigoroso in questo campo già nel periodo della Repubblica, e prima che agisse sugli istituti del diritto patrimoniale e quindi sui negozi del commercio. Nel periodo dell’Impero, da Labeone a Giuliano, l’elaborazione scientifica dell’elemento volitivo abbraccia tutto il campo del diritto, e precede nei vari istituti di pari passo.

L’antico diritto romano, come quello di tutti i popoli primitivi, colpisce il fatto materiale che lede i privati o la comunità. Ciò si osserva anche nella Grecia. In Roma le XII Tavole ne offrono esempi insigni nelle disposizioni riguardanti il furtum e nelle pene relative alle lesioni corporali, le quali sono distinte minuziosamente. L’elemento psicologico non è considerato. Il fatto è tutto, così come nei negozi la parole è tutto. Perciò anche l’impubere è passibile di pena. L’elemento intenzionale, invece, ha il primo posto, anche rispetto ai delitti, nella dottrina aristotelica. Il fatto per sé è niente, il delitto dipende dalla volontà. Aristotile[2] riporta vari esempi: furto, ingiuria, adulterio, che intanto sono azioni delittuose in quanto fatte con l’animo di sottrarre ad altri per proprio lucro, di arrecare ingiuria, di commettere adulterio: kai mh proj thn praxin alla proj thn proairesin. La formulazione è notevole. In essa si nota la solita caratteristica della filosofia greca che mescola insieme diritto e morale, delitto e immoralità.

L’influenza della dottrina nel mondo romano si manifesta già nella Repubblica. Un esempio è riferito da Valerio Massimo VI,1,8: non factum tunc sed animus in quaestionem deductus est.[3] Catone, invece, nell’orazione a favore dei Rodii difende la tradizione romana: neminem qui facere voluit plecti aequum est, nisi quod factum voluit etiam fecerit.[4] Ma la diffusione della dottrina è agevolata dal momento in cui si determina il predominio della filosofia stoica in Roma.[5] Paolo Sent. V,23,3 scrive: consilium enim uniuscuiusque, non factum puniendum est. Perciò il tentativo si considera come delitto compiuto. La volontà sola è decisiva.[6] Ma ciò nel campo dei crimini.

Per i delitti privati, dei quali vogliamo occuparci più particolarmente, il contrasto sul proposito è visibile e molto vivace nella giurisprudenza. L’esempio migliore lo rinveniamo nel furto, che si ricollega intimamente allo sviluppo della teoria del possesso. Il problema fu agitato a proposito della infitiatio del deposito. Si può ammettere il furto sine contrectatione. La controversia è riportata nel fr. 3 § 18 D.41,2, da cui apprendiamo che la maggioranza dei veteres lo negò e così Sabino e Cassio. Il fr. 68pr. D.47,2 di Celso è sicuramente interpolato, più del  precedente; ma l’inizio di esso riporta la dottrina negativa, che io ritengo appunto quella seguita da Celso.[7] Più notevole è il fr. 225 D.50.16 di Triphoninus che pare modellato sulla trattazione aristotelica sopra citata. Coincidono gli esempi: furto, adulterio. Il giurista riconosce l’importanza dell’animus ma conchiude con la dottrina dominante romana, escludendo il delitto se esiste sola animi propositio. Il passo è del resto assai mendoso, e sappiamo ormai per esperienza che  le corezioni del Mommsen sono ingannevoli. Si deve dire, invece, che Trifonino in una disputatio, da cui il passo proviene, doveva trattare l’argomento con larghezza e profondità, e che i Compilatori ne hanno ricavato un sunto.[8] Le alterazioni più gravi dei passi fondamentali pertinenti ad un punto di diritto segnalano per lo più nel Corpus iuris la eliminazione di controversie tra i giuristi. In proposito noi conosciamo la radice stessa della controversia, che è attestata. Non solo alcuni dei veteres, ma pure Labeone che aveva ammesso acquisto del possesso solo animo, e anche Proculo, che aveva ammesso lo stesso acquisto “si antecedat naturalis possessio”, poterono rappresentare la dottrina che il depositario acquista il possesso con la sola volontà e commette furto sine contrectatione. Certo è che Sabino e Cassio sono riportati come avversari di questa dottrina, e la citazione è fatta da Paolo, non già da un Sabiniano come Gaio. Inoltre, Mela nel fr. 52 § 7 D.47,2 in una specie diversa ammette furto sine contrectatione.[9] E la formula medesima, se e in quanto fosse possibile furtum sine contrectatione, era certamente nota, discussa dai giuristi del primo secolo ed analizzata, come appare dai riferimenti di Gellio dall’opera iuris civilis di Sabino.[10] Il quale scriveva: furtum sine ulla quoque adtrectatione fieri posse, sola mente atque animo, ut furtum fiat adnitente. Sabino, dunque, l’ammetteva ma solo rispetto ai complici. La dottrina del furto, come quella del possesso, era ancora malferma, era cioè nel periodo di formazione. Tutte le difficoltà derivavano dalla giusta valutazione dell’elemento intenzionale. Questa è una verità indiscutibile, seppure possiamo ignorare i particolari e le vicende del dibattito. Ma il trionfo della teoria sabiniana si manifesta deciso nella giurisprudenza postadrianea. Per ammettersi il furto si richiede l’uno e l’altro elemento: l’animus furandi, che deve attuarsi con la contrectatio, anche se la cosa è già nel potere fisico dell’individuo. Il numero dei testi che esigono come necessaria la contrectatio[11] e come caratteristico l’animus furandi,[12] è considerevole sia nel Corpus iuris sia nelle fonti pregiustinianee. Animus furandi  o lucri faciendi causa sono usati promiscuamente, senza alcuna distinzione, dacché rappresentano il dolo specifico del reato di furto. Anche in questo l’insegnamento viene da Aristotile, il quale non esige solo la sottrazione della cosa: all’ei epi blash eklepse kai sfeterismw eautou.[13] Nelle fonti romane nel periodo classico questo elemento è indicato di continuo e non soltanto nella forma gerundiva lucri faciendi causa. Così Ulpiano scrive: fr. 65 D.47,2 Qui ea mente quid contrectavit ut lucrifaceret; Gai 56 § 1 eod. Si quis usum alienae rei in suum lucrum convertat; Gai 5 § 1 D.41,1 (Trebatius) eo animo ut ipse lucrifaceret.[14] Ne segue che se non c’è lucro non è ammissibile l’actio furti.[15] L’opinione dei più antichi giuristi, che non tenevano conto dell’elemento del lucro fu respinta dalla giurisprudenza classica.[16] Onde se qualche scrittore oggi vuol negare quest’elemento intenzionale nel furto, ciò deriva dall’importanza sproporzionata che si è data a singole interpolazioni, e altre volte da superficiale interpretazione dei testi. Infatti è ovvio, che l’animus furandi per sé, anche attenuato con la contrectatio, non è sufficiente per ammettersi il furto. La giurisprudenza richiese ancora un terzo elemento, cioè il fatto compiuto invito domino. Se la res è nullius, o il dominus è consenziente, l’opinione dell’agente non può costituire il reato che manca del presupposto fondamentale, cioè il danno altrui. Qui siamo precisamente nel campo dei delitti privati, che esigono vi sia un danno, cui corrisponde la pena come riparazione. Le decisioni contrarie di alcuni giuristi del primo secolo, che diedero un valore eccessivo all’animus per sé, anche nei casi sopraindicati, furono corrette dalla dottrina posteriore.[17] Questo dimostra il travaglio della giurisprudenza classica nella formazione della teoria del furto, che segue le stesse vicende di quella del possesso; perché nell’una e nell’altra l’elemento intenzionale viene a essere considerato come costitutivo del fatto, ma contenuto nella giusta proporzione, come richiedevano sia le finalità del diritto sia l’analisi dei fatti osservati nella pratica della vita. Volere pertanto attribuire l’animus furandi, lucri faciendi o l’animus possidendi ai bizantini significa ignorare tutto il progresso delle dottrine giuridiche compiutosi mercè l’opera illuminata della giurisprudenza classica.[18]

 

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  Possiamo ora raccogliere le fila di questa lunga indagine rispetto all’importanza della volontà nel diritto e nell’elaborazione  della dommatica giuridica fatta dalla giurisprudenza classica. Per quanto il materiale sottoposto ad esame sia in complesso sparuto, di fronte al contenuto del Corpus iuris, pure l’opinione che pretende oggi di svalutare la volontà in confronto ai verba e agli elementi oggettivi dei negozi si deve ritenere sbagliata. E’ un errore di visione madornale che ha condotto la critica odierna all’abisso. Essa ha trascurato lo studio delle dottrine, e guardando i testi alla superficie, dal lato quasi solamente filologico. ha attribuito anche il contenuto di tutte le interpolazioni ai Bizantini, senza vedere nulla della faticosa e meravigliosa opera della giurisprudenza classica. Non si è accorta perciò che nell’ultimo secolo della Repubblica si era manifestato potente l’influsso della cultura greca anche nel campo del diritto, determinando nuovi metodi di interpretazione e di analisi dei fatti giuridici che devono l’impulso e la possibilità di creazione della scienza del diritto. E questa erronea visione del problema, e dei fattori e delle fasi dello sviluppo del diritto romano, è tanto più deplorevole in quanto il risultato più cospicuo di tutte le indagini storiche del sec. XIX da Savigny, da Sanio a Joers, a Voigt, a Pernice e allo stesso Jhering, era appunto il riconoscimento d’una nuova era inauguratasi sul finire della Repubblica nella interpretazione e nella trattazione del diritto, determinata dalle fresche correnti del pensiero greco. Se il lavoro immenso, compiuto con fervore dalla scuola storica nel sec. XIX, non pervenne a risultati concreti e definitivi, ciò si deve solo al difetto d’analisi critica dei testi, perché mancava allora il mezzo di discernere nel  groviglio dei testi, devastati dai Compilatori del sec. VI, il progressivo sviluppo delle dottrine nel periodo classico e la formazione lenta e difficile del sistema del diritto privato. Il tentativo del Pernice, nella sua opera di Labeo doveva fallire necessariamente, perché prematuro. Il Lenel, per primo, nell’opera fondamentale Da Edictum Perpetuum, poi l’Eisele e il Gradenwitz insegnarono il metodo per scrutare e scomporre i vari elementi racchiusi nei frammenti del Corpus iuris. Ma quei primi Maestri affrontarono raramente le dottrine, ben consapevoli delle profondità che esistono nel Corpus iuris, e d’ordinario si limitarono alla diagnosi delle interpolazioni. I giovani scolari, invece, credettero di poter toccare il fondo del Corpus iuris derivando dalle interpolazioni le dottrine, uno ictu, considerando le une e le altre come un tutto inscindibile rispetto alla paternità, e per ciò saltando quattro secoli di elaborazione giurisprudenziale del diritto. E pertanto essi furono portati a rappresentare il ius civile romano immobile dalle XII Tavole a Diocleziano; come se i giuristi classici si fossero beati, da Servio a Modestino, a cantare il diritto delle XII Tavole ut carmen necessarium. Di conseguenza essi scoprirono Platone e Aristotele nel Corpus iuris, che sarebbero passati da Berito a Costantinopoli e poi a Bologna,[19] non da Roma, per diffondere le loro dottrine. Noi abbiamo visto invece che il periodo più fervoroso nella formazione della scienza giuridica cade dall’epoca ciceroniana  a quella adrianea e sotto l’influsso diretto di dottrine greche, ma vagliate, discusse, sperimentate nella pratica dalla giurisprudenza che ha vivo il senso della realtà e sempre presenti la natura e la finalità del diritto. Da quel momento s’inizia il lavoro delle dottrine con una più profonda analisi e interpretazione dei fatti umani, scrutati dal lato psicologico, nei mezzi, negli scopi e negli effetti. Tutti i giuristi delle due scuole concorrono, con nobile gara, all’opera. I Proculiani emergono nella formazione della dottrina del possesso. Più poderosa è l’elaborazione dei Sabiniani nel campo dei negozi. Le osservazioni, i dibattiti, i risultati s’incalzano l’uno dopo l’altro, nei negozi, solenni o non solenni, nel campo dei diritti reali, nel possesso, negli istituti di diritto penale. Responsi e giudicati dei veteres sono corretti, regole di diritto limitate in una sfera più ristretta. L’opera ferve per due secoli: nulla dies sine linea. Il diritto si rinnova tutto, ius civile e gentium. Si rinnova nelle decisioni e nella elaborazione dommatica. Si compie la prima, essenziale fusione del ius gentium col ius civile, quanto agli elementi interni dei negozi del commercio, negozi adibiti nella città turbinosa per le più varie relazioni giuridiche da una popolazione che diviene ogni giorno più cosmopolita. Si viene formando insieme, più lentamente, un sistema di diritto privato che si sostituisce alle rozze classificazioni in “genera” e “species” delle figure di diritto.[20] Ora, invece, c’è un elemento vivo e possente che determina la coordinazione delle decisioni, la formazione di nuove dottrine e del sistema del diritto privato. In particolare, nel campo dei negozi giuridici, si forma la dottrina del contractus nella sua nozione più larga, come si riscontra nel diritto moderno, e che abbraccia i negozi che servono al trasferimento e alla costituzione dei diritti reali, e alla costituzione e allo scioglimento di vincoli obbligatori. Il punto centrale di essi è la conventio.


 

 

Conventio, contractus, pactum

 

  Ora si può fare un passo avanti per chiarire tutta questa dottrina che può annoverarsi tra le più gravi e tormentate nella scienza romanistica contemporanea. L’esame esegetico fatto, per quanto in maniera sommaria, e più la coordinazione dei singoli risultati dentro il corpo delle dottrine medesime, che si venivano formando, ci hanno dato nelle mani, come io mi lusingo, nuovi elementi di conoscenza, che debbono per lo meno avvicinarci alla soluzione del problema. Riprendiamo per un momento il l. IV ad Ed. di Ulpiano, dove (fr. 1§ 3 D.2,14) riscontrammo la celebre nozione formulata da Pedio, cioè: conventionis nomen generale est. Io dissi sopra che la prima categoria di negozi indicata nel testo, rovinato dai Compilatori, era quella degli atti solenni del ius civile, dalla mancipatio alla stipulatio, che hanno “in se conventionem”. Ma l’argomento non era esaurito. Nella Palingenesia del Lenel[21] noi ritroviamo sotto la Rubrica, certamente ben restituita dal Lenel, “De pactis et conventionibus”, i seguenti passi che si leggono del resto nello stesso titolo Dig. 2,14:

 

fr. 5 Conventionum autem tres sunt species; aut enim ex publica causa fiunt, aut ex privata: privata aut legitima aut iuris gentium. Publica conventio est quae fit per pactum, quotiens inter se duces belli quaedam paciscuntur.

fr. 7 Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam exceptiones. § 1 Quae pariunt actiones in suo nomine non stant sed transeunt in proprium nomen contractus: ut emptio, venditio, locatio conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri similes contractus. § 2. Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem: ut puta dedi tibi rem ut mihi alias dares, dedi ut aliquid facias. hoc sunallagma esse et huic nasci civilem obligationem. Et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum ut Pamphilum manumittas: manumisisti; evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a praetore dandan; ille ait civilem incerti actionem id est praescriptis verbis sufficere; esse enim contractum, quod Aristo sunallagma dicit, unde haec nascitur actio.

Questi passi, visti nell’insieme, ci rappresentano con vivezza il momento più notevole della formazione della dottrina generale della conventio, come fu formulata da Pedio. Che i testi furono stroncati e alterati dai Compilatori s’intende benissimo. Intanto è sicuro che la dottrina era esposta come un’introduzione generale alla materia dei pacta. Il Lenel annota sagacemente[22] al gruppo dei frammenti riferiti: ad rubricam pertinent. Anche Paulus nel l. III ad Ed. che corrisponde al l. IV di Ulpiano, ha la stessa introduzione generale, dalla quale conosciamo il celebre fr. 38 D.44,7 che illustrava la conventio solenne, la stipulatio.[23] E dallo stesso libro proviene il fr. 6 D.2,14 intercalato tra i passi ulpianei sopra riportati e che riguarda la “legitima conventio”. Dunque, i giuristi dell’epoca dei Severi sono già in grado di premettere nel commento all’Edictum de pactis una introduzione teorica relativa alla conventio. Il commento di Pomponio non offriva particolari di rilievo in proposito.

E malgrado le gravi interpolazioni giustinianee il contenuto della trattazione non fu del tutto sepolta, e la sua importanza è ancora visibile. Nel fr. 5 si fa menzione di “tres species” di conventiones, la quali poi nel testo devastato divengono quattro. L’osservazione è dell’Alciatus, ed il fatto incontestabile è significativo. Non possiamo pretendere di restituire il testo. Come semplice congettura vorrei spiegare il fenomeno dicendo: Ulpiano indicava duo genera di convenzioni:[24] I ex publica causa II ex privata. Che trattasse nel testo delle convenzioni pubbliche appare nell’esempio residuo che segue e che riguarda i trattati di pace. Gaius III,94 ne fa cenno a proposito della stipulatio. Ma la nostra attenzione deve rivolgersi alla conventiones privatae, delle quali certamente Ulpiano doveva indicare tres species: 1. legitima, 2. iuris gentium, 3. iuris praetorii.

Le due prime sono attestate nel passo dei Digesti.

1. La conventio legitima non può ritenersi inventata dai Compilatori, è genuina, per quanto sia una infelice manipolazione dei Compilatori il fr. 6 di Paulus, che segue.[25] E accertato questo punto per rintracciare le conventiones legitimae, se non ci soccorre il fr. 6 di Paolo, abbiamo ora un preciso indizio di esse nel fr. 1 § 3 che precede, dello stesso Ulpiano, che si riferiva nell’originale a tutti i negozi solenni del commercio, cioè alla mancipatio, alla in iure cessio, alla dotis dictio, all’acceptilatio, alla stipulatio, come fu dimostrato sopra. La stessa enumerazione doveva trovarsi nel fr. 6 di Paolo, più volte ricordato; onde ora ci è nota la causa della sua distruzione operata dai Compilatori.[26]

2. La seconda specie comprendeva i negozi iuris gentium. Ulpiano dice nel testo (che per la forma non è perspicuo e rivela ritocchi compilatorii) che le conventiones che pariunt actionem assumono qui il nome di “contractus”. Gli esempi sono quelli noti dal testo di Labeone (fr. 19 V.S.), meno il mandatum, e in più il commodatum e il depositum. Ma ciò non è rimarchevole in questo luogo. Quel che importa grandemente è, invece, che mentre Labeone dava come caratteristica del contractus, detto dai Greci sunallagma, la reciprocità delle azioni: ultro citroque obligatio, rivelata del resto anche da Gaio III,137, ora Aristone indica con la stessa voce greca la convenzione, tecnicamente contractus, che può avere un nome e non averlo (c. innominatus). La discussione dei giuristi, specie tra Aristo e Iulianus, riguardava il punto seguente: se la speciale categoria di conventiones sul tipo: dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dovesse annoverarsi nell’ordine dei contractus. Ma il problema nella trattazione di Ulpiano è determinato e dipendente dalla nozione del contractus, che è species delle conventiones, e precisamente la species iuris gentium. Di ciò non è lecito dubitare ormai. Giuliano negava a quei tipi di convenzioni il carattere iuris gentium, e l’efficacia del contractus, cioè di generare un’obligatio e un’actio civilis. Giuliano riconosceva in quei casi l’ammissibilità di un’actio in factum;[27] li annoverava perciò nella categoria delle conventiones iuris praetorii. Se tutto ciò e vero, e non saprei come si possa negarlo, nell’epoca adrianea la nozione del contractus apparisce formata secondo la dottrina aristotelica del sunallagma, la quale, per quanto si riferisce ai negozi del commercio, riconosce nella volontà la forza generatrice degli effetti giuridici: ekousia de legetai, oti en arch twn sunallagmatwn toutwn ekousioj.[28] La giurisprudenza aveva compiuto il suo lavoro di analisi, e aveva constatato che realmente in tutti i negozi iuris gentium era la conventio elemento comune e caratteristico. Si noti che i tipi dei negozi del commercio erano in buona parte esemplificati da Aristotile nel luogo citato. Se  la critica contemporanea ha negato questa derivazione del contractus, e se ha creduto di poter distruggere il fondamento della nozione medesima, essa ha perduto il suo tempo. Una tradizione giuridica così imponente, che ha le sue radici nella giurisprudenza romana del primo secolo dell’Impero, non può distruggersi con osservazioni formali sui testi di legge. La tradizione ha fondamenti incrollabili. Il risultato dell’indagine coincide per questo rispetto con quello raggiunto dal Pernice,[29] che fu certamente il più profondo scrittore della materia, e riconobbe che la teoria del contractus si formò nell’epoca adrianea. Gli elementi nuovi che ho raccolti in questa trattazioni mettono la cosa fuori dubbio. E’ vero che la nozione del contractus come semplice accordo di volontà, non fu e non poteva essere formulata dai giuristi romani, ma di ciò troveremo presto la spiegazione.

3. La terza specie doveva comprendere le conventiones iuris praetorii, che fu cancellata dai Compilatori. Il motivo della soppressione dovrebbe apparire chiaro, dopo le esperienze e gli studi da me compiuti sulla fusione del ius honorarium col ius civile e quindi col ius gentium. E’ rimarchevole in proposito che la fusione fu compiuta con maggiore intensità e costanza nei primi libri Digestorum, cioè in quella parte dell’opera legislativa eseguita con maggior calma. Così si spiega che nel tit. Dig. 2,15, che segue, e porta la rubrica “de transactionibus”, pactum e stipulatio Aquiliana furono perfettamente equiparati; nel senso che il pactum transactionis effettua ora per sé stesso la estinzione di tutte le obbligazioni precedenti. I Compilatori formarono all’uopo un testo chiarissimo collocato nel principio del titolo, e che è del seguente tenore:

fr. 2 D.2,15 Transactum accipere quis potest, non solum si Aquiliana stipulatio fuerit subiecta, sed et si pactum conventum fuerit factum.

Se è così, la soppressione delle convenzioni pretorie, come categoria a sé in una trattazione teorica, qual era quella ulpianea, deve apparire naturalissima.

Ma abbiamo altri elementi per constatarla.

a) Nello squarcio di Ulpiano i pacta nuda che non generano azione ma solo eccezioni sono classificati come figure del ius gentium. Infatti il § 4 del fr. 7 si ricollega immediatamente al principio dello stesso frammento, di cui rappresenta lo svolgimento. E nel pr. è detto: Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam exceptionem.

Or il § 4 è universalmente riconosciuto interpolato,[30] e nella dottrina medioevale costituì il punto di partenza e il fondamento saldo per l’affermazione che pactum e stipulatio sono nulli se manca la causa. Io soggiungo ora che il principio del testo citato dovette assumere per opera dei Compilatori anche il contenuto della categoria delle conventiones iuris praetorii, delle quali: quaedam actiones pariunt quaedam exceptionem. Nessuno infatti potrà contraddirmi, se io affermo che conventiones iuris gentium che producono soltanto exceptionem non ne esistono. Quelle che avevano questo carattere erano tecnicamente indicate come: nuda pacta, tutelate dal pretore mediante exceptio.

b) La categoria dei pacta che produce or actionem or exceptionem non poteva mancare nella trattazione ulpianea; perché appunto Iulianus ai contratti cosiddetti innominati riconosceva solo efficacia pretoria, non civile; e perché inoltre sarebbe strano supporre che Ulpiano, preludendo con una trattazione così larga alla materia dei “pacta”, non avesse fatto cenno di essi nel quadro teorico disegnato. Questo è inconcepibile. La trattazione era impostata dal giurista con eleganza; dalla conventio “nomen generale”, che aveva importanza in tutti gli ordinamenti romani, iuris civilis, iuris gentium, iuris praetorii, passava naturalmente il giurista al commento all’Edictum relativo ai pacta conventa. Nel passo riportato dai Compilatori il nesso tra la introduzione e il commento speciale manca. Il § 7 del fr. in esame  inizia ex abrupto la trattazione dell’Edictum. Conchiudo pertanto che la categoria dei pacta, la specie delle “conventiones” che aveva efficacia solo nel diritto pretorio, fu soppressa dai Compilatori, per i motivi ormai noti.

Resta a spiegare infine la definizione del contractus che è riportata da Theophilus. Che i Romani non abbiano definito il contractus si capisce bene. Essi ne determinarono il carattere fondamentale, che gli è conferito dalla conventio. Ma ciò non bastava alla definizione, perché ora sappiamo che anche il nudum pactum era riconosciuto come una conventio; e tuttavia tra contractus e pactum la differenza era profonda. Perciò Ulpiano indica nel fr. 7 § 1 cit., altri elementi, cioè un “proprium nomen” desunto dalla causa, come si rileva anche dal § 2 che segue. Per i Romani solo il pactum era una semplice conventio, definitio da Ulpiano nello stesso squarcio che abbiamo esaminato: 1 § 2 D.2,14: Et est pactio duorum pluriumve in idem placitum consensus. Da questo testo Theophilus ricavò la definizione del contractus, con una versione letterale:

I.3,13,2 Sun£llagma dš ™sti dÚo À kaˆ pleiÒnwn e„j tÕ aÙtÕ sÚnodÒj te kaˆ suna…nesij.

E questa definizione che sarebbe stata assurda per i giuristi classici, era divenuta invece vera per i Bizantini. Infatti, in seguito alla dimostrazione esauriente che ho fornito altrove,[31] oggi sappiamo che nel diritto postclassico qualsiasi pactum divenne produttivo di azione. La distinzione tra pactum e stipulatio (inter praesentes), tra pactum e contractus era sparita. Quindi era ovvio che il nome tecnico di “contractus” abbracciasse ora la categoria più larga di conventiones, cioè tutti i pacta, perché tutti ormai producevano azioni. L’adattamento della definizione del pactum al contractus fa onore, quindi,  a Theophilus. La definizione è vera nel nuovo diritt. Essa contiene l’elemento generale, produttivo di ogni vincolo giuridico nei negozi del commercio. Escludo, anche qui, che l’adattamento si possa attribuire alla elaborazione scolastica, nel periodo pregiustinianeo, perché in tal caso la nozione sarebbe passata nella Compilazione. Ma lo escludo poi principalmente per questo, che i Compilatori, se avessero avuto nelle mani una nozione dommatica così notevole nel campo dei negozi, essi non avrebbero dimostrato nella materia dei pacta tante incertezze e oscillazioni, di cui ho dato la prova nello scritto citato. I Compilatori conoscevano in proposito il diritto della pratica, non la formulazione dommatica. Riformarono un numero considerevole di decisioni antiche guidati con sicurezza dalla prassi. Spettava, invece, alla dottrina italiana, dalla Glossa all’Alciatus, riconoscere che secondo il diritto consacrato nel Corpus iuris ogni patto fosse munito d’azione; e con mirabile sagacia e profonda conoscenza del Corpus iuris la dottrina italiana formò la massima: omne pactum esse contractum. La definizione del contractus, adottata da Theophilus, veniva così confermata dai migliori interpreti della Codificazione. Il contrasto e il dileggio degli Umanisti, specie del Cuiacio, e contro la Glossa e contro i Commentatori, per quella massima erano determinati e alimentati da formole e decisioni, che rappresentavano nell’opera legislativa punti morti del sistema giuridico, divenute ormai vere preziosità di eruditi, le quali non potevano per nulla oscurare la verità né arrestare lo sviluppo naturale del diritto.[32] Nel campo dei negozi del commercio la verità era stata formulata da Pedio nel sec. II dell’Impero, e da questo punto la direzione e lo sviluppo della dottrina erano determinati con precisione.

Il diritto moderno, nei suoi principi fondamentali, era nato dunque per naturale evoluzione, senza opera di legislatore, nel periodo da Costantino a Giustiniano. L’esempio della dottrina del contractus e dei pacta è tipico. Anche il diritto è un corpo vivo, del quale il divino prodigio non si palesa se non si conoscono tutte le parti di dentro che lo formano. Il contenuto essenziale del diritto moderno, considerato nella sua sostanza di norme e di dottrine, è di formazione romana. In Roma la giurisprudenza si manifestò nella opera dei suoi artefici la maestra e la regina di tutte le scienze; perché, nutrita unicamente dell’esperienza della vita, potè scoprire le  leggi che governano le azioni umane e rappresentarne come in uno specchio le forme, le cause e gli effetti. Ed ora che per la prima volta ci si è mostrata nella sua piena luce l’opera superba della giurisprudenza classica, noi possiamo ben comprendere la forza del maestoso tronco latino, che ha potuto resistere a tutte le  bufere per una serie di secoli, e immettere sempre più profonde radici e sempre gittare nuovi, rigogliosi rami.Ed ora la tradizione giuridica romana deve risorgere contro il facile e sconsiderato amore del nuovo. Noi dobbiamo ritornare con maggior lena e fede al Corpus iuris, approfondire la conoscenza di esso per trarne forza e ammaestramento ad andare avanti.

 

 

PARTE II

 

Il diritto da Costantino a Giustiniano

 

Nel corso della storia vi sono rivoluzioni profonde che non appariscono in documenti, perché esse si sono svolte lentamente, insensibilmente, senza lotte, ma che tuttavia hanno rinnovato il fondo della società umana e gli ordinamenti giuridici. Siffatte rivoluzioni restano celate alla stesse generazioni che le hanno vissute. Gli effetti si vedono a grande distanza di tempo, quando la differenza tra l’antico e il nuovo viene alla luce. L’evoluzione del diritto romano, nel periodo da Costantino a Giustiniano, sotto certi aspetti ha assunto il carattere d’una rivoluzione, ed appartiene a quest’ordine di avvenimenti. Essa era già compiuta nel momento della codificazione ordinata da Giustiniano, e ben nota agli artefici della medesima, almeno nelle sue linee generali.[33] Ma gl’interpreti, a cominciare dai contemporanei di Giustiniano, non ebbero più gli elementi di confronto, onde fino al sec. XIX il fenomeno restò completamente nell’ombra. Si ritenne facilmente che il diritto tramandato da Giustiniano fosse sostanzialmente quello stesso creato dalla giurisprudenza romana, perché le leggi contenute nei Digesti e nel Codice erano decorate dai nomi degli antichi giuristi e degli Imperatori. Nemmeno la scoperta del ms. di Gaio, avvenuta nel 1816, potè modificare essenzialmente quella credenza. Essendo i 2/3 dei Digesti riempiti di estratti dalle opere di Ulpiano e di Paolo, vissuti nel III secolo, la maggior parte delle diffferenze che si venivano notando dal confronto tra l’opera di Gaio e i Digesti si attribuivano senza grande sforzo a sviluppi di dottrine e di norme, avvenuti dall’epoca degli Antonini all’epoca dei Severi e  a quella di Diocleziano. E per altro il Corpus iuris è costituito in modo da creare questa illusione. In esso gli ordinamenti romani del periodo classico: ius civile, ius gentium, ius honorarium appariscono ancora ben distinti, le differenze essenziali tra istituti e azioni civili e pretorii ancora vivono, e molti principii fondamentali dell’antico ius civile a prima vista sembra che conservino il loro primo vigore. Naturalmente le contraddizioni sono in ogni singolo punto di diritto rimarchevoli, rispetto ai principii di base e alle decisioni particolari. Gl’intepreti s’industriarono in ogni tempo, con metodi e tendenze diversi a risolvere i problemi e a conciliare comunque le antinomie. La scuola storica tedesca, dopo la scoperta di Gaio, non portò alcuna luce in questo campo. Piuttosto, peggiorò la situazione; poiché fu condotta a interpretare il Corpus iuris con lo spirito di Gaio, a costruire dottrine e decidere controversie secolari dando la preferenza ai testi che riportavano principii e decisioni del diritto classico. Così gli studi più profondi sul diritto romano, col sussidio di nuove fonti e del meraviglioso sviluppo di tutte le discipline storiche, ci allontanavano sempre più dalla cognizione di quel diritto codificato da Giustiniano e ci avvicinavano viceversa al diritto classico. Si ripeteva, in altri termini, quello che era avvenuto nel secolo XVI per opera degli Umanisti.

Soltanto sulla fine del sec. XIX lo studio delle interpolazioni potè a poco a poco rivelare il distacco che esiste tra il diritto classico, elaborato dai romani giureconsulti e il nuovo codificato da Giustiniano. Ma come il Fabro, nel sec. XVI, aveva considerate le alterazioni dei testi antichi come facinora Triboniani, così anche i critici moderni cominciarono dall’attribuire a Giustiniano tutte le riforme, e le giudicarono inette, audaci, sconsiderate, con grande biasimo del legislatore. Ciò non sorprende, naturalmente; perché per la forma le interpolazioni più appariscenti  sono senza dubbio barbare; e per la sostanza, guardate singolarmente, e guardate in sé appariscono come storture di logica e pervertimento di dottrine in confronto ai testi classici, modello insuperabile di finezza, di compostezza e di rigore scientifico. Questi però erano giudizi di prima impressione; in realtà mancavano gli elementi stessi del giudizio, cioè la conoscenza delle cause che avevano determinate le modificazioni, e poi la veduta dell’insieme dell’opera legislativa. Sulle imperfezioni formali di essa il giudizio è ormai definitivo. Rispetto alle cause che produssero un così profondo mutamento nel diritto, le indagini e la discussione sono ancora vive. Nel 1908 il Mitteis[34] per il primo notò, dando alla sua affermazione un significato più generale, che tra il diritto giustinianeo e il diritto classico esisteva un contrasto, e che in realtà nel mondo bizantino il diritto s’era profondamente mutato. E molti scrittori subito dopo credettero d’aver scoperto i fattori della rivoluzione operatasi nel diritto romano nel periodo della decadenza, riconoscendoli, precipuamente, nell’influsso delle consuetudini orientali e nell’elaborazione dommatica fatta nelle scuole della parte orientale dell’Impero, e particolarmentge in quella celebre di Berito. Il Mitteis non aveva alcuna colpa nella scelta di questo indirizzo preso dalla critica contemporanea. Nemmeno nella sua famosa opera Das Reichrecht und das Volksrecht aveva avuto o coltivato una simile idea.[35] Ma è pur certo che quel libro diede lo spunto e l’impulso a indagini in quella direzione. Io non devo ritornare sulla critica, fatta sopra rispetto a un tale indirizzo e ai prodotti che esso ha dato. Ora sappiamo che l’errore fondamentale di questa scuola consiste nell’avere trascurato le indagini sullo sviluppo del diritto romano dall’epoca ciceroniana a quella dei Severi, e particolarmente nell’avere ignorato l’intensa elaborazione delle dottrine giuridiche fatta dai giuristi del primo secolo dell’Impero. La scoperta delle interpolazioni non poteva, per sé stessa, illuminare tutti i problemi che il contenuto di esse suscitano. Non lo poteva, perché il metodo delle indagini era sbagliato, procedendosi dall’esterno all’interno; mentre logicamente, appresa la tecnica interpolazionistica, si sarebbe dovuto prima di tutto approfondire il diritto classico e procedere alla ricostruzione delle dottrine dall’interno all’esterno. I papiri greco-egizi d’altro lato non potevano fornire che elementi sussidiari alle fonti romane e non sostituirsi a quelle.

Ma la critica in qualsiasi campo è sempre cosa facile. Per essere efficace e definitiva essa deve però essere accompagnata da una ricostruzione, che valga da sé stessa a demolire le opinioni e i risultati che tengono il campo. Mi rivolgo pertanto a quest’opera di ricostruzione, che ha ora saldi fondamenti nello studio che insieme abbiamo compiuto nei giorni passati.


 

 

Le cause dell’evoluzione del diritto romano.

 

La evoluzione del diritto romano nel periodo della decadenza non si deve attribuire a cause esterne, cioè alla influenza di altri diritti e tanto meno a elaborazione scolastica, bensì a cause interne. La prima di queste cause e la più generale si riscontra nel mutamento degli ordinamenti processuali. Il quale deve essere considerato, non come effetto di un atto legislativo puro e semplice, ma come un avvenimento che si svolge gradatamente e si compie in una crisi vasta politica, amministrativa, sociale e religiosa, che si manifestò alfine nell’Impero da Diocleziano in poi. In proposito bisogna che si tengono presenti due considerazioni. Il diritto romano era, da una parte, un prodotto unico nella storia, troppo complesso per la ricchezza e varietà delle sue forme e per la sua fine elaborazione scientifica, per poter vivere con tutti i suoi attributi, senza la direzione vigile e illuminata della giurisprudenza e del pretore.

Inoltre, il diritto creato da Roma, in condizioni privilegiate, elaborato e svolto dalla giurisprudenza e dal pretore, aveva raggiunto un grado di perfezione inarrivabile, era munito di una forza organica indistruttibile, onde esso non poteva perire al primo urto, anche in una crisi generale di tuti gli ordinamenti del passato.

In queste due affermazioni ci troveremo sicuramente tutti consenzienti. Il diritto romano, dunque, non poteva perire ma doveva semplificarsi per vivere. Continuò a vivere in complexu, in tutto l’Impero, con tutte le sue fonti, costituite dagli scritti dei giuristi e dalla collezione dei rescritti imperiali eseguita al tempo di Diocleziano e ampliata nel IV secolo. Si venne semplificando per necessità di adattamento. Si concentrarono le fonti di cognizione, la procedura, le istituzioni giuridiche stesse. Raccolte private furono fatte subito, nelle quali sotto apposite rubriche si riunivano estratti dai rescritti e dalle opere degli ultimi giuristi, spesso suntati e messi in armonia con le leggi imperiali o con la pratica del tempo. Leggi furono emanate per alleviare le difficoltà che la pratica non era più in grado di superare col proprio sapere: così la legge che toglieva vigore alle note di Ulpiano e di Paolo a Papiniano; la cosiddetta legge delle citazioni, che attribuiva nei tribunali autorità soltanto alle opere degli ultimi 4 giuristi (Papinianus, Ulpianus, Paulus, Modestinus) e a quelle di Gaius, la cui fama si era affermata in questo periodo in tutte le scuole d’Oriente e d’Occidente. La legislazione si sforzava inoltre di provvedere alle esigenze dei nuovi tempi, di risolvere problemi e di togliere il disagio che le forme romane e le antiche istituzioni romane suscitavano ormai nel vasto impero.[36] Espedienti futili, tutti questi, di fronte al formidabile problema dell’adattamento del diritto alle reali esigenze del tempo; specie quando si consideri la miseria di quei prodotti legislativi, e il disordine e l’ignoranza della pratica descritti con vivi colori da Ammiano Marcellino.[37]

In tali condizioni di cose, l’adattamento e la semplificazione del diritto incombevano unicamente alla pratica giudiziaria, la quale, rebus ipsis dictantibus, seppe assolvere alla meglio il suo compito, traendo dalla immensa ricchezza del diritto elaborato dai Romani quel tanto che era necessario alla quotidiana amministrazione della giustizia. Si venne così attuando nella pratica una reale semplificazione di tutti gli ordinamenti romani; la quale si diresse immediatamente a congiungere in un solo ordinamento da una parte il ius honorarium e il ius civile e dall’altra il ius civile e il ius gentium. Da questa doppia fusione derivò un sol corpo di diritto, il nuovo ius civile del diritto giustinianeo (novum ius) composto della parte sostanziale e vitale che i vari ordinamenti romani contenevano in sé stessi.

 

I. Fusione del ius honorarium col ius civile.

 

Il movimento che doveva produrre la unificazione del ius honorarium e del ius civile in un solo corpo di diritto s’iniziò sin dall’epoca di Costantino, e la codificazione si attuò via via ma con grande rapidità in conseguenze delle riforme negli ordinamenti giudiziari. Scomparso il pretore, la datio iudicis e poi le formulae processuali, erano per ciò stesso venuti meno l’organo e i mezzi che avevano creato in Roma e sviluppato quel singolare dualismo in tutti gli istituti di diritto. Nella cognitio extraordinaria  del Basso Impero il giudice prese il posto del pretore, ed egli applicava direttamente, senza i congegni della procedura classica e senza i mezzi creati dal diritto pretorio, le decisioni definitive che erano riportate per i singoli casi sia negli scritti dei giuristi sia nei rescritti imperiali. La innovazione era impercettibile;  perché nelle decisioni dei giuristi in definitiva era il rimedio del ius praetorium che prevaleva; e quella stessa decisione che era stata applicata nella pratica del diritto classico, ora era adottata come ius civile. Così i due ordinamenti si venivano riunendo in un unico diritto, senza opera di legislatore. La critica contemporanea ha accertato gli effetti di questa fusione nell’opera di Giustiniano. La causa, infatti, che determinò le interpolazioni in uno straordinario numero di testi fu appunto quella di far scomparire il dualismo tra ius civile e ius praetorium o di eliminare mezzi e formulae proprii del ius praetorium. I risultati generali di tutte queste varie operazioni si possono riassumere in tre categorie, come segue:

1. La scomparsa di istituti, principii, norme e decisioni del ius civile, i quali erano caduti in desuetudine, surrogati nella pratica da norme e decisioni fondate sul ius honorarium.

2. La eliminazione di istituti, mezzi e norme del ius honorarium, che nel periodo classico avevano compiuto la loro funzione di correggere il ius civile; onde, venuto meno il conflitto, erano divenuti inutili.

3. La fusione di istituti, nozioni, norme e forme del ius civile con quelli del ius honorarium, da cui risultavano nuove figure e forme giuridiche costituite da elementi diversi.

Le costituzioni emanate da Giustiniano nel corso dell’opera legislativa attestano or l’uno or l’altro degli effetti sopra indicati. Le leggi di Giustiniano in proposito, siano abolitive di istituti o di nomi antichi, o creative di nuove figure e forme giuridiche, sono atti postumi; dacché sanzionavano legislativamente quello che era stato consacrato dalla pratica giudiziaria. Ma le attestazioni incomparabilmente più numerose ci vengono rivelate ora dalle interpolazioni. Se si volesse fare un elenco dei rifacimenti giustinianei, eseguiti ai fini sopra indicati, e si volesse fare una parca illustrazione delle cause e degli effetti delle stesse interpolazioni, si dovrebbe scrivere ormai un grosso volume.

Al fine informativo che ha questo corso è necessario ordinare l’esposizione in maniera sintetica, mettendo nella giusta luce gli esempi più dimostrativi. E prima di tutto è utile avere una precisa cognizione del fatto materiale stesso, cioè del metodo usato dai Compilatori nei rifacimenti dei testi classici per eliminarvi la decisioni del ius civile e sostituirvi quelle che avevano fondamento nel ius honorarium. Il metodo era semplice; bastava cancellare nel testo una parole, una frase, un periodo, a volte anche spostare o inserire o eliminare un “non” per ottenere l’effetto.

Riporto tre esempi.

 

   V.F. 83 et ipse quibus  modis amitteret ante consolidationem iisdem et nunc ipso quidem iure non amittet, sed praetor secutus exemplum iuris civilis utilem actionem dabit fructuario; et ita Neratio et Aristoni videtur et Pomponius probat.

   fr. 3 § 2 D.7,2 Ulp. 17 ad Sab. et ipse quibus modis amitteret ante consolidationem, iisdem et nunc [.....] amittet [.....] et ita Neratio et Aristoni videtur et Pomponius probat.

 

Come si vede dal confronto diretto del testo originale con quello dei Digesti, la menzione dell’actio ficticia fu eliminata nei Digesti e la funzione che essa adempiva nel ius honorarium è ora assunta direttamente  dal ius civile. Lo stesso effetto si consegue ipso iure. Si osservi per la valutazione critica delle interpolazioni che tutti gli elementi del testo furono rispettati e lasciati al loro posto, anche i nomi dei giuristi, ai quali nei Digesti si attribuisce un’opinione tecnicamente opposta a quella che essi avevano rappresentata.

Il confronto del fr. <Ia. della pergamena egizia conservata nella Università di Strasburgo>* col fr. 32pr. D.15,1 Ulp. licet hoc iure contingat, tamen aequitas dictat, iudicium in eos dari, qui occasione iuris liberantur [38] dà lo stesso risultato. Con la soppressione della parola “rescissorium” si attribuì la facoltà al creditore di ripetere l’azione contro l’altro coobbligato, senza bisogno della in integrum restitutio, che era necessaria nel diritto classico. Interpolazioni analoghe, per eliminare appunto la in integrum restitutio, sono innumerevoli nei Digesti. Cito ancora un esempio  del tutto simile al precedente per quanto manchi per il controllo il testo originale:

 

   fr. 13pr. D.14,3 Ulp. 28 ad Ed. licet ...tamen Iulianus utilem ei actionem competere ait

   Ulp.

   [sed] Iulianus [rescissorium iudicium in dominum dari debere] ait.[39]

 

  Le manipolazioni dei testi eseguite con un metodo così semplice e pratico furono preferite dai Compilatori, specie[40] quando si trattava di fondere in un corpo solo ius civile e honorarium, e di far prevalere, come di consueto, la decisione del ius honorarium, senza adottarne i mezzi procedurali. Così tante volte fu soppressa l’exceptio doli, e la nullità dell’atto fu dichiarata direttamente in forza del ius civile.

L’esempio più cospicuo di questa categoria è offerto dal fr. 30 D.12,1 Paulus 5 ad Plaut. Qui pecuniam creditam accepturus spopondit creditori futuro in potestate habet, ne accipiendo se ei obstringat. Qui fu soppressa la exceptio.[41] Ciò si desume non solo dai termini tecnici: spopondit ...obstringat che accertano il vincolo costituito pel ius civile con la sponsio; ma più direttamente ancora da Gaio IV, 115, 116, 119 che illustra appunto il concetto della exceptio doli con l’esempio più semplice contemplato dal fr. 30 riferito; confr. inoltre Ulp. fr. 2 § 3 D.44,4.

Accertato il fatto materiale, e insieme il metodo tenuto dai Commissari per operare la fusione dei due ordinamenti classici, possiamo dalla stessa costanza e semplicità dei mezzi usati bene arguire che la semplificazione del diritto in questo senso rispondeva ad un concetto programmatico del legislatore, e di più affermare che tale programma non era stato escogitato dal legislatore ma piuttosto dettato dallo stato del diritto al momento della codificazione. Ed è pure rimarchevole a questo riguardo, che il legislatore non solo ha piena coscienza dello stato del nuovo diritto, ma anche delle cause che ne avevano prodotto il mutamento, in confronto a quello romano classico, e pure del momento storico in cui esso si venne svolgendo. Ed è bene mettere in evidenza questi fatti, attestati da Giustiniano in varie occasioni e da punti di vista generali o particolari, perché la critica moderna s’è sbandata e disorientata precisamente per questo, per aver perduta  la fiducia in Giustiniano, ritenendo le sue dichiarazioni indegne di fede. Giustiniano è veritiero, e le notizie storiche che egli dà sullo stato del diritto anteriore sono preziose, anche se colorite con tinte troppo esagerate o sgraziate. Tralasciando per ora di considerare quanto dice il legislatore in proposito nelle constitutiones introduttive alle singole parti della Compilazione a riguardo delle scuole e dei libri antichi che erano in uso e della pratica dei tribunali e dell’immenso lavoro compiuto per adattare e rammodernare i testi classici in conformità al diritto del suo tempo, notizie tutte che debbono essere tenute sempre presente e dai Dupondii e dai critici, quel che maggiormente interessa nella nostra indagine è raccogliere dalle varie parti della Compilazione le opinioni che i Commissari stessi enunciano sui mutamenti del diritto antico nel corso della loro alacre fatica.

Nelle I.2,10,3 a proposito della forma del testamento adottata dal ius novum il redattore del testo così si esprime: Sed cum paulatim tam ex usu hominum quam ex constitutionum emendationibus coepit in unam consonantiam ius civile et praetorium iungi, constitutum est...

Il testo apparve in ogni tempo “di colore oscuro”. Per noi ora è limpidissimo. Tutte le parole sono precise, rappresentative della realtà storica: paulatim, usu hominum...coepit iungi... cioè nella prassi giudiziaria e nella pratica degli affari i due ordini giuridici si venivano fondendo in un solo ordinamento. Quando avveniva ciò? Lo apprendiamo da altri testi non meno precisi. Un altro passo delle Inst.  ci dice come avvenne che cadde in desuetudine la successio per universitatem, la quale aveva luogo dei beni del debitore o non solvente o fallito o morto sine herede neque alio iusto successore (Gai 3,79). Il testo dice:

I.3,12 et tunc (sc. successio) locum habebat, quando iudicia ordinaria in usu fuerunt; sed cum extraordinariis iudiciis posteritas usa est ideo cum ipsis ordinariis iudiciis etiam bonorum venditiones exspiraverunt.

Qui dunque sono determinate la causa e il momento della evoluzione del diritto; cioè appena cadde in desuetudine l’ordo iudiciorum privatorum  e si consolidò generalmente l’uso della cognitio extraordinaria. Dunque, causa ed effetto furono contemporanei: cum ipsis ordinariis iudiciis ... exspiraverunt. E si noti, anche qui, che in desuetudine cadde la procedura della bonorum venditio, d’origine pretoria, con tutte le sue finzioni, o ambages come dice Giustiniano, che essa presupponeva e che ci sono note da Gai 3, 77; ma non cadde in desuetudine il diritto materiale creato dal pretore per l’esecuzione sui beni del debitore in contrapposto all’esecuzione sulla persona, che era stabilita dall’antico ius civile. Onde nel risultato qui abbiamo un esempio insigne in cui il ius honorarium prende il posto del ius civile, diviene ius civile; all’imperium del pretore si sostituisce l’officium iudicis, come il testo dichiara nella continuazione. Anche la frase “posteritas usa est” è da notare. Essa si riferisce con determinatezza al momento iniziale della nuova procedura; e se la stessa frase è adoperata spesso da Giustiniano senza più precisa indicazione, noi ora abbiamo nel testo esaminato un punto certo di riferimento.

Ancora più importante,perché ha un valore generale, è un altro testo che riguarda tutto il sistema formulare. La distinzione fondamentale nella procedura classica tra actio directa e actio utilis scomparve naturalmente nella cognitio extraordinaria. E Giustiniano lo dichiara in una forma notevole in uno dei primi libri dei Digesti:

fr. 47 § 1 D.3,5 ...quia in extraordinariis iudicis, ubi conceptio formularum non observatur, haec suptilitas supervacua est maxime cum utraque actio eiusdem potestatis est, eundemque habet effectum.

L’abolizione delle formule era stata stabilita da Costantino nel 342, ed è certo che esse non ebbero più alcun valore giuridico, anche se la pratica continuò a usarle per i vantaggi che gli schemi delle azioni offrivano. L’attestazione del legislatore, intanto, fatta in luogo opportuno, nell’inizio dell’opera, ha un doppio valore. Conferma il fatto storico, da un lato; mentre dall’altro è un monito agli interpreti della Codificazione a non dare alcuna importanza alla terminologia usata dai classici, rispetto alle azioni, dacché esse sono ormai tutte eiusdem potestatis. Non è dubbio che ciò vale pure per le actiones in factum. Ora tutte le azioni sono civili, perché tutta la codificazione contiene ius civile, qualunque sia l’origine delle norme e delle azioni. Anche gl’interdicta furono aggregati alle actiones: I.4.15.8. E Giustiniano ne dà la ragione in una interpolazione inserita in un rescritto di Diocleziano:

c. 3 C.VIII,1 Interdicta autem licet in extraordinariis iudiciis proprie locum non habent, tamen ad exemplum eorum res agitur.

Ciò significa che sparito il pretore, che emanava comandi e divieti, dai quali traeva origine la speciale procedura interdittale, ora, cioè nella cognitio extraordinaria, il diritto proviene dalla legge, la procedura è quella comune, mentre gli effetti giuridici restano tali e quali erano stati stabiliti dall’Editto pretorio. Giustiniano credette che questi solenni ammonimenti fossero sufficienti per l’intelligenza dell’opera legislativa. Come mai poteva nascere l’equivoco di ritenere che le categorie delle azioni civili e pretorie fossero ancora vive nella Compilazione? Se egli in molti passi, anzi normalmente, riprodusse la terminologia classica è ben certo che ciò fece per l’impossibilità, certamente sperimentata, e dichiarata,[42] di poter disintegrare i testi classici. Quando fu costretto a farlo, dovette estrarne dei sunti; che sono in realtà in gran numero, e costituiti per lo più di brevi paragrafi, contenenti una massima, una decisione, più decisioni, senza particolari elementi procedurali.        Per ciò il legislatore procede a riguardo dei nomi delle azioni con tutta libertà. Da una parte lascia la terminologia antica. La segue nelle interpolazioni, dando actiones utiles o in factum, dove l’andamento del passo suggeriva quegli espedienti. Muta le azioni, specialmente per surrogare azioni civili alle pretorie, in particolare all’actio de dolo.[43] Fa largo uso della condictio, che sostituisce regolarmente ad azioni pretorie. E conseguentemente dichiara in un celebre testo che la: Certi condictio competit ex omni causa, ex omni obligatione...sive ex certo contractu petatur, sive ex incerto cet., fr. 9pr. D.12,1.

Dall’esperienza che ci viene ora dalle interpolazioni, nelle quali appare la condictio, certi o incerti, adoperata nei rapporti più varii, si è indotti a credere che la condictio fosse in realtà nella pratica del diritto postclassico l’azione più generale, che tendeva a sostituire un gran numero di actiones honorariae o a provvedere a fatti o rapporti per i quali il diritto classico non dava azione alcuna. Esempi di questa categoria sono moltissimi. Ricordo la condictio impensarum, la condictio per togliere l’arricchimento, la condictio ex omni contractu. Questa frase è notevole nel testo sopra riferito. Se è vero, come è stato dimostrato, che nel nuovo diritto ogni patto ha valore di contractus, quella nozione generale acquista un senso più pieno. Se vogliamo sapere, quale azione può derivare nel nuovo diritto da una scommessa, da una pollicitatio, da un patto speciale congiunto a un negozio aleatorio e così via, la risposta più sicura è: la condictio.[44]

La scuola storica del sec. XIX, assorbiti tuti gl’insegnamenti che potè derivare dal prezioso l. IV di Gaio, fu indotta non solo ad approfondire le nozioni gaiane nelle fonti giustinianee, il che era anche possibile usando molta circospezione, ma fu portata inoltre ad interpretare il Corpus iuris con la scienza largita da Gaio. Ciò doveva fatalmente generare la più completa misintelligenza della codificazione; sino al punto da ritenere ancora tutta viva in essa la distinzione delle actiones civiles e honorariae, di obbligazioni civiles e honorariae, di ius civile e honorarium, dimenticando i moniti di Giustiniano. Gl’interpreti antichi non commisero erori così enormi. Per citare un esempio, Vinnio conosceva bene che la distinzione di obbligazioni civili e pretorie era sparita nella Compilazione, e che le azioni avevano ormai tutte la stessa natura. Naturalmente egli cita testi che ora conosciamo interpolati; appunto perché quei testi danno il tono all’opera legislativa. E fatte queste constatazioni, emergono da sé stesse un numero considerevole d’interpolazioni destinate appunto a unificare ius civile e ius praetorium, nelle varie direzioni sopra distinte.

In moltissimi testi è interpolata la frase “ipso iure” collocata per sostituire il rimedio pretorio; utroque iure si riporta appunto ai due ordinamenti insieme, ormai fusi;[45] iuribus indica il ius civile e praetorium,[46] civiliter opposto a naturaliter comprende insieme il rapporto civile e pretorio, così a riguardo del possesso,[47] così a riguardo delle obbligazioni;[48] così, sempre, come attesta Vinnio,[49] iure legitimo è frase equivalente a ipso iure, e spesso ha sostituto un rimedio pretorio.[50]

L’elenco sarebbe infinito, a volerlo continuare. Ma nel chiudere questa parte della dimostrazione, non posso tacere della soppressione rigorosamente eseguita nella Compilazione delle actiones ficticiae. Le formulae ficticiae erano tutte del ius honorarium. Soppresso ogni elemento che le ricordasse come tali, ne derivò che tutte le decisioni relative appariscono nel nuovo diritto discendenti dal ius civile. In un lavoro, che vedrà la luce ben tosto, sarà dimostrato che le actiones ficticiae racchiudevano il vigoroso progresso del ius civile, attuato dal pretore nella sua iurisdictio. Il nuovo ius civile del diritto giustinianeo deriva in gran parte dalle actiones ficticiae. La eliminazione costante dell’origine pretoria di quelle decisioni significa dunque assunzione cosciente da parte dei Compilatori della miglior parte del ius honorarium nel corpo del ius civile.

Premessa la constatazione di questi fatti materiali, è agevole ora osservare le trasformazioni che gl’istituti di diritto subirono nel processo dell’evoluzione e la struttura che essi presentano alfine del nuovo sistema giuridico. Le mutazioni procedono naturalmente in tutti i sensi, come fu detto sopra. Cadono istituti o forme del ius civile; cadono mezzi processuali del ius honorarium; si fondono in varia proporzione ius civile e praetorium. In molti casi il legislatore con la solita verbosità ne dà ragione nelle costituzioni emanate nel periodo della codificazione.

Tutti gli scrittori, specie nel sec. XIX, misero in rilievo nei punti più appariscenti e in singoli istituti il fatto dell’avvenuta eliminazione o fusione dei vari elementi.[51] Anche la Glossa potè scoprire interpolazioni nei Digesti con il confronto delle riforme enunciate da Giustiniano. Mancava soltanto una base larga di osservazioni e di ricerche per giungere alla valutazione dell’opera legislativa del sec. VI. Questa base è apprestata ora dal ricco materiale interpolazionistico che permette di risolvere i singoli problemi d’importanza capitale che rimangono ancora insoluti, e nello stesso tempo il problema generale dell’origine e della natura del diritto giustinianeo.

Per assolvere questo compito sarà sufficiente, almeno provvisoriamente, scegliere un numero di esempi tratti dalle varie parti del diritto privato ordinandoli per materia.

 

1) Dominium ex iure quiritium – in bonis habere.

La fusione è completa nella codificazione. La scomparsa del nudum ius è dichiarata clamorosamente da Giustiniano, con parole di alto dispregio: vacuum et superfluum verbum: c. 1 C.7,25 a. 530-31. Le conseguenze sono costanti e generali.

Le cause pretorie dell’in bonis habere divengono cause d’acquisto diretto del dominium.

a) Il bonorum possessor acquista subito dominium rerum: fr. 1 D.37,1.

b) Sparisce l’applicazione più generale dell’actio Publiciana; cioè per gli acquisti a domino compiuti senza le forme solenni del ius civile.

c) La missio in possessionem ex secundo decreto conferisce al possessore il dominium, e non semplicemente come era nel diritto classico la condicio usucapiendi.[52]

 

2) Possessio civilis comprende ora la possessio ad interdicta, e si oppone alla possessio naturalis. La protezione del possesso è garentita dal ius civile per mezzo di actiones.

 

3) Usucapio e longi temporis praescriptio si fondono in unico istituto, con la prevalenza degli elementi edittali.

 

4) Le forme di servitus praediorum riconosciute e protette dal pretore divengono iuris civilis. Cadute le forme solenni del diritto quiritario, tutte le servitutes  si costituiscono pactionibus et stipulationibus, traditione, patientia. Le modalità e le limitazioni imposte dalle servitù inefficaci nell’antico ius civile, ma largamente tutelate dal pretore, sono ora tutte riconosciute efficaci, in conformità delle convenzioni.

 

5) Obligationes iuris civilis e obligationes riconosciute dal pretore sono ora del tutto pareggiate, e si contrappongono alle obligationes naturales.

 

6) Stipulatio, contractus, pactum costituivano nel diritto classico tre categorie distinte. Le prime due munite di efficacia civile con actiones civiles, l’ultima protetta solo dal pretore, con azioni e in generale con eccezioni. Le tre categorie si confondono nel diritto giustinianeo. La categoria generale della conventio, già fissata dalla giurisprudenza classica, ebbe il suo completo svolgimento nel diritto postclassico. La massima che “ogni convenzione lecita genera azione” se non apparisce formulata teoricamente è sostanzialmente attuata nella Compilazione.

 

7) Pactum transactionis. Ha lo stesso valore e la stessa efficacia della stipulatio Aquiliana, la quale anzi è sostituita dal pactum. Tale pareggiamento o surrogazione apparisce ora come una semplice manifestazione dello sviluppo descritto sotto il numero che precede. Certo nella transactio si maturò ben presto. Nel testo Visigoto di Paolo I,1 si legge una sentenza in cui per la  prima volta spunta la frase pacti obligatio; la quale finora non ha avuto una spiegazione soddisfacente. Inoltre nella stessa fonte (S. I,3 = fr. 15 D.2,15) la stipulatio Aquiliana è rappresentata come un accessorio del pactum; e vi si consiglia di aggiungere ancora una penale  per la garanzia nel caso di rescissione del pactum. I due testi furono certamente rifatti nel periodo postclassico. I Compilatori della lex Wisigothorum e quelli del Digesto rinvennero il fr. 15 già rammodernato. Onde è lecito conchiudere che l’Aquiliana non solo era caduta in desuetudine, ma non era più nemmeno intelletta nel periodo della decadenza, e che essa era stata sostituita in tutto dal pactum.[53] Il primo riconoscimento dei singoli pacta fu del resto graduale, aiutato dalla legislazione, così a riguardo della donatio,[54] della dos, in cui il patto sostituì le forme solenni del diritto classico. Rispetto alle obbligazioni delle usurae mediante pactum, lo sviluppo fu completato da Giustiniano nell’a. 541 con la Novella 134,4.

 

8) Hereditas e Bonorum possessio si sono fuse. Perciò sparisce la B.P. sine re. Nel nuovo diritto il bonorum possessor acquista il dominio delle cose corporali, ha tutte le azioni che competono all’heres, senza alcuna finzione, e risponde di fronte ai terzi come heres. Se ha la stessa posizione giuridica dell’heres, non può avere importanza che siano state conservate nelle Inst. e nei Dig. e nel Cod. la terminologia e le disposizioni dell’Editto, e che quest’ultime anzi siano state corrette in varii punti; dacché questo fenomeno non è singolare, e dipende dalla imperfetta comprensione dei Compilatori della già compiuta evoluzione del diritto. Ciò è provato dal fatto che subito dopo, nell’anno <543> con la Novella <118> tutta la materia della successione intestata fu riordinata e si attuava la perfetta fusione degli istituti del ius civile col ius honorarium. La cognatio ora prende decisamente il posto della agnatio, che era stata la base della famiglia romana e del diritto successorio civile.

 

9) Tutte le forme civili dei testamenti caddero successivamente in desuetudine, da ultimo quella per aes et libram. La prevalenza della forma riconosciuta dal pretore, del testamentum septem testium signis signatum, costituì la base della nuova e definitiva forma, che dagli stessi Compilatori è indicata come risultante  da elementi civili, pretorii e legislativi.[55]

E’ ovvio che l’evoluzione delle forme degli atti si era compiuta più rapidamente e in maniera visibile, con l’intervento della legislazione, perché le forme rappresentano la condizione prima  della validità degli atti giuridici. In questo campo il conflitto tra ius civile e ius honorarium, tra diritto dell’Impero e consuetudini provinciali fu più aspro e immediato, fin dal sec. III, e si dovette comporre subito, appena dopo Diocleziano. Le forme proprie del ius romanorum erano destinate  a sparire.

 

10)  Forme dei legati e genera legatorum caddero in desuetudine. L’attestazione ci viene da Giustiniano, il quale nell’a. 529 constata:[56] quam posteritas optimis rationibus usa nec facile suscepit nec inextricabiles circuitus laudavit?

La “posteritas”, come sappiamo, è rappresentata dalle generazioni postdioclezianee; la frase “nec facile suscepit” porta l’eco delle difficoltà che le forme romane suscitavano nella pratica, della viva disapprovazione di esse e conseguentemente  degli sforzi  per eluderne l’osservanza. Del resto in questa materia l’evoluzione s’era iniziata ben tosto, col S.C. Neronianum,[57] che aveva attenuato il rigore del legatum per vindicationem. La giurisprudenza aveva poi interpretato liberamente il precetto del Senato. Ma mentre sparivano le forme dei legati si attenuava sempre più la differenza di essi con i fideicommissa. Nel diritto giustinianeo essi si trovano completamente uguagliati.[58] Il fatto che nel Corpus iuris fu mantenuta la terminologia classica, che distingueva  essenzialmente le due figure, sappiamo, per le esperienze fatte, che non ha alcuna importanza. Ma piuttosto è anche qui rimarchevole la rapidità dell’evoluzione, la quale si spiega:

a) per l’uso sempre più frequente dei fedecommessi, che permettevano alla posteritas di evitare le forme dei legati;

b) perché la fusione dei due istituti, come già dell’hereditas e del fideicommissum hereditatis, s’era iniziata nel periodo classico, come appare dalla trattazione di Gaio II, 247ss., dove sono segnate le varie tappe della efficacia sempre maggiore riconosciuta ai fedecommessi, e dove apparisce, di pari passo, la progressiva estensione agli stessi di limitazioni e prescrizioni legislative che vigevano per la hereditas e per i legata. Senatoconsulti, imperatori e giurisprudenza seguivano decisamente quest’indirizzo.

 

Il quadro disegnato comprende gl’istituti fondamentali del diritto patrimoniale, e rispecchia in una forma inequivocabile il momento, le cause, i modi dell’evoluzione del diritto romano, dal classico al novum ius, codificato da Giustiniano. La consuetudine, e specialmente la pratica giudiziaria, fu costretta  nel periodo postclassico a isfoltire, senza indugio, dei rami secchi la bella selva del diritto classico. Scomparso il pretore e venute meno le formulae, la superba flora romana allevata con tanta cura, giorno per giorno, fin dall’inizio della città, dalla giurisprudenza, dai magistrati, dal Senato, dagli imperatori e da tutto il popolo, doveva ridursi nei limiti e nelle forme che erano strettamente necessarii. In primo luogo il dualismo tra ius civile e ius honorarium doveva comporsi, dacché esso era sorto in condizioni del tutto singolari, come un fatto transitorio, a causa dello sviluppo rapido e prodigioso della vita e della civiltà di Roma. Nessuno può pensare che il conflitto tra quei due ordinamenti fosse una cosa normale e duratura.

E prima di passare alle conseguenze notevoli derivate dalla fusione qui tratteggiata, permettete che io faccia tre osservazioni che servono a sgombrare il terreno da possibili obiezioni.

a)  Sarebbe erroneo suppore che l’evoluzione del diritto sia stata determinata principalmente  dal conflitto scoppiato tra il diritto romano e i diritti provinciali della parte orientale dell’Impero, dopo la constitutio del 212 di Caracalla, la quale aveva esteso a tutti gli abitanti dell’Impero la civitas romana. Se questa fosse stata la causa principale, e non quelle naturali che io ho indicate, non si spiegherebbe il fatto che nell’Occidente ai commissarii della lex Wisigothorum, e cioè prima di Giustiniano, apparve necessario di semplificare il diritto, di togliere le ambiguità, lamentando, come appunto fa Giustiniano, la “antiqui iuris obscuritas”. Or ciò dimostra che le istituzioni romane avevano subito la stessa crisi, nell’Oriente e nell’Occidente, determinata dalla medesima causa. Per ciò gli ammodernamenti dei testi coincidono nelle fonti occidentali e nelle orientali; nella legge dei Visigoti e nella Compilazione di Giustiniano. Particolarmente inintellegibili erano ormai le forme solenni degli atti e i mezzi processuali. Abbiamo notato già che la stipulatio Aquiliana non s’intendeva più nell’Occidente; mentre del libro IV di Gaio non restò traccia nella legge Visigota.

b) Che l’evoluzione fu effettuata dalla consuetudine, e non dalle leggi o dalle scuole, è provato dal fatto che  molte interpolazioni inserite nei passi dei Digesti appariscono in aperto contrasto con principii fondamentali codificati dallo stesso Giustiniano. E non raramente si osserva che istituti parzialmente modificati nel periodo della Codificazione ebbero subito dopo nelle Novelle il regolamento definitivo, preannunziato dalle interpolazioni. Questo fatto impressionò il Cuiacio. Un esempio di questo genere ho illustrato sopra, e concerne la grave dottrina dei pacta, in particolare del pactum delle usurae. La spiegazione ora è ovvia. I Compilatori, buoni conoscitori del diritto del loro tempo, erano guidati dalla pratica dei tribunali, potevano perciò uniformare alla stessa singole decisioni, ma non avevano di tutte le dottrine, ed era impossibile pretenderlo, matura cognizione. La preparazione della scuola all’opera legislativa era mancata completamente; anche rispetto ai principii più elementari, già rovesciati dalla evoluzione del diritto. Addurre esempi sarebbe superfluo; tanto essi furono numerosi e impressionanti.

c) La precipitosa rapidità nell’esecuzione dell’opera, determinata da cause esteriori, spiega, in parte, il vizio capitale della medesima, che risiede nell’amalgama di diritto antico e nuovo, infarcito nella codificazione. I testi classici furono accolti con rifacimenti improvvisati, d’ogni specie. Ma i Compilatori conservarono assai spesso la struttura, la terminologia dell’esemplare, e d’ordinario anche le parole, comunque riordinate e coordinate. Ho avvertito più volte che questo non era il programma che s’erano proposto nell’esecuzione dell’opera. Dalla c. Deo auctore § 10 si rileva il proposito di procedere nella formazione di essa eliminando tutti gli elementi caduti in desuetudine, attenendosi strettamente alla pratica giudiziaria e alla consuetudine. Questo programma fu attuato con buona intelligenza nel principio dei Digesti, in cui il conflitto tra ius civile e honorarium, in ispecie, fu eliminato quasi regolarmente. Esempi notevoli ne offrono i titoli XIV e XV del libro II Dig. come ho dimostrato sopra.

 

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Fatti questi rilievi possiamo affrontare l’ultimo problema che concerne gli effetti della fusione del ius civile e honorarium. Se la trasformazione del diritto fu determinata principalmente da quella causa, che investiva  d’un colpo tutta la complessione del diritto privato, gli effetti dovevano essere costanti e uniforme lo sviluppo dalle antiche alle nuove forme. E’ intuitivo che la fusione doveva produrre la rovina di tutta la dommatica del ius civile costruita dalla giurisprudenza classica. Il diritto pretorio aveva attuato un ampio svolgimento del diritto civile, in tutte le direzioni, ampliandolo e correggendolo. Ma se in quest’ultima fase s’era unito al ius civile, o aveva preso il posto dello stesso ius civile, il risultato doveva essere matematico ed inevitabile: quello cioè, che le categorie, gli schemi, le nozioni fondamentali del diritto quiritario restavano frantumati, e si dovevano ricostruire ex novo includendovi le istituzioni pretorie, e il più delle volte anzi con l’assoluta prevalenza delle istituzioni pretorie. Pochi esempi saranno sufficienti per accertare che lo spostamento nella dommatica avvenne appunto nella direzione indicata. E anche qui è appena necessario notare che i Bizantini, se ebbero la conoscenza del fatto nei singoli punti, non ebbero né l’intelligenza del risultato complessivo, né la potenza di ricostruire gl’istituti giuridici con i nuovi elementi che v’erano penetrati e divenuti costitutivi.

 

I. Nullità e annullabilità degli atti giuridici. Si è deplorato sempre che i Romani non abbiano avuto una terminologia precisa in questa materia.[1] Non so se ciò sia vero. Ma in ogni caso, prima di pronunziare sull’argomento un giudizio definitivo, è necessario chiarire un problema fondamentale, che è quello posto dall’avvenuta fusione dei due ordinamenti: civile e pretorio. Nel diritto classico l’atto poteva essere nullo pel ius civile (ipso iure). Poteva essere valido pel ius civile, ma annullabile con mezzi proposti dal ius honorarium. In quest’ultimo caso si poteva paralizzare l’efficacia dell’atto con una exceptio: doli, quod metus causa, e così via. Si poteva ancora chiedere la rescissione d’un atto già esaurito, o di atti o di effetti semplicemente perfetti secondo il ius civile, per mezzo della in integrum restitutio, quando esistessero condizioni speciali stabilite dall’Edictum. La terminologia naturalmente rappresentava con precisione la diversa natura, la intensità, i mezzi e gli effetti della nullità civile o pretoria. Ma avvenuta la fusione dei due ordinamenti, tutti i mezzi del diritto pretorio per paralizzare l’atto o rescinderlo dovevano cadere. Tutti quei casi, pertanto, di annullabilità per exceptionem o per in integrum restitutionem divennero casi di nullità ipso iure. Ciò si dovette verificare subito nella procedura extraordinaria. Sparito il pretore, la causae cognitio passò al iudex, investito della lite. Questi, essendo in possesso di tutti gli elementi della causa forniti dalle parti, pronunzia ex officio la nullità dell’atto. La terminologia classica diventa oscillante, si rimescola tutta. La exceptio del processo formulare, anche se mantenuta, aveva esaurito la sua funzione, con lo sparire del contrasto tra ius civile e ius honorarium. Quella che è ancora denominata exceptio nel Corpus iuris  è una semplice allegazione di fatto, come fu riconosciuta dalla Glossa e dai Commentatori. Onde essa può essere presentata in qualsiasi stadio del processo, sino alla sentenza.[2] Perciò in alcuni testi del Corpus iuris si dice che dolus e metus sono contrari al consenso, alla bona fides, nel senso che viziano l’atto ipso iure.[3] A questo stato del nuovo diritto corrispondono le interpolazioni accertate nel Corpus iuris.

1. Rispetto all’exceptio,[4] la quale fu:

    a) eliminata in molti passi e surrogata dall’officium iudicis

    b) applicata pure nei iudicia bonae fidei

    c) congiunta a volte con l’officium iudicis con la frase: exceptione aut (vel) ipso iure (officio iudicis)

    d) e infine l’exceptio non consuma più l’actio cui è opposta, ma ha solo l’effetto di diminuire la condanna. In questo caso si manifesta apertamente la sua natura; divenuta ormai un mezzo di tutela di una ragione di diritto materiale che si contrappone alla ragione dell’attore.

2. Rispetto alla in integrum restitutio.

    Essa fu quasi regolarmente eliminata nelle decisioni riportate nel Corpus iuris. La constatazione fu fatta già dal Savigny, ed ora, rispetto alla i.i.r. propter metum ciò fu largamente dimostrato dallo Schulz; il quale, peraltro, non ha bene apprezzato l’importanza storica del fenomeno. Alcuni esempi caratteristici nei quali appare chiaro il significato della soppressione furono riportati sopra. Ora si afferma il diritto alla ripetizione o alla rescissione senza in integrum restitutio;[5] ovvero si dice che questa “competit”[6] come qualsiasi azione in forza di diritto. In un testo di Harmenopulos[7] si nota  che l’atto estorto per vim è nullo: kai to pragma aniscuron estin.

 

II. Rappresentanza nei negozi giuridici. Il ius civile non ammetteva rappresentanza diretta, e il principio non fu mai violato dalla giurisprudenza. Ma ciò non significa che i Romani non abbiano sentito il bisogno di quello istituto. Si son dette tante cose inutili sul proposito. Il vero è che senza la rappresentanza diretta non si può concepire attività di commercio ed efficace protezione delle persone, che non sono in grado di curare i propri affari o di agire in giudizio.  La rappresentanza diretta fu in realtà riconosciuta in Roma nella cognitio extra ordinem; largamente applicata poi, quanto agli effetti pratici, dal Pretore; sia con formulae ficticiae, sia con inversione della condemnatio a favore della persona dell’interessato, o infine con formulae in factum. Il progresso del diritto fu sempre attuato dal pretore; e soltanto per questo poterono i Romani mantenere illesa, rispetto ai principi fondamentali, la struttura arcaica del loro ius civile.

Nel diritto postclassico la situazione si mutò. Divenuto civile tutto il ius, per effetto dei mutamenti processuali, la rappresentanza diretta si manifestò già largamente sviluppata, e negli affari e nel processo e a favore di persone sottoposte a tutela o a cura. Chiusa fin’allora dentro le formulae ficticiae, adiecticiae qualitatis, in factum, col cadere delle formulae venne subito alla luce bell’e formata. L’azione è data ora “directo”, “recta via” al dominus (pupillo, minore etc.) contro il terzo per atti compiuti  dal rappresentante; e viceversa al terzo contro il dominus negotii o contro il dominus litis. I Compilatori mantennero in moltissimi casi la denominazione di actio utilis, altre volte la soppressero. La critica moderna ha fatto una vera strage di queste azioni utiles, in rem  o in personam, ed ha perduto anche qui il retto sentiero. Noi constatiamo, invece, che col venir meno dell’ “ordo iudiciorum privatorum” era avvenuta una rivoluzione nella dommatica del diritto.[8] Il principio “per extraneam (liberam) personam non adquiritur”; il principio “alteri stipulari nemo potest” erano caduti a terra; e indipendentemente da qualsiasi influsso dei diritti provinciali, la rappresentanza diretta  era riconosciuta per principio nella vita del diritto; cioè la rappresentanza legale, la rappresentanza nel processo, la rappresentanza negli affari.

III. Per la stessa causa, con lo stesso processo storico e nelle medesime forme indicati sotto il numero che precede, nel nuovo diritto apparvero in piena maturità nuovi istituti di diritto civile già riconosciuti di fatto dal pretore con gli artifizi delle formulae; ovvero apparvero largamente ampliate regole, leggi antiche o istituzioni che la giurisprudenza non aveva avuto né il potere né la necessità di estendere al di là dei limiti segnati dal ius civile. Qui basterà indicare per indicem i casi più notevoli. E cioè:

a) Il riconoscimento dei contratti a favore di terzi.

b) L’azione di arricchimento fondata sul principio della dottrina stoica che inibiva qualsiasi lucro con danno altrui; principio che il pretore aveva attuato nella sua iurisdictio per via di actiones in factum, ficticiae, utiles, negotiorum gestorum e così via.

c) L’applicazione generale della lex Aquilia per qualsiasi danno che ad altri fosse arrecato per fatto colposo di una persona. Anche le lesioni corporali prodotte a persona libera ebbero sanzione dalla lex Aquilia, in base allo sviluppo che il pretore aveva dato alla stessa mediante azioni in factum o utiles.

d) Il principio che la dote, sciolto il matrimonio, deve essere restituita alla donna o ai suoi eredi, come un proprio patrimonio della donna. Questo principio era stato applicato dal pretore, con la guida della  giurisprudenza in tutti i casi in cui l’equità ne suggeriva la necessità o anche l’opportunità per motivi economici o etici.

E’ ovvio che in tutti questi istituti la comparsa delle nuove forme o dei nuovi elementi nell’organismo stesso del ius civile veniva ad alterare profondamente la struttura dommatica di essi; che perciò si rinvengono nel Corpus iuris disorganizzati, contorti, contraddittori e spesso in uno stato irriducibile.

La dottrina moderna ne ha addossata la colpa ai Bizantini, alle scuole; che al postutto non hanno avuto altra colpa che quella di non averci messe le mani. Ma, del resto, la nostra pretesa d’un nuovo riordinamento del diritto mentre avveniva la disorganizzazione del complesso sistema giuridico romano non è evidentemente eccessiva?

IV. Finora non è riuscito di determinare con precisione la struttura dlel’obligatio romana. Varie ricostruzioni si sono tentate, e dal dibattito sono scaturite diverse dottrine, delle quali due, tralasciando di enumerare le intermedie, segnano i punti estremi. L’una costruisce l’obligatio romana come un vincolo, un assoggettamento della persona del debitore; l’altra come un vincolo prettamente patrimoniale.

Le due nozioni hanno naturalmente buoni fondamenti testuali e storici. Il problema non può risolversi né conciliando, comunque, i testi, né creando rappresentazioni dommatiche intermedie e ibride. Io dico, che bisogna distinguere la figura dell’obligatio secondo il ius civile da quella pretoria. Ed è naturale che la unione dei due ordini doveva produrre effetti considerevoli sulla struttura dell’obligatio.

Pel ius civile, è fuori dubbio, la obligatio fu sempre considerata come un vincolo della persona del debitore. Considerato questo vincolo certamente in modo più mite col progresso della civiltà e della elaborazione scientifica del diritto, non si alterò tuttavia la nozione di esso, e cioè il suo carattere personale, mantenuto fermo dalla giurisprudenza classica. Questo si prova con argomenti diretti e irrefragabili.

a) La obligatio non è trasmissibile ad altra persona; passa all’heres e soltanto all’heres perché questi assume la posizione giuridica del suo autore. Ma non può iniziarsi dall’heres (Gai III,101). I debiti periscono per qualsiasi capitis deminutio, anche per effetto della minima c. deminutio. Periscono per la morte del debitore sine herede, e temporaneamente anche per la prigionia di guerra.[9]

b) La esecuzione è sempre personale pel ius civile, e direttamente essa non investe in alcun modo il patrimonio del debitore.[10] La legis actio per pignoris capionem è eccezionale per debiti sacrali o di carattere pubblico. In contrapposto il diritto pretorio riconobbe il rapporto obbligatorio essenzialmente come un vincolo che investe il patrimonio del debitore.

Infatti il pretore creò vari mezzi e istituti per rendere perseguibili contro il patrimonio del debitore anche le obbligazioni estinte pel ius civile.

I rimedi pretori sono notissimi: formulae ficticiae, in factum, in integrum restitutio, e soprattutto la missio in possessionem e la venditio bonorum descritte da Gaio III, 77ss. Da questo testo si desume, che non solo la venditio bonorum del diritto pretorio era venuta a surrogare la feroce esecuzione delle XII Tavole sul corpo del debitore; ma pure, che fossero o no esistenti i debiti pel ius civile, il pretore assicurava sempre ai creditori il soddisfacimento di essi sul patrimonio del debitore.

Il contrasto, pertanto, tra ius civile e ius honorarium ha in questo punto due aspetti. Riguarda in primo luogo la natura del vincolo, che non è considerato come strettamente personale; tanto è vero che l’obbligazione è ritenuta viva e perseguibile anche senza la persona del debitore. Riguarda, in secondo luogo, e conseguentemente  l’esecuzione che ha luogo sul patrimonio e non più sulla persona. Il giureconsulto Cecilius in Gellius XX,1,19 insiste su questo stato del nuovo diritto, dicendo che al procedimento primitivo, inesorabile, inumano, era stata sostituita la venditio dei beni: sicuti nunc bona venum distrahuntur.

Or secondo il processo storico a noi noto, nel diritto postclassico, sparito il pretore, caduta la in integrum restitutio e tutte le formulae, la esecuzione del diritto pretorio fu assunta nella pratica come istituto iuris civilis: onde è ora nei poteri del giudice (officio iudicis) di ordinare la esecuzione sui beni.

Per fortuna, di questo trapasso degli istituti pretorii al ius civile abbiamo una precisa relazione di Giustiniano, già riferita sopra, e nella quale è detto che le bonorum venditiones cum ipsis ordinariis iudiciis expiraverunt (I.3,12). Le conseguenze d’ordine dommatico furono considerevolissime, e sono visibili nei Digesti. A parte che le tracce dell’antico diritto, come al solito, non potevano sparire tutte; è da notare:

a) nel Corpus iuris la obligatio può sussistere senza la persona del debitore, il che vuol dire che il vincolo non è più considerato personale, per essenza.[11]

b) la esecuzione della condanna investe sempre il patrimonio del debitore. Se trattasi di azioni in rem, esse si eseguiscono sulla cosa stessa: manu militari officio iudicis.[12] Le condanne da azioni in personam sono parimenti rese esecutive sul patrimonio del debitore, con la missio in possessionem e la venditio dei beni ordinate dal giudice secondo esige la necessità del caso.

Non c’è altro esempio che serva meglio di quello qui descritto, e che riguarda la struttura dell’obligatio, a illustrare il processo storico dell’evoluzione del diritto romano. I Compilatori, come abbiam visto, avevano in proposito idee chiare, perciò il mutamento del diritto poterono segnalarlo con precisione e attuarlo con costanza nell’opera legislativa. La pratica giudiziaria aveva subito trovato la sua via in questo punto di diritto. Il mutamento si era compiuto rapidamente nella  nuova procedura, perché essa assunse come ius civile il contenuto materiale degl’istituti del diritto pretorio, che già nel periodo classico s’erano sostituiti completamente al ius civile. La scuola, qui come altrove, aveva nulla da suggerire e da insegnare. Le istituzioni giuridiche, già lungamente sperimentate, prendevano il loro posto da sé stesse. Tutti i rimedi pretorii escogitati per sovvenire o paralizzare il ius civile cadevano per atrofia.

 

 

II. Fusione del ius gentium col ius civile.

 

Il processo storico che produsse la fusione del ius gentium col ius civile è ormai a noi noto, perché esso s’iniziò e svolse nel periodo della giurisprudenza classica, mercè l’analisi acuta dei giuristi rispetto agli elementi costitutivi dei negozi solenni del commercio. Il risultato delle indagine fatte sopra appare più chiaro e più sicuro dopo che abbiamo scoperto e messo in luce il corso della evoluzione di tutto il diritto romano.

Il ius civile, abbiamo visto, restò immobile soltanto esteriomente, rispetto all’esigenza delle forme solenni, ma non a riguardo degli elementi interni costitutivi dei negozi. In questo campo il lavoro della giurisprudenza fu intenso e quanto mai fruttuoso. Ma anche in ordine alle forme l’immobilità del ius civile è più apparente che reale. Anche le forme subivano semplificazioni notevoli, delle quali non è necessario qui ripetere le prove. Certo le differenze formali e sostanziali tra negozi iuris civilis e iuris gentium si venivano attenuando lentamente. Siccome, infatti, tutti i negozi, dell’uno e dell’altro ordine, servivano ad effettuare il commercio dei beni e in particolare a costituire rapporti obbligatori, avendo essi lo stesso campo d’azione e un identico scopo, la fusione dei due gruppi in un’unica categoria era inevitabile, imposta dalla stessa realtà. Ed i negozi iuris gentium ebbero ben tosto la stessa protezione giuridica con actiones civiles; la stipulatio fu estesa anche ai non cives, e resa iuris gentium. E mentre ii caratteri proprii dell’uno esercitavano il loro influsso su l’altro gruppo di rapporti giuridici, d’altra parte la protezione giuridica della civitas romana si estendeva di continuo a singoli individui, a città, a genti, sino alla famosa costituzione di Caracalla dell’a. 212 che diede la civitas a tutti gli abitanti dell’Impero, con l’esclusione dei dediticii.

Tutto ciò serve a indicare la direzione del movimento del diritto verso la unificazione anche del ius civile e del ius gentium. Le forme del ius civile erano un prodotto di una civiltà primitiva, e apparivano sempre più artificiose. Così, per esempio, nella pratica, la sola traditio e non la mancipatio era adoperata nell’alienazione di cose mobili appartenenti alle res mancipi. Ed invero la prevalenza sempre maggiore nella pratica delle figure giuridiche del ius gentium era determinata dagli stessi elementi costitutivi, più semplici e soprattutto di carattere naturale, dacché essi riprendevano la realtà stessa come si manifesta nel mondo degli affari. L’analisi della giurisprudenza romana fu magistrale a questo riguardo, cioè nello scovrire e fissare le leggi che governano l’attività degli uomini in ordine allo scambio dei beni e all’attuazione di relazioni giuridiche. E la scomposizione analitica degli elementi dei negozi condusse la giurisprudenza alla ricostruzione sintetica sempre più precisa e più larga delle categorie giuridiche. Anche i negozi del ius civile erano stati compresi nell’esame e attratti nell’orbita della categoria generale dei negozi. La giurisprudenza aveva constatato, come sappiamo, che gli stessi elementi naturali si riscontrano nei negozi solenni, cioè la “conventio” e la “causa”; i quali, seppure coperti dalla forma, nondimeno debbono esistere, come nei negozi iuris gentium, perché essi siano pienamente efficaci. Che la inefficacia sia diretta, cioè per lo stesso ius civile; o indiretta, cioè attuata dallo ius honorarium, appare cosa di secondaria importanza. Questo è il giudizio di Cicerone.[13] E questa è la realtà. Il vizio della conventio o della causa, rende ora l’atto nullo o almeno annullabile. Se la forma solenne è sempre necessaria, essenzialmente necessaria, essa è divenuta una veste degli elementi naturali del negozio. L’assoluto dominio della forma, dei verba, che fu il punto di partenza del ius quiritium, tramontava giorno per giorno. Il pretore annullava atti che erano pienamente validi pel ius civile. Il pretore, d’altra parte, seguendo la giurisprudenza, rendeva efficaci convenzioni anche se non rispondevano a tutti i requisiti imposti dal ius civile. Inoltre, il pretore con formulae ficticiae molto spesso derogava alle stesse forme solenni, riconoscendo efficace il negozio come se la solennità fosse stata compiuta. Ciò significava, nella maniera più patente, che la coscienza giuridica esigeva ormai il riconoscimento e la protezione dei negozi aventi tutti i requisiti naturali in ordine, anche se difettosi nella forma; e viceversa esigeva la nullità degli atti compiuti iure, quando fossero manchevoli negli elementi interni, di carattere sostanziale. La prevalenza, pertanto, di elementi naturali era in cammino, e viceversa la decadenza delle forme preannunziava la loro scomparsa.

Ciò avvenne, difatti, gradatamente nel diritto postclassico, da Costantino in poi. Dopo la constitutio Antoniniana, fino a Diocleziano gli imperatori reprimono con estremo e inopportuno rigore la inosservanza delle forme solenni romane, pronunziando la nullità degli atti. La reazione però si manifesta vigorosa subito dopo, precisamente nella materia delle donazioni e della dote, che hanno nella vita familiare di ogni tempo un’importanza essenziale.[14] Rispetto alla stipulatio la solennità fu abolita da Leone.[15] Nella pratica, anche anteriormente alla data ora indicata, le forme solenni furono considerate compiute quando fossero attestate da un documento scritto. Così nella stipulatio,[16] nella manumissio,[17] nella tutoris auctoritas. La scrittura prende via via il posto delle solennità orali. Il trapasso dalla oralità alla scrittura si compie mediante presunzioni iuris et de iure. Le quali perciò appariscono in gran numero nel Corpus iuris, espresse di regole con il verbo “credere” (credendum est; creditur). Siffatte presunzioni riguardano per lo più le forme o il contenuto degli atti, in particolare la volontà delle parti. La giurisprudenza romana non ricorreva mai per questi rispetti a presunzioni; constatava l’osservanza o meno della forma, e interpretava il contenuto dell’atto dalla realtà, riguardata nei suoi elementi soggettivi e oggettivi, con l’arte inarrivabile che essa possedette. Le presunzioni sono un prodotto della pratica giudiziaria del periodo della decadenza. Segnano, in primo luogo, il trapasso dalla vita alla morte delle forme solenni romane. Segnano, in secondo luogo, la scomparsa dell’arte dell’interpretazione, la quale deve sapere discernere nei fatti e negli atti giuridici gli elementi reali e decisivi.

 

Raccogliendo ora i risultati di questo processo evolutivo, possiamo nella codificazione di Giustiniano constatare già compiuta la fusione del ius civile e del ius gentium. La unicità della categoria dei negozi – che costituisce il campo proprio del ius gentium – si manifesta per i seguenti caratteri:

1. Tutte le forme solenni romane sono scomparse, sostituite in qualche caso dalla scrittura. La forma della stipulatio, che s’era ritenuta unica superstite, per quanto attenuata, non esiste più nella realtà. Dopo la legge di Leone del 472 essa divenne una mera convenzione, la quale non esige nemmeno l’effettiva presenza delle parti.[18]

2. Scomparse tutte le forme solenni ne derivò la perfetta eguaglianza di tutti i negozi.

a) La traditio divenne il modo generale di trasferimento del dominio. La distinzione delle res (mancipi e nec mancipi) era scomparsa.[19]

b) Diritti reali si costituiscono pactionibus et stipulationibus  o mediante traditio.[20]

c) Rapporti obbligatori nascono da conventiones (contractus, pacta, stipulationes).

3. Conventio  e causa sono elementi naturali, costitutivi di tutti i negozi reali o obbligatori. La categoria dei negozi astratti, la cui validità era indipendente dalla causa, scomparve completamente. Ora tutti i negozi sono causali, secondo le norme del ius gentium. Perciò il creditore deve provare la causa del suo credito, se essa non apparisce dall’atto (cautio indiscreta: fr. 25 § 4 D.23,3). E se l’obbligazione è già costituita per una causa per sé efficace, es. re, consensu etc., la stipulatio si ritiene fatta “ex abundanti”: fr. 5 § 3 D.3,5.[21] Onde anche la stipulatio è divenuta causale, nel senso comune che la sua esistenza dipende dalla realtà e liceità d’una causa. Ciò fu riconosciuto dagli antichi interpreti. La dottrina contraria era prevalsa nella scuola storica nel sec. XIX, ma è stata superata dagli studi più recenti.[22]

 

La surrogazione della scrittura alle forme romane merita ancora un’ulteriore osservazione. La decadenza  delle forme solenni romane che ebbe, come s’è visto, effetti così notevoli nella dommatica giuridica, si suole oggi riportare quasi esclusivamente all’influsso delle consuetudini dei paesi orientali, nei quali la scrittura era largamente usata nella vita del diritto. Il contrasto per questo riguardo tra Roma e l’Oriente è caratteristico. Roma parla, l’Oriente scrive.

E in realtà non si deve negare l’influsso di quelle consuetudini sul diritto romano, che si manifesta subito con Costantino. Dopo la constitutio Antoniniana, più volte ricordata, le forme romane nei paesi ellenistici furono asservite al documento scritto. Ma se ciò è vero, questa causa non può essere ritenuta esclusiva. La trasformazione delle forme solenni orali in forme scritte doveva avvenire necessariamente. La decadenza delle forme orali s’era iniziata, come ho notato, nel periodo classico. Anzi esse si mantennero  a lungo nel mondo romano, per motivi del tutto eccezionali. E cioè: da una parte per la grande disciplina e per la tenace tradizione del ius civile; e dall’altra per l’intervento del pretore, il quale, nei casi in cui l’inosservanza delle forme poteva produrre effetti iniqui, veniva in soccorso con formulae ficticiae, concedendo l’azione come se l’atto fosse stato compiuto nelle forme prescritte.

A provare la giustezza di queste osservazioni basterà ricordare che nel periodo classico la cautio, che attestava la solennità orale, era molto diffusa nella pratica fin dal tempo di Cicerone; e questa pratica preparava sicuramente la via alle forme scritte. In proposito è notevole che Cicerone frequentemente accenna a dubbi d’interpretazione e a controversie giudiziarie riguardanti stipulationes e si riferisce sempre allo scriptum.[23] Ciò non deve essere dimenticato, dunque, quando si vogliano valutare le cause e i fattori dell’evoluzione del diritto romano. Se nel diritto giustinianeo le forme degli atti e i mezzi di prova preferiti e a volte esclusivi sono rappresentati decisamente dagli instrumenta,[24] l’importanza di essi di fronte ai testes, in special modo, aveva percorso la sua evoluzione lenta ma sicura nella pratica sin dal tempo della Repubblica.

 

 

III. Recezione nel ius civile di rapporti riconosciuti dal ius naturale.

 

Nel movimento generale del diritto che si verifica nel periodo di cui ci occupiamo è attratto anche il ius naturale; nel senso che rapporti che erano riconosciuti come semplici obbligazioni naturali passano al ius civile, muniti per ciò di piena efficacia giuridica. Il trapasso avviene pure qui secondo la legge dell’evoluzione accertata nell’epoca classica. La protezione di fatti e rapporti garentita dapprima dal pretore in modo imperfetto, per lo più mediante exceptio, ma a volte con formulae in factum, è assunta in seguito dal ius gentium, attuata con azioni civili. E del resto è noto, che secondo la concezione romana la fonte del ius gentiumè appunto il ius naturale.

Nel diritto postclassico è ovvio che questo trapasso di rapporti dal ius naturale al civile si è compiuto in maniera più vasta e più rapida.

Gli esempi più significativi e importanti sono i seguenti:

1. La retentio che si accordava in molti casi come sola forma di tutela, es. per impensae fatte in buona fede su cose di altri, aveva fondamento sul diritto naturale. Perciò nel diritto classico la retentio presuppone sempre la bona fides dell’agente che la invoca ed è protetta mediante l’exceptio doli. Questo carattere dello ius retentionis non può essere messo in dubbio, perché è rivelato dalla decisione di Papiniano contenuta nel fr. 1 § 4 D.20,1, che non fu compresa nemmeno dal Cuiacio.[25]

Nel diritto nuovo i rapporti protetti con la semplice retentio furono muniti di actio (condictio, actio negot. gestorum, de in rem verso) e perciò considerati iuris civilis. L’estensione, poi, dell’actio anche al possessore di mala fede dipende dal principio più generale “nemo ex aliena iactura locupletari debet”, che fu riconosciuto e attuato senza alcuna limitazione.[26]

2. Nuda pacta fatti in buona fede furono riconosciuti e protetti dal pretore come cause di obbligazioni naturali. La dottrina antica fu concorde in questo punto a partire dalla Glossa.[27] Nella cognitio extraordinaria, come sappiamo, essi furono gradatamente muniti di azioni civili.

3. Lo schiavo non può assumere obbligazioni; il suo debito vale soltanto “natura”. Anche la promessa fatta al padrone ut eum manumitteret non acquistava efficacia giuridica con la manumissione.[28] Nel diritto giustinianeo però essa diviene coercibile. Forse è possibile, in base ai risultati delle nuove indagini sulle fonti, formulare il seguente principio generale: tutti i rapporti posti in essere dallo schiavo divengono civili con l’acquisto della libertà. La formola parrà eccessiva, perché lo stato del diritto antico apparisce ancora in grande rilievo nella Compilazione. Ma è certo che in essa si rinvengono decisioni impressionanti; e che d’altra parte il principio non è così eretico come sembra a prima vista ove si rifletta che il pretore in molti casi dava contro lo schiavo manomesso actio de dolo e formulae ficticiae per costringerlo all’adempimento.[29]

Considerato, pertanto, il valore degli esempi illustrati, che abbracciano vaste categorie di obbligazioni naturali passate rapidamente nella sfera del ius civile, si può ben intendere, anche per questo rispetto, la legge dell’evoluzione diretta al riconoscimento giuridico pieno di rapporti che dapprincipio si presentano come semplici obbligazioni naturali. Ciò, ovviamente, non può significare che la categoria delle obbligazioni naturali in uno stadio progredito del diritto sparisca; ma soltanto questo, che i tipi o casi di obbligazioni naturali seguono lo sviluppo della vita sociale e si rinnovano di continuo.[30]

 

*     *

*

 

I punti illustrati per provare la fusione del ius civile e del ius honorarium, del ius civile e del ius gentium o naturale, gettano ora un fascio di luce potente su tutta l’evoluzione del diritto romano, che si riflette sulle fonti giustinianee e su quelle pregiustinianee; nonché sulla dommatica del diritto privato, vale a dire sulla struttura assunta dalle istituzioni giuridiche nel ius novum  e nell’epoca moderna.

L’evoluzione qui descritta dirada le nebbie che avvolgono le dottrine contenute nel Corpus iuris. Essa disperde dispute teoriche secolari sui varii punti di diritto, e mette in luce gli avvenimenti che determinarono la trasformazione del diritto privato e gli elementi che concorsero a rinnovarlo e a riformarlo.

Noi possiamo ora seguire nelle fonti romane il corso dell’evoluzione, continuo e indefettibile, che ci dà ragione del valore di potenza e di resistenza di quel diritto a tutte le vicissitudini delle dottrine germogliate dal caos del Corpus iuris.

Gli è che tutte le nostre istituzioni di diritto privato hanno radici profonde nel ius civile dei Romani ravvivato e rammodernato sapientemente  con opera assidua dal pretore, elaborato dai grandi giuristi di Roma. Il diritto, fenomeno vitale per eccellenza, s’era formato in Roma assumendo tutti gli elementi dalla complessità enorme dei fenomeni sociali. Allorché venne meno poi nella cognitio extraordinaria il potere superiore che aveva mantenuto l’equilibrio tra i vari ordinamenti, la crisi scoppiò vasta e profonda; ma in essa non poteva rimanere travolta una tradizione giuridica così complessa, ricca di contenuto cioè di mezzi, di forme, di esperienza; una tradizione che aveva dentro di sé l’analisi più perfetta di elementi di vita, rivelatisi all’osservazione illuminata di tante generazioni di magistrati e di giuristi, elementi assunti già nell’organismo del diritto e generatori essi stessi di vita e di una civiltà superiore. Sospettare, come si è fatto, uno smarrimento completo della tradizione romana, così luminosa, così organica, per l’influsso di diritti inconditi o per le elucubrazioni di scuole mediocri, è cosa assurda oltre ogni immaginazione. Le generazioni che vivono dopo epoche di splendore di civiltà vivono sempre una vita parassitaria. Le istituzioni giuridiche romane avevano solo bisogno di semplificazione.

Il compito di riassestare e semplificare il diritto incombette alla consuetudine, in primo luogo alla pratica giudiziaria; la quale trovò subito i mezzi e le vie più dirette. Il diritto si venne ricomponendo da sé stesso; nella parte essenziale con gli stessi elementi classici: ius civile e ius honorarium si fusero in un unico ordinamento; e così il ius civile e il ius gentium. Il diritto così ricomposto appare nuovo sostanzialmente. E’ nuovo in realtà nella struttura e nella dommatica. Ma rappresenta nei suoi elementi costitutivi una reincarnazione del diritto creato da Roma, che ha assunto alfine la forma definitiva per compiere la sua missione storica universale.


 

indice delle fonti citate

 

I. FONTI GIURIDICHE

 

a) Fonti pregiustinianee

 

Gai Institutiones

1.119

1.123

1.128

2.8

2.35

2.50

2.103

2.104

2.197

2.247 ss.

2.252

3.12 ss.

3.77

3.77 ss.

3.79

3.84

3.85

3.89 ss.

3.91

3.94

3.101

3.114

3.129

3.136

3.169

3.179

3.196

3.198

3.208

4.11

4.30

4.33

4.38

4.80

4.115

4.116

4.119

4.153

4.178

 

Fragmenta Gai Augustoduniensia

67

 

Fragmenta Vaticana

49

50

83

254

263

 

Mosaicarum et romanarum legum collatio

1.6.2

 

Pauli Sententiae

1.7.4

2.31.31

2.31.35

5.2.1

5.7.2

5.23.3

 

Tituli ex corpore ulpiani

19.15

20.2

29.12

 

b) Fonti giustinianee

 

Codex repetitae praelectionis

2.3.20

2.20.3

4.14.3

4.22.1

4.22.2

4.44.5

6.2.22

6.43.1

6.43.1 pr.

6.43.2

7.25.1

7.31.1

7.37.10

7.40.3

7.50.2

8.1.3

8.37.14

 

Constitutio ‘Deo auctore’

§ 1

§ 10

 

Constitutio ‘Omnem’

§§ 1-2

 

Constitutio ‘Tanta’

§ 1

§ 9

§ 10

§ 11

§ 14

 

Digesta Iustiniani

1.3.29

1.3.30

2.14.1.2

2.14.1.3

2.14.5

2.14.6

2.14.7

2.14.27.9

2.14.30.1

2.14.30.2

2.15.2

2.15.5

2.15.7

2.15.7.1

2.15.7.2

2.15.7.4

2.15.15

3.5.47

3.5.47.1

4.2.21.5

4.3.7.7

4.3.7.8

4.5.1.3

4.5.8

5.1.35

6.1.5.4

6.1.68

6.2.11.1

7.2.3.2

8.1.4

8.3.13 pr.

8.3.33.1

9.2.51.2

10.3.14.1

10.4.7.1

10.4.19

11.1.9

11.1.11

11.7.14.11

11.7.32 pr.

12.1.9 pr.

12.1.9.8

12.1.9.9

12.1.18

12.1.20

12.1.30

12.6.23.3

12.6.33

12.6.65.1

12.6.65.3

13.7.37

13.15.3.1

14.2.8

14.3.13 pr.

15.1.32 pr.

16.3.29

17.1.55

17.2.51 pr.

18.1.9

18.1.74

18.5.3

18.5.5

18.5.5 pr.

18.6.14.1

19.1.49

19.2.46

19.5.5.2

19.5.15

22.2.5

23.3.9.3

23.3.21

23.3.80

23.3.83

24.1.58.2

24.1.64

27.7.4.3

28.1.23

28.5.35 pr.

28.5.35.3

29.2.86

30.4 pr.

33.2.1 pr.

33.10.7.2

33.10.10

33.10.33

34.2.32.1

34.5.29

35.1.17 pr.

35.1.17.1

37.1.1

39.2.5.9

39.2.12

39.2.15.16

39.2.15.33

39.2.18.15

39.5.1 pr.

39.5.6

39.5.31.1

40.2.23

40.4.54 pr.

40.8.1

41.1.5.1

41.1.9.3

41.1.9.6

41.1.9.8

41.1.31 pr.

41.1.36

41.1.55

41.2.3.1

41.2.3.3

41.2.3.11

41.2.3.18

41.2.3.23

41.2.10.2

41.2.18.2

41.2.21.1

41.2.25.2

41.2.3.3

41.2.3.6

41.2.3.18

41.2.13 pr.

41.2.17.1

41.2.18.3

41.2.21.1

41.2.21.2

41.2.25

41.2.26

41.2.44.2

41.2.47

41.2.51

41.3.37 pr.

41.7.7

41.7.9.5

41.9.1.2

42.5.4

43.16.1.9

43.16.1.25

44.4.2.3

44.4.4.18

44.4.11 pr.

44.7.1

44.7.3.1

44.7.3.2

44.7.4.1

44.7.4.2

44.7.5 pr.

44.7.35.2

44.7.38

44.7.44.2

44.7.54

44.7.55

44.7.57

45.1.5 pr.

45.1.32

45.1.35.2

45.1.52

45.1.56.4

45.1.56.8

45.1.99

45.1.137.1

45.1.141.5

46.1.21.3

46.2.8

46.2.14

46.2.24

46.2.31

46.3.1

46.3.5

46.3.16

46.3.34.2

46.3.98.6

46.3.72.1

46.3.97

46.4.8 pr.

46.4.14

46.4.19 pr.

46.4.23

46.5.1

47.2.1.1

47.2.1.3

47.2.43.4

47.2.43.5

47.2.43.10

47.2.43.11

47.2.46.8

47.2.52.7

47.2.52.19

47.2.56.1

47.2.56.3

47.2.65

47.2.67.2

47.2.68 pr.

47.9.3 pr.

47.19.6

48.8.1.3

50.16.6.1

50.16.116

50.16.125

50.16.225

50.17.116

 

Institutiones Iustiniani

2.1.45

2.1.47

2.1.48

2.3.4

2.4.1

2.10.1-3

2.13.5

2.20

2.20.3

2.23.7

2.29

2.30

3.2.3

3.6.10

3.12 pr.

3.13.2

3.14.1

3.15.1

3.15.3

3.19.3

3.19.12

3.24.3

3.25.2

3.27.1

4.1.7

4.1.8

4.1.18

4.15.8

 

Novellae Iustiniani

118

134.4

 

c) Fonti bizantine

 

Basilica

11.6.67 Schol.

24.5.3

 

Exabiblos

1.12.55

 

Paraphrasis Theophili

2.6.5

4.1.7

 

d) Fonti epigrafiche e papirologiche

 

Corpus Inscriptionum Latinarum

10.318

 

Lex Rubria

20

 

Res gestae divi Augusti

30.4

 

P.S.I.

1.55

 

II. FONTI LETTERARIE

 

Aristoteles

Ethica ad Nicomachum

5.2.13

6.2

 

Cicero

Brutus

52

152

196

De inventione

1.70

2.14

2.54

2.100

De legibus

1.17

3.8

De natura deorum

2.168

De officiis

1.32

3.21

in Verrem actio secunda

1.42.109

Laelius

92

Orator

3.24

Partitiones oratoriae

126

136

pro Caecina

18.51

23.65

34.99

pro Tullio

29.34

Topica

25

26

28

 

Gellius

Noctes Atticae

4.4

6.3.35

11.18.14

11.18.21

11.18.23

20.1.19

20.1.41

 

Lucretius

De rerum natura

3.94

 

Procopius

Anecdota

 

Quintilianus

Declamationes

331

 

Rhetorica ad Herennium

2.14

 

Sallustius

in Catilinam

1.2

 

Seneca

De beneficiis

5.14.2

5.20

De controversiis

7.4

 

Servius grammaticus

Commentarius in Vergilii Aeneidem

4.103

 

Valerius Maximus

Dicta et facta memorabilia

6.1.8

 

Varro

De lingua Latina

69 ss.

71

72

 

Vergilius

Eglogae

3.84    

 

 


 

INDICE

 

I problemi

La volontà

La voluntas negli istituti del ius gentium

Conventio, contractus, pactum

 

      Parte II

      Il diritto da Costantino a Giustiniano

 

Le cause dell’evoluzione del diritto romano

I – Fusione del ius honorarium col ius civile

II – Fusione del ius gentium col ius civile

III – Recezione nel ius civile di rapporti riconosciuti dal ius naturale.

 

Indice delle fonti citate

 


Note:

[1] <Windscheid, Pand. § 82 n. 2; Hellmann, Z.S.S. v. 23, 1902, p. 380ss.; v. 24, 1903, p. 50ss.>

[2] Vide fr. 23 § 3 D.12,6 – fr. 11pr. e 4 § 18 D.44,4 – c. 2 C. 7,50: cfr. Guarneri, Studi Perozzi.

[3] fr. 116 D.50,17;  c. 5 C.4,44. Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 300 e Schulz, Z.S.S. v. 43, p. 209.

[4] Z.S.S. v. 43, p. 295ss.

[5] fr. 65 § 1 D.12,6; c. 3 C.2,20: in rem quoque ...

[6] Paul. Sent. 1,7,4; fr. 86 D.29,2 cfr. Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 654.

[7] Exabibloj I,12,55.

[8] Dal diritto romano classico, p. 631ss. e la trattazione più larga nelle “Formulae ficticiae”.

[9] Cfr. Gai. I,128; II, 35; III, 84, 85, 114; IV, 38, 80; Ulpian. XIX, 15; XXIX, 12; fr. 1 D.40,8 (interp. competit, e del resto rimaneggiato), cfr. 4 D.42,5 (sed hoc...futurum Trib.); Gai III,77ss.  

[10] Cfr. Woess in Z.S.S. v. 43, p. 485ss.

[11] Cfr. Archiv f. Rechtsphilosophie v. XVI, p. 512ss.

[12] fr. 68 D.6,1.

[13] Cic., off. I, <32>

[14] Cfr. Mél. Girard, II, p. 416.

[15] <I.3,15,1.>

[16] <Paul. Sent. 5,7,2.>

[17]  Fr. 23 D.40,2.

[18] <c. 14 C. 8,37; I.3,19,12.>

[19] <c. 1 C. 7,31.>

[20] <I.2,3,4; 2,4,1;  fr. 11 § 1 D.6,2 (itp.).>

[21] Sul testo Segrè, Studi per Simoncelli, p. 361.

[22] Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 287ss., 337 ivi per l’antica letteratura. Male il Wendt in Jherings Jahrb. v. 38 p. 20ss il quale negò l’evoluzione e ritenne la stipulatio fosse stata sempre causale. La dottrina esposta nel testo è insegnata ora da Sohm-Mitteis, Instit., p. 411, 412; Lenel, Deutsche Literatur Zeitung a. 1924, p. 241.

[23] Cfr. Costa, Cicerone giureconsulto, I, p. <153 n. 5.>

[24] Cfr. Z.S.S. v. <43, p. 312ss.>

[25] Cfr. B.I.D.R.v. 20, p. 244ss. Per il problema in generale cfr. Dal diritto romano classico al diritto moderno, p. 266; anche Goldschmidt, Handbuch des H.R., I § 94 n. 14. Il Windscheid, Pand. §§ 287 n. 5; 289 n. 1 nega l’obbligazione naturale come fondamento del ius retentionis.

[26] Cfr. in proposito Dal diritto romano classico al diritto moderno, p. <376ss.; 429ss.; 652ss.>, dove la materia è esaminata largamente anche rispetto al diritto moderno.

[27] Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 342.

[28] c. 3 C.4,14: cfr. Basil. 24,5,3. Z.S.S. v. 43, p. 361.

[29] fr. 7 § 8 D.4,3. Mitteis, Priv., p. 202 n. 32, p. 319; Riccobono, Formulae ficticiae.

[30] Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 372.

 



[1] Cfr. Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 283.

[2] Reth. 1,13 (1374).

[3] Cfr. Mommsen, Strafrecht, p. 97 n. 5.

[4] Gell., 6,3,35.

[5] Cicero, pro Tullio 29,34; Seneca, de benef. 5,14,2; de controv.7,4; Giovenale 13,199.

[6] Collat. 1,6,2; fr. 1 § 3 D.48,8.

[7] Cfr. Schulz, Einführung cit., p. 65. In contrario Huvelin, Le furtum, p. <375ss.>

[8] Anche nel fr. 47 D.41,2 di Papiniano si tratta del depositario che costituisce di possedere per sé. E’ citato Nerva, ed ammessa la perdita immediata del possesso da parte del deponente. Anche questo passo è fortemente interpolato: Beseler, Beitr. III, 88.

[9] Nel testo è sicuramente interpolata la frase finale: quod verum esse arbitror, che non può attribuirsi a Ulpiano, la cui opinione era contraria.

[10] Gell., 11,18,23.

[11] Cfr. Paul. 29 D.16,3; Sent. II,31,35; 3 § 18 D.41,2; Papin. 55 D.17,1; Ulp. 1 § 1 D.47,2; 52 § 19 D.47,2.

[12] Gai 2,50; cfr. I.4,1.7; fr. 37pr. D.41,3; Gai 3,208, cfr. I.4,1,18; Gai 4,178; Paul., Sent. II, 31,35; Ulp. fr. 43 § 5 D.47,2; <Iul.> 51 § 2 D.9,2; <Ulp.> 51pr. D.17,2: testo interpolato, ma solo nel periodo et sane...credendum est; Iulianus, 56 § 3 D.47,2.

[13] Cfr. Cic., off. 3,21: ut praeter suum quisque emolumentum spoliet aut violet alium.

[14] Cfr. Gell. 11,18,21; Paul., Sent. II, 31,31; fr. 1 § 3 D.47,2; Ulp. 43 § 4 D.47,2.

[15] Paulus, Sent. II,31,35.

[16] Cfr. Gell. 11,18,14; fr. 67 § 2 D.47,2; fr. 7 § 7 D.4,3.

[17] Cfr. fr. 6 D.47,19 Paul. ad Neratium; 43 § 5 D.47,2 (interp. recte dictum est); fr. 46 § 8 eod. (interp. formale: verum tamen est); Gai 3,198; I.4,1,8.

[18] Sarà bene avvertire che togliendo anche da Gai 2,50 il periodo finale con la frase adfectus furandi nulla si muta; perché tutto il testo è costruito sul “credere”, “existimare” dell’agente. Inoltre la massima: “furtum enim sine affectu furandi non committitur”, è in Theophilus II,6,5 e IV,1,7 riportata in latino, come egli riporta in tutti gli altri casi in latino i proverbi giuridici. L’osservazione è dello Schrader, Inst., p. 252. La regola di cui qui trattiamo formulata dai veteres si dovette affermare con Sabino e Cassio: cfr. fr. 3 § 18 D.41,2.

[19] Cfr. Pringsheim, Beryt und Bologna.

[20] Un esempio cospicuo rispetto al possesso nel fr. 3 § 23 D.41,2.

[21] Pal. II, p. 240.

[22] Pal. II, p. 240 n. 3.

[23] Cfr. Z.S.S. v. 43 p. 307ss.; Lenel, Pal. I, p. 971.

[24] Questa congettura potrebbe richiamarsi ad un indice greco dei passi riferiti del Digesto, venuto alla luce di recente in un papiro egizio, pubblicato nei P.S.I. v. I nr. 55 dal Vassalli e in B.I.D.R. vol. 24 p. 192. Il papiro nel verso l. 3 e 4 riporta il fr. 5 di Ulpiano così: Ulp. conventionwn ... eij duo diaireitai eis publecon pakton kai eis privaton (per il termine diairesij = distinctio v. Peters, Digestenkomm., p. 23). L’indice fu composto certamente ad uso delle scuole da un antecessore contemporaneo di Giustiniano. Vassalli pensa a Theophilus. Ma è sicuro che nell’indice si rinvengono elementi pregiustinianei. In varii lavori io ho potuto dimostrare che questo fenomeno si nota in tutti i sunti o commenti fatti dai contemporanei di Giustiniano alle singole parti della Compilazione, e che ciò si deve all’uso fatto dagli antecessori delle antiche versioni greche delle opere dei giuristi e dei Codici, che erano diffuse nelle scuole orientali. Cfr. B.I.D.R. v. 9 p. <272ss.>  Cfr. anche B. scolii ad h.l., Heimbach I, 557.

[25] Così anche il Mitteis, R. Privatrecht, I, p. 36 n. 19, ed ivi citati. Il Mitteis richiama in confronto il fr. 77 R.J: actus legitimi.

[26] Sul testo v. Pernice, Z.S.S. v. 9, p. 198.

[27] Cfr. fr. 5 § 2 D.19,5.

[28] Eth. Nicom. V,2 (4), 13, p. 1130.

[29] Z.S.S. v. 9, p. 125.

[30] Cfr. Z.S.S. v. 43 p. 297s.

[31] Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 338ss.

[32] Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 363ss.

[33] Si veda specialmente la c. Tanta.

[34] Röm. Privatrecht, I, Vorwort.

[35] Il pensiero del Mitteis si ricostruisce con precisione dal 1891 al 1917.  Reichsrecht (1891): l’opera nel programma del M. era limitata a provare la persistenza del diritto volgare nelle province orientali, anche dopo la c. di Caracalla e non l’influsso che quel diritto potè esercitare sul diritto giustinianeo, rispetto al quale egli scriveva (p. 10): noch die grösste Zurückhaltung räthlich ist; die letzen Ziele die hier auszutreben sind, werden erst nach sehr langer, geduldiger Arbeit zu erreichen sein. Parole preziose! Nel 1908 (l.c. nella nota precedente) il grande Maestro non vedeva ancora l’ultima méta. E nel 1917 in una luminosa conferenza (<Antike Rechtsgeschichte  und romanistisches Rechtsstudium, in Gymnasium, vol. 18>) elevava un inno al diritto romano, additando il Corpus iuris come la fonte più ricca e ancora inesplorata delle dottrine e svalutando il diritto greco e quindi tutte le scoperte dei moderni. L’insegnamento è davvero solenne.

[36] Qui sono da notare molte leggi, che riguardano la forma dei negozi, la lingua, <?>.

[37] <Res gestae, XXX,4.>

* [L’indicazione della fonte manca nel testo. Essa è ricostruibile tramite la notazione che si legge in S.Riccobono, Corso di diritto romano. Formazione e sviluppo del diritto romano dalle XII tavole a Giustiniano. Parte II, 1933-34, 130, ove si parla di un “ritrovamento in Egitto di una pergamena ora a Strasburgo”; ivi, in nt. 1 si rinvia alle notizie sul documento fornite dal Lenel, Z.S.S. v. 25.]

[38] La genuinità di questo passo è stata messa in dubbio da Beseler, Beitr. IV, 281; Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 646 n. 1. Ma vedi contro Levy, Konkurrenz, I, 254 n. 1.

[39] Cfr. Dal diritto romano classico al diritto moderno, p. 636.

[40] Lo stesso metodo fu adottato per eliminare controversie o decisioni contrarie riferite nei testi. Ciò si constata specialmente nelle opere classiche annotate dai giuristi posteriori. Un esempio insigne è dato dal confronto dei fr. 80 e 83 D.23,3, estratti da <Iavolenus l. 6 ex posterioribus Labeonis>. Molti esempi nella mia opera Iulianus ad Minicium in B.I.D.R. v. VII e VIII.

[41] Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 292.

[42] C. Tanta § 14: impossibile erat eam (sc. legem) per partem detrahi.

[43] Molti esempi nell’opera Dal diritto romano classico al diritto moderno, p. <606ss.>

[44] fr. 5 D.22,2; cfr. Z.S.S. V. 43, P. 358; c. 1 Cod. 5,12 (pollicitatio ... condictione), anche se fosse vera la congettura del Cuiacio che ritiene in questo caso la parola condictione derivata da “ex dictione”.

[45] fr. 23 D.28,1.

[46] fr. 3 § 1 D.13,5.

[47] fr. 7 § 1 D.10,4; fr. 1 § 9 D.43,16.

[48] fr. 21 § 3 D.46,1.

[49] Inst. III,14,1.

[50] fr. 4 § 3 D.27,7.

[51] Specialmente il Voigt, R.Rechtsgeschichte VIII, p. 76; cfr. anche Kipp, Geschichte der Quellen, p. 58.

[52] Diritto classico: fr. 3 § 23 D.41,2 – 12 D.39,2 – 18 § 15 eod. Diritto giustinianeo: fr. 15 § 16: dominium capere ... dominus constituatur; § 33 possidere iure dominii a praetore iussus.

[53] Z.S.S. v. 43, p. 284.

[54] Z.S.S. v. 43, p. 359ss.

[55] I.2,10,1-3.

[56] c. 1<pr.> Cod. 6,43.

[57] Gai 2,197; 218.

[58] <c. 2 C. 6,43; I.2,20,3>

 

 



[1] <Studien zur Negotiorum gestio, I, 1913; Der griechische Gedanke in der Rechtswissenschaft, 1921; Z.S.S. v. 42, p. 227ss.; 261ss.> 

[2] <Z.S.S. v. 42, p. 273ss.>

[3] <La caractère oriental de l’oeuvre de Justinien et les destinées des institutions classiques en Occident, 1912.>

[4] <Possessio quae animo retinetur, in BIDR v. 30, 1921, p. 69ss.>

[5] < Animus furandi, 1922; Le fonti delle obbligazioni  e la genesi dell’art. 1097 del codice civile, in Riv. dir. comm., v. 21, 1923.>

[6] <Cfr., ad es., Schulz, Z.S.S. v. 43, 1922, p. 210s.> 

[7] Alibrandi, <Opere, I,> p. 587; Gradenwitz, Z.S.S. v. 26, p. 365; Eisele, Z.S.S. v. 30, p. 111; Beseler, Beitr. III, 105; Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 276.

[8] Gellio, 4,4; Cfr. 20,1,41: in negotiorum quoque contractibus.

[9] Gai 3,128ss.

[10] Contro v. Dal diritto romano classico al diritto moderno, in Annali del Seminario di Palermo, v. III-IV, p. <275 n. 1.>

[11] Il testo di Paolo è difettoso perché alla motivazione citata ne segue un’altra: quia causa propter quam dedi non est secuta. Grave problema questo delle doppie motivazioni, che non si risolve coll’attribuirne una ai Bizantini, come si fa oggi. Trattandosi di opere annotate da giuristi posteriori, com’è quella di Paulus ad Plautium da cui il fr. proviene, si deve considerare anzitutto se non derivi una delle motivazioni dal giurista annotatore. Nel caso in esame ci troveremmo di fronte ad una motivazione nuova, determinata dalla dottrina della volontà, affermatasi nell’epoca adrianea. Notevole che lo stesso fenomeno osservai or son trent’anni nel mio primo lavoro (Archivio Giuridico,  <v. 50, p. 270ss.>) a proposito del fr. 37 D.13,7 estratto dalla stessa opera Paulus 5 ad Plaut. in cui ritorna il contrasto tra volontà e causa. Su questo testo v. più oltre.

[12] Cfr. Mitteis, Röm. Privatrecht, I, p. 147.

[13] Cfr. fr. 15 D.19,5: habet in se negotium aliquod.

[14] <Studien zur Negotiorum Gestio, I, p. 14ss.; 103.>

[15] Dal diritto romano classico al diritto moderno, p. <256ss.>

[16] Su questo passo vedi l’ampia mia trattazione in  Dal diritto romano classico al diritto moderno.

[17] O.c., p. 254. Cfr., Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 315.

[18] Cfr. Annali del Seminario di Palermo v. VIII, p. 481ss.

[19] La frase: animus recipiendi è equivalente. Se in molti passi è interpolata (cfr. Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 310) non esprime una nuova dottrina.

[20] Cfr. I.3,27,1. Testi che la annoverano come contractus sono interpolati.

[21] Cfr. Dal diritto romano classico, p. 297 e n. 1.

[22] Cfr. anche Roby, Roman privat law in the times of Cicero, v. II, p. 3.

[23] Cfr. Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 667 n. 5.

[24] La correzione del fr. 25 § 2 D.41,2 proposta dal Van de Water “quod Quinto Mucio” seguita dal Mommsen e dal Krüger non ha fondamento; la frase quod quasi magis prolatur si deve leggere quod quidem magis prolatur: cfr. B.I.D.R. v. <VI, 1894, p. 229ss.>

[25] fr. 51 D.41,2.

[26] fr. 3 § 3 D.41,2.

[27]  <fr. 1 § 21 D.41,2; fr. 31 § 1 D.39,5 = V.F. 254.>

[28]  <fr. 51 D.41,2. >

[29]   <fr. 3 § 1 D.41,2.>

[30]  <fr. 6. D.39,5.>

[31]  <fr. 9 § 3 D.23,3; 18 § 2 D.41,2.>

[32] <fr. 55 D.41,1.>

[33]  <fr. 14 § 1 D.18,6.>

[34]  <fr. 74 D.18,1; fr. 1 § 21 D.41,2; fr. 9 § 6 D.41,1; I.2,1,45>

[35]  <Paul. Sent. 5,2,1;  fr. 3 § 11 D.41,2; fr. 44 § 2 D.41,2; fr. 1 § 25 D.43,16.>

[36] Cfr. Schulz, Einführung, p. 73.

[37] Per questi rapporti più particolarmente cfr. le mie “Formulae ficticiae”.

[38] Cfr. fr. 9 § 8 D.12,1: tuo nomine voluntate tua. Perciò nel testo è sicuramente interpolata la frase che precede “et ignorante”. Il testo per altro è in ordine. Solo Giustiniano ammise acquisto di possesso, e di diritti nel campo del commercio, etiam ignorantibus.

[39] fr. 25 D.41,2.

[40] Cfr. Schulz, Einführung, p. 64; Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 288.

[41] B.XXIII, 1 c.9 Heimbach v. II, p. 602. Un altro testo dei Basilici è citato dal Pringsheim l.c.

[42] fr. 3 § 18 D.41,2.

[43] Cfr. I.2,1,48.

[44] Sul testo Berger, < B.I.D.R. v. 32,> p. 172. 

[45] Cfr. i testi citati da Giavoleno in poi e fr. 2 § 8 D.14,2.

[46] Cfr. fr. 43 § 10 D.47,2: non teneri, quia, inquit, res non intervertitur ei qui eam sponte reiecit.

[47] Pringsheim, ZS.S. v. 42, p. 284; e già Berger, B.I.D.R. v. 32, p. 172.

 




[1] Z.S.S. v. 43, p. 307ss.

[2] Cicero, Part. or. 136: “non in verbis ac litteris vim legis positam esse”; de inv. I,70; Quintiliano, Decl. 331: “sed ipsa vi ac potestate”; Celso, fr. 17 D.1,3: “scire leges non hoc est verba earum tenere sed vim ac potestatem”. Cfr. 29 e 30 D.1,3 e fr. 6 § 1 D.V.S.

[3] Schanz, Geschichte der röm. Litt., I, p. 309.

[4] fr. 17 § 1 D.35,1; fr. 54pr. D.40,4.

[5] I.2,20; 29; 30; 9 D.18,1; 5 § 4 D.6,1; 29 D.34,5 fortemente interpolato; 32 D.45,1; e su questi passi Eisele, Jherings Jahrbücher, v. 23, p. 18ss.

[6] fr. 17pr. § 1 D.35,1.

[7] fr. 5 § 4 D.6,1.

[8] fr. 9pr.§ 1 D.18,1.

[9] Così nel fr. 35 § 3 D.28,5.

[10] Eth. Nicom. VI, 2 (1139).

[11] Beiträge IV, p. 197.

[12] De offic., 1.32; cfr. Topic. 28; in Verrem II,1,42,109.

[13] Quintiliano: XI,3,66 nutus...et in mutis pro sermone est.

[14] Z.S.S. v. 43, p. <385ss.>

[15] Brutus, 152.

[16] Topic. <25-26>; pro Caec. 18,51; de inv. II,14.

[17] fr. 19 D.10,4: respondit: forse Servio.

[18] Z.S.S. v. 42, p. 248.

[19] Z.S.S. v. 43, p. 175.

[20] Eth. Nicom. VI,2 (1139).

[21] Cfr., Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, p. 32ss.

[22] Lex Rubria c. xx.; Partsch, Z.S.S. v. 42, p. 248.

[23] fr. 5pr. D.45,1; fr. 52 D.45,1; fr. 1 D.46,5.

[24] Lenel, Pal. II, 1218.

[25] I Compilatori hanno spesso compiuto trasposizione di parole per rappresentare lo stato del nuovo diritto. Anche nel fr. 35 § 2 D.45,1 ho notato lo stesso verbo “perficitur” unito a “consensus” e dimostrai (B.I.D.R. v. 31, p. 29) che i termini che erano nel testo furono spostati. Ciò perché il consensus nella stipulatio divenne l’elemento fondamentale e decisivo: cfr. I.3,15,1; 3,19,3; c. 10 C.7,37; fr. 5 D.2,15 e su questi passi Z.S.S. v. 43, p. 275ss. Anche nel fr. 1 § 3 D.2,14 la frase “nisi habeat consensum” evidentemente spuria, doveva essere nell’originale “nisi habeat in se conventionem”. Fondandomi su queste esperienze oso supporre che nel passo in esame la motivazione di Venuleio fosse del seguente tenore: nam stipulatio, quamquam verbis perficitur, tamen sine utriusque consensu nulla est.

[26] I.3,15,3 – L’esame particolareggiato di questo caso e di quelli che seguono sino al n. 6 fu da me fatto nella Revue d’Histoire du droit, v. 3, p. 333ss.

[27] fr. 4 D.8,1; fr. 56 § 4 D.45,1.

[28] fr. 13pr. D.8,3 Iavolenus ex Cassio.

[29] fr. 44 §§ 1.2 D.44,7.

[30] fr. 33 § 1 D.8,3.

[31] fr. 1pr. D.33,2.

[32] fr. 5pr. D.18,5. Con la correzione del testo proposta dal Siber, Z.S.S. v. 42, p. 73 il problema si sposta, ma il valore della decisione e della motivazione resta integro nel senso da me dichiarato.

[33] Mitteis, Priv. Recht, I, p. 45 n. 12, e testi ivi citati.

[34] fr. 30 § 2 D.2,14 (dove fu soppressa la discussione del problema); fr. 14 e 24 D.46,2.

[35] fr. 72 § 1 D.46,3. Per la formazione della nuova dottrina v. Annali del Seminario di Palermo, vol. XI, p. 341-370.

[36] Per questa frase cfr. fr. 5pr. D.18,5, esaminato sopra.

[37] fr. 8 D.46,2.

[38] fr. 56 § 8 D.45,1; fr. 31 D.46,2.

[39] fr. 44 § 2 D.44,7.

[40] Ferrini, Pand. p. 174 n. 3; Costa, Exceptio p. 135.

[41] Tribon.?

[42] fr. 30 § 1 D.2,14.

[43] fr. 141 § 5 D.45,1.

[44] Z.S.S. v. 43, p. 426.

[45] fr. 8 D.4,5.

[46] E per altro che il passo subì gravi rimaneggiamenti fu riconosciuto dal Wlassak, Prozessgesetze, II, p. 122. Il testo originale doveva riferirsi ai patti dotali: cfr. Lenel, Pal. <Pomponii 635 n. 2>.

* <fr. 55 D.44,7.>

[47] Cfr. fr. 31pr. D.41,1; fr. 26 D.41,2; I.3,24,3, riferentisi tutti alla traditio, ma nel diritto classico anche alla mancipatio. Nel fr. 55 in esame conductio è interpolata; era forse dotis nomine come nel § 3 Inst. 3,24.

[48] Cfr. Bruns, Fontes, p. <360>; Partsch, Longi temporis praescriptio, p. 84 n. 2.

[49] Gai II,103, 104, 252. Dicis causa: cfr. Walde, Latein. ethimol. Wörterbuch ed ivi citati.

[50] Servius, in Aeneid. <IV,103>: coemptio: quasi emptionem faciunt.

[51] Cfr. Schulz, Z.S.S. v. 43, p. 198 n. 7. La critica contemporanea ha espresso pure forti dubbi per la classicità della denominazione “contractus bonae fidei”. Segrè, Studi Fadda, v. VI, p. 367; Levy, Konkurrenz der Actionen, v. I, p. 87 n. 4; Siber, Z.S.S. v. 42, p. 75 n. 1.

[52] Z.S.S. v. 42, p. 256ss.

[53] Gai 1,119: quaedam venditio; fr. August. 67: trasferimento dell’hereditas al fideicommissarius; Ulp. XX.2: testamentum per aes et libram; Gai 3, 169; I.3,30,1: solutio imaginaria; Gai 3,173: imaginaria solutio per aes et libram; fr. 3 § 1 D.4,5: imaginaria servilis causa nella mancipatio allo scopo della emancipazione; Gai 1,123: coemptio; fr. 49 D.19,1: collusio imaginaria. Molti altri testi in Berger l.c. nella nota che segue.

[54] Cfr. Heumann-Seckel, Handlex., sub v. imaginarius; Berger, Pauly-Wissowa, Real Encyclop., v. imaginarius; Vocabularium iuris. romani III, 388. Nei ll.cc. si distingue bene l’atto solenne ficticius, imaginarius valido dall’atto simulatus nullo, ma il fondamento della distinzione non è dato.

[55] Actus legitimi nel fr. 77 R.J. indica appunto atti solenni del ius civile, quantunque non si possa considerare come denominazione tecnica.

[56] fr. 10 § 2 D.41,2. L’interpolazione della l. 46 D.19,2 è sicura, ma gli appunti del Partsch l.c. p. 263 colpiscono i Compilatori non la dottrina dell’atto simulato.

[57] fr. 64 D.24,1.

[58] Walde, Lat. ethimol. Wörterb., sub h.v.

[59] Auth men oun h dianoia kai h alhqeia praktikh. – tou de praktikou kai dianohtikou h alhqeia omologwj ecousa th orexei th orqh – alhqeia to ergon.

[60] Cfr. Kipp, Geschichte der Quellen, <p. 126 n. 97>.

[61] Cfr. Ulp. 5 § 9 D.39,2: et belle S.Pedius definit triplicem esse causam operis novi nunciationis.

[62] fr. 1 § 3 D.2,14 Ulp. 4 ad Ed.

[63] Su questo testo è da vedere ora la mia dissertazione sulla “dotis dictio” in Studi Perozzi.

[64] Cfr. Lenel, Pal. Iuliani n. <222.>

[65] Cfr. fr. 20 D.12,1 che sarà esaminato più oltre.

[66] Cfr. fr. 16 D.46,3, e su questo passo Annali del Seminario di Palermo v. XI, p. 380. Questo passo si può per altro intendere nel senso che “ante eius pecunia facta est” per commistione, non già in forza della traditio.

[67] E la menzione della mancipatio e della in iure cessio si deve ritenere soppressa in tutti i testi fondamentali che trattavano del trasferimento del dominio. Così la c. 20 C.2,3 di Diocleziano: Traditionibus [et usucapionibus] dominia rerum non nudis pactis transferuntur; doveva dire: Mancipationibus, in iure cessionibus et traditionibus dominia cet.

[68] Z.S.S. v. 43, p. 287.

 




[1] C. Tanta § 9.

[2] Bas. XI, 6, 67 Schol.

[3] Contro anche Lenel, Z.S.S. v. 34, p. 374; e Mitteis, ibidem, p. 407.

[4] Pringsheim, Z.S.S. 1921, 273. Albertario, Animus furandi, <in Pubblicazioni Univ. Cattolica del    Sacro Cuore, 1922 >

[5] Cic., de inv., II,100; de legib. I, <17>.

[6] Il testo gaiano è lacunoso; ma s’integra sicuramente con quello delle Inst. Cfr. Ferrini, B.I.D.R. vol. 13, p. 180.

[7] Hofmann, Die Kompilation der Digesten Iustinians, Wien 1900.

[8] Zeitschr. f. gesch. Rechtswiss., v. 4, 1820.

[9] Die Oströmischen Digestenkommentaren und die Entestehung der Digesten, in Berichte der Königl. Sächs. Gesellsch. d. W., v. 65, p. 3ss.

[10] Opere, v. I, p. 87.

[11] Die Herstellung der Digesten, 1922.

[12] Z.S.S. v. 43, p. 379ss.

[13] Cfr. I.3,6,10 – I. Proem., § 2 – c. Deo auctore, § 1 – c. Omnem, §§ 1-2 – c. Tanta, § 1.

[14] I.2,13,5; 2,23,7; 3,2,3; c. 22 C.6,2.

[15] C. Tanta, § 11.

[16] I.3,12pr.; c. 1 C.6,43.

[17] Cfr. 35 D.5,1.

[18] Cfr. fr. 1, 5, 97 D.46.3.

[19] <C. Tanta § 10>

 



[1] Cfr., ad esempio, quel che Cicerone, pro Caec. 34,99, dice riguardo ai disertori.

[2] Cic., de legib. III,8.

[3] Étud. sur. l’hist. des Institutions primitives, ch. II in fine.

[4] Études historiques sur le droit de Justinien, I, 1912.



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