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LETTURE
LONDINESI |
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Premessa Per
la loro natura e destinazione didattiche - ma a quanto alto livello! -
queste pagine riccoboniane, oggi per la prima volta messe felicemente a
disposizione degli studiosi secondo l'auspicio di Salvatore Riccobono
jr. e per meritoria opera di Giuseppe Falcone, non contengono né
esegesi particolareggiate, né prospettive innovative. Nel 1924 infatti,
una significativa parte delle possenti indagini sulla stipulatio,
sulla voluntas, sull'evoluzione storica del diritto romano
postclassico e molti altri temi toccati in queste Letture Londinesi
erano già da alcuni anni state scritte, ed erano venute a
rivoluzionare, in modo mai sperimentato né prima né dopo, la scienza
romanistica. Tuttavia non posso escludere che uno studio attento di
questo testo riccoboniano possa scoprire, magari in una nota o in un
cenno fugace, un quid novi da approfondire e sviluppare. Tanto è
il talento, e anzi, per usare la parola esatta, tanto è il genio che si
rivela con generosità in queste lezioni di sintesi. Genio,
ho detto, ed effettivamente in questa breve opera traspare ad ogni
pagina una potenza intellettuale che lascia sorpreso anche un lettore
che abbia studiato bene le testimonianze dell'attività del grande
studioso. Una potenza intellettuale che si rivela in modo evidentissimo
già nel modo tipico con cui anche qui Riccobono tratta le nostre fonti.
È un modo che, per qualche verso, certamente corrisponde formalmente a
quello che dovette essere il metodo dei Glossatori. Ogni testo è
presente, vivissimo, alla mente dell'autore, che, non di rado fiducioso
in una equivalente dottrina nei suoi ascoltatori (o lettori), richiama
un frammento solo con menzione di una sua frase o singola parola. Io
stesso ricordo con emozione quelle poche occasioni in cui, all'inizio
dei miei studi, appena laureato, ebbi la fortuna di assistere ad esegesi
svolte dal Riccobono nell antica sede del nostro glorioso e minuscolo
Seminario Giuridico. Il Maestro, un paio di volte, mi pregò di
passargli il Digesto giustinianeo aperto alla pagina «dove» ‑
diceva ad esempio ‑ «sa, Giuliano dice che nelle stipulazioni deducuntur
species aut genera (ed alludeva a D.45.1.54 pr.), o «dove Papiniano
distingue tra actio e petitio » (e pensava a D. 44. 7.
28). Ed io naturalmente nella mia abissale ignoranza di principiante ero
costretto a chiedere l'indicazione numerica, che mi veniva fornita con
un filo di impazienza. Credo che nessuno nel secolo scorso, in Italia o
fuori, abbia conosciuto il Corpus iuris come lo conosceva
Riccobono. Ma
il vigore intellettuale di cui ho parlato si rivela anche e soprattutto
nell'inimitabile capacità di tracciare grandi sintesi approfondite su
tutti i fondamentali temi toccati in queste pagine: la volontà
negoziale, lo sviluppo del contratto e del patto in relazione alla conventio,
la fusione nella prassi della cognitio extra ordinem tra ius
civile, ius gentium, ius honorarium. Ne
viene fuori una trattazione sintetica che risulta ancora oggi
affascinante per coerenza, lucidità e incisività. E per di più, data
la sicura corrispondenza (certo in qualche misura, e non
pedissequamente) tra queste pagine e le parole che furono effettivamente
dette nelle Letture, si possono trovare straordinari modi
espressivi che faranno conoscere Riccobono meglio di quanto avviene
attraverso la conoscenza di altre sue opere di più severo impianto. Porterò
solo tre esempi. A pagina 24, sul piano delle riflessioni preliminari
sul presunto influsso delle scuole d'oriente sull'evoluzione del diritto
romano, si leggono frasi come: «Queste conclusioni producono un senso
di maraviglia e di sbigottimento», o «Alle affermazioni fantastiche di
cui è piena la letteratura contemporanea è tempo di reagire con grande
vigore» (pagina 25). A pagina 32, rileva che Giustiniano usa talvolta
parole «forti e a volte volgari» ed ha «un atteggiamento sprezzante»
per le «forme antiche del ius civile e dello stesso ius
honorarium». A pagina 43, rilevata la «coincidenza sostanziale e
verbale ... tra i testi ciceroniani e quelli giuridici», in ordine al
«contrapposto tra litterae, scriptum, verba, formula,
da una parte e mens, velle, sentire, sententia,
voluntas, opinio, animus, dall'altra», esclama: «Se
la critica contemporanea l'ha ignorato, ne sconta la pena dacché è
ridotta a brancolare tra le tenebre». Espressioni di pari o anche
maggiore vivezza si leggono ad ogni passo. Però
quel che più conta, almeno a mio avviso, è un altro dato. Un'attenta
lettura di queste mirabili lezioni è ancor oggi indispensabíle per chi
voglia tentare di conoscere sinteticamente le prospettive generali della
storia del diritto romano. Al di là della contingenza di certe
polemiche, si può rilevare la permanenza della validità delle idee
guida principali. E soprattutto si può conseguire facilmente, e direi
gioiosamente, una visione d'insieme sui valori del diritto romano, anche
e soprattutto per il nostro tempo. Un tempo che per alcuni versi
apparentemente si allontana vertiginosamente dall'antico mondo del
diritto di Roma, e che invece non può farne a meno, salvo che si voglia
ridurre l'esperienza giuridica ad una pratica burocratica
computerizzabile.
Bernardo Albanese Avvertenza Lopera
che si pubblica è il dettato delle lezioni sul tema Diritto romano e
diritto moderno
tenute da Salvatore Riccobono a Londra nel mese di maggio del
1924 (linvito ufficiale della University of London parla di
two lectures per i giorni mercoledì
28 e giovedì 29 maggio; tuttavia, a p. 111 compare un
riferimento ad uno
studio che insieme abbiamo compiuto nei giorni passati,
e ripetutamente Riccobono parla di questo corso: cfr. pp. 34, 55,
78 e 119).
Ne esistono due versioni manoscritte: una dello stesso Riccobono,
redatta su colonne fitte di richiami, inserimenti interlineari,
correzioni e limature, e spesso circondate da notazioni a margine; e una
di Lauro Chiazzese, che ha ricopiato e ricomposto
in ordine il manoscritto del Maestro, e che peraltro è stata
successivamente rivista dal Riccobono, il quale vi ha inserito alcune
aggiunte.
Di questultima versione esiste una traduzione in lingua
inglese, letta dal Riccobono nellUniversity College of London. Un
primo controllo
comparativo delle due predette versioni manoscritte
è stato da me effettuato
insieme con Salvatore Riccobono jr., devoto e appassionato
custode della memoria dello zio. Il
titolo Letture Londinesi è quello indicato dal Riccobono stesso
in espliciti e ripetuti rinvii presenti
in uno studio concluso nel 1925 e
pubblicato lanno successivo nei
Mélanges G.Cornil (Fasi e fattori dellevoluzione
del diritto romano: cfr. p. 266 nt. 2; p. 307; p. 308), ove
lAutore precisa trattarsi di un contributo inedito. Non
di rado il contenuto delle note
a piè di pagina è nei due manoscritti appena accennato;
talvolta, esso manca del tutto.
In simili casi, ho inserito tra i segni < > il contenuto
che mi è sembrato imposto
o suggerito dal testo al quale la nota è aggiunta, cercando,
peraltro, di mantenere anche nella forma il modo di citare comunemente
adottato dal Riccobono. Lo stesso dicasi per alcune piccole integrazioni
nel testo.
Giuseppe Falcone Salvatore Riccobono LETTURE LONDINESI (maggio
1924) Diritto romano e diritto moderno
Parte
I
Il
Problema della voluntas INTRODUZIONEIl
diritto creato da Roma costituisce ancora in molti Stati la base larga
degli ordinamenti giuridici, ed è inoltre elemento essenziale della
civiltà moderna. Il mondo civilizzato accorre sempre a quella sorgente
inesauribile di esperienza e di dottrine, ed è sicuro che senza il
diritto romano la nostra civiltà non sarebbe quella che è in fatto. La
vita del diritto romano si è svolta in due grandi periodi. Il primo
periodo di formazione, durato più di un millennio, che per agevolezza
computiamo dalle XII Tavole sino a Giustiniano. Il
secondo periodo di propagazione, da Giustiniano fino al tempo presente. Ma
già nello stesso primo periodo esso spiegò la sua azione
civilizzatrice. Come le legioni romane, il diritto fu non solo uno
strumento nel consolidare il dominio di Roma sul mondo antico, ma di più
esso riuscì realmente a formare di tutti gli abitanti dellImpero
cittadini di Roma. Certo, la sua forza di espansione e di conquista
apparisce più sorprendente nel secondo periodo, dacché essa non si
affievolisce né si arresta ma agisce sempre più vigorosa nel mondo. Nel
1909, in questa Università, un grande Maestro della storia del diritto
di tutti i popoli, il prof. Paul Vinogradoff, trattò con genialità di
esposizione e con profondità di pensiero del diritto romano
nellEuropa medievale, della diffusione, come egli disse, del dirito
romano dopo la scomparsa del corpo, nel quale esso aveva visto la luce. E
ovvio che per quel che riguarda questo periodo io posso riferirmi in
tutto a quellesposizione. Anzi, come io ho tratto da quellopera
lispirazione al presente corso, così vorrei avere lambizione di
seguirla come modello nel tracciare i punti fondamentali che riguardano
la formazione e la trasformazione del diritto romano, onde poter
spiegare le ragioni della sua eterna giovinezza. Vorrei, dunque, che le
mie lezioni avessero il carattere di una introduzione allopera
insigne del Maestro. In
verità noi abbiamo bisogno di renderci conto della meravigliosa vitalità
del diritto romano, la quale presenta ora molti punti oscuri e
dibattuti. Si
può essere unanimi nel riconoscere che il genio latino trovò nel
diritto la sua completa espressione. Daltra parte la diffusione
sempre più attiva del diritto romano è un fatto storico indiscutibile.
Ma, ove si consideri che il diritto è un fenomeno sociale, soggetto a
tutti gli influssi del tempo, e che perciò si forma e si rinnova di
continuo, come la sabbia sulla spiaggia del mare al flusso e riflusso
delle onde, la sopravvivenza del diritto romano a quelle condizioni in
cui esso nacque e si svolse suscita gravi problemi e dubbi nella nostra
scienza. Vi
è, forse, ostentazione nel celebrare i Romani creatori del diritto di
tutti i popoli? E, forse, solo larte o la scienza del diritto
antico, che esercitano un potente fascino sul nostro spirito, come un
mirabile prodotto di erudizione o un oggetto di archeologia? Si
può decisamente rispondere: no. A parte che il diritto romano è un
modello unico di elaborazione scientifica del fenomeno giuridico, esso
ha pregio e forza certamente come norma di condotta degli uomini nel
consorzio civile. Vale a dire, esso ci mette in grado di adempire con
costantissima disciplina i nostri doveri qualunque sia la nostra attività
nella vita, pubblica e privata; ci mette in grado di conseguire i beni
supremi della vita, con giusta proporzione e con severa coscienza. Noi
siamo, dunque, attratti da motivi reali ad adattare le istituzioni
giuridiche dei romani ai nostri bisogni; perché esse rispondono al
nostro modo di vedere, di sentire, di agire. E sono tali perché esse,
nei fondamenti e nelle norme, ci appariscono
come lespressione più verace dellesperienza romana nel
campo del diritto. Questaffermazione
non contraddice la legge della evoluzione: la quale non può avere un
ritmo uniforme e generale come una legge di meccanica. Al contrario
nella vita sociale e nella vita del diritto vi sono principi
fondamentali che hanno quasi la stabilità che si nota nelle leggi
fisiche. Gli ordinamenti della famiglia, della proprietà, delleredità
e quelli che regolano le relazioni tra gli uomini nel campo del diritto
privato; lassoluta subordinazione degli interessi personali ai doveri
di cittadini,[1]
la devozione alla patria sino al sacrificio, lordine e la disciplina
sociale nella vita pubblica, si sono sperimentati, e sono in realtà, i
fattori principali del progresso umano. E quegli ordinamenti e quelle
virtù hanno il nome di Roma, sono la gloria di Roma; e costituiscono la
più valida garenzia del progresso dellumanità. E se questo
patrimonio di civiltà che ha sviluppato un ingente tesoro di beni e di
forze, si è arricchito nel mondo moderno di tutte le libertà, per
tutti gli uomini, queste non possono vivere che nello Stato, secondo la
concezione romana, che realizza in ogni momento limpero irresistibile
della legge, e proclama la massima incisa non nel bronzo ma nella stessa
coscienza di ogni cittadino: Salus Rei publicae suprema lex esto.[2] Ma
si dirà, e letica cristiana? Linterrogazione vuol esprimere,
evidentemente, un motivo essenziale di contrasto tra il diritto antico e
il moderno, a causa del nuovo atteggiamento spirituale dellumanità
determinato dal Cristianesimo, e che si riflette necessariamente su
tutte le manifestazioni della vita, su tutti i valori umani e in primo
luogo sul diritto. Ma si risponde. Lerrore della scuola storica del
sec. XIX, la quale negò linfluenza del Cristianesimo sul diritto
antico, è ora patente. Lopposizione del Summer Maine,[3]
che fu la più seria e riuscì a prevalere fino al periodo più recente,
si è ormai svotata. Il grande scrittore, infatti, accusò di leggerezza
coloro che ammettevano linfluenza cristiana, ricordando «la
rigidezza di tutti i corpi del diritto». Egli si partiva, cioè, da
quella concezione che si ebbe finora del diritto romano, caratterizzato,
almeno nei suoi principi fondamentali, come un corpo di diritto rigido,
quasi impermeabile, dalle XII Tavole fino a Giustiniano. Ora si sa,
invece, in grazia delle recenti indagini, che il diritto romano accolse
elementi nuovi nel periodo della decadenza, quando, per ragioni che
saranno più oltre esposte, non solo esso perdette la sua rigidezza, ma
si dissolvette e divenne per così dire materia fluida. La sentenza del
Maine è, dunque, anacronistica ormai; quantunque gli storici del
diritto continuino a ripetere che linfluenza cristiana sul diritto si
fece sentire nel Medioevo e non nellepoca romana. Ma, inoltre, è
opportuno fin da ora notare, che linfluenza cristiana, per la maniera
come operò e si attuò nel diritto, non deve riguardarsi come una forza
esteriore ed estranea; perché essa era stata preparata, gradualmente,
dalle dottrine stoiche, nel momento più fulgido della elaborazione
scientifica del diritto. Le quali dottrine, assunte dal cristianesimo,
acquistarono tutta la potenza che solo il sentimento sa sviluppare.
Qulle idee diffuse nel popolo, nella nuova forma, divennero passione e
azione, e crearono, in uno dei periodi più tormentati e desolati che la
storia ricordi, una nuova coscienza nella umanità ansiosa di pace, di
cui le aspirazioni si trasfusero immediatamente nel corpo del diritto. *
* * Sino
al principio del sec. XIX non sorsero dubbi sullorigine e sul valore
assoluto del diritto romano, e i problemi che oggi discutiamo non si
presentarono nella nostra scienza. La voce di Hotman nel secolo XVI si
elevò piuttosto contro la forma dellinsegnamento, infarcito di
arcaiche reminiscenze. La
scuola del diritto naturale riprese la tradizione giuridica che veniva
dalla Glossa e dai Commentatori, la sfrondò di tutto quello che era
contingente, artificioso, ingombrante, e riuscì a consolidare la
sostanza delle dottrine e limpero del diritto romano sul mondo
moderno. Essa trovò nel Corpus iuris gli elementi di una matura
esperienza e i primi fondamenti ai suoi canoni. La
scuola storica tedesca avrebbe dovuto mettere in chiaro i motivi
delleterna giovinezza del diritto romano. Ma essa si rivolse in primo
luogo allesame delle fonti; fece insieme della storia
e della dommatica, ma tutto imperfettamente, con mezzi
inadeguati. Tuttavia, il Savigny (Geschichte de R.R. im Mittelalter),
grande signore della scienza del diritto, disse che tutte le innovazioni
introdotte da Giustiniano con le sue costituzioni serano maturate da
sé stesse nel periodo postclassico, per naturale evoluzione.
Lopinione del Savigny è in sostanza vera; ma di essa non poté egli
dare la dimostrazione, perché la critica delle fonti non era ancora
nata. Così
le cause del mutamento del diritto, in quanto appariva già a prima
vista nella Codificazione di Giustiniano, rimanevano occulte. Onde due
spiegazione, che meritano sopra le altre di essere ricordate, furono
successivamente tentate. Un
prima attribuì tutto il valore del diritto romano, come fattore
essenziale della civiltà moderna, allinnesto fecondo di elementi
germanici sul vecchio tronco latino; dal quale innesto sarebbero
derivati nuovi germi vitali, sviluppi e ordinamenti più congrui al
progresso della vita sociale. E in proposito si notavano: il principio
di equità, il principio di socialità, la fides germanica,
elementi essenziali del processo del diritto moderno e in primo luogo il
principio della prova legale, e così via. E siccome tutta questa
sostanza di diritto, ritenuta nuova in confronto alla pura tradizione
romana, emergeva in grande rilievo nella Glossa, e vi appariva fondata
sui testi del Corpus iuris, si inventò la leggenda che il
Glossatori cioè i Dottori della Scuola di Bologna, i quali
gittarono le basi donde poi si svolse il diritto comune di Europa
avessero nelle loro interpretazioni ammodernati i testi di legge,
attribuendo a quelli un contenuto che rispondeva più alla pratica ed
alle esigenze dei nuovi tempi che alla lettera dei testi medesimi. Io
non devo fare qui la critica di questa ricostruzione storica del
diritto, perché essa è ormai abbandonata. E se per forza di inerzia,
si trascini ancora nelle opere di civilisti e di storici, ormai è
troppo noto che i documenti dellalto Medioevo nulla possono provare
per lo sviluppo del diritto, dal momento in cui riapparvero alla luce i
libri di Giustiniano, i quali dispersero, dapprima in Italia, tutti gli
elementi germanici, come il sole dissolve le nebbie del mattino. La
seconda spiegazione tende oggi a riportare più indietro il rinnovamento
del diritto romano, al periodo romano-bizantino, e lattribuisce
allinflusso che vi esercitarono le consuetudini orientali, e in
particolare lattività giuridica delle Scuole, in primo luogo di
quella di Berito. Il ricco materiale papirologico dissepolto
nellEgitto negli ultimi 30 anni ha alimentato potentemente questa
credenza. Sino al punto che si è potuto affermare che lopera di
Giustiniano ha unimpronta tutta orientale. Il Collinet[4]
lha ritenuta appunto formata essenzialmente di elementi orientali. Ed
egli ha preteso altresì di svolgere e proseguire, così facendo,
lopera famosa del Mitteis, Das Reichsrecht und Volksrecht, apparsa
nel 1891. Lequivoco sarà chiarito più oltre. Fin da ora, però,
devo dire che il pensiero del Mitteis fu ben lontano, in ogni momento
della sua attività scientifica, da una simile concezione; e che
lopera citata non ha nulla a che vedere col carattere orientale del Corpus
iuris. Nondimeno,
nellultimo decennio, questa nuova visione storica ha affascinato i
cervelli giovani. Tutta la costruzione dommatica del diritto
giustinianeo, in particolare, sè riportata ai giuristi Bizantini.
Cosicché via via sè venuto a negare, per conseguenza, che il
diritto elaborato dai Romani abbia avuto in sé stesso gli elementi del
suo ulteriore sviluppo ed i caratteri di universalità per cui fu sempre
celebrato. Io
devo esprimere subito il mio pensiero in proposito. Non nego
linflusso della sapienza greca nel mondo latino; dacché a volerlo
eliminare Roma perderebbe uno dei caratteri più espressivi della sua
potenza spirituale. Nel diritto, in particolare, che rappresenta la più
alta manifestazione del suo genio, Roma fuse certamente tutti gli
elementi della civiltà antica, nazionali e stranieri, ne approfondì il
contenuto umano, ne scoperse i caratteri immutabili, creò un sistema
giuridico di più vasta e duratura applicazione, e dentro gli schemi
rigidi del diritto suo elaborò e foggiò il diritto di tutte le genti.
Ma quando avvenne ciò, e come avvenne? Ecco largomento di alto
interesse storico e direi drammatico, cui noi dobbiamo rivolgere la
nostra attenzione. La
critica moderna ha voluto rispondere a quelle domande con
precipitazione, nel modo or ora detto. Or se la nuova visione storica
fosse esatta, essa segnerebbe nel campo della storia del diritto la più
grande scoperta finora fatta. Se fosse vera, essa dovrebbe manifestarsi,
appena segnalata, da innumerevoli prove nelle constitutiones di
Giustiniano e in tutto il Corpus iuris, nella tradizione
giuridica del periodo bizantino e nel processo di formazione
dellopera legislativa. Ma al posto della dimostrazione noi troviamo
il vuoto assoluto. Io
affermo, in contrario, che se prescindiamo dalla recezione di singole
consuetudini ellenistiche per le quali emerge soltanto, per la sua
speciale importanza, luso della scrittura, sostituitosi già nella
pratica alle forme orali romane, il Corpus iuris apparisce, come
fu sempre ritenuto, il monumento che racchiude in sé tutta la
tradizione giuridica romana in blocco, con tutti i suoi elementi
eterogenei, del diritto arcaico e del diritto nuovo. Ma
prima di venire alla dimostrazione di questa verità, che è
largomento precipuo del corso, bisogna sgombrare il terreno dal
cumulo delle prove fantasiose e dalle favole che in contrario si sono
addotte e narrate. *
* * Nessun
documento esiste che provi un indirizzo di studi o una qualsiasi attività
originale nelle scuole dOriente, dal III al VI secolo. Lomaggio
reso da Giustiniano a Berito è illustrato dai frammenti Sinaitici,
venuti alla luce nel 1889. Certamente Berito mantenne accesa la fiaccola
della tradizione romana, almeno nel tempo più vicino a Giustiniano, con
lo studio più largo delle opere dei grandi giureconsulti di Roma. Era
già molto in un periodo di decadenza; ma era tutto. Nessun nome è
tramandato degli antecessores più antichi. Delle generazioni più
prossime alla Compilazione si ricordano i nomi degli hrwej Cyrillus,
Domninus, Demosthenes, Eudoxius, Patricius, Amblicus. Ma nessuna
dottrina è loro attribuita, nessun punto di diritto illustrato con
nuove vedute. Il silenzio di Giustiniano in proposito, o meglio degli antecessores
beritesi, che facevano parte della Commissione, è significativo.
Non si può supporre che lignoranza, linvidia o la vanità dei
Commissari giungesse fino a tal punto da coprire doblio le glorie del
loro passato. In contrario si nota, che a Eudoxius e a Patricius sono
largite lodi verbali,[1]
e di Cyrillus, o hrwoj, è ricordata giusto una raccolta dalle opere dei
giuristi di pacta contra legem in un commentario twn
definitwn.[2]
Lopera corrispondeva, dunque, perfettamente al metodo che si osserva
nei frammenti Sinaitici, che contengono numerosi confronti nei singoli
punti trattati. In
secondo luogo i commenti e le chiose ai testi di legge, che si leggono
negli scholia dei Basilici provenienti in buona parte dai
contemporanei di Giustiniano, anzi dagli stessi antecessores che
avevano preso parte alla Compilazione, si sono ritenuti arbitrariamente
come prodotti tralaticii delle scuole,[3]
e precisamente nei punti nei quali passi interpolati del Corpus iuris
corrispondono, rispetto alla terminologia e alle nozioni dommatiche, ai
commenti greci, e sembrano o si ritengono in contrasto con la tradizione
giuridica classica. E
ovvio che una siffatta conseguenza è affrettata e destituita di
fondamento. Le versioni e i commenti dei greci, contenuti nei Basilici,
hanno certamente elementi pregiustinianei, ma essi provengono da fedeli
traduzioni dei testi giuridici latini, che correvano nelle scuole e
nella pratica. E riguardo, poi, ai punti che collimano con le
interpolazioni, per la terminologia e il contenuto dommatico, è da
vedere: in primo luogo, quel che è più ovvio, se il commento sia stato
eseguito sui passi della Compilazione; in secondo luogo se gli elementi
ritenuti bizantini non derivino in realtà dai testi classici, alterati
e ricomposti comunque per la forma, ai fini della Codificazione. In
questa seconda ipotesi, la leggenda dellattività scolastica
bizantina e del carattere
orientale dellopera di Giustiniano svanisce del tutto. Intanto si
constata che la critica moderna non ha approfondito questindagine,
che deve avere preliminarmente per obiettivo lo studio delle dottrine
romane, dai punti di partenza ai punti di arrivo, nellopera mirabile
della giurisprudenza classica. Senza una siffatta indagine qualsiasi
conclusione storica o dommatica rimane campata in aria.
La critica moderna nulla ha fatto in questo senso. Ha avuto
fretta di conchiudere, adottando la massima: testo interpolato, ergo
bizantino, ergo scolastico. Così essa è arrivata ad attribuire ai
Bizantini la paternità della maggior parte e, considerate le teorie,
della parte migliore del Corpus iuris. Per dare qualche esempio
fin dora citerò: la dottrina del contractus; degli effetti
della compravendita e precisamente della massima: perfecta emptione
periculum ad emptorem respicit; della rappresentanza; della
simulazione; delle praesumptiones; e soprattutto ha attribuito ai
Bizantini, ad elaborazioni scolastiche, tutta la dommatica del ius
civile e distituti di diritto penale, rinnovata, come si è preteso,
in base allelemento della voluntas. Sotto questultimo
aspetto, tutte le parole o le frasi che hanno riferimento allelemento
intenzionale: animus, mens, adfectus, sentire, velle le ha
attribuite ai Bizantini, dovunque si rinvengano, anche in Gaio, e non
solo per la forma, ma come elementi intrusi nella dommatica giuridica.[4]
Di più, essa vuol vedere nella nuova terminologia bizantina natura
actionis, natura contractus il risultato duna
intensa elaborazione scolastica delle
figure di diritto. Questi
esempi sono sufficienti per intendere come si è arrivati a stabilire
una perfetta equazione tra interpolazioni giustinianee e nuove
concezioni bizantine. Essendo, come ora si sa, la parte che più emerge
nel Corpus iuris costituita dalle interpolazioni, tirate le
somme, il diritto giustinianeo viene dichiarato un diritto nuovo,
orientale, sia per il processo di formazione sia per i suoi caratteri
sostanziali. Queste conclusioni producono un senso di maraviglia e di
sbigottimento. Lopera mirabile della giurisprudenza classica, rimasta
inesplorata e dimenticata nelle nuove indagini, sè ritenuta del
tutto sommersa. Ma, comè evidente, le conclusioni ricavate da
indagini condotte in una maniera così unilaterale e superficiale non
possono essere serie. Esse
non possono dare una rappresentazione integrale e organica dello
sviluppo del diritto, e dei fattori che concorsero alla sua formazione e
alla sua evoluzione. Alle affermazioni fantastiche di cui è piena la
letteratura contemporanea è tempo di reagire con grande vigore. Né
cè da escogitare nulla di nuovo; ma per la maggiore utilità e
dignità della nostra Scienza solo simpone un ritorno agli elementi
tradizionali, con fede più viva, con quella maggiore sicurezza che
viene dalle molte indagini fatte e dai molti errori e traviamenti
riconosciuti. Ed in primo luogo bisogna rimettere al suo posto eminente
la voluntas che costituì il punto di partenza e
lelemento centrale di tutto lo sviluppo della dommatica giuridica, e
quindi dellelaborazione scientifica compiuta dalla giurisprudenza
classica. Eliminata questa forza, come sè preteso di fare, non
soltanto cade la mirabile opera romana, ma non si può intendere tutto
il processo storico dellevoluzione del diritto nei secoli posteriori.
Perciò a questo problema noi dobbiamo rivolgere particolare attenzione,
come allobiettivo principale del nostro esame. Gli
altri punti sono di secondaria importanza, e si smaltiscono facilmente.
Così la decantata elaborazione giuridica rivelata dalle frasi fusij
thl agwghj, fusij tou sunallagmatou si riduce a nulla. Sparite nel
sec. IV le formulae nel processo, la pratica del diritto
postclassico dovente appunto surrogare ai termini desunti dagli schemi
delle azioni altri termini per indicare il rapporto o la figura di
diritto dal lato sostanziale. La frase natura
iuris, aequitatis è del latino classico.[5]
Ma a parte ciò, Gaio III,129 = I.3,25,2 parla precisamente di natura
societatis,[6]
e IV, 33 di natura actionis, onde il termine da sostituire era
pronto. Lopera elementare di Gaio, come si sa, divenne nel periodo
postclassico nellOriente e nellOccidente, il catechismo giuridico
per i nuovi discenti, onde la scuola nel nostro caso nulla aveva da
creare. E la voce natura prese il luogo non solo delle formulae,
ma anche delle speciali solennità romane. Nel fr. 5pr. D.18.5 la frase:
acceptilatio ... non sua natura fu sostituita probabilmente alla
originale: non solemnitate verborum. Questa surrogazione, che può
ritenersi accertata in tutte le applicazioni accennate, era sotto ogni
aspetto eccellente e opportuna. Altre volte i compilatori sostituirono
alle forme romane dei negozi solenni o alle denominazioni delle formulae
le parole: actio, ius, obligatio, contractus. Ciò perché:
mentre per i Romani il diritto era un sistema di actiones comprendente
le due grandi categorie di actiones civiles e actiones
honorariae, che perciò rappresentavano veramente la complessione
del diritto; nel periodo postclassico invece via via che si operava la
fusione dei due ordinamenti, civile e praetorium, si
veniva formando un sistema di figure di diritto, definite in modo
omogeneo secondo la propria struttura, sostanza o natura. Né
diversa è lorigine della praesumptiones iuris, che si sono
gabellate dorigine scolastica. Questa congettura è veramente
assurda. Le presunzioni, ovviamente, derivano dalla pratica giudiziaria.
Venute meno le formulae ficticiae e le forme solenni dei negotia,
le decisioni contenute nei testi classici, che da quelle dipendevano,
erano mantenute ferme, ma necessariamente il fondamento di esse si
doveva riportare a presunzioni, le quali si riferivano ora ad un
presupposto di fatto o di diritto, che era ammesso come esistente nella formula
ficticia, ora alla solennità orale, che di fatto non aveva avuto
luogo. Esempi occorreranno nel corso del nostro esame, sia relativi ai
punti messi in evidenza sia relativi ad altri dello stesso genere e che
io considero di secondaria importanza. Non indugiamo pertanto su questi
minuti argomenti. Piuttosto può essere utile indicare fin da ora le
cause che hanno condotto la critica moderna su una falsa strada e a
conclusioni così lontane dalla verità. Di queste cause mi sembrano
avere unimportanza generale e diretta le seguenti tre: a)
La critica moderna si è disorientata perché ha abbandonato il terreno
solido delle cognizioni storiche relative alla formazione del Corpus
iuris. Le notizie che dà Giustiniano nelle costituzioni
introduttive alle singole parti della Compilazione si sono ritenute non
degne di fede, Giustiniano è stato giudicato un vanitoso menzognero, un
impostore, come lo rappresenta con animo malevolo Procopio nella sua
storia arcana. Hofmann[7]
nel 1900 credette di poter annunziare questa grande scoperta. Fondandosi
principalmente sulla rapidità sorprendente con cui lopera
legislativa fu compiuta, egli negò che i Compilatori avessero potuto
realmente compiere tutto il lavoro, che millantano riguardo ai Digesti;
che avessero, cioè, potuto leggere tutte le opere, farne gli estratti,
eseguire un numero stragrande dinterpolazioni in modo da rinnovare
tutto il diritto, in soli tre anni. Lipotesi del Bluhme,[8]
che dallordine dei frammenti nei Digesti aveva desunto e rivelato la
divisione e lordine dei lavori delle Commissioni, gli apparve
infondata. Egli sostenne allopposto che in realtà lopera dovette
esser composta in base ad un ms. dei libri di Ulpianus ad Edictum
e ad Sabinum che era già annotato e ampliato. E ammise inoltre
che i Compilatori avessero utilizzato poche opere dei giuristi
direttamente, e più ancora compilazioni private e ufficiose, quaderni
di lezioni di professori e simili elementi. Ma tutte queste conclusioni
dellHofmann furono nettamente respinte dalla critica; la quale
riconobbe unanime la intangibilità dellipotesi del Bluhme, che
risulta da elementi precisi offerti dal Corpus iuris e non da
millanterie di Giustiniano. Tuttavia
la tesi dellHofmann fu ripresa con più serietà e corredo di studi
da un valoroso giovane nel 1913, dal Peters,[9]
il quale più radicalmente sostenne che i Digesti altro non fossero che
un adattamento e una rielaborazione di unopera già composta dalle
generazioni precedenti a Giustiniano. Il Peters silluse di trovare
elementi dimostrativi nella tradizione giuridica bizantina, e disse che
le paragrafai di Theophilus, che conosciamo dai Basilici, si riferivano
a quellesemplare pregiustinianeo. Egli ribadiva così lidea di una
tradizione scolastica bizantina, la quale avrebbe condotto ad un
rinnovamento delle dottrine romane e alla formazione, come lo chiamo in
Italia il Rotondi,[10]
di un Predigesto. E se anche la tesi del Peters fu demolita nei suoi
fondamenti più diretti, nondimeno dalla sua opera si parte la leggenda
di una tradizione scolastica bizantina, viva e operosa, di cui oggi
tutti parlano, i giovani scrittori, per averla veduta con gli occhi
della fantasia. Unopera più recente, che avrebbe dovuto essere
conclusiva in questo ramo di studi, ed è semplicemente
eclettica, quella di H.Krüger,[11]
non ha portato nessuna nuova luce sullargomento. Lo dichiara
sinceramente lo stesso autore, il quale sulle orme del Longo e del De
Francisci, si è affaticato a seguire la formazione dei Digesti in base
agli elementi che offrono le costituzioni emanate da Giustiniano nel
corso del lavoro della Compilazione. Il risultato della fatica è quasi
nullo. In definitiva, dunque, le sudate ricerche e i tentativi fatti per
chiarire sia lorigine del nuovo diritto sia la formazione del Corpus
iuris sono riusciti vani. Ciò perché la critica moderna, rifiutate
tutte le notizie che della sua opera dà il legislatore, sè
ritrovata smarrita in un vasto deserto. b)
La seconda causa è dipendente dalla prima, illustrata sopra. La critica
senza guida sè abbandonata alla ricerca delle interpolazioni, in
base alle quali ha voluto ricostruire la storia e la dommatica del
diritto, senza curarsi, né degli ammonimenti di Giustiniano né della
giurisprudenza classica. Questa è richiamata bensì, ma solo per dar
risalto al contrasto, considerata del resto come un corpo esausto,
caduto per via «come corpo morto cade». Grave errore di metodo questo;
perché la disintegrazione degli elementi interpolatizi nei testi non è
possibile senza la conoscenza più profonda delle dottrine classiche; e
mancata questa conoscenza, fatalmente, il giudizio è riportato
regolarmente ai soli elementi esteriori e filologici. Così via via è
invalso luso di fare la critica dei testi col sussidio dei vocabolari
speciali. Si fa un elenco di vocaboli o di forme o di frasi che
ricorrono in un numero considerevole di testi, varî per il contenuto,
per gli autori e per il tempo della redazione, e si pronunzia una
condanna, un giudizio che spesso investono punti fondamentali della
tradizione giuridica. E inoltre è invalso luso di condannare un
periodo, uno squarcio e pure tutto un passo per unincongruenza
formale, per un vocabolo usato in un senso meno comune, per una
costruzione inusitata e così via. Per citare alcuni esempi, non si
salva più un testo che presenti: ubi nel significato temporale, igitur
iniziale, quamvis per quamquam, potestas=facultas,
e così i testi con quippe, atquin, circa in senso
traslato, citra etc. E non si salvano poi dalla critica
testi che contengono un riferimento alla voluntas, allanimus,
alla mens, alladfectus, che vi funzionano come elementi
decisivi. E così la critica ha tentato, come ho detto, di rifare la
storia e la dommatica basandosi su quegli elementi disintegrati dai
testi; è arrivata a non vedere la compenetrazione intima, se non
esteriore, che tutti gli elementi hanno nei testi, e che deriva dagli
esemplari originali, comunque siano stati sformati; ed è arrivata a non
intendere che le interpolazioni, per sé stesse, non hanno un
significato decisivo, essendo state eseguite, nel maggior numero dei
casi, per ragioni formali ai fini della codificazione. Invece, la
critica moderna vuol disfare il fatto, che è rappresentato da tutta la
tradizione giuridica in blocco, da quella classica a Giustiniano, e da
questa ai Glossatori e ai tempi moderni. E in queste condizioni non è
eccessivo dire che essa, rotto ogni freno, corre alla impazzata, alla
perdizione. Il Corpus iuris, dobbiamo riaffermarlo, è unopera
assai complessa, ed è unopera di scienza. Come tale esso non può
essere studiato e valutato dagli elementi esteriori, formali,
filologici; i quali non possono costituire che un semplice mezzo di
indagine, per facilitare lo studio più profondo degli elementi
sostanziali. Notevole è poi che i filologi stessi sono rimasti
impressionati per lardimento dei
giovani giuristi nellanalisi e nei giudizi delle fonti latine. Il
Kalb argutamente definì una siffatta attività Die Jagd nach den
Interpolationen. E noi dobbiamo essere persuasi che in realtà in
quel campo il pericolo di giudicar male è sempre possibile. La lingua
latina, nel periodo imperiale, per cause molteplici e intuitive, subì
notevoli variazioni. La trattazione dei fenomeni grammaticali,
lessicali, sintattici fu sempre agitata fatica degli eruditi. E forse
opportuno ricordare che i migliori scrittori, anche della Repubblica,
offrono esempi di uso di parole e di forme che i critici condannano
inesorabilmente nei Digesti. Ubi temporale è in Cesare, bell.
civ. 1,23 ubi illuscit; igitur iniziale in Cic. de
leg. I. <18 e 45>, e quasi normale in Sallustio; e, senza
volere trarne alcuna conseguenza, noto che in Vergil. Egl. 3,84
si legge la frase robusta: quamvis est rustica. La moderazione e
la prudenza simpongono, dunque, in questo campo. Il Kalb, daltro
canto, consigliando ai giuristi somma circospezione, si spinse fino a
dire che il giudizio delle interpolazioni nel Corpus iuris dovesse
essere riservato alla competenza dei filologi. Affermazione assurda,
anche questa, rispetto ad unopera così tecnica, così varia, così
ricca di contenuto. I filologi non sono in grado dintendere quel che
vi si contiene. E perché questa affermazione non suoi offesa ai vivi,
riferisco un aneddoto che riguarda il Poliziano. Si narra che B. Socino,
grande giurista del sec. XV, conversando un giorno in Siena col
Poliziano gli avesse chiesto il significato della frase suus heres;
e non avendo questi saputo rispondere il Socino avrebbe soggiunto: Idcirco
contine te intra tuum praesepe, Politiane, et iuris studiosos relinque.
Ma
dopo queste osservazioni particolari, devo subito soggiungere che con ciò
io non intendo menomare il merito grandissimo che alla critica
filologica si deve riconoscere nellanalisi del Corpus iuris.
Intendo dire solo che una o più osservazioncelle formali possono
servire come mezzo o spinta a unindagine più profonda del testo, dal
lato storico e dommatico. E evidente che ciò non si ottiene
affrontando un numero considerevole di passi di contenuto assai vario,
per cui lufficio dellinterprete si tramuta in un trastullo di
collezionista. Con le conoscenze invece che possediamo, la critica usata
convenientemente deve dare frutti meravigliosi per la storia e la
dommatica del diritto. La critica finora è mancata al suo più alto
compito per difetto di metodo, e ciò per le ragioni che ho esposto ora
e nel numero che precede. c)
Una terza causa, connessa intimamente alla precedente, è il
distacco profondo che sè operato tra la nuova e la precedente
letteratura romanistica, la quale è senza dubbio la più imponente che
esista nel campo del sapere. Si
tratta di unimmensa congerie di studi e di commenti sul Corpus
iuris, dalla Glossa alla Scuola storica del sec. XIX, che non può
essere ignorata né trascurata. La critica contemporanea ha creduto di
aver spiccato un volo così alto per lintelligenza del Corpus
iuris da non aver bisogno di altri sussidii, né delle esperienze di
antichi interpreti né delle indagini e dei risultati dei più recenti.
Questa iattanza è grandemente pregiudizievole al progresso della
scienza. Gli interpreti del
passato, con mezzi più limitati, ebbero del contenuto del Corpus
iuris una conoscenza così profonda, che noi non possiamo più
raggiungere.Con grande varietà dindirizzi e di tendenze, nel corso
di otto secoli, il diritto romano fu scrutato in ogni senso da uomini di
grande intelletto e di grande cultura, onde può dirsi, specialmente nel
campo della dommatica, che nulla di essenzialmente nuovo resti più a
dire. Ma
per ciò la critica deve avere oggi il suo compito speciale: quello di
chiarire i punti oscuri, specie dal lato storico, di eliminare le
controversie che si sono propagate sino ai codici moderni, di
semplificare le dottrine e di determinare il corso dellevoluzione del
diritto romano. *
* * Ricondotte,
dunque, tutte le cause, che hanno prodotto un vero sbandamento nella
nostra scienza, ad un comune denominatore, cioè al subitaneo e violento
distacco da tutta la tradizione giuridica, che aveva saldi fondamenti
nelle dottrine dei classici, nellopera e nelle dichiarazioni di
Giustiniano, nelle interpretazioni e ricostruzioni di tante generazioni
di giuristi, possiamo subito e sicuramente indicare il rimedio per
toglierla dal punto morto in cui essa si è venuta a cacciare. Quel che
simpone, già lho detto, è la restaurazione degli elementi
tradizionali, violentemente spezzati negli ultimi decenni: ritornare
dunque alla tradizione, perché in essa è la verità; ritornare a
Giustiniano, che è la nostra guida più sicura; questo deve essere il
nostro programma. I nuovi metodi di indagini acquisteranno allora un
sicuro e chiaro carattere scientifico. Tutti i risultati della critica
più perfezionata andranno a inquadrarsi allora sullo sfondo ampio di
quella tradizione giuridica, che si è svolta organicamente, lentamente
sino a Diocleziano, e poi tumultuariamente nel periodo della decadenza,
da Costantino a Giustiniano, ma sempre in base agli ordinamenti e agli
elementi medesimi creati e elaborati da Roma. Nellultimo periodo, ora
accennato, si dovette compiere, necessariamente, una grande selezione e
semplificazione delle istituzioni giuridiche romane. La pratica, senza
la guida della giurisprudenza, e priva ormai di quel supremo moderatore,
quale era stato il pretore romano, dovette ridursi ad assumere di tanta
ricchezza solo quel tanto che era necessario allamministrazione della
giustizia. La legislazione, miserabile nella forma e nelle direttive,
rispecchia le condizioni dei tempi e la cultura giuridica dei tempi, e
non fu in grado né di comprendere i nuovi bisogni né di dirigere il
movimento del diritto. Questa
stato di cose è reso manifesto dai fatti e da tutti i documenti che
conosciamo, da tutta la storia di quel fortunoso periodo, ed ha maggiore
imponenza dogni più elaborata indagine critica o esposizione
dottrinale. A tutte le
conclusioni della critica contemporanea, che suppone una attività
scolastica capace di rinnovare il diritto nel periodo bizantino, noi
opponiamo per ora due constatazioni, ben più efficaci dogni più
sottile ricerca. Opponiamo due note, le più acute che soverchiano tutte
le altre nelle costituzioni di Giustiniano e in tutta lopera
legislativa, e cioè: a)
Il dispregio e il dileggio del legislatore per tutte le forme antiche
del ius civile e dello stesso ius honorarium, in quanto
queste ultime si riferivano a mezzi ed espedienti procedurali creati dal
pretore per supplire, aiutare o correggere il ius civile. Le
parole che usa Giustiniano sono forti e a volte volgari: amputare,
corrigere, respuere; scrupolositas, verbositas, prolixitas, difficultas,
oscuritas, subtilitas; observatio subtilis, supervacua, inanis, inutilis,
superflua; ambages, circuitus, inextricabiles circuitus, formido veteris
iuris etc. Inintellegibili
a primo aspetto si presentano tutte queste frasi irriverenti poste
accanto alla reverentia che il legislatore professa per gli
antichi. La quale, poi, era vera e sicuramente determinata dalla
ammirazione più profonda e più sincera per il diritto di Roma,
considerato già fin dallora come la verità e la luce per gli uomini
di tutte le terre. Cè dunque una contraddizione grossolana? No. Noi
sappiamo ora che quellatteggiamento sprezzante deriva dal fatto che i
giuristi bizantini non avevano visto sopravvivere nella pratica del loro
tempo alcuna traccia di quellintricato e complesso sistema di
diritto, che nei libri dei giuristi appariva loro un inestricabile
labirinto di giri, rigori ed enimmi. Essi si riferivano alle forme, non
al contenuto del diritto romano. Essi conoscevano dalla pratica quelle
stesse norme di diritto, contenute nelle opere dei giuristi e attuate
con i medesimi effetti directo, recta via, senza le ambagi
e difficoltà inventate dal pretore.[12]
b)
Le frasi tenebrose con le quali il legislatore caratterizza il diritto
nellultimo periodo, dopo Costantino: nube plenum, obscurum,
ambiguum, confusum, conturbatum,[13]
onde egli, in conformità al compito assunto, ascrive a suo merito di
aver ridotto in armonia, chiarito e semplificato tutto,[14]
ut sit manifestum et quid antea vacillabat et quid postea in
stabilitatem redactum est.[15]
Nessuno può pensare che questi termini e riferimenti riguardino lo
splendore della giurisprudenza classica. Essi infatti si riferiscono non
alle forme, ma al ius, come sostanza. Perciò quei giudizi
riguardano lo stato del diritto nel periodo della decadenza, quando
venne meno il pretore e la pratica fu abbandonata a sé stessa.
Giustiniano non ha, come di solito, una terminologia chiara e costante
per indicare quel periodo; scrive: antea, posteritas,[16]
veteres, adoperando promiscuamente questultima voce or con
riferimento alla giurisprudenza classica or al tempo posteriore. Ma i
dubbi e le contentiones contemplati e risoluti dal
legislatore rivelano, per sé stessi, che la più deplorevole confusione
era sopravvenuta in tutto il territorio del diritto, materiale e
processuale, dopo Diocleziano, e il nostro giudizio in proposito non può
fallire. Le tenebre si addensarono nel periodo della cognitio
extraordinaria, più tetre nella materia della procedura. Atti
legislativi, documenti e fatti dogni ordine lo attestano in modo
inequivocabile. Anche Arrianus parla di iuris obscuritas e ius
ambiguum. In questo luogo mi contenterò di citare due esempi, che
sono caratteristici. 1)
Certamente non è concepibile che si deduca in giudizio un rapporto che
esisterà nel futuro ma che non costituisce un diritto attuale.[17]
Per la legis actio è detto da Paolo: nulla legis actio
prodita est de futuro. Sorprende perciò che nello stesso passo Vat.
Fragm. 49 si faccia cenno di decisioni
varie a proposito della costituzione dusufrutto ex certo tempore
mediante in iure cessio: il testo dice an in iure cedi an
adiudicari possit variatur. Siffatto dubbio non era possibile nel
periodo classico. Il testo originale, perciò, fu riassunto dal
compilatore, che vintrodusse la notizia delle oscillazioni della
pratica rispetto ad un principio inderogabile del processo romano. Il
dubbio qui ha grande rilievo. E inoltre lammodernamento del testo è
confermato dal fatto che il successivo Vat. Fragm. 50 è nellultimo
tratto un pedestre raffazzonamento compilatorio, con un mucchio di
eresie giuridiche. Il verbo variari, senzaltra
determinazione (es. sententiis) è della bassa latinità e
ritorna nei Digesti in frammenti interpolati. 2)
Laltro esempio che voglio citare riguarda pure la procedura ed è
riportato da Giustiniano nella c. 3 Cod. 7,40. Vi è fatto il caso di un
attore che nel libellus conventionis ha riassunto varie ragioni
di credito e chiesto in giudizio una somma complessiva, senza
specificare le cause dei crediti per cui apud veteres agitabatur an
videatur omnes causas in iudicium deduxisse aut vetustissimam earum
nihil fecisse. Giustiniano applica anche in questo caso la sua
parola preferita confusio e decide con grande semplicità: videri
ius suum omne in iudicium deduxisse. Nessuno potrà mai supporre che
nel processo formulare potesse nascere siffatta confusione. Ma essa era
inevitabile dopo labolizione delle formulae, quando venne meno
la cooperazione del magistrato nel determinare e fissare in uno schema
rigoroso loggetto della lite. Onde variatur e la pratica
vacillat e si appiglia agli argomenti e ai testi più varii
per far prevalere questa o quella decisione, precisamente come fecero
poi i consulenti nel Medioevo, i quali rinvenivano nel Corpus iuris leggi
per sostenere qualsiasi opinione. Nel caso deciso da Giustiniano, quei
tali veteres traevano assai facilmente argomento dai testi
relativi al pagamento.[18]
Venute meno le formulae delle actiones e le forme solenni
degli atti, la pratica brancola nel buio, senza alcuna guida sicura. *
* * Due
fatti imponenti, dunque, sono quelli or posti in luce il dispregio
del legislatore per tutte le forme antiche e la confusione in cui il
diritto era caduto nella extraordinaria cognitio dinanzi ai
quali svanisce la pompa delle parole e aumenta la forza della realtà.
La quale è tutta a favore della tradizione storica che si è
voluta svellere con argomenti frivoli e con fastidiosi vaneggiamenti. La
realtà conferma, invece, ed illustra fin nei più minimi particolari
tutte le dichiarazioni del legislatore, la psicologia e lopera dei
Commissari, da una parte, e lo stato del diritto nei secoli precedenti
alla Codificazione, dallaltra parte. In un rapido riassunto, che deve
trovare in questo corso tutto il suo svolgimento, le vicende del diritto
in quel periodo nonché il programma e lesecuzione dellopera
legislativa si determinano come segue. Il
diritto dellImpero era ufficialmente tutto contenuto ancora nelle
opere dei giuristi classici (sia pure designati dalla cosidetta Legge
delle Citazioni), nei rescritti imperiali e nelle leggi generali
dellultimo periodo. Ma caduto il sistema della procedura formulare e
via via le forme dei negozi solenni del ius civile, la pratica
giudiziaria, senza guida alcuna, tirava avanti alla meglio, attenendosi
solo allosservanza delle norme sostanziali, qualunque fosse la loro
origine: ius civile, ius honorarium, ius gentium. Da ciò
derivava naturalmente una
grande confusione in tutti gli istituti di diritto e in particolare nei
principii direttivi del ius civile che erano rimasti fatalmente
tutti rovesciati. Questo fatto non poteva essere occulto, e impose al
legislatore la prima norma da seguire nella Codificazione. La c. Deo
auctore § 10 ordina: quae leges in veteribus libris positae in
desuetudinem abierunt, nullo modo vobis easdem ponere permittimus cum
haec tantum optinere volumus quae vel iudiciorum frequentissimus ordo
exercuit vel longa consuetudo huius almae urbis comprobavit cet. La
parola leges ha nella constitutio il significato di
testi giuridici. Il legislatore non conosce evidentemente
unelaborazione del diritto che sia degna dessere presa in
considerazione: egli addita solo la consuetudine, ed in primo luogo
quella giudiziaria, come la fonte del diritto nuovo. Onde sono
inevitabili due conseguenze: a)
che tra il diritto scritto contenuto nelle opere dei giuristi e il
diritto della prassi vi erano differenze essenziali, di cui i caratteri
saranno meglio determinati più oltre;
b) che i Commissari, chiamati a compiere la Codificazione, si
trovarono di fronte alle opere dei giuristi, che rappresentavano il
diritto in tutta la sua complessità antica (per varietà di
ordinamenti, di forme, di mezzi processuali) senza intermediari e senza
sussidi di sorta. Glosse,
commenti e passi alterati si dovevano rinvenire, senza dubbio, nelle
opere più in voga; ma in essi era sempre attestato lo stato del diritto
secondo la pratica o le modificazioni introdotte da leggi; non erano
contenute illustrazioni di carattere dommatico o scolastico. Per
lelaborazione del diritto nel senso dommatico mancavano a quelletà
tutte le condizioni. I Fragmenta Vaticana e le Sententiae di
Paolo, in special modo, portano le tracce di quei prodotti postclassici,
dei quali si può determinare con precisione lorigine dalla prassi.
Per ciò il legislatore poté concepire il vasto programma, che gli fa
onore, di compiere la Codificazione con estratti da tutte le opere dei
giuristi, senza distinzione di sorta; i quali estratti dovevano essere
posti in armonia col diritto vigente, eliminandovi tutti gli elementi
superflui o caduti in desuetudine, e soprattutto semplificando tutto e
componendo un corpo di diritto semplice ed omogeneo. Le
costituzioni Deo auctore e Tanta sono chiare e precise, in
proposito, cioè riguardo al programma e poi al lavoro compiuto. Le
modificazioni introdotte nei testi furono infinite, conformi al disegno
e alle necessità legislative: multa et maxima sunt quae propter
utilitatem rerum transformata sunt.[19] Questa
è una verità ormai constatata dalle moderne indagini
interpolazionistiche. Ora, anzi, noi possiamo dire, che tutti i testi
decorati dai nomi dei giuristi furono più o meno profondamente
alterati. Lopera fu eseguita tutta di prima mano, rapidamente; perché
in sostanza, distribuito il lavoro, si trattava di compiere, in
generale, una serie di operazioni meccaniche, per porre i testi in
armonia col diritto della pratica. Il punto di riferimento era ben
preciso. Del resto, durante il lavoro, decisioni di controversie,
abolizione di antichi istituti, riforme generali procedevano di pari
passo. E le interpolazioni perciò presentano costantemente gli stessi
caratteri. Eseguite barbaramente, in modo diseguale nei vari titoli e
negli istituti, raramente contengono visioni dommatiche nuove; e non
contengono, soprattutto, la sintesi dello sviluppo percorso dagli
istituti giuridici nei due secoli precedenti. I principî ormai arcaici
del ius civile vi appariscono ancora in grande rilievo, per
quanto spezzati continuamente da norme particolari ed eccezionali. Ma
spesso anche nuovi principî generali si contrappongono. Nella realtà
sono quelle eccezioni che rappresentano la vera struttura del nuovo
diritto. Onde
lincongruenza di questi elementi è la prova più manifesta che nel
periodo postclassico, fino a Giustiniano, mancò lopera direttiva
della scuola, di cui non si vede alcuna traccia. Il legislatore raccolse
lantico e il nuovo, sostanzialmente in uno stato incondito, perché
la sua comprensione del mutamento del diritto si arrestò alla
superficie, non penetrò più a fondo, sino a vedere levoluzione
interna delle figure di diritto. Le contraddizioni perciò sono
innumerevoli. Del resto la fortuna dellopera si deve soprattutto al
fatto che le decisioni particolari, nella grande maggioranza, sono
quelle stesse classiche, corrispondenti al ius praetorium in
contrapposto al ius civile. Di questo fatto avremo da dare una
particolare dimostrazione. Per
ora chiudiamo questo schema col determinare, come ora può farsi, la
natura e i fini delle interpolazioni giustinianee, le quali, come già
avvertì il legislatore, assunsero tre forme, quelle cioè di 1. deminutiones,
2. adiectiones, 3.mutationes. Lesperienza in questo
campo di studi cinduce peraltro ad aggiungere ancora altre due forme,
e cioè: 4. le fusioni di
testi, sia di brani o periodi sia di casi giuridici, che erano distinti
nellesemplare e furono invece ridotti sotto una medesima norma e in
unico contesto; 5. estratti formati dai Commissari spesso con singoli e
particolari elementi desunti dagli esemplari. Onde,
in concreto, le interpolazioni consistono nella: 1)
soppressione distituti, forme o vocaboli del ius civile; 2)
soppressione distituti, mezzi e forme del ius honorarium; 3)
soppressione distituti e termini propri ai sistemi di procedura del
diritto classico; 4)
soppressione di controversie di giuristi, di sviluppi di dottrine, di
nomi di giureconsulti; 5)
fusione, per quanto imperfetta, del ius civile, del ius
gentium e
del ius honorarium in un unico corpo di diritto; 6)
sostituzione di nuovi termini, o aggiunte o rabberciamenti per
ricomporre i testi. Nei quali appariscono messi in risalto
elementi
sostanziali del ius gentium, del ius honorarium,
delle leggi
imperiali, delletica cristiana e della procedura
extraordinaria; 7)
formazione di nuovi testi, desunti dagli esemplari e contenenti per
lo più una o più decisioni nude, o formulazioni generali e dommatiche.
A questa categoria appartiene un gran numero di frammenti
e di paragrafi sparsi per tutta lopera.
Nellinsieme,
le categorie ora descritte costituiscono la stragrande maggioranza delle
interpolazioni del Corpus iuris e segnano il carattere della
Compilazione. Interpolazioni daltra natura, che potrebbero dirsi
aberranti, sono rare; e, soprattutto, per il numero sparuto e per il
loro contenuto non esercitarono alcuna influenza sullo sviluppo
ulteriore del diritto. Delle
principali categorie, sopra enumerate, incontreremo esempi notevoli e
caratteristici nel corso delle nostre indagini. LA VOLUNTAS
NEGLI ISTITUTI
DEL IUS CIVILE
Lesposizione finora fatta era destinata a preparare il terreno
per la soluzione del problema più arduo, creato dalla scienza
contemporanea, la quale nega, come ho detto, limportanza della
volontà che noi consideriamo generatrice degli effetti giuridici. A
questo problema dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione. Se la
soluzione sarà quella da me preannunziata negli schemi che precedono,
alo sviluppo e levoluzione del diritto romano saranno chiariti. Secondo
il mio modo di vedere, sulla fine della Repubblica sotto linflusso
delle dottrine greche si nota, nella scienza del diritto, un gagliardo
movimento, diretto allanalisi degli elementi naturali racchiusi
dentro le figure e le forme dei negozi del ius civile. Fra questi
elementi naturali la volontà occupa il primo posto. Secondo la
tradizione del ius civile la volontà non aveva alcuna
importanza. Il principio sancito dalle XII Tavole per il nexum e
il mancipium uti lingua nuncupassit ita ius esto era
rimasto inalterato, sera propagato anzi alle nuove forme solenni di
negozi, in particolare alla stipulatio. La pronunzia delle parole
era tutto; la causa efficiente degli effetti giuridici. La forma perciò
era elemento essenziale e tale rimane per tutta lepoca classica.
Affermazioni esplicite in
questo senso si hanno ancora nei giuristi classici, così in Celso nel
fr. 99 D.<45,1>, in Paolo nel fr. 38 D.44.7, depurato dalle
interpolazioni.[1]
Ma ciò non ci autorizza a ritenere che il ius civile sia rimasto
immobile. Quel che io assumo, anche per lepoca classica, è che la
volontà fu considerata come un elemento interno, aderente alla forma
esterna, per cui lefficacia del negozio dipende ora dalla volontà
manifestata in una forma solenne, secondo la tradizione civilistica. La
forma perciò non perde la sua funzione e la sua importanza. Ma la forma
ha assunto una sostanza: Verbum caro factum est. Cioè quella che
nella vita è forza attiva, come si manifesta apertamente per sé stessa
nei negozi iuris gentium, viene ad assumere nel ius civile un
posto essenziale anche per lefficacia del negozio solenne. La
volontà scrutata con mirabile penetrazione dalla giurisprudenza entra
nellorganismo del diritto. E ovvio che questo sviluppo non fu
lopera di un giorno ma di un lavoro di analisi che si manifesta in
decisione e massime dei veteres, che suscitano dibattiti e nuove
indagini, fino a penetrare in tutti gli istituti di diritto, mutandone
sostanzialmente la struttura. La formazione della nuova dottrina si può
seguire nella giurisprudenza romana passo a passo, per quanto la mano
dei Compilatori del VI sec. d.C. abbia fatto sparire gli elementi più
notevoli del grande lavoro della giurisprudenza, che allepoca
adrianea apparisce presso che compiuto. Linizio si pone certamente
nellepoca ciceroniana. Almeno da questo momento appariscono dubbi,
discussioni e dibattiti. Negli scritti di Cicerone si avverte che cè
un fermento di nuova vita, che è il preludio di una più profonda
osservazione del fenomeno giuridico e di una più intensa elaborazione
scientifica. Come tale il momento si manifesta nella scuola, nella
pratica, nelle controversie dei giuristi, e perciò nei primi tentativi
di sistemazione del ius civile Cicerone cinforma della
frequenza e dellimportanza delle controversie sulla volontà in
confronto ai verba. Top.
XXV Tum opponitur scripto voluntas scriptoris, ut quaeratur,
verbane plus, an sententia valere debeant. Ita sunt tria genera quae
controversiam in omni scripto facere possint: ambiguum, discrepantia
scripti et voluntatis, scripta contraria. XXVI Iam
hoc perspicuum est, non magis in legibus quam in testamentis et in
stipulationibus quae ex scripto aguntur posse controversias easdem
exsistere. Non
si dica che questa sia una disquisizione retorica. Cicerone attesta
controversie pratiche nellinterpretazione di leggi, di testamenti e
di stipulazioni. Delle leggi non ci occupiamo, perché il rilievo che la
giurisprudenza romana diede alla volontà del legislatore di fronte ai verba
è posto in massime incisive note a tutti, e che la critica moderna
non ha avuto coraggio di attaccare.[2]
Cinteressa invece direttamente quel che riguarda i testamenti e le
stipulazioni. La forma è fuori questione. Si suppone latto perfetto
secondo il ius civile. Lo scritto è prodotto dinanzi ai giuristi
o dinanzi ai giudici per linterpretazione del contenuto. Verbane
plus, an sententia valere debeant. Qui, come in altri testi, sententia
è nel significato etimologico, fondamentale di senso, significato da
sentire. Loperetta
di Cicerone, da cui il brano è tratto, non si deve mettere da parte,
come si suol fare, col pretesto che trattasi di volgarizzamenti di opere
greche. E fuori discussione, che lopera scritta per un giurista,
per lamico Trebazio, è nel suo contenuto ripiena di materia
giuridica romana.[3]
E peraltro è tempo di considerare più adeguatamente le opere
filosofiche e retoriche del grande oratore. Il quale, se è vero che ci
si presenta in tutte quelle opere come un brillante se non sempre esatto
propagatore di dottrine greche, nondimeno è pure fuori dubbio che egli
sa trasformare i suoi modelli in sostanza romana e con espressioni vive
illuminare i problemi dello spirito e del mondo romano. Ma
sullargomento in esame il dubbio non può nascere. Il problema
dellefficacia della voluntas di riscontro o in opposizione ai verba
è agitato in tutte le opere di Cicerone. La controversa è viva in
tutto il campo del diritto; e Cicerone rispetto ad essa è coerente,
sostiene con fervore la prevalenza della voluntas nei testamenti
e nelle stipulazioni, investe gli avversari con vivacità, a volte con
ironia, perché, almeno in ciò, la sua convinzione è sincera ed è
profonda. Lo desumo dallesempio pratico più cospicuo, che
egli riporta ripetutamente, con passione, per provare il suo assunto. Si
tratta delle celebre causa Curiana dibattuta dinanzi i Centumviri, con
grande concorso di popolo, assistita dai principi del foro del tempo,
Mucio Scevola e Crasso. E
necessario avere sottocchio la relazione che ne fa Cicerone, in
maniera più diffusa in Brutus, che riporto in appendice insieme ai
passi di confronto. Cicerone scrive: Brutus,
LII. M. Curium, cum ita heres institutus esset si pupillus
ante mortuus esset, quam in suam tutelam venisset, pupillo non nato,
heredem esse non posse. Questa
era la tesi contraria sostenuta da Mucio con grande fervore e con grande
apparato di erudizione. Mucio difendeva tutta la veneranda tradizione
del ius civile. Cicerone continua: quid
ille non dixit de testamentorum iure, de antiquis formulis? quemadmodum
scribi oportuisset, si etiam filio non nato heres institueretur? quam
captiosum esse populo quod scriptum esset, negligi et opinione quaeri
voluntates et interpretatione disertorum scripta simplicium hominum
pervertere. Quam ille multa de auctoritate patris sui, qui semper ius
illud esse defenderat? ... multa de conservando iure civili? Ma
non meno vigorosa era la replica di Crasso: deinde
hoc voluisse eum qui testamentum fecisset, hoc sensisse, quoquomodo
filius non esset, qui in suam tutelam venisset, sive non natus sive ante
mortuus, Curius heres ut esset; ita scribere plerosque et id valere et
valuisse semper. Ed
altrove insiste: ego autem defenderem hoc eum mente fuisse, qui
testamentum fecisset, ut, si
filius non esset, qui in suam tutelam veniret M.Curius esset heres. E
Cicerone, collocandosi appassionatamente dalla parte di Crasso, investe
Scevola con ironia, e scrive: tu
libellis aut praeceptis soceri tui causam M.Curii defendisti, non
arripuisti patrocinium aequitatis et defensionem testamentorum ac
voluntatis mortuorum....omnis oratio (sc. Mucii) versata est in eo ut
scriptum plurimum valere oportere defenderet. At in hoc genere pueri
apud magistros exercentur omnes, eum in eiusmodi causis alias scriptum
alias aequitatem defendere docentur. Meraviglioso
squarcio di storia della scienza giuridica questo rappresentato con
tanta vivezza da Cicerone. E il problema centrale più arduo del
diritto civile che emerge già nel sec. VII di Roma e si dibatte nel
foro e nelle scuole. Deve prevalere la dichiarazione, nella sua forma
letterale, o la volontà? Il rigore delle formole o lequità?
Cicerone nel rovesciare dun colpo tutta la tradizione arcaica di
precetti e di formole del ius civile, mette sul trono
lequità, gli elementi naturali dei negozi e quindi la volontà
contro le formole. Scevola difende strenuamente la tradizione degli avi
per salvare il ius civile dalle nuove correnti pervertitrici.
Cicerone aveva torto, certamente, imbevuto di dottrine greche, obliava
in questo punto che tutta la gloria e la potenza di Roma scaturiva dalla
costanza, dal culto della tradizione pubblica e privata. Il diritto, in
particolare, ha una disciplina severa. E fuso nel vivere, come
laria. Si muta giorno per giorno, ma deve maturare in continue
esperienze i germi duna nuova giustizia, che segue il corso duna
vita più intensa. E come la sorgente del limpido rivo perenne che
mai si arresta e si espande silenziosamente. Ma dal dibattito così
serrato scaturisce, ad ogni modo, una verità, che è insofisticabile.
Anche in Roma era apparso un germe nella vita del diritto che era
destinato a compiere una mirabile opera di ricostruzione e di scienza.
Sera rivelata la volontà, la quale, come dice Aristotele, precede a
determinare ogni azione. Se essa domina, dunque, ogni azione e quindi
anche lespressione, ed opera tra gli uomini come una forza della
natura, anche nel diritto deve manifestare la sua potenza. Non si
insistiamo per ora su ciò. Quel che più preme è mettere in maggiore
evidenza i termini del problema, presentato da Cicerone in tutte le
opere, e le parole che egli adopera. Il problema è quello stesso che
apparisce in mille passi del Corpus iuris; se nei negozi, cioè,
debba prevalere la dichiarazione secondo il suo tenore letterale o la
volontà effettiva di colui che ha emesso la dichiarazione. Il
contrapposto è quindi tra litterae, scriptum, verba, formula da
un parte e mens, velle, sentire, sententia, voluntas, opinio, animus,
dallaltra. Limportanza di questa coincidenza sostanziale e verbale
che si riscontra in ordine al nostro problema tra i testi ciceroniani e
quelli giuridici non può essere ignorata. Se la critica contemporanea
lha ignorata, ne sconta la pena, dacché sè ridotta a brancolare
tra le tenebre. E due punti sono ancora da rilevare dal testo di
Cicerone concernente la causa Curiana. Il primo, che la causa è
riportata come esempio dei problemi che si agitano nel diritto civile: hoc
est in medio iure civili versari quod ambigitur inter peritissimos.
Il secondo, che il tema si dibatte nelle scuole: pueri apud magistros
exercuntur omnes...alias scriptum alias aequitatem defendere docentur. Siamo
quindi in medio iure civili, non nel campo del retorica, come
attestano e questa è la prova definitiva dibattiti e
controversie tra i giuristi contemporanei di Cicerone. Si
trattava di determinare il significato e la comprensione della parola suppellex.
Servio e Tuberone aprono il dibattito, cui prendono parte molti giuristi
e si chiude con Celso che sembra circuire la nebbiosa realtà, svelarla,
rinserrarla in una formola precisa. Celsus
19 dig. scrive:
fr. 7 § 2 D.33,10 Servius fatetur sententiam eius, qui
legaverit adspici oportere, in quam rationem ea solitus sit referre;
verum si ea, de quibus non ambigeretur, quin in alieno genere essent,
... non idcirco existimari oportere suppellectili legata ea quoque
contineri: non enim ex opinionibus singulorum sed ex communi usu nomina
exaudiri debere. Id Tubero parum sibi liquere ait, nam quorsum nomina,
inquit, nisi ut demonstrarent voluntatem dicentis? La
controversia trae origine, anche qui, dalle discussioni dei filosofi
greci su questo punto riferite ampiamente da Platone nel Cratilo, in cui
si discute della ragione dei nomi. Quivi Cratilo sostiene
che i nomi delle cose derivano immediatamente dalla natura e
rappresentano la essenza delle cose medesime; Ermogene, invece, che
lorigine dei nomi è arbitraria, convenzionale e non naturale.
Tuberone segue questa dottrina. Servio quella di Cratilo, la quale
assunta dallo Stoicismo prevalse anche tra i giuristi. Ma il dissenso
esiste nella soluzione di casi pratici. Q.Mucio sembra abbia dato
prevalenza alla mens dicentis, come Tuberone: fr. 33 D. 33,10;
invece Cascellio, Ofilio e Labeone alla comune accezione del nome: fr.
10 D. 33,10. Anche Gallo Aquilio era contro Tuberone: 32 § 1 D.34,2, e
Cicerone segue la dottrina storica dominante: Brut. 196; inv.
II, 54; Part. or. 126: communeque sit hoc praeceptum...quam
maxime potuerit ad communem sensum vimque verbi, tum similibus
exemplisque eorum qui ita locuti sunt suam definitionem sententiamque
confirmat. Intanto
lesame filosofico dei nomi fatto dai Greci, come si desume dal
dialogo sopra citato di Platone, sviscera il problema in tutte le sue
relazioni e conseguenze. Si chiede se si debba ammettere una differenza
tra i nomi delle cose e quelli deglindividui; e se lerrore di una
sillaba possa alterare per sé la designazione delle cose. Socrate dice
che lerrore di una sillaba non nuoce, se lessenza della cosa è
significata e soggiunge che quel che si dice dei numeri non si deve
applicare alle immagini rappresentate dai nomi. Cratilo è di avviso
contrario e dice che lalterazione
di una sillaba fa sì che si designa qualche cosa daltro. I
giuristi naturalmente si lasciano guidare dal senso pratico e non
seguono le speculazioni dei Greci. Essi affermano che lerrore di una
sillaba non nuoce,[4]
come non nuoce lerrore del nome di persone o di cose si de corpore
constat.[5]
Ma questa constatazione dellidentità della cosa designata si
riconduce necessariamente alla
mens testatoris,[6]
alla conventio nel processo[7]
o nei negozi del commercio.[8]
I testi interpolati non alterano questo risultato definitivo: dacché i
Compilatori dovevano naturalmente espungere controversie e difformità
nelle decisioni e mettere in maggior rilievo la volontà, come essi
sogliono fare.[9]
E nel lavoro di ricomposizione sogliono essi pure conservare
frasi e massime derivate dai Greci, che erano seguite o
combattute dai giuristi, ma che nel complesso dellopera legislativa
sono ormai note stonate. In questa categoria annovero la sentenza che si
legge nella chiusa del fr. 4 pr. D.30: rerum enim vocabula
immutabilia sunt, hominum mutabilia, che era stata superata dalla
giurisprudenza romana. Il
celebre esempio riportato da Gaio IV, 11 e 30 a proposito dellantica
procedura è significativo. Per i veteres, dice Gaio, le parole
erano immutabilia onde chi avesse agito de vitibus
succisis invece di ripetere la frase della legge, de arboribus
succisis, perdeva la lite. Ma appunto questa nimia subtilitas fece
venire in odio la forma solenne delle actiones, per il motivo che
vel qui minimum errasset, litem perderet. Lesempio
dimostra in modo chiaro che la coscienza giuridica più progredita si
viene sottraendo alla tirannia delle forme solenni. Questa
revisione della dottrina concernente i nomi delle cose e limportanza
che viene assumendo nella giurisprudenza la voluntas rispetto ai verba
e ai nomina, ci mette in grado di intendere più a fondo la
massima di Celso che si legge nel fr. 7 § 2 cit. da cui prendemmo le
mosse. Celso interviene nel dibattito tra Servio e Tuberone e vi porta
ormai il frutto di una matura esperienza con una formula precisa e
notevole. Celso scrive:
Sed etsi magnopere me Tuberonis et ratio et auctoritas movet, non
tamen a Servio dissentio, non videri quemquam dixisse cuius non suo
nomine usus sit: nam etsi prior atque potentior est, quam vox, mens
dicentis, tamen nemo sine voce dixisse existimatur; nisi forte et
eos qui loqui possunt, conatu ipso et sono quodam kai th anarqrw fwnh
dicere existimamus. Dunque
Celso riconosce che la volontà non solo è la forza che precede e
determina lespressione ma è anche più potente di questa nel
diritto. La voce è necessaria, certamente. In primo luogo come
manifestazione della volontà (non videri quemquam dixisse ... usus
sit), ed è necessaria inoltre perché lo esige il ius civile per
la forma. Qui abbiamo, dunque, la nozione aristotelica[10]
della priorità della mens sulla azione: arch proairesis, ma
ricondotto alla disciplina del ius civile. Da questa nozione non
dissentiva lo stesso Servio, il quale confessava: sententiam eius qui
legarit adspici oportere. Il testo, nelle sue parti fondamentali,
che ho qui utilizzate, ha subito di recente la prova del fuoco; infatti
il Beseler[11]
ha attaccato molti elementi, che però non sono essenziali.
Lattributo potentior
potrebbe destare sospetto. Ma riflettendo bene sul problema, si deve
riconoscere che se nel II secolo si poté definire: ius est ars aequi
et boni, è certo che nessun negozio può essere efficace che non
tragga forza dalla volontà. Che linefficacia sia dichiarata dal ius
civile o praetorium non è essenziale per i Romani, quando
essi assurgono a considerare il diritto nelle sue finalità. Anche
Cicerone assimila le due fonti di frequente: pleraque iure praetorio
liberantur nonnulla legibus.[12]
Ed
il pensiero di Celso doveva emergere con grande limpidezza nel testo in
esame, stroncato nella chiusa dai Compilatori con quel disgraziato nisi
forte che ne spezza largomentazione vigorosa. Celso illustrava,
come io suppongo, la frase nemo
sine voce dixisse existimatur con lesempio del muto. Il quale,
non potendo parlare, non può compiere negozi solenni. Ma egli ha una
volontà, che può esprimere con suoni inarticolati, e questa può
essere efficace, come se fosse espressa con la parola, nei negozi iuris
gentium.[13]
Così la massima di Celso appare nella sua interezza. La mens è potentior;
la voce è necessaria per la forma. Questo risultato non ha bisogno di
essere illustrato con prove testuali. I Compilatori naturalmente
dovettero eliminare questa differenza che non esisteva più nel diritto
giustinianeo.[14] In
ogni caso, la massima di Celso segna già il vertice dun processo
storico di grande importanza. Se la mens è potentior,
anche nel campo del ius civile, il dominio dei verba vuol
dire che tramontava. Essi hanno ora una funzione meramente formale. Non
sono più la sostanza del diritto. Il ius civile arcaico si
atteneva solo alla vox: Veteres verba tenuere. Era
quella la civiltà primitiva che sacrificava alla disciplina della vita
pubblica e privata le stesse leggi di natura. La giurisprudenza
repubblicana aveva posto i fondamenti dellindagine scientifica nel
campo del diritto, che induceva lanalisi degli elementi e delle forze
che operano nel diritto e portava a scovrire le ragioni dei responsi e
dei giudicati. Cicerone[15]
esalta lopera di Servio in questa direzione. La ricerca della voluntas
in confronto ai verba, la prevalenza di quella su questi fu,
come ora sappiamo, il tema centrale delle più profonde investigazioni.
Il problema si agita ancora nel primo secolo dellImpero. Giova qui
ricordare tre testimonianze di grande valore. fr.
116 V.<S.> Iavolenus 7 epist. Quisquis
mihil alius filii filiusve heres sit: Labeo non videri filiam contineri,
Proculus contra: mihi Labeo videtur verborum figuram sequi, Proculus
mentem testantis. fr.
125 V.S. idem 5 epist. ... Proculus
... id loquitur, quod ex his quae significantur, sensit ... sensisse
existimem. fr.
19 D. 10,4 Paulus 4 epit. Alfeni ... respondit:
non oportere ius civile calumniari, neque verba captari, sed qua mente
quid diceretur animadvertere, ... E
vero, dunque, che la mens è prior atque potentior quam vox.
La viva aspirazione, espressa con tanto vigore da Cicerone, è divenuta
una realtà. Nel campo dei testamenti dobbiamo ritenere la prova
completa; e questa non può essere controbattuta dalle centinaia di
interpolazioni che si possono constatare. Lho detto, e ripeterlo
giova sino alla sazietà, le interpolazioni furono in questo
territorio,come altrove, principalmente determinate da ragioni
legislative e formali.
*
* * Ma,
si è detto, la prova dellimportanza della volontà nei testamenti
non induce necessariamente che si debba dire lo stesso per i negozi inter
vivos, e del commercio in particolare. Nei testamenti cè la
disposizione dun solo, la cui volontà è decisiva e sovrana; invece
nei negozi inter vivos si hanno interessi contrastanti e due
volontà, né si può ammettere il prevalere della volontà di uno degli
agenti. Qui, invece, si è detto e si dice, è la dichiarazione nella
sua oggettività che deve essere riconosciuta pienamente efficace. Fare
questione di volontà è pericoloso e contrario allessenza del
diritto. I giuristi romani non si riportano alla mens, voluntas,
animus, adfectus, ma ad elementi oggettivi. Quod agitur, quod
actum est sono di continuo argomento dellindagine dei giuristi, e
la decisione segue in conseguenza di quellindagine. Così
si esprime lopposizione alla teoria della volontà. La quale
opposizione è nata nella seconda metà del secolo XIX, per opera del
Jhering: il quale intese così attaccare il Savigny e la
Begriffiurisprudenz che aveva dominato fino a quel tempo incontrastata
con la teoria della volontà. Jhering aveva posto nel luogo della
volontà lutilitarismo, il concetto teleologico di diritto, e attese
a dimostrare che lo scopo è il creatore di tutto il diritto.
Levoluzione del diritto sarebbe determinata dallinteresse, che è
necessariamente variabile e contingente. La protezione del diritto
sarebbe protezione dinteressi, nellambito dei quali le ragioni
individuali e quelle sociali sono tenute in equilibrio ed in armonia. Io
non ho bisogno qui di prendere posizione di fronte alla teoria del
Ihering. Dico soltanto che per determinare la legge dellevoluzione
del diritto occorre anzitutto avere una conoscenza precisa dei fattori
dello sviluppo del diritto, nei varii periodi storici, e nego che la
scienza abbia il possesso di questi elementi finora. La teoria del
Ihering del resto non avuto quel successo che lautore si attendeva,
pur essendo seguita da insigni maestri del diritto. Nondimeno,
lopposizione alla teoria della volontà è stata assunta ora dalla
critica che dirò filologica dei testi di leggi, senza per altro una
direzione precisa dordine teorico. E lopposizione ha preso vigore
e baldanza negli ultimi decenni, dacché essa ha costruito trincee e
castelli con mucchi dinterpolazioni e si ritiene ora invincibile.
Così essa ha pervertito la nozione del contractus, che non
sarebbe laccordo di due o più persone su di un oggetto, ma
indicherebbe oggettivamente il vincolo giuridico fra due o più persone
prodotto da una causa qualsiasi, che non sia il delitto. Ha ricercato e
ricerca, dovechessia, i termini che si riportano alla volontà come
causa efficiente degli effetti giuridici, e li ritiene tutti intrusi dai
Bizantini. Il regno della volontà, dice lopposizione, è opera
bizantina, delle Scuole dOriente, da cui lavrebbe assunto, come
una funesta eredità, Giustiniano. Ma
se le interpolazioni, come abbiamo visto rispetto al diritto
testamentario, nulla provano contro lo sviluppo della dommatica romana,
io devo, qui soprattutto, invocare la vostra pazienza e la vostra
attenzione a rifare meco lo stesso cammino nel territorio dei negozi inter
vivos prendendo le mosse dallopera ciceroniana. E
da segnalare anzitutto il fatto che
Cicerone rispetto al problema in esame non fa differenza tra leggi,
testamenti, stipulazioni e pacta conventa.[16]
Laequum et bonum esige la considerazione della volontà in
tutti gli atti in cui la vita del diritto si estrinseca. Cicerone
investe con asprezza coloro che seguono linterpretazione che potremmo
chiamare oggettiva degli atti. Egli esclama: calumniatori esse
officium verba et litteras sequi, negligere voluntatem (ad Herenn.
II, 14), e ripete: scriptum sequi calumniatoris esse, boni iudicis
voluntatem scriptoris ... defendere (pro Caec. 23, 65).
Rimarchevole che la stessa parola è usata da Alfeno nel fr. sopra
citato,[17]
nella medesima occasione: non oportere ius civile calumniari, neque
verba captari, sed qua mente quid diceretur animadvertere. E
considerata impostura, cavillazione, dunque, attaccarsi alla parola
senza considerare in primo luogo la volontà. Il modello del perfetto
interprete è Crasso, secondo Cicerone, perché sostenne sempre laequum
et bonum. Il contrasto pertanto tra verba e voluntas si
manifesta ugualmente nel campo dei negozi del commercio, siano solenni o
non solenni. E bene però tenere distinte le due categorie e iniziare
lindagine dai negozi solenni. La ragione del contrasto è qui
immediata e manifesta, perché la tradizione del ius civile, come
sappiamo, non considerava che i verba. Così nella mancipatio,
nella in iure cessio e nella stipulatio (sponsio),
la quale ultima assunse tutta la disciplina delle solennità quiritarie.
Ma la stipulatio domina in Roma tutta la vita del diritto, si
mantenne più a lungo delle altre forme solenni, lasciò tracce profonde
della sua evoluzione, le quali sono ancora visibili nel Corpus iuris,
onde è più agevole rinvenire in essa gli elementi che servano alla
nostra dimostrazione. E
qui lindagine deve prendere le mosse da un celebre testo di Varrone l.l.
69ss. Varrone vuol dare letimologia di spondere e la
riporta a sponte, nam id valet et a voluntate. Egli
considera questa nozione sotto vari aspetti e nelle sue conseguenze. 71.Qui
spoponderat filiam, despondisse dicebant, quod de sponte eius, id est de
voluntate, exierat ... Sic despondisse animum quoque dicitur, ut
despondisse filiam, quod suae spontis statuerat finem. 72....ad
spontem responderent, id est ad voluntatem rogationis, itaque ... si
iocandi causa dixit, neque agi potest cum eo ex sponsu. Itaque is qui
dicit in tragoedia Meministine te spondere mihi quotam tuam? quo
sine sponte sua dixit, cum eo non potest agi ex sponsu. Scrittori
recenti, in particolare il Partsch[18]
e lo Schulz[19]
hanno creduto di sbarazzarsi delletimologia e delle nozioni
dommatiche che il testo di Varrone contiene, dicendo che lo scrittore
latino, seguendo il metodo degli Stoici, deriva letimologia dal suono
delle parole e dal significato che è loro attribuito; e che, inoltre,
egli era forse dominato dalla dottrina aristotelica, secondo la quale la
volontà (proairesij) determina gli effetti dei negozi del commercio.
Ma, si soggiunge, essendo al contrario accertata la validità della stipulatio
conclusa dolo o metu o per simulazione, cioè con un
vizio della volontà o senza la volontà, la dottrina riferita si deve
ritenere inattendibile e di nessun valore. Deduzioni queste che ognuno
riconoscerà subito quanto siano affrettate ed incongrue. Se la nozione
è tratta dalla dottrina aristotelica,[20]
ciò non vuol dire che non abbia potuto quella esercitare il suo
influsso sul diritto di Roma. Il quale influsso poi è provato a
dovizia, positivamente, dal fervore con cui Cicerone esige la
considerazione della volontà a preferenza dei verba; perché la
volontà sarebbe prior atque potentior quam vox, o come dice
Aristotele nel l.c. praxewj men oun arch proairesij. La massima di Celso
noi non dobbiamo obliarla, perché essa è generale, seppur enunciata a
proposito del legato. Dire che il dolus e il metus non
impediscono lesistenza di una valida stipulatio è dire nulla.
Perché la dommatica romana considerò quei vizi come cause determinanti
dellatto volitivo che non escludono la realtà dellatto volitivo.
E celebre in proposito la frase di Paolo: tamen coactus volui:
fr. 21 § 5 D.4,2. Ma largomento si ritorce subito e diviene possente
a favore della dottrina della volontà: quando si osservi che proprio da
un contemporaneo di Cicerone, da Gallo Aquilio, furono proposte le formulae
de dolo. Appare allora solo allora liniquità di riconoscere
efficace un atto volitivo viziato internamente. Ciò vuol dire, se non
cavilliamo, riconoscimento della forza della volontà. Dellatto
simulato diremo più oltre. Ma sin da ora possiamo accertare che la
critica è fuori strada, ammettendo la validità dellatto simulato
nel periodo storico di cui ci occupiamo. Se si giustifica la validità iure
civili dellatto determinato da metus con la motivazione coactus
tamen volui, vuol dire già che ove manchi il velle
nessun atto può venire ad esistenza, nemmeno un atto solenne. Il
contrario era vero nel periodo precedente a Cicerone, quando la forma, i
verba per se stessi rappresentavano tutta la sostanza
dellatto, secondo la tradizione del diritto decemvirale. Si aggiunge
a tutto ciò che Varrone non era indotto di materie giuridiche e che
nella scienza del tempo, professata dagli Stoici, letimologia delle
parole non si ricavava da leggi fonetiche bensì dalle idee, dappoiché
le parole nascendo fusikwj,
naturalmente, rappresentano la verità, sono immagini delle cose. La
parola corrisponde al pensiero.[21]
Sarebbe perciò strano supporre che Varrone avesse inventato nozioni e
conseguenze che non avevano corrispondenza nella vita del diritto.
Intanto, la nessuna efficacia della stipulatio ioci causa,
considerata da Varrone, è negli stessi termini enunciata, e questa
volta in forma dommatica, da Paolo in unopera elementare. fr.
35,2 D. 44,7 Paul. 2 Inst. Verborum quoque obligatio constat
si inter contrahentes id agatur; nec enim si per iocum puta vel
demonstrandi intellectus causa ego tibi dixero: spondes? et ut
responderis: spondeo, nascitur obligatio. E
se vogliamo sapere il significato della frase: si id
agatur, che è nel testo, esso è con precisione dichiarato nel
tratto precedente che costituisce il § 1, nelle parole: sed etiam
hoc animo dari et accipi, ut obligatio constituatur. I due brani
sono congiunti da quoque. Quel che vale, dunque per il
mutuo vale per la stipulatio. Lobligatio nasce nei
contratti, solenni e non solenni, in forza dellanimus
adstringendae obligationis. Si noti, per quel che dirò in seguito,
che id agitur, actum est sono frasi che nella sostanza si
riportano allanimus, alla volontà; non di uno solo,
naturalmente, ma allaccordo di due volontà. Onde ne segue, che se
altri mi dà del denaro donandi causa, non nasce obbligazione,
perché (non) hoc animo dari et accipi ut obligatio
constituatur. E largomentazione elementare con la quale opera
il testo di Paolo. Argomentazione che è confermata da Gaio III, 91 là
dove tratta dellindebitum. Gaio scrive: sed haec species
obligationis non videtur ex contractu consistere, quia is, qui solvendi
animo dat, magis distrahere vult negotium quam contrahere. Che
anche questo passo gaiano sia stato ritenuto spurio non deve, non può
preoccupare. La critica contemporanea è divenuta folle ed arbitraria.
La giurisprudenza invece è scienza severissima che si è svolta sotto
una dura disciplina ed esige il più vivo rispetto da parte degli
interpreti. E per combattere la teoria della volontà nella verborum
obligatio, è stato detto pure, incautamente, che vi sono
stipulazioni pretorie nelle quali la volontà delle parti non ha alcuna
funzione, e vi sono actiones ex stipulatu date senza che sia
stata interposta stipulazione, perciò contro la volontà
dellobbligato.[22]
Argomenti di nessun valore. Le stipulazioni pretorie non sono
convenzionali, non sono atti del commercio, ma sono invece atti
giurisdizionali del magistrato imposti alle parti: ab iurisdictione
veniunt. Questo carattere è messo in rilievo dai giuristi con
grande chiarezza.[23]
Le actiones ficticiae ex stipulatu, poi, sono rimedi dei quali il
pretore fece largo uso per accordare protezione a casi non contemplati
dallius civile. Per via delle fictiones il pretore
poté promuovere con vigore il progresso del diritto. Ma se si fingeva
la civitas, a tal tempo, voleva dir questo forse che il peregrino
avesse tutti gli attributi della civitas romana? Ciò è assurdo.
Chiudiamo questa dimostrazione generale del problema con unultima
nota. Lerrore che cada su di un elemento essenziale del negozio, es.
sulloggetto, rende nullo il negozio. Rispetto alla stipulatio la
constatazione è frequente nelle fonti. Ma Venuleio nellopera
speciale stipulationum e certamente nellintroduzione[24]
dà il motivo della nullità nei seguenti termini: fr. 137 § 1 D.45,1: nam
stipulatio ex utriusque consensu perficitur. Il dissenso dei
contraenti è indicato da Venuleio col solito verbo sentire,
che esprime un momento interno della volontà. Latto è nullo,
dunque, perché manca laccordo delle volontà sulloggetto del
negozio. E quel che dice il giurista. La teoria che ripone tutta la
forza del vincolo obbligatorio nei verba, nella solenne
dichiarazione, come era nel diritto arcaico, non potrebbe spiegare la
nullità per errore. Questo è ovvio. La considerazione dellerrore,
di fronte ai verba, fu imposta dallaequum et bonum,
nella fase più progredita del diritto, promossa vigorosamente da
Cicerone. Se la motivazione riportata sopra di Venuleio fosse dimostrata
interpolata, ciò significherebbe nulla. Il perficitur lo ritengo
anchio interpolato, perché la stipulatio perficitur verbis.[25]
Ma tuttavia il valore del consensus non si può disconoscere. La
sua forza si palesa nella realtà della decisione, che è causata dal
dissenso. Anche Giuliano nel fr. 36 D.41,1 ammette che il dissenso in
corpore produce la nullità della mancipatio (traditio,
Trib.). E quel che si dice della stipulatio si deve dire,
necessariamente, anche degli altri negozi solenni del commercio, cioè
della mancipatio, della in iure cessio, della litterarum
obligatio, e così via. Testimonianze dirette per questi negozi non
ne abbiamo, perché quelle forme di negozi furono espulse dal Corpus
iuris. Ma testi profondamente alterati che si riferivano ad esse
potremo scoprirli e valutarli adeguatamente, procedendo nelle indagini
con la dovuta accortezza. Ed
ora è necessario penetrare negli strati più profondi del Corpus
iuris per osservare, se possibile, la formazione della nuova
dottrina che riconosce nella volontà la forza produttiva di tutti gli
effetti giuridici nellambito dei negozi. Quel che ho detto finora
rappresenta il risultato dello sviluppo della dottrina, tratteggiata a
grandi linee. Ma il travaglio della giurisprudenza per arrivare a quella
meta sfugge allesame superficiale, ed è ancora ignorato. Invece il
lavoro fu intenso, compiuto da più generazioni di giuristi,
particolarmente sino allepoca adrianea, con viva passione ed animati
da nobile emulazione, attraverso osservazioni, tentativi, esperienze,
dibattiti, dogni giorno, da cui essi erano indotti a rivedere e
correggere o limitare responsi, giudicati, regole tradizionali; a creare
figure nuove di diritto, a rifare nuove categorie, partizioni e
aggregazioni, insomma a costruire giorno per giorno quel mirabile
monumento, la scienza del diritto. Il
punto centrale del problema, e quindi dellindagine, risiede nella
struttura dei negozi: i quali, comè noto, presentano differenze
essenziali. I negozi del ius civile sono solenni; quelli del ius
gentium non abbisognano di alcuna forma. La essenza dei primi,
perciò, consiste nella pronuncia dei verba solemnia e nel
compimento di speciali riti; nei secondi, invece, sono elementi
naturali, cioè la voluntas e la causa, che determinano il loro
riconoscimento e lefficacia. Questo
contrapposto è assoluto nel diritto antico, cui assegniamo
approssimativamente come termine finale lepoca ciceroniana. Ma la
contrapposizione si attenua nel periodo della giurisprudenza classica;
nel senso che essa, mercé lanalisi più perspicace degli atti del
commercio, pervenne a stabilire che anche nei negozi solenni operano gli
stessi elementi naturali che si incontrano nei negozi iuris gentium,
cioè la volontà e la causa. Questi elementi, per altro, vengono a
costituire nei negozi solenni la struttura interna dellatto
giuridico, perché quella esteriore rimane immutata. Tutti i negozi,
quindi, delluna e dellaltra categoria si pareggiano quanto agli
elementi naturali; i quali sono il tutto per i negozi iuris gentium,
sono meramente una sottostruttura in quelli iuris civilis. In
questi ultimi infatti la solennità è richiesta sempre in modo
essenziale, ma il difetto di quei tali presupposti naturali influisce
sulla loro efficacia, che resta paralizzata. Che ciò avvenga ipso
iure o con mezzi del diritto pretorio non ha grande importanza;
perché ciò dipende dagli speciali ordinamenti romani e dal processo di
sviluppo degli istituti giuridici che è diretto dallattività del
pretore. Perciò tra tutti gli ordinamenti romani cè un continuo
flusso e riflusso, come ho avvertito più sopra. Quel che qui importa
soprattutto è di scoprire e seguire la formazione della dottrina per
opera della giurisprudenza, la quale dai casi pratici, analizzati,
confrontati e discussi sempre con maggiore perspicacia e profondità,
viene elaborando la nuova dommatica del diritto privato. Lopera è
compiuta in epoca adrianea, rispetto al problema in esame, e il
risultato può essere enunciato nei seguenti termini: la conventio
è elemento generale ed essenziale di tutti i negozi del commercio,
siano essi solenni o non solenni, cioè del ius civile, del ius
gentium o del ius praetorium. La
dimostrazione di questa dottrina deve esser data in una forma
necessariamente sintetica in questo corso, indicando i singoli punti
presi in esame dai giuristi e la graduale formazione della teoria. E
ovvio che gli elementi di osservazione noi li ritroveremo negli scritti
dei giuristi dellepoca classica, e non possiamo presumere quindi
dindicare con precisione, ogni volta, i nomi dei giuristi che diedero
lo spunto o il maggior contributo al perfezionamento dellopera. Il
progresso della giurisprudenza in ogni tempo è in minima parte dovuto
alle osservazioni dei singoli; in gran parte è frutto dellesperienza
accumulata dalla prassi e da più generazioni di giuristi. Ciò
specialmente è vero in Roma, dove la tradizione del diritto presenta
una continuità mirabilmente disciplinata e lopera dei giuristi
appare come quella di una corporazione fervorosamente votata al culto
del diritto. Premesso
ciò, vengo alla dimostrazione. 1)
Il ius civile non ammetteva la costituzione duna obbligazione ad
tempus. Onde la stipulatio: quoad vivam dare spondes? si
doveva ritenere pura e perpetua. Ma il pretore concesse unexceptio
contro il creditore che richiedesse ladempimento di quellobbligazione
al di là del termine indicato.[26]
Ciò significava, evidentemente, che il pretore contro la regola del ius
civile rendeva efficace la convenzione così comera stata
conchiusa dalle parti. 2)
Negozi solenni del ius civile che non ammettono dies e condicio
si annullano per lopposizione di una di quelle limitazioni.
Così, in ispecie, la mancipatio, la in iure cessio adibite
per il trasferimento del dominio o per la costituzione di servitù. Ma
se è adoperata per la costituzione di una servitù la stipulatio,
allora la servitù vale secondo il ius civile come se fosse
costituita senza limitazione di tempo o di condizione. Tuttavia anche
qui il pretore tutela la convenzione così come fu conchiusa, mediante exceptio
doli. La dottrina si riporta a Sabino e Cassio e fu seguita da
Giuliano.[27] 3)
La servitù prediale inerisce al suolo e non può avere efficacia la
limitazione della servitù alla superficie. Il pretore però per via di exceptio
tutela la forma della servitù così come fu costituita.[28] 4)
Pel ius civile non si può trasferire la proprietà del suolo
senza la superficie; ma il pretore, mediante exceptio, rende
tuttavia efficace la limitazione convenuta nel trasferimento.[29]
5)
Pel ius civile non si può costituire una servitù di acquedotto
o di presa dacqua ex rivo; dacché essa deve costituirsi a
capite. Ma se la costituzione di una simile servitù è fatta per
via di pactio e stipulatio, il pretore la protegge,[30]
come avviene nel caso esposto sotto il n. 2. 6)
Non è ammissibile iure civili la costituzione dell usufrutto
di una servitù prediale, la quale per sua natura è inerente ai predii.
Ma anche qui viene in soccorso il diritto onorario che rende possibile
la servitù con vari mezzi, attuando la volontà delle parti o del
testatore.[31] 7)
Se esiste un negozio bilaterale, es. una compravendita, di cui le
obbligazioni reciproche furono dedotte in stipulazioni, come era uso in
Roma, avvenuta lacceptilatio da una parte si infirma insieme
lobbligazione dellaltra parte. Notevolissima questa decisione di
Giuliano,[32]
la quale è illustrata con una vigorosa e lucida motivazione: acceptilatio
in hac causa non [sua natura] sed potestate conventionis
valet. Invece di sua natura era nel testo probabilmente solemnitate
verborum; e ritengo, inoltre, che i Compilatori soppressero nel
brano pure lexceptio doli. Infatti la stipulatio dellaltra
parte non poteva estinguersi per lacceptilatio della
obbligazione corrispondente, derivata dalla vendita. Le stipulazioni
sono negozi astratti e indipendenti tra loro.[33]
Ma perciò è insigne la decisione e la motivazione di Giuliano,
le quali suppongono che nella acceptilatio di una delle
obbligazioni reciproche è contenuta una convenzione: ut a negotio
discedatur. Questa convenzione implicita doveva esser protetta,
secondo la scuola dei Sabiniani, dal pretore, cioè mediante exceptio.
Dal testo di Labeone, annotato da Paolo e riferito nel fr. 23 D. 46,4 si
potrebbe dedurre che il capo della scuola dei Proculiani non conosceva
ancora questa dottrina. E ovvio per altro che nella nota di Paolo fu
soppressa pure lexceptio doli. Con lunificazione del ius
civile e praetorium leffetto dellestinzione delle due
obbligazioni si ha ipso iure. Se così non fosse, si dovrebbe
dire che qui la giurisprudenza classica fosse pervenuta a riconoscere la
stipulatio e lacceptilatio come negozi causali. Il che
non solo non si può affermare, ma è inoltre contraddetto dallo stesso
Paolo il quale nel fr. 3 D.18,5 nel caso identico opera con lexceptio
doli. 8)
Tenuta ferma la dimostrazione del caso che precede, diviene
intellegibile, malgrado le evidenti interpolazioni, la decisione
definitiva dei giuristi rispetto alla acceptilatio nulla per
vizio di forma. Il problema è discusso da Ulpiano 48 ad Sab. nel
fr. 8pr. D.46,4. Il quale presuppone già che lacceptilatio nulla
abbia il valore di un pactum de non petendo. Così anche Paolo
nel fr. 27 § 9 D.2,14. La stessa decisione è data da Ulpiano nel fr.
19pr. D.46,4, che riporta il caso di una acceptilatio fatta al
debitore non obbligato verbis ma re. Anche qui
il fondamento delle decisioni non può essere che quello espresso da
Giuliano nel fr. 5 D.18,5, cioè che un tale effetto non deriva dallacceptilatio
come atto formale, nullo, bensì potestate conventionis. 9)
Gaio III, 179 propone il seguente problema: dato che sia fatta una novatio
sub condicione, venuta meno la condicio resta integra
certamente la prima obbligazione; ma essa può farsi valere
efficacemente? e Gaio dice: sed videamus, num is qui eo nomine agat
doli mali aut pacti conventi exceptione possit summoveri, quia videtur
inter eos id actum, ut ita ea res peteretur si posterioris stipulationis
exstiterit condicio. Qui è sorprendente la proposta del problema.
Il quale se fu risoluto nel senso negativo, cioè che leccezione non
è opponibile,[34]
nondimeno prova che la giurisprudenza voleva arrivare alle ultime
conseguenze con la teoria già enunciata, cioè che ogni negozio solenne
abbia in sé una convenzione. E quel che è più notevole ancora si è
che Servio, come Gaio riferisce, andava ancora più in là, dando
efficacia immediata alla novatio sub condicione, anche se la
seconda stipulazione fosse nulla sin ab initio. Il fondamento del
dubbio proposto da Gaio e delle decisioni di Servio era ben quello che
andiamo illustrando col nostro esame; vale a dire che nella analisi
degli elementi del negozio solenne se ne era scoperto uno interno, la
volontà delle parti, che in ogni caso avrebbe dovuto produrre in modo
diretto, cioè ipso iure, o almeno indiretto, cioè ope
exceptionis, quelleffetto che le stesse parti avevano avuto di
mira: quia videtur inter eos id actum, ut ita ea res peteretur si
posterioris stipulationis exstiterit condicio. Evidentemente, questa
interpretazione non poteva riferirsi allatto formale, come era stato
dichiarato, ma alla volontà effettiva dei contraenti; tanto è vero che
Servio deduceva la stessa conseguenza nel caso che la novatio fosse
nulla. Anche qui, dunque, la frase id actum si riporta alla
volontà dei contraenti, come abbiamo visto nel fr. 35 § 2 D.44,7
esaminato sopra. Servio, come sappiamo, aveva meritato gli elogi di
Cicerone per la sua potenza ordinatrice e ricostruttrice delle
istituzioni giuridiche. 10)
Connessa con la precedente discussione è quellaltra relativa alla purgatio
morae, che si agita specialmente nel periodo adrianeo ed è
trionfalmente risoluta da Marcello. Dato che il debitore sia in mora
nelladempimento dellobbligazione, se si addiviene tra le parti ad
una novatio sub condicione della stessa obbligazione, in forza di
questa la mora si purga, si estingue immediatamente: in promptu
contradictio est debitorem, cum stipulanti creditori sub condicione
promisit, non videri in solutione hominis cessasse.[35]
Secondo la dottrina di Marcello la purgazione della mora è un effetto
diretto non del negozio solenne della novatio, che essendo
condizionato è ancora imperfetto, ma della convenzione implicita, cioè
potestate conventionis,[36]
che è nellatto solenne. Onde ne segue, che se la condicio vien
meno o per altri motivi la novatio non ha luogo la mora resta
sempre purgata. E se anche la stipulatio novatoria è nulla ab
initio la mora resta purgata.[37]
Questa dottrina oppugnata da Giuliano e da Venuleio[38]
riesce vittoriosa dopo Marcello e fu seguita da tutti i giuristi. 11)
Se la donna ha promesso in dote per mezzo della dictio al figlio
di famiglia, futuro sposo, il credito che ella aveva contro di lui,
quantunque leffetto della dictio sia in suspenso fino
allavverarsi delle nozze, tuttavia essa non potrà agire nel
frattempo de peculio contro il padre. La sua azione, dice
Marcello, exceptione pacti conventi summovebitur. Ma il patto
dovè? Non cè che una risposta: implicito nella solenne dotis
dictio; dunque costituito non solemnitate verborum sed potestate
conventionis. Ed in proposito è da notare il contrasto che appare
tra Labeone e Giavoleno nel fr. 80 D.23,3. Labeone diceva: che se il
debitore della donna ha promesso (per mezzo della dictio) di
pagare il debito suo al futuro sposo, tuttavia la donna potrà nel
frattempo richiedere il suo credito, e che il debitore pagando si libera
dalla dictio fatta allo sposo. Che in questo caso si trattasse
della dictio e non della stipulatio è evidente. La dictio
si perfeziona solo con lavverarsi delle nozze. La stipulatio invece
si perfeziona subito. Nel frattempo la donna, se la promessa fu fatta
con la dictio, ha ancora integro il suo diritto di credito. La
decisione di Labeone era corretta pel ius civile. Ma Giavoleno
nota: falsum est quia ea promissio in pendenti esset, donec obligatio
in ea causa est. E la stessa decisione di Marcello riportata
sopra, ed ha fondamento nella conventio che è implicita nella dictio
fatta dal debitore al futuro sposo. Abbiamo qui, dunque, una seconda
prova che Labeone non conosceva questa dottrina. 12)
La stipulatio esige una forma solenne rigorosa: congruenza dei verba,
domanda precedente del futuro creditore, una dizione ordinata, per cui
la condicio che si vuole apporre deve precedere il contenuto
della obbligazione. Onde se si dice: centum dare spondes, nisi navis
ex Asia venerit? la condizione sarebbe inefficace, supervacua,
perché posta dopo la obbligazione. Ma tuttavia dice il testo di Paolo:[39]
existente condicione locus erit exceptione pacti conventi. Il
patto è dunque contenuto in una proposizione che pel ius civile è
inutile. Il pretore la rende efficace in conformità alla volontà delle
parti. Ed è vano, come fanno i moderni,[40]
arzigogolare con le interpolazioni, e ritenere perciò stesso bizantina
la decisione. La quale, invece, si coordina a tutte le altre finora
esaminate, che discendono in ordine serrato dallesempio e dalla
dottrina di Sabino e Cassio. 13)
Colui che aveva un credito da Tizio, stipula dal servo di questo la
somma dovuta al padrone. Può agire, chiede Gaio, il creditore contro
Tizio facendo valere la causa del credito originario? an exceptione
pacti conventi summoveri [et]
possit [et debeat][41],
quia pactus videatur ne a Titio petat.[42]
Dunque, dalla stipulatio fatta col servo si desume un patto
implicito di non chiedere la somma dal debitore con altra azione. La
distinzione che fa nel seguito del testo Giuliano è esatta, ma non
tocca la saldezza e il fondamento del quesito; il quale fondamento è,
come sappiamo, incrollabile nella nuova dottrina dei negozi solenni.
Nella stipulazione fatta dal creditore col servo è implicita la conventio
di non petere da Tizio. 14)
Leffetto più sorprendente della dottrina in esame si ha nella figura
dello adiectus solutionis causa. Ladiectus non è
titolare dellobbligazione. Lo stipulante indica unaltra persona
che può essere un incapace, cui la prestazione può essere fatta: mihi
aut Titio spondes? Ne segue che non si può stabilire nella persona
delladiectus una diversa prestazione da quella dovuta al
creditore stipulante: veluti mihi decem aut Titio hominem. In
questo caso ladiectio è supervacua, è nulla pel ius
civile. Nondimeno Gaio scrive:[43]
si vero Titio ea res soluta sit, quae in eius persona designata
fuerit, licet ipso iure non liberetur promissor, per exceptionem tamen
defendi possit. Ammetto che il testo sia stato ritoccato dai
Compilatori. In luogo di dicitur dovevano essere citati
nomi di giuristi (Sabino forse); quidem ...si vero (?); possit
è cancellato dal Mommsen. Ma le interpolazioni furono determinate
dalla concentrazione del testo. La dottrina è al coperto da ogni
dubbio. La designazione di unaltra cosa è inutile pel ius civile e
annulla ladiectio, ma è tuttavia efficace per il ius
honorarium. La solenne dichiarazione, dunque, è in parte supervacua;
ma siccome tutta la dichiarazione, nella sottostruttura del negozio
solenne, è una convenzione, essa per il diritto pretorio è resa
efficace integralmente. Nel diritto postclassico, in seguito alla
fusione dei due ordinamenti civile e pretorio, lefficacia della
convenzione è riconosciuta
integralmente secondo il ius civile. La liberazione del debitore
avviene ipso iure anche se egli paga alladiectus laltra
cosa designata. In questo senso fu interpolato il fr. 34 § 2 D.46,3 di
Giuliano: promissor a me liberatur; il fr. 98 § 6 D.46,3 di
Paolo ed altri. Ed erra il Beseler[44]
il quale ha voluto intrudere nel testo di Giuliano e in quello di Gaio
la controversia circa la datio in solutum che si agitò tra le
due scuole di giuristi in Roma. Il sospetto è infondato, ed erronea la
ricostruzione dei testi. Infatti, nella datio in solutum si ha
una prestazione diversa ma accettata dal creditore che ha diritto di
disporre della sua obbligazione. Nelladiectio supervacua,
invece, di cui ci occupiamo, ladiectus non è in
obligatione, quindi non è autorizzato né a ricevere né a
consentire unaltra prestazione. A nessun giurista poteva venire in
mente di considerare i due casi alla stessa stregua e di sostenere la
liberazione ipso iure del debitore, che avesse pagato altra cosa
di quella dovuta a chi secondo il ius civile non era autorizzato
a ricevere la prestazione. La liberazione per exceptionem,
pertanto, aveva per Gaio e per Giuliano fondamento nella nota dottrina
di Sabino e Cassio, che ho illustrato con un numero considerevole di
esempi. Avvicinando
ora ad una ad una tutte le prove e raccogliendo in un fascio i risultati
che ne derivano, ci troviamo nelle mani una mirabile ricostruzione
dommatica dei negozi solenni, la quale in un punto centrale coincide con
quella dei negozi iuris gentium. Tutti i negozi, cioè, siano
solenni o non solenni, hanno fondamento nella convenzione. La quale
genera sempre i suoi effetti giuridici nei modi e nei limiti voluti
dalle parti, in forza della volontà delle parti. Se la convenzione è
rivestita di forma solenne, essa opera nel campo del ius civile.
Ma se anche il suo contenuto non è riconosciuto dal ius civile e
se anche la convenzione sia solo in parte nulla per il ius civile,
nondimeno essa deve essere attuata integralmente dalle parti con
lausilio del pretore. La convenzione, in altri termini, è un
elemento naturale di qualsiasi negozio, che seppure non è efficace nel ius
civile, è tutelata dal ius honorarium. Ciò esige laequum
et bonum, che deve essere attuato anche contro la ratio del ius
civile per il noto principio: civilis ratio naturalia iura
corrumpere non potest.[45] Gli
effetti di questa nuova costruzione dommatica del negozio solenne sono
di una grande importanza. In particolare: in essa noi rinveniamo il
punto di partenza dello scrollamento di tutte le forme solenni romane le
quali sono bensì mantenute intatte, ma come vestimenti delle
convenzioni, non più come forze generatrici per se stesse degli effetti
giuridici, secondo la tradizione del ius antiquum. In
secondo luogo: la convenzione, conferendo a tutti i negozi una medesima
struttura interna, veniva a costituire il punto di base per il
pareggiamento di tutti i negozi, reali e obbligatori, solenni e iuris
gentium. La differenza era ormai soltanto esteriore, costituita
dalle forme verbali; cadute queste, il pareggiamento, anzi
lunificazione sarà completa. In
terzo luogo: ius civile, ius gentium e ius honorarium trovavano
nella conventio un elemento comune, regolato da ciascuno dei tre
ordinamenti con norme diverse ma dirette in ogni caso ad attuare il
contenuto integralmente. Onde, sparite le differenze dei tre ordini nel
diritto postclassico, le convenzioni vennero ad avere per se stesse
piena efficienza giuridica. Cospicuo lesempio delle limitazioni di
tempo e di condizioni non ammesse in alcuni negozi solenni, per esempio
nel trasferimento della proprietà, nella costituzioni di servitù; le
quali limitazioni, rese efficaci dal pretore per via di eccezioni,
operano nel nuovo diritto ipso iure. Questa frase è nella
maggior parte dei casi interpolata nel Corpus iuris, e segna
lavvenuta unificazione del ius civile e praetorium.
Ora si rende intellegibile tutta levoluzione del diritto romano,
determinata dallelaborazione scientifica della giurisprudenza
classica, la quale con lanalisi degli elementi naturali dei negozi
veniva preparando la nuova dommatica del diritto. Nel punto centrale che
abbiamo esaminato il movimento dottrinario sinizia allepoca di
Cicerone, ma apparisce più rapido da Sabino allepoca adrianea. I
Sabiniani vi portarono il massimo contributo. Labeone, come abbiamo
visto in due punti, non conosce il nuovo indirizzo. Perciò noi troviamo
in Giuliano lespressione più precisa del nuovo domma, nel fr. 5pr.
D.18,5 che attribuisce allacceptilatio un effetto
notevolissimo: non <solemnitate verborum> sed
potestate conventionis. Ed in Pomponio rinveniamo una formulazione
teorica notevolissima, che per quanto sia stata rovinata dai
Compilatori, può essere ora intelletta con maggiore approssimazione.
Nei libri ad Sab. fr. 27 R.J. Pomponio scriveva: Nec ex
praetorio nec ex solenni iure privatorum conventionum quicquam
immutandum est, quamvis obligationum causae pactione possint immutari [et
ipso iure et] per pacti conventi exceptione. Che
le causae obligationum possano
essere mutate da convenzioni ipso iure è contraddetto
dalla massima iniziale del testo e dagli esempi esaminati sopra. La
frase ipso iure è perciò anche qui interpolata.[46]
Vero è, invece, che le causae obligationum del ius civile possono
mutarsi solo indirettamente mercè le convenzioni, che formano la
sottostruttura dei negozi solenni, le quali sono tutelate dal pretore per
pacti conventi exceptionem. La stessa frase: exceptio pacti
conventi ritorna in quasi tutti gli esempi sopra esaminati. E tutti
gli esempi illustrano la verità contenuta nel testo di Pomponio. La
giurisprudenza romana aveva con questa mirabile nozione del negozio
solenne aperto una via consolare nel territorio del diritto.
Riconoscendo la piena efficacia, comunque attuata, delle convenzioni
poneva su di uno stesso fondamento il diritto quiritario e il ius
gentium; lo poneva su di un elemento naturale, che è nella vita
lenergia prima di tutte le azioni umane, e perciò immutabile e
indistruttibile. Il diritto ora parla un linguaggio universale, e può
per tutte le vie diffondersi nel mondo. Se la prima spinta a questa
costruzione dommatica dei negozi lebbero i Romani dalla sapienza
greca, non si diminuisce perciò la gloria dei giureconsulti di Roma e
del pretore romano. Dalla materia grezza offerta dai Greci, i giuristi
romani seppero con costanza e precisione latina osservare giorno per
giorno i fatti della vita, investigare il rapporto tra lessenza e la
forma degli atti giuridici, e senza nulla rimuovere della tradizione del
diritto antico, coordinare, equilibrare le nuove esperienze con la
tradizione, in modo da raggiungere la valutazione più perfetta, più
reale degli atti umani nel campo del diritto. Il pretore romano segue il
movimento della dottrina e ne mette subito i risultati in esperimento
con tutti i mezzi che sono a sua disposizione. Noi abbiamo osservato nei
casi esaminati questa mirabile armonia tra lopera della
giurisprudenza e quella del pretore; il quale, come ora ho dimostrato
più chiaramente, non trae soltanto dalle consuetudini e dalla pratica
della vita la spinta alla sua attività, ma anche dalla elaborazione
dottrinaria dei giuristi, e insieme ad essi collabora alla formazione
del nuovo diritto e della dommatica giuridica. In questa collaborazione
sta tutta la forza del progresso incessante e rapido del diritto romano,
in essa è il segreto della evoluzione lenta ma sicura del diritto
romano. I
punti essenziali della dottrina esposta, di cui abbiamo visto linizio
e il progressivo sviluppo, furono composti in una sintesi definitiva
dalla stessa giurisprudenza classica nellepoca adrianea. Questo è e
devessere il punto culminante della nostra indagine; il punto cioè
in cui la teoria generale dei negozi giuridici ci appare rappresentata
dai giuristi con unampiezza maestosa elaborata in tutti i particolari
e in tutte le direzioni. Certo qui ci troviamo di fronte a difficoltà
asprissime. La teoria era formulata ed esposta nelle opere di ius
civile, perché essa aveva come centro di irradiazione il ius
civile. Ma essendo tutte le figure del diritto nazionale
romano scomparse nel diritto giustinianeo, o almeno essendo state
alterate profondamente, il riconoscimento della dottrina non è agevole,
dovendosi ricostruire dai testi scomposti, frantumati e rifatti da
Giustiniano. Perciò la scienza contemporanea non sa nulla di tutta
questa mirabile opera della giurisprudenza. Essa anzi si è preclusa la
via a scoprirla e a intenderla, per i metodi superficiali dindagine
che usa, e che lhanno condotta a ricercare
la luce dove sono le tenebre, nel periodo bizantino, che non
aveva né potenza né occasione di creare nulla. Infatti la ricchezza
della tradizione romana era così immensa che non solo gli immediati
successori, dopo Diocleziano, ma tutte le genti della terra
successivamente poterono averne larga parte, vivere di essa, largamente,
avendone pur abbandonato
tutti gli elementi superflui, che avevano compiuto la loro funzione
storica nella formazione del diritto. Dei
passi che intendo qui utilizzare, e sono appena una mezza dozzina, tre
si ritrovano riuniti nel titolo D. de obligationibus et actionibus
44,7, che è il titolo più ricco di dottrine giuridiche che esista nel Corpus
iuris; titolo composto dai Compilatori con una selezione di
estratti, per lo più brevi, da opere teoriche. Il titolo appare
destinato a costituire una introduzione generale alla materia delle
obbligazioni, che fu sempre e giustamente considerata il capolavoro
della giurisprudenza romana. Non è qui il luogo opportuno di far la
critica dei passi e di tentarne la ricostruzione, di cui potrò
occuparmi altra volta. Quel che occorre al nostro scopo è di mettere in
evidenza il contenuto originario dei passi e far rivivere la dottrina
che in essi era esposta. E per altro, rispetto alla critica devo
aggiungere: in primo luogo, che i criteri direttive e le prove furono
abbondantemente forniti nella esposizione che precede, dove la graduale
formazione della dottrina fu messa in grande rilievo; in secondo luogo,
che io riconosco anche qui i difetti dei testi, che sono evidenti, ma li
ritengo causati dalla necessità in cui si trovarono i Compilatori di
dover sopprimere dalle dette leggi la menzione dei negozi solenni
romani: mancipatio, in iure cessio, dotis dictio, litterarum
obligatio, e conseguentemente dalla necessità di concentrare il
dettato a quello che era sostanziale. I testi perciò sono veridici
nella sostanza. La soppressione delle forme solenni romane è, poi, un
fatto così ovvio, così largamente constatato e documentato dai
confronti che possiamo fare con i residui della giurisprudenza classica
a noi pervenuti fuori del Corpus iuris, che non abbisogna ogni
volta di particolare dimostrazione. Con queste avvertenza passiamo
allesame dei passi, seguendo non lordine cronologico che ora più
non ci serve, ma lordine logico e dommatico in cui la dottrina
assumerà maggior rilievo. 1)
Il primo testo*
appartiene a Iavolenus, estratto dal l. XII epist. Sinizia con
la frase: in omnibus rebus, quae dominium transferunt. Ma è
certo che al posto dove si legge quella frase sciatta il giurista faceva
menzione della mancipatio, della in iure cessio e della traditio,
cioè delle tre forme proprie del trasferimento del dominio. Il
riferimento medesimo è confermato dalla frase che segue più oltre: sive
ea venditio, sive donatio sive conductio (!) sive qualibet alia
causa, che è da confrontare con Gai II,8: sive venditionis causa
sive ex donationis sive quavis alia ex causa. Si tratta di forme
astratte, che servono per qualsiasi causa onde quella enumerazione è
stereotipa.[47]
Quae dominium transferunt è dizione insospettabile: cfr. V.F.
263 Papin.: dominium transtulit; C.I.L. X,318: ius per
venditionem transferri.[48]
Se i moderni vogliono ripudiarla è perché operano col criterio fallace
della statistica applicata ai vocaboli e ai modi di dire. In ogni caso,
però, quellelemento è fondamentale nel testo dacché sta a
distinguere la mancipatio del commercio da quella che è mera
forma, dicis causa,[49]
per atti nellambito del diritto delle persone, di famiglia e
testamentario. La dottrina romana, elaborando la categoria dei negozi
giuridici che servono al commercio dei beni, dovette distinguere
nettamente la mancipatio adibita a questo fine che aveva assunto
nella sottostruttura tutti gli elementi del negotium iuris gentium,
dalla mancipatio che è mera formalità, apparenza, come nella coemptio,[50]
nella mancipatio familiae e così via. Il testo dice, dunque, che
nei negozi solenni, che servono al trasferimento del dominio si esige
laccordo delle volontà, adfectus, animus utriusque. La stessa
frase ritorna nei fr. 5pr. D.18,5: voluntas utriusque; 137 § 1
D.45,1 utriusque consensus, cioè nei testi che sono fondamentali
per la nuova dottrina. Queste espressioni possono essere spurie nella
forma ma non per la sostanza. I Compilatori hanno se mai inteso il
bisogno di abbreviare la solita dizione romana, che era realistica e
prolissa. I Romani non usano la parola contrahentes ma
invece per la mancipatio o in iure cessio indicano con
precisione latto che ognuno compie: is qui rem mancipio dat et is
qui eam accepit; is
qui rem in iure cedit et is qui eam accepit. Ma giustificate le
alterazioni formali del testo non cè nessun serio motivo per
respingere la dottrina; la quale insegna
che i negozi solenni adibiti per il trasferimento del dominio
esigono pure laccordo delle volontà. Ciò è confermato, come
sappiamo, dallaffermazione teorica di Paolo, fatta per la stipulatio
e per il mutuo nel fr. 3 §§ 1-2 del medesimo titolo (44,7). 2)
A breve distanza dal testo esaminato segue Pomponius l. 36 ad
Q.Mucium, fr. 57 D.44,7. Il testo sinizia con la enunciazione: In
omnibus negotiis contrahendis, sive bona fide sint sive non sint. La
dizione negotium bonae fidei non è classica.[51]
La designazione negativa, poi, sive non sint è affatto estranea
alluso classico. Ma evidentemente vuol designare i negotia iuris
civilis, solemnia, che dovevano essere, se non elencati,
esemplificati nel testo. I Compilatori non avevano bisogno di riprodurre
elenchi o esempi, perché la categoria dei negozi solenni era scomparsa,
e la stipulatio sopravvissuta si era pareggiata nella sua
struttura ai negozi iuris gentium. Perciò essi usano frasi
generiche, anche assurde: in omnibus rebus (fr. 55), in
omnibus negotiis (fr. 57). La categoria dei negozi del commercio,
scomparse le forme solenni, è ora una sola quanto alla struttura. Detto
ciò, nessuna ragione abbiamo di infirmare il principio che enuncia il
testo, cioè: si error aliquis intervenit...nihil valet, quod acti
sit. Gli esempi illustrativi che si leggono nel mezzo del passo sono
naturalmente interpolati, in luogo di mancipatio, in iure cessio,
stipulatio etc. Il contenuto del testo coincide per altro con quello
di Venuleio 137 § 1 D.45,1 ego de alio sensero, tu de alio riferentesi
alla stipulatio. E anche nel nostro si legge la frase: aliud
sentiat qui...aliud qui... che non deve essere sospettata. La
nullità per il dissenso in corpore è accertata in tutti i
negozi solenni: fr. 36 D.41,1 Iulianus. 3)
Precede i testi esaminati, sempre nello stesso titolo, un estratto dal
l. 5 Regul. di Modestinus, che riguarda il grave problema dei
negozi simulati. Il testo, ridotto ad un misero troncone, può essere
riportato: 54
D.44,7 Contractus imaginarii etiam in emptionibus iuris vinculum non
optinent, cum fides facti simulatur non intercedente veritate. La
materia della simulazione negli atti giuridici è stata di recente
sottoposta ad un rigoroso esame dal Partsch.[52]
Io sono ben lontano dalle conclusioni dellillustre amico e collega di
Berlino. Il quale esclude che i giuristi romani avessero mai affermato
la nullità del negozio simulato e che avessero potuto riferire le voci
simulatio, simulare ad una convenzione
fittizia, apparente, voluta come tale dalle due parti. Con queste
premesse affronta la critica del testo e rifiutandone una buona metà lo
riduce al seguente periodo: Contractus imaginarii in emptionibus
iuris vinculum non optinent. Una
simile ricostruzione deve molto sorprendere. Modestino in unopera
teorica ed elementare impostata con ampiezza avrebbe enunciato soltanto
una cosa così banale: che lemptio, cioè un contratto
consensuale, è nulla se simulata. A ciò si deve oppore che Modestino
è un giurista del sec. III, lultimo dei giureconsulti romano, e che
egli aveva nelle opere dei suoi maestri e dei predecessori ben altri
elementi sul proposito. Il Partsch espunge etiam dal testo
perché incomodo. Cancella la motivazione. Nota che la mancipatio è
detta già da Gaio imaginaria venditio, onde con la stessa frase
non si sarebbe potuto indicare latto simulato della mancipatio,
la vendita senza prezzo. Questultima osservazione appare grave, a
prima vista; ma si riduce a nulla. Ed invero laggettivo imaginaria
etimologicamente e costantemente vale fittizia, apparente,
rappresentazione esteriore
cui non corrisponde la realtà. In origine tutti gli elementi della mancipatio
rappresentavano la realtà (Gai I,122); in seguito divennero rito
dellatto solenne; e la mancipatio potè essere applicata anche
a nuovi usi. Dallatto solenne seguono gli effetti iure civili,
come se si fosse compiuta la venditio, la solutio, la
deduzione in servitù, il matrimonio, che potevano anche non esistere
nella realtà. Imaginaria perciò è detta la venditio, la
solutio, la causa servilis;[53]
cioè la causa è fittizia. In questo primo momento la struttura della mancipatio
è unica, uguale in tutti i casi. Ma il progresso dellanalisi
compiuto ulteriormente dalla giurisprudenza portò alla distinzione tra
negozi dicis causa nei quali il rito è tutto; e tra negozi
del ius commercii, nei quali si richiese inoltre una conventio
che deve essere reale qualunque essa sia: così nella mancipatio (fr.
55 D.44,7), così nella acceptilatio (fr. 5pr. D.18,5). La
dottrina moderna ignora del tutto questa distinzione.[54]
Onde il Partsch ha voluto considerare la struttura della mancipatio come
unica, dallesterno e dallinterno, nei negozi dicis causa e
in quelli del commercio. Invece, in quelli dicis causa, come ho
detto, è vero che il rito è tutto, e leffetto giuridico segue
attraverso una finzione, or dello stato servile del figlio, che si vuole
emancipare, or di un matrimonio che non è voluto dalle parti, e così
via. Ma questa non è più la struttura classica della mancipatio usata
pel commercio dei beni. In questa, se la causa è fittizia (venditio)
ci devesse nella realtà una causa vera, se no tutto latto è
dichiarato fittizio: imaginarius. E assurdo pensare la
persistenza dellarcaica struttura della solennità della mancipatio
accanto al progresso della teoria del negozio ed allo sviluppo del ius
gentium. Come si è visto nel fr. 55 di Giavoleno, la giurisprudenza
richiese in questa categoria di atti solenni una convenzione rispondente
ad una causa qualsiasi, ma vera. Se è così si spiega che la parola imaginarius
potè indicare latto per sé stesso come fittizio, nel significato
etimologico, che è nullo nel commercio dei beni. Qui è la mancipatio
imaginaria che è nulla, adoperata per il trasferimento del dominio
o per la costituzione di diritti reali, senza la volontà effettiva di
volere quel risultato. Il testo in esame parla di contractus.
Siccome la mancipatio e la in iure cessio non furono detti
contractus io ritengo che la voce fu surrogata ad actus.
Ed actus [55]
imaginarii vale per ciò atti fittizi, apparenti; nello stesso
significato che la frase acta simulata, più tardi, nel
linguaggio di Diocleziano: c. 2 C.I. 4,22. Ed allora acquista rilievo
nel nostro passo la voce etiam che si è voluta espungere,
mentre serviva a includere nella regola i negozi solenni. Per quelli iuris
gentium il principio era sicuro. Se non cè la volonta di
vendere, di locare manca il prezzo e non esiste né vendita né locatio.[56]
Si distingue divortium verum da simulatum, a secondo la
verità.[57]
Il significato etimologico di simulatio da similis
[58]
coincide con quello di imaginarius. E quel che è simile
nellapparenza, senza che vi corrisponda la verità. Il significato di
frode, inganno è conseguenziale. I classici ladoperano spesso nel
senso etimologico. Cic., natura deorum II,168: sive ex animo
fit, sive simulate, cioè nellapparenza, contro il volere; Lael.
92: omnium rerum simulatio vitiosa est...delet enim veritatem. In
questi esempi il contrapposto è tra simulatio e veritas;
apparenza e volontà. Il concetto di dolo non è essenziale. Nelle
nostre fonti giuridiche si contrappone pure a veritas. Così nel
fr. in esame: simulatur...veritate; cfr. c. 1,2 C.I. 4,22; fr. 64
D.24,1. Stabilito così che imaginarius e simulatus si
contrappongono a veritas, le interpolazioni dei testi non possono
infirmare la dottrina che appare in grande rilievo nel Corpus iuris,
cioè che il negozio simulato è nullo anche se solenne. La ragione,
pertanto, della interpolazione del testo in esame sta anche qui nella
necessità in cui si trovarono i Compilatori di cancellare la menzione
dei negozi solenni. Anche la frase solemnitas actus doveva
essere nel passo mutata da Triboniano nella frase fides facti,
che dice nulla. Il Mommsen propone di sostituire a fides la voce species
che dice ancor meno. Ho naturalmente ritegno a ricostruire il testo,
perché ciò non è possibile. Ma la linea generale della sua struttura
originaria si può segnare; e qui è utile farlo quocumque modo
per mostrare che i Compilatori non lo ampliarono, come pretende il
Partsch, ma lo mutilarono gravemente, per le ragioni che ho dette. Con
questi avvertimenti il testo di Modestino possiamo supporlo del seguente
tenore: <Actus>
imaginarii, etiam in <mancipationibus et in iure cessionibus ...nihil
valent, sicut in stipulationibus, quae> iuris vinculum non optinent,
cum <solemnitas actus> simulatur <contra fidem> veritatis. Quel
che è rimarchevole si è che il testo dei Digesti conserva tutti gli
elementi essenziali delloriginale: imaginarii, non optinent,
simulatur, veritate. Così operano, per lo più i Compilatori; i
quali traggono dalle leggi il troppo e il vano. Le forme e le
distinzioni dei negozi erano ormai vane. La categoria dei negozi era
divenuta unica, avente unica struttura. E nel testo dei Digesti la
massima è quella stessa originale, che latto simulato nel commercio
fatta astrazione quindi di quelli dicis causa è nullo.
Or il valore e la forza del mio ragionamento non sta certamente nella
ricostruzione del testo, che come qualsiasi ricostruzione è sempre
congetturale; sta bensì nella base salda che la dimostrazione ha nei
fr. 55 e 57 di Giavoleno e di Pomponio, sopra esaminati. I tre passi
sono coordinati tra loro, e stanno in un rapporto di dipendenza
strettissimo. Nella forma originaria che avevano, i tre passi
contenevano gli stessi elenchi di negozi solenni, e norme di diritto
importanti concernenti i medesimi. Perciò li ritroviamo riuniti pure
nei Digesti. Le norme le conosciamo. Il negozio solenne del commercio
presuppone la volontà delle parti; se cè dissenso è nullo; se
cè errore è nullo; se la volontà non è effettiva è nullo. La
causa può essere una qualsiasi, ma devessere vera. Anche questo
elemento della causa verrà subito in esame e darà la conferma
definitiva alla dottrina che vado disegnando. Se si prova che nella
giurisprudenza adrianea cominciò a prevalere lopinione che per
lefficacia della mancipatio si richiedeva, oltre che
laccordo sulla cosa, anche laccordo sulla causa, è evidente che
per il negozio simulato non ci sarà alcun posto. Per
la stipulatio, per altro, la dottrina era già stata enunciata
fin da Varrone. La volontà deve essere seria e reale per produrre
effetti giuridici. Così anche Paolo nel fr. 3 § 2 D.44,7. Dobbiamo
ritenere che la struttura del negozio iuris gentium abbia
influito prima sulla stipulatio, che fu riconosciuta iuris
gentium. Indi linfluenza si propagò agli altri negozi del
diritto quiritario. Sarebbe stato inconcepibile, infatti, applicare ai
peregrini il principio: uti lingua nuncupassit ita ius esto,
senza considerazione dellerrore, della simulazione e così via. Il
progresso del diritto romano trova la sua più ovvia spiegazione, in
ogni senso, nella graduale penetrazione degli elementi naturali dei
negozi sul ius civile. Lanalisi degli elementi naturali
sera dapprima approfondita nellambito dei negozi del ius
gentium. Qui cè dunque un potente influsso del ius gentium sul
ius civile. Se
è così, le conclusioni cui è pervenuto finora il Partsch sono
inattendibili. Il Parstch opera con i concetti arcaici del ius civile.
Il metodo della dimostrazione desta serie preoccupazioni. Egli nega ogni
valore al testo di Varrone, che è pur confermato dai giuristi classici.
La importante dottrina di Aristotele nel celebre testo Eth. Nic. VI,2
(1139), più volte citato, secondo la quale lintelligenza attiva vale
se congiunta alla verità,[59]
avrebbe esercitato, afferma il Partsch, il suo influsso sulla teologia e
sulla dommatica giuridica soltanto nel periodo bizantino. Al contrario
noi abbiamo constatato che la congruenza della volontà alla verità è
già affermata da Varrone nel campo del diritto, e che nei testi
ciceroniani e in quelli giuridici latto simulatus, imaginarius
si determina per la non rispondenza alla verità. La diffusione
della dottrina aristotelica nel mondo romano fu quanto mai larga. Cic.
or. 3,24: qui tamquam ab animo corpus, sic sententias verbis
seiungunt; Lucr. 3,94: animum dico, mentem quam saepe vocamus, in
quo consilium vitae regimenque locatum est; cfr. 3,138; Sallust., Cat.
1,2: animi imperio, corporis servitio utimur. Che la volontà sia
preminente sullazione, dice Aristotele nello stesso luogo: Dianoia
... auth gar kai thj poietikhj arcei; e la stessa dottrina è seguita da
Celso nel fr. 7 § 2 D.33,10 sopra esaminato: mens prior atque
potentior est quam vox. Queste coincidenze, che è bene tener
presente, dimostrano che non era riserbato ai Bizantini di scoprire
Aristotele e di applicarne le dottrine alla dommatica giuridica. 4)
La dottrina che la conventio è elemento interno, ma
essenziale, in tutti i negozi solenni è infine formulata da S. Pedio in
una forma che Ulpiano dice elegante. Pedio vive nellepoca adrianea,
più giovane forse di Giuliano,[60]
come si deve ritenere ora pel contributo che egli portò, dopo Giavoleno,
alla nostra dottrina. Fu certamente giurista acuto e dotato di speciale
potenza di sintesi.[61]
Secondo il testo riportato nei Digesti[62]
la elegante definizione di
Pedio diceva: nullum esse contractum nullam obligationem, quae non
habeat in se conventionem. Nel testo segue il solo esempio della stipulatio.
Il passo è stupido, appunto per il riferimento al contractus e
allobligatio. La critica moderna lha quindi gettato nel
cestino. Ma se noi, seguendo il nostro metodo, riponiamo in quel luogo
la menzione dei negozi solenni, il testo si ravviva e diviene una delle
perle più preziose del Corpus iuris, per la conoscenza dello
sviluppo della dommatica. Che si debba rianimare rimettendovi al posto
la menzione di tutti i negozi solenni ora
non può essere più dubbio. La definizione di Pedio si coordina con gli
elementi di analisi che già avevano fissati i giuristi anteriori, nei
passi sopra esaminati. Si coordina alla frase di Giuliano rispetto alla acceptilatio
nel fr. 5pr. D.18,5, cui è attribuito un effetto ulteriore: potestate
conventionis. Il confronto fu fatto dal Cuiacio, che non aveva a sua
disposizione i terribili mezzi distruttivi dei moderni, ma conosceva
meglio di noi moderni il Corpus
iuris. Il Cuiacio rileva limportanza della massima per la stipulatio,
di cui è fatta espressa menzione nel passo. Noi aggiungiamo al posto di
contractum e obligationem, tutti i negozi solenni: mancipatio,
in iure cessio, dotis dictio, litteris obligatio, stipulatio,
acceptilatio. La eleganza della definizione consiste in ciò, che la
conventio riconosciuta come nomen generale si
riscontra in tutti i negozi del commercio, anche in quelli che si
compiono uno loquente come la in iure cessio, la dotis
dictio; e che la conventio in tutti quei negozi non è
elemento esteriore dellatto solenne, bensì interno come lho
spiegato nella dimostrazione che precede. Questultima constatazione
è espressa nel testo nella frase precisa: quae non habeat in se
conventionem. Se manca la conventio è nulla la mancipatio,
la in iure cessio, la acceptilatio e così di seguito. Se
latto è simulato non cè conventio vera e latto è
nullo. Perciò lerrore che infirma la conventio annulla pure
latto solenne. Metus e dolus non escludono la conventio,
che è bensì vitiosa e perciò oppugnabile
iure praetorio. La frase habere in se è
adoperata nel fr. 21 D.23,3 a proposito della dotis dictio: constat
habere in se condicionem si nuptiae fuerint secutae.[63]
In entrambi i luoghi la frase ha lo stesso significato e la medesima
importanza. La conventio e la condicio sono implicite,
interne, nella struttura del negozio. Né vale cancellare i testi da
capo a fondo, con un tratto di penna, come usa oggi; dacché i testi
più rovinati sono i più preziosi per la conoscenza delle dottrine
classiche. Per lo più essi furono devastati dai Compilatori per
eliminarvi il ricordo delle forme solenni, e sopprimervi dibattiti,
sviluppi, contraddizioni che erano inutili anzi perturbatori
nellopera legislativa. Ma gli elementi che essi riportano sono sempre
da valutare con la massima cura, perché nella maggior parte dei casi
tra le ceneri cè del bel foco vivo. Così la definizione di Pedio
rispetto alla conventio, elemento interno di tutti i negozi
solenni del commercio, segna un mirabile progresso nella dommatica
romana, rivelato da un testo barbaramente devastato dai Compilatori, e
che la critica moderna ha coperto di dispregio. Fermiamoci, per ora, a
questo punto, per considerare linfluenza della causa nel negozio
solenne.
Il punto di partenza è che i negozi solenni sono tutti astratti,
cioè indipendenti dalla causa, la quale può essere una qualsiasi: venditionis,
donationis, dotis e così via. I negozi del ius gentium,
invece, sono tutti causali; la causa è manifesta, elemento costitutivo
del negozio, cui dà il nome: causa
mutui, venditi, locati, mandati e simili. Onde ne segue che
tra i negozi del ius civile e negozi del ius gentium esisteva in origine una
differenza fondamentale. Nei primi la causa non era elemento costitutivo
del negozio; se cera non era appariscente; ma poteva mancare, essere
illecita, essere simulata. Nei secondi ciò non poteva accadere, perché
la causa era chiara ed elemento costitutivo del negozio, come si
manifesta naturalmente nel mondo degli affari. Per la validità del
negozio, pertanto, la causa non veniva in considerazione
nei negozi solenni, mentre in quelli iuris gentium era
essenziale. Questo contrasto tra le due categoria di negozi non restò
inalterato. E proprio nello stesso momento storico in cui la teoria
della conventio, elemento generale di tutti i negozi, si afferma
che la giurisprudenza pone in campo il problema della causa nei negozi
solenni. Il dibattito si manifesta in un passo di Giuliano:
fr. 36 D.41,1 Cum in corpus quidem quod traditur consentiamus,
in causis vero dissentiamus, non animadverto cur inefficax sit traditio.
Il testo di riferiva alla mancipatio.[64]
E certo che Giuliano combatteva una dottrina contraria, la quale
affermava che nella mancipatio fosse necessaria per la sua
efficacia laccordo pure sulla causa. Questa dottrina non ci reca ora
alcuna sorpresa. Dacché, se Giavoleno, maestro di Giuliano, aveva
proclamato necessario laccordo delle volontà per il trasferimento
del dominio per mezzo della mancipatio e della in iure cessio,
è ovvio che tale accordo doveva riguardare in primo luogo loggetto
del negozio e insieme la causa del trasferimento. Questo si desume senza
grande sforzo dal fr. 55 di Giavoleno D.44,7 sopra esaminato, in cui
alla enumerazione della cause venditionis, donationis etc. segue:
nisi animus utriusque consentit. Il riferimento del consenso alla
causa è dunque immediato. Giuliano ammette che ci debba essere il
consenso rispetto alloggetto, ma lo nega a riguardo della causa. La
trattazione giulianea è fatta con accento polemico, ed è vigorosa.
Egli oppone infatti che ai fini del trasferimento del dominio
laccordo sulla causa non è essenziale, nemmeno nel ius gentium,
essendo sufficiente la volontà di dare da una parte e di ricevere la
cosa dallaltra. Un contratto, riteneva certamente Giuliano, non può
nascere in siffatte condizioni,[65]
ma il dominio passa. Questa era la tradizione giuridica che è seguita
ancora da Aristone e da Pomponio.[66]
Essa era tuttavia investita in pieno dalla
nuova dottrina di Giavoleno, formulata poi con eleganza da Pedio,
per cui in qualsiasi negozio, reale o obbligatorio, si esige una conventio.
La quale ovviamente deve riguardare tutti gli elementi naturali del
negozio, in primo luogo loggetto e la causa, i quali nella
trattazione di qualsiasi affare nel commercio sono inscindibili. Onde la
nuova dottrina prevale subito nella giurisprudenza come è attestato da
un passo di Ulpiano disput. 18 D.12,1, dove è citato Giuliano ed
esaminato lo stesso caso. Il fr. 18 è certo interpolato; ma
lalterazione fu determinata, come al solito, per eliminare
dallopera legislativa la controversia. Il periodo: magisque nummos
accipientis non fieri, cum alia opinione acceperit, è
sostanzialmente genuino,
contiene la decisione ulpianea. Il magis è indizio, quando è
genuino, di un progresso compiuto dalla giurisprudenza su di un punto di
diritto controverso. E la soluzione definitiva nel senso indicato da
Ulpiano è accertata poi in un testo fondamentale di Paolo, accolto nei
Digesti:
31pr. D.41,1 Numquam nuda traditio transfert dominium, sed ita,
si venditio aut aliqua iusta causa praecesserit, propter quam traditio
sequeretur.
Anche questo testo fu mutilato dai Compilatori. I quali vi
eliminarono la mancipatio e la in iure cessio,[67]
e la solita, complessa designazione delle causae transferendi dominii.
Ma la dottrina è sicura. Essa deriva organicamente, dalla analisi del
problema fatta da Giavoleno che noi conosciamo dal fr. 55 D.44,7. La
coincidenza tra i due testi non si può disconoscere, ed ora dovrebbe
essere manifesta.
Nellacceptilatio rinveniamo un altro esempio della
nuova dottrina, nel fr. 14 D.46,4, che è dello stesso Paolo. Il passo
è certamente interpolato.[68]
Ma questo fatto non è decisivo per lattribuzione della dottrina ai
Compilatori. Secondo me, la interpolazione fu determinata dalla
necessità di concentrare il testo, che conteneva forse indicazioni
sullo sviluppo giurisprudenziale. La decisione intanto è notevole. Essa
dice: nisi verum est, quod in acceptilatione demonstratur imperfecta
est. La causa, dunque, deve essere vera non fittizia.
Questultimo passo compiuto dalla giurisprudenza verso il
pareggiamento dei negozi solenni e iuris gentium non sorprende,
ed era conseguenziale. Il
contrasto tra le due categorie di negozi si attenuava ogni giorno.
Riconosciuta come essenziale in tutti i negozi la conventio,
anche la causa, elemento naturale di qualsiasi affare,
doveva penetrare nella complessione del negozio solenne, almeno come
requisito interno. Si ricordi che la conventio era pure un
requisito interno. Ma intanto il pareggiamento dei negozi solenni a
quelli iuris gentium era in gran parte compiuto. La struttura
interna era ormai identica. Lunico segno di distinzione era nella
forma. Ed ora comprendiamo bene tutto lo sviluppo ulteriore. La
giurisprudenza, con la considerazione degli elementi naturali dei
negozi, veniva travolgendo la legge e il dominio inesorabile
della parola. La voce e le forme servono ora solo a dar veste
alla sostanza. Il riconoscimento degli elementi naturali simpone
sempre più, scompiglia la compagine della tradizione del ius civile,
o meglio la dissolve e la ricompone con nuovi elementi. La
giurisprudenza procede cauta, si serve dellesperienza su di un
immenso materiale osservato con incomparabile acutezza e semplicità di
mezzi. La giurisprudenza giunge a dare corpo e sostanza alla scienza del
diritto con la scienza della vita.
LA VOLUNTAS NEGLI ISTITUTI DEL IUS GENTIUMIl
ius gentium di regola è libero da forme solenni. In esso la
volontà si manifesta naturalmente; ed è lenergia che produce in
modo diretto, per sé sola o accompagnata da atti materiali, tutti gli
effetti giuridici. Perciò ho espresso anche lopinione, che la stipulatio
dovette, prima in ordine di tempo, subire linfluenza del ius
gentium dal momento in cui essa fu resa possibile ai peregrini.
Appena iniziatasi lelaborazione scientifica del diritto si dovette
riconoscere anche per la stipulatio la necessità del consensus
utriusque, donde poi si propagò a tutti i negozi del ius
solemne. Comunque sia di ciò, laffermazione che la volontà è
la generatrice di tutti gli effetti nel territorio del ius gentium è
così ovvia che non avrebbe bisogno di alcuna dimostrazione. Ma la
critica moderna, sorpassando ogni limite ragionevole, è arrivata a
investire pure limportanza della volontà negli istituti del ius
gentium. La cosa sembra incredibile, ma è così. Si è intrapresa
una caccia spietata specialmente alla parola animus, specie
se unita a un participio o a
un gerundio, ritenuta dappertutto, o almeno nel maggior numero dei casi,
introdotta nei testi dai Compilatori sotto linflusso della pratica
orientale e della dommatica bizantina. Il leader di questo indirizzo è
il Partsch,[1]
uno dei più insigni scrittori del nostro tempo. Il Pringsheim[2]
vi ha portato il contributo di notevoli studi per ricchezza di elementi
raccolti. Il Collinet[3]
in Francia, il Rotondi[4]
e specialmente lAlbertario[5]
in Italia seguono con fervore siffatto indirizzo, che per altro in pochi
anni si è propagato rapidamente e acquista ogni giorno credito presso i
romanisti.[6]
Soltanto lo stato così anormale in cui trovasi la nostra scienza
mimpone il dovere di indugiare alquanto su questo problema, creato
dalla critica odierna, senza molta riflessione. Infatti in questo ordine
di indagini cè linconveniente di dover ripetere cose a tutti note
e che io volevo evitare. Perciò faro il possibile per contenere, a
questo riguardo, la trattazione entro i limiti più generali, toccando
solo alcuni punti fondamentali. La causa dellerrore è sempre la
stessa; quella di ritenere che là dove si constati unalterazione del
testo o una sicura interpolazione giustinianea, per ciò stesso ci debba
essere un pensiero o una dottrina bizantina. Io ammetto, spesso
lalterazione e nego la conseguenza. Né ho bisogno ormai, dopo le
esperienze contenute in questo corso, di addurre giustificazioni o una
particolare dimostrazione del mio assunto. Procediamo, dunque, nella
nostra indagine con quella tranquillità che si conviene. Consensus,
voluntas, animus sono nel territorio del ius gentium le forze
dirette cui si riportano tutti gli effetti giuridici. Qui la volontà si
manifesta allo scoperto senza linvolucro delle forme. Per ciò è
riconoscibile a prima vista. E un elemento naturale, che opera nel
diritto con la stessa forza e universalità come opera nella vita. Se il
fenomeno nel campo della psicologia e delle relazioni sociali fu messo
in evidenza dalla filosofia greca, non è men vero che della esperienza
si giovarono i Romani nella elaborazione del ius gentium, che
trae appunto tutti gli elementi dalla vita stessa, cioè dalla condotta
degli uomini, dal loro modo di agire e di sentire. Nel campo degli
affari Gaio 3,89ss. indica come fonte delle obbligazioni il contractus,
di cui distingue quattuor genera e cioè: contractus re,
verbis, litteris, consensu. Nella enumerazione gaiana forse si può
rinvenire un ordine cronologico. Nei contratti re il primo
esempio è costituito dal mutuo, che deriva forse dal nexum, in
seguito allabolizione stabilita dalla lex Poetelia del feroce
diritto decemvirale. Comunque sia di ciò, la struttura del contratto
re e degli altri generi di contratti è ben determinata
nellepoca classica. -
Mutuum. Si perfeziona con la dazione in proprietà di cose
fungibili, da cui nasce lobbligazione da parte dellaccipiente di
restituire cose della stessa natura in un termine stabilito. Essenziale,
senza dubbio, nel mutuo è la consegna della cosa, senza di che tale
negozio non può esistere. Ma la tradizione di cose può essere fatta a
varii fini nella vita; e allora come si distingue per esempio il mutuo
dalla donazione? La sola dazione, è certo, non basta a riconoscere la
natura del negozio. E la dottrina romana determina che lelemento che
distingue luna dallaltra causa risiede nellanimus.
In proposito ci è noto limportante testo di Paolo che la critica
nelle sue scorrerie ha finora ignorato: fr.
3 § 1 D.44,7 Non satis autem est, dantis esse nummos et fieri
accipientis ut obligatio nascatur, sed etiam hoc animo dari et accipi ut
obligatio constituatur. Itaque si quis pecuniam suam donandi causa
dederit mihi, quamquam et donantis fuerit et mea fiat, tamen non
obligabor ei, quia non hoc inter nos actum est. Ho
detto sopra che qui lactum est si riferisce direttamente
allhoc animo dari et accipi. Si tratta di atti che si compiono
senza forme solenni. Latto materiale è identico tanto nel mutuo che
nella donazione. Unico elemento distintivo resta lanimus,
cioè la volontà di colui che dà il denaro e quella dellaccipiente.
E ove a questo passo di Paolo non si voglia accordare tutta
lautorità che esso ha il diritto di avere, col pretesto che Paolo,
come disse Jhering, fu un fanatico costruttore, possiamo rivolgerci al
principe dei romani giureconsulti, a Giuliano, per averne migliore
insegnamento. In un testo folto di interpolazioni e diligentemente
analizzato dai moderni,[7]
si legge un periodo che è un gioiello, rispettato onorevolmente dalla
critica, e che è del seguente tenore: fr.
20 D.12,1 Iul. 18 Dig. Si tibi pecuniam donassem, ut tu mihi eandem
crederes an credita fieret? Dixi donationem non esse quia non ea mente
pecunia daretur ut omnimodo penes accipientem maneret, creditam non esse
quia exsolvendi causa magis daretur, quam alterius obligandi. Dunque,
mutuo o donazione sono determinati dalla volontà del dante e dellaccipiente;
e nella specie non esiste né donazione né mutuo. Per la donazione
manca lanimus donandi, per
il mutuo lanimus alterius obligandi, o come dice Paolo: ut
obligatio constituatur. La frase ea mente è quella che
domina luna e laltra decisione. E pertanto si potrà fare
qualsiasi elenco di interpolazioni con la frase animo donandi,
dacché queste di fronte a nozioni tecniche così chiare e precise non
potranno avere alcuna importanza speciale nella dottrina. Lo stesso
Giuliano nelliniziare la trattazione delle donazioni, ne distingue
varie specie, determinate dalla volontà del donante: fr.
1pr. D.39,5 ... Dat aliquis ea mente ut... § 1 si hac
mente donat sponsus sponsae... Che
questo passo sia pure inquinato da interpolazioni, non è un buon motivo
per svalorare tutti gli elementi che esso contiene. La critica ha fatto
abuso di un tale metodo; col dire, in sostanza, testo interpolato ... ergo
non probante. Ma questargomentazione, comè ovvio, non è
scientifica. E
per altro si possono additare questioni e decisioni pratiche dei
giuristi, dove, se non è fatta espressa menzione di animus, mens,
tuttavia il responso è determinato esclusivamente dalla considerazione
della volontà dellagente. Così Scevola nel fr. 58 § 2 D.24,1
esamina la specie seguente. Un figlio di famiglia amministra i beni
della madre e col denaro di lei consentiente ipsa acquista
beni. Il figlio muore in patria potestate. Ha diritto la madre
a ripetere dal marito, che aveva la patria potestas, quel denaro
ricavato dal figlio amministratore dei suoi beni? Respondit: si mater
obligatum filium in ea pecunia voluit esse...si donavit. Nella
specie proposta a Scevola non cera una convenzione espressa. Il
figlio amministrava e faceva acquisti consentiente matre.
Lesistenza di una obbligazione a restituire il denaro ovvero
lesistenza di una donazione dipende tutta dalla volontà che ebbe la
madre. Anche questa decisione si coordina con precisione alla teoria
espressa da Giuliano e da Paolo nei testi sopra esaminati. Mancando le
forme nei negozi iuris gentium la dazione di cose fungibili può
essere: donazione, mutuo e così via. Decisiva è la volontà di chi dà
quelle cose e di chi le riceve. Non può esservi mutuo se non cè la
volontà ut obligatio constituatur. E lobbligazione che nasce
dalla dazione di cose può essere di varie specie. Può essere di
deposito, di commodato, di pegno, secondo la direzione della volontà
delle parti. -
Verbis. Del contractus verbis non ho nulla da aggiungere,
perché fu trattato ampiamente sopra. Sarà forse utile ricordare che
tra i negozi solenni la stipulatio è designata già da Servio
come contractus stipulationum.[8]
Ma certamente il significato del termine non era allora tecnico. -
Litteris.[9]
Nulla di particolare da dire sul contractus litteris, perché fu
regolarmente espunto dai Compilatori nei testi del Corpus iuris.
Ma lopinione dominante con buon fondamento insegna che
lobbligazione nasceva dalliscrizione di una somma di denaro nel codex
expensi con la volontà del debitore. Che essa presupponeva una conventio
lo sappiamo ora dalla definizione di Pedio riportata nel fr. 1 §
3 D.2,14. -
Consensu. Questa è la più importante categoria dei contratti.
Comprende i negozi più frequenti del commercio e che si perfezionano
col solo consenso. Gai 3,196: Ideo autem istis modis consensu dicimus
obligationis contrahi, quia neque verborum neque scripturae ulla
proprietas desideratur, sed sufficit eos qui negotium gerunt consensisse.
Qui dunque il consenso è caratteristico, e non ha bisogno di altro. La
convenzione genera obbligazioni reciproche, per sé stessa, quando sia
fatta per una causa riconosciuta dal diritto. E
stato detto: se anche nellobligatio re, verbis, litteris si
esige il consensus, allora questa specie ha nulla di
caratteristico, perché lelemento che opera in essa è comune a tutte
le altre figure. Anche il contratto re esige il consenso.
Ma la risposta a questa obiezione è data dallo stesso Gaio, il quale
spiega in maniera elementare, che mentre nelle altre figure oltre il
consenso si desidera un altro elemento: re, verbis, litteris,
in questa sufficit consensisse. Questa spiegazione mi
sembra efficacissima per rafforzare la nozione che abbiamo appreso da
Pedio, riferita nel fr. 1 § 3 D.2,14, che è bene tenere sempre
presente. Possiamo dire, dunque, il consenso è elemento comune a tutti
i contratti, in primo luogo nel campo del ius gentium. Ma vi
hanno negozi in cui esso opera direttamente e da sé solo; vi sono
negozi i quali abbisognano di altri elementi: re, verbis, litteris
ma anche questi habent in se conventionem; cioè la
presuppongono nella loro struttura. Sarebbe opera superflua fare elenchi
di passi delle fonti giuridiche che indicano il consensus come
caratteristico di tutti i negozi dell ius gentium. Se ne
potrebbero raccogliere centinaia. Né può la nozione del contractus
che si perfeziona consensu essere comunque oscurata e
menomata da qualche testo in cui lanimus vendendi o
simili frasi possano essere dimostrati interpolati. Rivolgiamoci
piuttosto a considerare altre figure nelle quali lelemento della
volontà è oggi battuto con maggior persistenza. -
Obbligazioni ex variis causarum figuris. I contractus non
comprendono tutte le figure di obbligazioni. Gaio nel fr. 1 D.44,7,
cioè sempre nel celebre titolo De obligationibus et actionibus,
alle due categorie fondamentali di obbligazioni che nascono da contratto
o da delitto, ne aggiunge una complessiva: aut proprio quodam iure ex
variis causarum figuris. La
espressione gaiana è felicissima, per quanto sia stata flagellata dal
Perozzi.[10]
Infatti vi hanno obbligazioni che derivano dal testamento (legatum
per damnationem), dalla tutela, dalla mancipatio (actio
auctoritatis): delle quali può dirsi con eleganza e precisione che
derivano da proprio quodam iure, cioè dal ius
testamenti, dal ius tutelae, dal ius mancipationis e
così via. Tutto ciò è ovvio; qualunque sia la costruzione dommatica
inventata da Giustiniano per queste figure di obbligazioni. Ma nemmeno
queste speciali figure esauriscono le fonti delle obbligazioni. Ve ne
sono altre autorevolissime, in cui lelemento della volontà è stato
investito con particolare energia dalla dottrina contemporanea. -
Obbligazioni quasi ex contractu. Si tratta in primo luogo dellindebitum
e della negotiorum gestio, che non possono annoverarsi nella
categoria dei contractus, bensì in quella complessa delle variae
figurae. La recente dottrina, più volte ricordata, assume, invece,
che anche queste figure si debbano per il diritto classico annoverare
nellordine dei contractus. E
conseguentemente: nega che il consenso sia stato per i giureconsulti
romani elemento essenziale e caratteristico del contractus; e
nega, inoltre, che nelle figure or ora citate abbia avuta la volontà
alcuna influenza sulla nascita delle obbligazioni relative. Or se ciò
fosse vero, bisognerebbe dire che il Corpus iuris riporta un
diritto tuttaffatto nuovo, nei suoi principi fondamentali, nella
terminologia e nellanalisi scientifica delle categorie di diritto.
Questo diritto si dovrebbe ritenere essenzialmente di formazione
bizantina. E la recente dottrina ha avuto in realtà il coraggio di fare
queste affermazioni. Ma si tratta di affermazioni fantastiche.
Continuiamo pertanto la nostra indagine con la necessaria rapidità per
riconfermare viemaggiormente con nozioni ed esempi incontrovertibili la
continuità ininterrotta nel Corpus iuris della tradizione
giuridica romana, di norme e di scienza, almeno nei suoi punti
fondamentali. -
Indebitum. Dal pagamento di un indebito non nasce
unobbligazione ex contractu. Ciò avverte Gai 3,91: quia is
qui solvendi animo dat magis distrahere vult negotium quam contrahere.
In questa enunciazione è precisata chiaramente la nozione del contractus
che esige lanimus obligandi. Nellindebito questo non
cè, onde si esclude il contratto come causa dellobbligazione.
Giuliano e Paolo, come sappiamo, insegnano la stessa dottrina. La
critica moderna si ribella. Cè lanimus: voilà lennemi,
onde dichiara il testo spurio. Certo incautamente. Infatti Giuliano nel
fr. 20 D.12,1 dà lidentica ragione per negare lesistenza del
mutuo nella specie che egli esaminava: creditam non esse, quia
exsolvendi causa magis daretur, quam alterius obligandi. Lelemento
comune ai due testi è che il contratto re non nasce ove
non vi sia lanimus obligandi. La dazione del denaro non basta
per sé. Le frasi coincidono a capello per quanto applicate a specie
diverse. E la stessa frase ripete Paulus 17 ad Plautium nel fr.
65 § 3 D.12,6; mancata la causa della prestazione fatta cè la condictio:
quoniam non contrahendi animo dederim.[11]
Lidea dommatica è una: quella cioè che il contratto e quindi
unazione da contratto, presuppone una volontà diretta a stringere
unobbligazione. Per negare questa conseguenza si è voluto citare un
passo dello stesso Giuliano, il fr. 33 D.12,6. Quivi il sommo giurista
fa un confronto tra colui che edifica sul suolo altrui e colui che paga
un indebito. Nel primo caso, dice Giuliano, nullum negotium inter nos
contrahitur, e quindi non può avere luogo la condictio; nel
secondo, col fatto stesso del pagamento, il presente debitore aliquid
negotii gerit, onde a lui compete la condictio. Col citare
questo testo si commette lerrore di identificare negotium e contractus.
Giuliano, invero, non è in contraddizione con sé stesso. Negotium
gerere è concetto più largo del contractus.[12]
Inoltre si noti la cauta e fine espressione del giurista, il quale non
dice negotium gerit o contrahit, bensì aliquid
negotii; appunto per indicare una certa analogia che la specie ha
con un negotium, cioè col mutuum.[13]
Giuliano pertanto è in questa materia il maestro di Gaio. Il quale,
comè noto, spiega la condictio che si dà a chi ha pagato
lindebito sul fondamento di unanalogia, come nelle actiones
ficticiae, proinde...ac si mutuum accepisset. Su queste figure di
diritto assimilate ad altre, nella dommatica romana, ritorneremo subito. -
Negotiorum gestio. Il Partsch[14]
attribuì, per primo, linvenzione dellanimus come causa
dellobbligazione nella negotiorum gestio ai giuristi della
scuola beritese. Io dissi che il Partsch non ha provato e non arriverà
mai a provare il suo assunto.[15]
Qui non è il luogo di rifare la dottrina romana e dindicare
dettagliatamente le cause che turbarono la elegante struttura della negotiorum
gestio nel Corpus iuris e nella dottrina del diritto comune.
Sarà sufficiente pertanto fissare alcuni punti fondamentali. Lactio
civilis negotiorum gestorum, directa e contraria, era
fondata nella teoria classica sulla volontà del gestore, il quale
assumendo sponte la gestione di affari altrui lassumeva
con lanimus di obbligare il dominus negotii. Lalienità
degli affari amministrati non basta per sé a far nascere le
obbligazioni reciproche. Questa nozione è generale nella dommatica
romana. La migliore affermazione di essa ci fu tramandata da Paolo nel fr.
14 § 1 D.10,3 Diversum est enim, cum quasi in rem meam impendo, quae
sit aliena, aut communis; hoc enim casu, ubi quasi in rem meam impendo,
tantum retentionem habeo, quia neminem mihi obligare volui. At cum puto
rem Titii esse, quae sit Maevi, aut esse mihi communem cum alio, quam
est, id ago, ut alium mihi obligem; et sicut negotiorum gestorum actio
datur adversus eum, cuius negotia curavi...[16] La
dottrina è inequivocabile. Un vincolo giuridico nel campo degli affari
non può nascere, se non cè la volontà dellagente di obbligare
altri a sé. Se questa volontà manca, o se il gestore ignora lalienità
dellaffare, pel ius civile non nasce obbligazione alcuna. Il
diritto pretorio soltanto viene in soccorso in questo caso, concedendo
al gestore la retentio. E questa massima è generale: sino al
punto che tra condomini o coeredi, se uno agisce nellinteresse anche
degli altri può chiedere nei iudicia divisoria il rimborso delle
spese sul fondamento di unobbligazione civile. I testi richiedono in
questi casi la gestione animo heredis, contemplatione socii.
Che se invece la persona curò le cose comuni come proprie, non
nasce obbligazione civile alcuna, ed essa potrà esercitare solo la retentio
negli stessi iudicia divisoria. Su questo stesso fondamento si
nega la condictio, e si dà solo la retentio, a chi
edifica sul suolo altrui. Le applicazioni del principio sono infinite,
in tutte le direzioni. Una larga trattazione ne feci nella mia opera
più volte citata in questo paragrafo, per cui non occorre qui
insistervi. -
Actio funeraria. Aggiungo solo un altro esempio offerto dallactio
funeraria. Questa è una applicazione particolare dellactio
negotiorum gestorum. Il possessore delleredità che cura i
funerali del testatore, se, soccombendo nel processo, deve restituire
leredità ha solo la retenzione per le spese funerarie, non una
azione: fr. 32pr. D.11,7, e il motivo è dichiarato in una maniera
precisa nel fr. 14 § 11 D.11,7: quia non hoc animo fecit quasi
alienum negotium gerens. I due passi ora citati sono interpolati,[17]
perché nel nuovo diritto la retentio, o lactio in factum
che poteva accordare il pretore in alcuni casi, furono trasformate in
azioni civili, come di consueto. E accertato il principio classico, si
deve riconoscere ora che il § 7 dello stesso fr. 14 citato, per quanto
folto dinterpolazioni, nel fondo riproduce concetti e usi classici,
come appare dal confronto con Seneca de benef. V, 20. Il Väzny
infatti ha dimostrato bene la necessità e luso della testatio
da parte di chi assumeva le spese di funerali, onde fosse noto quo
animo funerat, se per misericordia o negotium
heredis gerens.[18]
I rilievi del Väzny hanno anche un valore generale, in quanto provano
che, ove sia dimostrata lalterazione di un testo, non per ciò si
deve ritenere bizantino il suo contenuto. Ma
tornando allargomento principale, dico che la conseguenza ultima è
appunto quella affermata più sopra, che le obbligazioni negotiorum
gestorum nel diritto classico erano fondate sulla volontà di chi
gerisce gli affari altrui. -
Diritto giustinianeo. Per spiegare, poi, la confusione che
apparisce su questo punto di diritto nel Corpus iuris, e il caos
della dottrina del diritto comune, ricorderò ancora che la confusione e
il caos furono determinati dalla fusione
del ius civile e del ius honorarium attuatasi nel Corpus
iuris per opera di Giustiniano. Il pretore romano in mille casi
svariatissimi aveva accordato actione utiles o in factum,
secondo le esigenze dellequità, in casi per i quali le actiones
negotiorum gestorum non potevano aver luogo. Un esempio perspicuo
labbiamo visto or ora nella funeraria. Ma sparita la
differenza tra actiones directae e actiones utiles nella extraordinaria
cognitio (fr. 47 D.3,5), Giustiniano fuse in un sol corpo tutte
quelle azioni che avevano presupposti tanto diversi, e così la nozione
dommatica della negotiorum gestio si sconvolse tutta. -
Negozi quasi ex contractu. Procedendo oltre rispetto alla
dottrina classica, affermo: che la gestione di affari altrui intrapresa
sponte non fu riconosciuta come un contratto, perché
mancava la conventio. Fu riconosciuta come una speciale
figura di obbligazione, fondata sulla volontà del gestore: ut alium
sibi obliget.[19]
Questa frase, come ora sappiamo, ritorna in tutti i testi teorici, per
spiegare, qua lobbligazione che nasce dal mutuo, altrove quella che
nasce dalla gestione, e al contrario per spiegare la mancanza della
obbligazione nella causa donandi. Lanimus, dunque, è
la forza centrale generatrice delle obbligazioni, di vario grado e
struttura, nel campo degli affari. E anche alla gestione i Romani
assegnarono il suo posto nel sistema delle obbligazioni. Esclusa dalla
categoria del contractus,[20]
e ovviamente da quella del delictum, la inclusero nelle variae
figurae iuris. Ma tra queste essa ha la sua particolare posizione,
determinata dalla struttura della formula che era analoga a quella del mandatum.
Gaio 3 Aureor. fr. 5pr.
D.44,7 dice: eoque nomine proditae sunt actiones quas appellamus
negotiorum gestorum, quibus aeque (scil.
sicut in mandato) invicem experiri possunt de eo quod ex bona
fide alterum alteri praestari oportet. E
la dottrina la determinò più precisamente come obbligazione che deriva
quasi ex mandatu; come già lindebitum potè essere
avvicinato al mutuum, e lobbligazione, se mai, designata quasi
ex mutuo. Il
criterio più sicuro di classificazione era offerto in questo caso dalla
struttura della formula. Ciò era ovvio per i Romani, che operano
principalmente con le denominazioni delle actiones e quindi con
gli schemi procedurali. In proposito cè un esempio insigne che ebbi
occasione dindicare altrove. Dalla interrogatio in iure, che
ha luogo in alcuni casi, deriva unazione che ha fondamento nella
risposta data al convenuto il quale ex sua responsione convenitur.
La interrogatio procede in in
iure ad imitazione della stipulatio. E lattore che
interroga. E la formula era indicata e costruita certamente come se il
convenuto fosse quasi ex stipulatu obligatus. Tutto questo
procedimento appare dai fr. 9 e 11 D.11,1 che subirono naturalmente
notevoli alterazioni.[21]
In particolare, Giustiniano mutò la frase quasi ex stipulatu
nellaltra quasi ex contractu. Lesempio è assai
istruttivo. Dacché esso illumina tutto un processo di sviluppo dovuto
certamente alla pratica giudiziaria del periodo postclassico. Mentre i
Romani operano con le formulae e per via dei analogia alle formulae:
quasi ex mutuo, quasi ex mandato, quasi ex stipulatu; nel diritto
postclassico, sparite le formole, lanalogia si rivolse al contractus.
Così nacque la categoria generale delle obbligazioni che derivano quasi
ex contractu e che è ancora viva nel diritto moderno. E se si
guarda lorigine storica, essa non è assurda. Ha piuttosto buoni
fondamenti teorici, siano pure parziali. Lerrore di Giustiniano fu
solo quello di aver voluto fare una categoria generale quasi ex
contractu comprendente lobbligazione del legato e della tutela
che nulla hanno a che vedere coi negozi del commercio. Interpreti
antichi osservarono e notarono il carattere arbitrario
dellassimilazione al contratto di questultime figure.[22]
E sullargomento unultima osservazione vorrei fare relativa al
momento storico in cui questa sistemazione delle cause delle
obbligazioni si viene compiendo nellepoca classica. Noi sappiamo già
che il lavoro di formazione delle dottrine ferve per tutto il primo
secolo dellImpero. Nel periodo adrianeo lopera si avvia al suo
compimento. Classificazioni, nozioni generali vengono fissate o almeno
tentate: in primo luogo la definizione generale della conventio
data da Pedio. Le Istituzioni di Gaio non conoscono questi ultimi
risultati della dottrina, perché derivano da unopera tralaticia. Ma
la dottrina si svolgeva rapidamente al tempo di Gaio. Egli potè quindi
solo nellopera più larga e più sua, nelle Res cottidianae,
alle due fonti principali delle obbligazioni aggiungere quella: ex
variis causarum figuris; determinando poi di ciascuno figura di
questa classe complesso il fondamento e la individualità. Se ciò è
probabile, risulta, di conseguenza, affatto arbitrario parlare, come
fanno i critici moderni, di rifacimenti e di elaborazioni delle opere
gaiane nel periodo postclassico. Tutte le congetture di simile genere
sono campate in aria; perché, senza la cognizione dello sviluppo delle
dottrine romane, che è ancora un mito, non si può giudicare il valore
delle opere ed attribuire al periodo postclassico il contenuto di esse. -
Acquisto del dominio. Passando ora allacquisto e alla perdita del
dominio con le forme riconosciute dal ius gentium, e in
particolare allacquisto, alla durata e alla perdita del possesso, il
valore della volontà risalta, se possibile, viemaggiormente. Traditio.
Gaio nel fr. 9 § 3 D.41,1 ha cura di dare la spiegazione
dellacquisto del dominio per mezzo della tradizione. Egli scrive: nihil
enim tam conveniens est naturali aequitati quam voluntatem domini
volentis rem suam in alium transferre ratam haberi. Contro questo
passo non si sono elevati sospetti.[23]
Né questi potrebbero infirmare la dottrina medesima. Che la tradizione
assume efficacia in primo luogo dalla volontà è
ormai un principio indiscutibile, dopo quel che abbiamo detto del
mutuo, dellindebito, della donazione. Sappiamo anzi che per Giuliano
non si esigeva altro che la volontà, anche se cera divergenza sulla
causa (fr. 36 D.41,1). E lo stesso Giuliano nel fr. 1 § 2 D.41,9
insegna che consegnate le cose allo sposo in vista del futuro
matrimonio, il passaggio del dominio o linizio dellusucapione
dipende dalla mens del costituente la dote: et Iulianus inquit,
si sponsa sponso ea mente tradiderit res, ut non ante eius fieri vellet,
quam nuptiae secutae sint, usu quoque capio cessabit. Nella
tradizione, dunque, è possibile quello che non è possibile nella mancipatio,
cioè che il dominio delle cose tradite si trasferisca dopo avveratasi
una condizione o dopo un certo tempo. La tradizione riceve tutta la sua
forza dalla volontà, la quale ne determina con precisione gli effetti.
Del resto nel campo del ius gentium, lelaborazione scientifica
delle figure di diritto compiute dalla giurisprudenza arrivò a
risultati sorprendenti che potremo più agevolmente seguire con lo
studio della teoria del possesso. Possessio.
La dottrina del possesso è tutta una creazione della giurisprudenza
classica. I veteres conoscevano il possesso come un fatto
materiale stabilito in forza di una causa giusta o ingiusta. Labeone
inizia lanalisi del fatto del possesso, e lo scompone in due
elementi: uno intenzionale, animus, laltro fisico, corpus.
Prima di Labeone non cè traccia di quellelemento intellettuale.[24]
E che lanalisi abbia avuto inizio con Labeone si manifesta anche in
ciò, che il grande giurista innovatore ritenne possibile acquisto del
possesso solo animo.[25]
Proculo e Nerazio corressero questa dottrina, dicendo che si può
acquistare il possesso solo animo quando già la cosa sia
in potere della persona: si antecedat naturalis possessio.[26]
Ma allora il possesso si costituisce per la coesistenza di due elementi,
e nel momento della coesistenza medesima, perciò sempre: animo et
corpore. Affermato questo punto la teoria si svolse rapidamente in
tutte le direzioni, assumendo unagilità meravigliosa. La dottrina
del possesso è il capolavoro della giurisprudenza classica; un superbo
prodotto del genio romano, formatosi con losservazione acuta dei
fatti della vita, analizzati nella loro realtà più viva, nelle forme
varie che essi assumono nel travaglio incessante degli uomini attorno ai
beni materiali. Si riconobbe infatti, che lacquisto di cose pesanti o
voluminose può compiersi oculis et affectu, quando le cose siano
in presenza;[27]
anche per mezzo di un custode;[28]
se si tratta di un immobile stando in un punto di esso, e con la
volontà di volerlo tutto possedere (hac mente);[29]
per mezzo di schiavi propri o mercenarii anche liberi, che realizzino
lapprensione materiale delle cose, che lacquirente vuole avere;[30]
ordinando che le cose siano portate in luogo di cui lacquirente ha
piena disponibilità, quindi nella casa propria,[31]
o nel fondo, se si tratta di cose destinate al fondo. Dagli
esempi accennati emerge che lelemento spirituale, appena
riconosciuto, viene assumendo unimportanza sempre prevalente nel
possesso, non per mera speculazione dottrinaria ma perché tale esso si
manifesta nella vita e nel moto incessante degli uomini attorno le cose
materiali. Ciò è tanto vero, che se lacquisto del possesso è
originario, in contrapposto allacquisto per tradizione, allora si
richiede la materiale apprensione della cosa. Così nella caccia, non
basta che la selvaggina sia ferita mortalmente, ma deve essere presa. Ma
anche qui lapprensione non si richiede sia fatta sempre con le
proprie mani; è anche sufficiente che il cinghiale, per esempio, sia
caduto nei lacci preparati dal cacciatore. Quel che importa è che la
cosa sia realmente in potere dellacquirente.[32]
Se nellacquisto, dunque, per tradizione il possesso trapassa più
facilmente ciò avviene in virtù della volontà, per cui ad un potere
di fatto si sostituisce quello di un altro. La cosa può restare nel
luogo in cui essa era. Così avviene quando si segnano le travi che si
consegnano, o si segna un marchio ad animali che restano nello stesso
gregge,[33]
o si diano le chiavi allacquirente
delle merci chiuse in un magazzino che è sul posto.[34] Rispetto
alla durata del possesso lanimo ha unimportanza anche maggiore. Il
possesso si mantiene solo animo per esempio in luoghi
inaccessibili nellinverno[35]
o invasi da inondazione o di cose nascoste in un luogo di cui possiamo
smarrire per un certo tempo la memoria. E si mantiene animo
il possesso di fondi o di cose date in affitto, in deposito, a comodato
o comunque affidate alla custodia di altri. E a queste persone se
vogliamo trasferire la proprietà non è necessaria la traditio,
basta la sola volontà loro manifestata, e che essi vogliano animo
acquistare possesso e dominio anche senza compiere un nuovo atto di
apprensione. Celso ne trasse una ulteriore conseguenza, che la critica
odierna ha ritenuto esorbitante, negandone la paternità al
giureconsulto romano. Celso insegnò che il possessore di una cosa, se
non vuole possedere per sé ma per altri, cessa di possedere e diviene
un semplice detentore, ministro dellaltrui possesso. La critica alla
dottrina esposta da Celso è infondata.[36]
In questo momento, cioè nellepoca adrianea, si ammise pure che il
possesso si può acquistare per mezzo di una persona libera, vale a dire
per mezzo del procuratore. Non sintendeva con ciò violare il
principio per liberam personam non adquiritur che era
inviolabile per il ius civile. Questa specie di acquisto era,
a prima vista, contraria al ius civile, e perciò fu
discussa, ma alfine fu ammessa, certo per la considerazione che
lacquisto avviene animo da parte di chi vuole avere il
possesso, mentre il procurator realizza solo lelemento
materiale. Secondo la nuova dottrina romana, esso non offende perciò il
principio del ius civile. Lo
stesso effetto si ammise nel mutuo. Se lavente potestà ordina al
creditore di consegnare il denaro richiesto a mutuo al proprio servo o
al figlio, la numeratio si considera fatta direttamente
allavente potestà, che resta obbligato per il mutuo direttamente,
non già mediante azioni pretorie.[37]
Lo stesso si riconobbe nel caso che fosse dato ordine di eseguire la numeratio
ad una persona libera; o se alcuno dà denaro a mutuo per conto di altri
. In questultimo caso il mutuo sintende contratto col terzo
designato, quando ci sia la sua volontà.[38]
Questa felicissima costruzione apparisce appunto nella dottrina
del periodo adrianeo, e fu resa possibile dal progresso della teoria del
possesso la quale aveva ammesso un acquisto animo nostro corpore
alieno. Lacquisto del diritto è conseguenziale. Le esigenze
della pratica danno sempre nuovo impulso allo sviluppo più largo della
dottrina. La giurisprudenza aveva ormai nellelemento della volontà
la forza viva che opera nella vita e dà alle azioni degli uomini la sua
impronta. Quanto
alla perdita del possesso essa si verifica ora col venir meno delluno
o dellaltro elemento: vel corpore vel animo. Col solo
animo,come nel caso del constitutum possessorium secondo la
costruzione di Celso sopra accennata; onde non può dubitarsi che il
possesso può perdersi con la sola affectio. Ciò dice
Paolo nel fr. 3 § 6 h.t.: itaque si in fundo sis, si tamen nolis eum
possidere protinus amittes possessionem. Gaio IV, 153 ci rappresenta
il caso inverso: plerique putant animo quoque retinere possessionem...
si non relinquendae possessionis animo sed postea reversuri inde
discesserimus retinere possessionem videamur. Lo stesso dice
Papiniano: fr. 44 § 2 h.t. E lo sviluppo della dottrina si osserva
nelle fonti, sino alla formulazione precisa riportata da Ulpiano nel fr.
17 § 1 h.t. Perciò non si può buttar via, come fanno i moderni, la
motivazione che si legge nel fr. 37 D.13,7 di Paulus ad Plautium,
cum et animus mihi retinendi sit et conducenti non sit animus
possessionem adipiscendi. Jhering non ha avuto la giusta sensazione
dellimponente sviluppo della teoria del possesso in base alla
volontà, onde ha vituperato Paolo, a proposito di questa motivazione.
Vero è che per gli antichi giuristi la causa era decisiva per il
trapasso o meno del possesso; ma è certo pure che la dottrina più
progredita ricondusse lesistenza del fatto del possesso ai due
elementi: animo et corpore. La causa allora fu considerata
soltanto per la possessio civilis. E la durata o la perdita del
possesso animo suscitò problemi complicati nella giurisprudenza
particolarmente nei casi di
possesso tenuto per mezzo di affittuari o di occupazione clandestina dei
fondi, [39]
o dinfedeltà del depositario. Ma non è qui il luogo di seguire lo
sforzo dei giuristi in ordine a questi punti e alle divergenze
dopinioni di cui si scoprono tracce evidenti in testi manipolati dai
Compilatori. Mi rivolgo piuttosto a indicare alcuni problemi speciali,
in cui il dibattito fra i giuristi è palese e il risultato cospicuo per
la dottrina della volontà. Traditio
brevi manu. Abbiamo visto che il possesso di acquista solo
animo si antecedat naturalis possessio. Ne segue che per il
depositario di una somma di denaro, se riceve in mutuo quella stessa
somma dal deponente, nasce
subito il mutuo perché egli acquista la proprietà della pecunia senza
bisogno di nuova apprensione: fr. 9 § 9 D.12,1: animo enim coepit
possidere. Nel testo sono citati Nerva, Proculo e Marcello. Il nome
di Proculo si rinviene anche in fr. 3 § 3 D.41,2, ed è, certo,
lautore della massima, stabilita come conseguenza del principio, che
il possesso si acquista solo animo, si antecedat naturalis
possessio. Non è lecito perciò dubitarne. Nerva filius è poi
citato da Papiniano nel fr. 47 D.41,2 a proposito del depositario
infedele, cui è attribuito immediato acquisto del possesso con la sola
volontà. Se il testo in esame 9 § 9 è difettoso, per lincongruenza
dei verbi (permisi tibi...coepit) non si può per questo metterne
in dubbio il contenuto come si è fatto.[40]
Il vizio deriva da manipolazioni di forma eseguite dai Compilatori. Il
testo fu concentrato, per eliminarvi, forse, dubbi di giuristi e
sviluppi. Che il suo contenuto sia classico si desume dal commento di
Amblico, vissuto prima di Giustiniano. In uno scolio Stefano[41]
riferisce lentusiasmo di Amblico per il testo, che egli conosceva
nella forma originale: apanta gar crhsai metabeblhntai rhmati despoteia
nomh sunallagma, kindunoj, agwgh. Ma Stefano nellinizio della sua
nota fa allusione pure alla controversia dei giuristi: Hsan tinej oi
legontej... La
decisione è poi confermata da Gaio, che vuol rafforzare il principio
della potenza della volontà nel trasferimento e acquisto del dominio
per tradizione: fr. 9 § 5 D.41.7 Interdum etiam sine traditione nuda
voluntate domini sufficit ad rem transferendam... Onde il problema
si riporta al punto di indagare se il depositario ha bisogno di alcun
atto per lacquisto del possesso e del dominio. Nel caso di tradizione
Gaio lo esclude certamente come appare dal verbo sufficit che
egli adopera. Se è sufficiente a trasferire il dominio vuol dire che il
possesso è acquistato; perché è un presupposto. Ma daltra parte il
possesso non sacquista senza la volontà. La conseguenza è dunque
che il depositario animo coepit possidere. Il dubbio è nato
soltanto perché si è voluto innestare qui un altro problema, cioè: se
il depositario costituisce di avere per sé la cosa depositata commette
furto sine contrectatione? La maggioranza dei veteres e
poi Sabino e Cassio lo negarono. Lanimus infitiandi non basta
per ammettersi il furto.[42]
Ma è ovvio che i due problemi hanno elementi assai diversi. Nella traditio
brevi manu opera la volontà del deponente, e agevola lacquisto
al depositario, il quale al postutto ha la cosa in suo potere; nel caso
di furto cè il danno del deponente, cè un delitto, con gravi
conseguenze, e soprattutto si tratta di un acquisto originario del
possesso, che esige lapprensione corporale della cosa. Tutto ciò per
dire che il problema dellacquisto del possesso solo animo fu
dalla giurisprudenza certamente posto, discusso e risoluto in senso
diverso, nel caso del mutuo affermativamente, per il furto
negativamente. Né ciò significa che i veteres abbiano
conosciuto la dottrina dellanimus nel possesso. Significa,
invece, che il problema dellanimus nei delitti si presentò
alla giurisprudenza, per sé stesso, prima che siniziasse lanalisi
e lo sviluppo della teoria del possesso. Su questo punto tornerò
subito. Iactus ex nave. Lantica dottrina ritenne certamente derelictae le merci gettate dalla nave durante la tempesta. Il responso in questo senso era ancora riportato da Minicio, che riferiva dottrine di Sabino e Cassio. Lantica dottrina considerava solo il fatto nella sua spietata oggettività: e decideva: le merci gettate in mare nel momento del pericolo sono abbandonate. La decisione contraria intanto è data da Giavoleno l. 7 ex Cassio nel fr. 21 §§ 1.2 D.41,2, e ribadita da Giuliano nei fr. 8 D.14,2 e 7 D.41,7 entrambi estratti dal l. 2 ex Minicio. Giavoleno nega la derelizione e usa la parola existimo; Giuliano (fr. 8 cit.) annota il responso dellopera di Minicio con la motivazione: qui levandae navis gratia res aliquas proiciunt non hanc mentem ut eas pro derelicto habent. Questa è analisi psicologica fatta dai giuristi, la quale scardina responsi e giudicati degli antichi con una più reale interpretazione dei fatti. I quali per sé stessi non danno elementi sicuri di classificazione. Se si tratta di atti umani il loro valore è segnato dalla volontà che li determina. Il gettito delle merci nel pericolo del naufragio è determinato da disperazione, eseguito con angoscia, non è volontario. La parola sponte ricorre nelle decisioni relative alla derelictio. Il iactus ex nave non è sponte. Dai testi perciò apprendiamo che la derelictio presuppone la volontà del proprietario diretta ad abbandonare il dominio. Giuliano usa la solita frase: hanc mentem. Il momento della revisione della dottrina è significativo, cioè nel primo secolo. Lanalisi, secondo il genio della giurisprudenza romana, sinizia sempre dal caso singolo, concreto. Quando esso è risoluto, cè già un punto fermo da cui si procede a tutte le conseguenze che ne derivano. Nel tema della derelizione, lopinione di Giavoleno è adottata universalmente. Dopo Giuliano la insegna Gaio negli stessi termini: fr. 9 § 8 D.41,1 quia non eo animo eiciuntur quod quis eas habere non vult.[43] E possibile che la regola generale sia stata formulata dai Compilatori, dacché il testo che la riporta è nella chiusa disastroso:[44] I. 2.1.47: Pro derelicto autem habetur, quod dominus ea mente abiecerit ut id rerum suarum esse nollet. Ma non si è per ciò stesso autorizzati a ritenere spuria tutta la dottrina. Gaio IV, 153 esige appunto per labbandono del possesso: animus relinquendae possessionis. Il confronto è qui decisivo. Le conseguenze intanto sono notevoli; e germogliano una dopo laltra, si assommano tutte, discusse e risolute dalla giurisprudenza. Se il dominio delle cose gittate resta immutato non può aver luogo il diritto doccupazione. Chi le prende non ha il titolo per lusucapione.[45] Ma che è a dire del possesso? E del furto? Questi problemi non erano così semplici come sembra oggi a noi, edotti dallesperienza romana. Ulpiano nega che si conservi il possesso delle pietre andate a fondo del Tevere per naufragio: fr. 13pr. D.41,2: dominium me retinere puto, possessionem non puto. Qui dunque non era applicabile la regola animo retinetur possessio. Ma questa opinione non poteva essere generale. Ed inoltre, se non cè interversio possessionis può esservi furto?[46] Gaio lammette nel fr. 9 § 8 D.41,1 citato: cfr. 3pr. D.47,9. Ulpiano nel l. 51 ad Sab. fr. 43 § 11 D.47,2 trattava la questione ex professo: quaestio in eo est, an pro derelicto habitum sit? Lo squarcio che segue è orrendo: contiene quattro ipotesi, una presunzione (plerumque, credendum est), quattro situazioni dellanimus, un latino barbaro. Eco i trionfi della critica moderna, la quale dimostrate le interpolazioni, decide: lanimus derelinquentis è bizantino.[47] La frase, dico io, sì, ma non la sostanza. La dottrina è ferma fin da Giavoleno, e nega appunto la derelictio in base allanimus. E la grave interpolazione del passo di Ulpiano si spiega con la solita ragione legislativa. Il problema dellammissibilità del furto delle merci gittate nel pericolo del naufragio fu discusso dalla giurisprudenza a cominciare da Giavoleno sotto varii aspetti. Del requisito dellanimus furandi dirò più oltre. Se Ulpiano riferiva ampiamente, comegli suol fare, lo sviluppo della dottrina, era necessario lenergico intervento dei Compilatori per rabberciare i varii elementi del testo che essi sanno poi colorire a modo loro. Questo sanno fare e fanno i Bizantini, sempre. Nuove dottrine, maturate dalle scuole, non ne conoscono. Si fa un bellelogio a quelle scuole orientali attribuendo loro le sciocchezze più madornali. E sommamente sorprende rispetto alla critica di questo testo il procedimento dellamico Berger, il quale nellesame del problema, di cui ci occupiamo, comincia proprio dal passo di Ulpiano, considerandolo come la chiave di tutta la dottrina del Corpus iuris, onde svalora le note di Giavoleno e di Giuliano, nega lo sviluppo della giurisprudenza su questo punto, e fa anchegli, critico tanto severo e moderato, almeno questa volta, il modernista. -
La volontà nei delitti. Limportanza
della volontà nei delitti emerge con maggiore chiarezza nelle fonti,
onde la dimostrazione ne è più agevole e può essere contenuta in
limiti molto ristretti. Del resto la critica moderna ha rispettato in
questo campo la volontà.[1]
Solo lAlbertario lha voluto investire, dimostrando una grande
fretta di conchiudere. Quel che è molto rimarchevole si è che
linflusso della dottrina aristotelica si manifestò vigoroso in
questo campo già nel periodo della Repubblica, e prima che agisse sugli
istituti del diritto patrimoniale e quindi sui negozi del commercio. Nel
periodo dellImpero, da Labeone a Giuliano, lelaborazione
scientifica dellelemento volitivo abbraccia tutto il campo del
diritto, e precede nei vari istituti di pari passo. Lantico
diritto romano, come quello di tutti i popoli primitivi, colpisce il
fatto materiale che lede i privati o la comunità. Ciò si osserva anche
nella Grecia. In Roma le XII Tavole ne offrono esempi insigni nelle
disposizioni riguardanti il furtum e nelle pene relative alle
lesioni corporali, le quali sono distinte minuziosamente. Lelemento
psicologico non è considerato. Il fatto è tutto, così come nei negozi
la parole è tutto. Perciò anche limpubere è passibile di pena.
Lelemento intenzionale, invece, ha il primo posto, anche rispetto ai
delitti, nella dottrina aristotelica. Il fatto per sé è niente, il
delitto dipende dalla volontà. Aristotile[2]
riporta vari esempi: furto, ingiuria, adulterio, che intanto sono azioni
delittuose in quanto fatte con lanimo di sottrarre ad altri per
proprio lucro, di arrecare ingiuria, di commettere adulterio: kai mh
proj thn praxin alla proj thn proairesin. La formulazione è notevole.
In essa si nota la solita caratteristica della filosofia greca che
mescola insieme diritto e morale, delitto e immoralità. Linfluenza
della dottrina nel mondo romano si manifesta già nella Repubblica. Un
esempio è riferito da Valerio Massimo VI,1,8: non factum tunc sed
animus in quaestionem deductus est.[3]
Catone, invece, nellorazione a favore dei Rodii difende la tradizione
romana: neminem qui facere voluit plecti aequum est, nisi quod factum
voluit etiam fecerit.[4]
Ma la diffusione della dottrina è agevolata dal momento in cui si
determina il predominio della filosofia stoica in Roma.[5]
Paolo Sent. V,23,3 scrive: consilium
enim uniuscuiusque, non factum puniendum est. Perciò il
tentativo si considera come delitto compiuto. La volontà sola è
decisiva.[6]
Ma ciò nel campo dei crimini. Per
i delitti privati, dei quali vogliamo occuparci più particolarmente, il
contrasto sul proposito è visibile e molto vivace nella giurisprudenza.
Lesempio migliore lo rinveniamo nel furto, che si ricollega
intimamente allo sviluppo della teoria del possesso. Il problema fu
agitato a proposito della infitiatio del deposito. Si può
ammettere il furto sine contrectatione. La controversia è
riportata nel fr. 3 § 18 D.41,2, da cui apprendiamo che la maggioranza
dei veteres lo negò e così Sabino e Cassio. Il
fr. 68pr. D.47,2 di Celso è sicuramente interpolato, più del
precedente; ma linizio di esso riporta la dottrina negativa,
che io ritengo appunto quella seguita da Celso.[7]
Più notevole è il fr. 225 D.50.16 di Triphoninus che pare modellato
sulla trattazione aristotelica sopra citata. Coincidono gli esempi:
furto, adulterio. Il giurista riconosce limportanza dellanimus
ma conchiude con la dottrina dominante romana, escludendo il delitto se
esiste sola animi propositio. Il passo è del resto assai mendoso,
e sappiamo ormai per esperienza che
le corezioni del Mommsen sono ingannevoli. Si deve dire, invece,
che Trifonino in una disputatio, da cui il passo proviene, doveva
trattare largomento con larghezza e profondità, e che i Compilatori
ne hanno ricavato un sunto.[8]
Le alterazioni più gravi dei passi fondamentali pertinenti ad un punto
di diritto segnalano per lo più nel Corpus iuris la eliminazione
di controversie tra i giuristi. In proposito noi conosciamo la radice
stessa della controversia, che è attestata. Non solo alcuni dei veteres,
ma pure Labeone che aveva ammesso acquisto del possesso solo animo,
e anche Proculo, che aveva ammesso lo stesso acquisto si antecedat
naturalis possessio, poterono rappresentare la dottrina che il
depositario acquista il possesso con la sola volontà e commette furto sine
contrectatione. Certo è che Sabino e Cassio sono riportati come
avversari di questa dottrina, e la citazione è fatta da Paolo, non già
da un Sabiniano come Gaio. Inoltre, Mela nel fr. 52 § 7 D.47,2 in una
specie diversa ammette furto sine contrectatione.[9]
E la formula medesima, se e in quanto fosse possibile furtum sine
contrectatione, era certamente nota, discussa dai giuristi del primo
secolo ed analizzata, come appare dai riferimenti di Gellio dallopera
iuris civilis di Sabino.[10]
Il quale scriveva: furtum sine ulla quoque adtrectatione fieri posse,
sola mente atque animo, ut furtum fiat adnitente. Sabino, dunque,
lammetteva ma solo rispetto ai complici. La dottrina del furto, come
quella del possesso, era ancora malferma, era cioè nel periodo di
formazione. Tutte le difficoltà derivavano dalla giusta valutazione
dellelemento intenzionale. Questa è una verità indiscutibile,
seppure possiamo ignorare i particolari e le vicende del dibattito. Ma
il trionfo della teoria sabiniana si manifesta deciso nella
giurisprudenza postadrianea. Per ammettersi il furto si richiede luno
e laltro elemento: lanimus furandi, che deve attuarsi con
la contrectatio, anche se la cosa è già nel potere fisico
dellindividuo. Il numero dei testi che esigono come necessaria la contrectatio[11]
e come caratteristico lanimus furandi,[12]
è considerevole sia nel Corpus iuris sia nelle fonti
pregiustinianee. Animus furandi o
lucri faciendi causa sono usati promiscuamente, senza alcuna
distinzione, dacché rappresentano il dolo specifico del reato di furto.
Anche in questo linsegnamento viene da Aristotile, il quale non esige
solo la sottrazione della cosa: allei epi blash eklepse kai
sfeterismw eautou.[13]
Nelle fonti romane nel periodo classico questo elemento è indicato di
continuo e non soltanto nella forma gerundiva lucri faciendi causa.
Così Ulpiano scrive: fr. 65 D.47,2 Qui ea mente quid contrectavit ut
lucrifaceret; Gai 56 § 1 eod. Si quis usum alienae rei in
suum lucrum convertat; Gai 5 § 1 D.41,1 (Trebatius) eo animo ut
ipse lucrifaceret.[14]
Ne segue che se non cè lucro non è ammissibile lactio furti.[15]
Lopinione dei più antichi giuristi, che non tenevano conto
dellelemento del lucro fu respinta dalla giurisprudenza classica.[16]
Onde se qualche scrittore oggi vuol negare questelemento intenzionale
nel furto, ciò deriva dallimportanza sproporzionata che si è data a
singole interpolazioni, e altre volte da superficiale interpretazione
dei testi. Infatti è ovvio, che lanimus furandi per
sé, anche attenuato con la contrectatio, non è sufficiente per
ammettersi il furto. La giurisprudenza richiese ancora un terzo
elemento, cioè il fatto compiuto invito domino. Se la res
è nullius, o il dominus è consenziente, lopinione
dellagente non può costituire il reato che manca del presupposto
fondamentale, cioè il danno altrui. Qui siamo precisamente nel campo
dei delitti privati, che esigono vi sia un danno, cui corrisponde la
pena come riparazione. Le decisioni contrarie di alcuni giuristi del
primo secolo, che diedero un valore eccessivo allanimus per
sé, anche nei casi sopraindicati, furono corrette dalla dottrina
posteriore.[17]
Questo dimostra il travaglio della giurisprudenza classica nella
formazione della teoria del furto, che segue le stesse vicende di quella
del possesso; perché nelluna e nellaltra lelemento
intenzionale viene a essere considerato come costitutivo del fatto, ma
contenuto nella giusta proporzione, come richiedevano sia le finalità
del diritto sia lanalisi dei fatti osservati nella pratica della
vita. Volere pertanto attribuire lanimus furandi, lucri
faciendi o lanimus possidendi ai bizantini significa
ignorare tutto il progresso delle dottrine giuridiche compiutosi mercè
lopera illuminata della giurisprudenza classica.[18] * * *
Possiamo ora raccogliere le fila di questa lunga indagine
rispetto allimportanza della volontà nel diritto e
nellelaborazione della
dommatica giuridica fatta dalla giurisprudenza classica. Per quanto il
materiale sottoposto ad esame sia in complesso sparuto, di fronte al
contenuto del Corpus iuris, pure lopinione che pretende oggi
di svalutare la volontà in confronto ai verba e agli elementi
oggettivi dei negozi si deve ritenere sbagliata. E un errore di
visione madornale che ha condotto la critica odierna allabisso. Essa
ha trascurato lo studio delle dottrine, e guardando i testi alla
superficie, dal lato quasi solamente filologico. ha attribuito anche il
contenuto di tutte le interpolazioni ai Bizantini, senza vedere nulla
della faticosa e meravigliosa opera della giurisprudenza classica. Non
si è accorta perciò che nellultimo secolo della Repubblica si era
manifestato potente linflusso della cultura greca anche nel campo del
diritto, determinando nuovi metodi di interpretazione e di analisi dei
fatti giuridici che devono limpulso e la possibilità di creazione
della scienza del diritto. E questa erronea visione del problema, e dei
fattori e delle fasi dello sviluppo del diritto romano, è tanto più
deplorevole in quanto il risultato più cospicuo di tutte le indagini
storiche del sec. XIX da Savigny, da Sanio a Joers, a Voigt, a Pernice e
allo stesso Jhering, era appunto il riconoscimento duna nuova era
inauguratasi sul finire della Repubblica nella interpretazione e nella
trattazione del diritto, determinata dalle fresche correnti del pensiero
greco. Se il lavoro immenso, compiuto con fervore dalla scuola storica
nel sec. XIX, non pervenne a risultati concreti e definitivi, ciò si
deve solo al difetto danalisi critica dei testi, perché mancava
allora il mezzo di discernere nel groviglio
dei testi, devastati dai Compilatori del sec. VI, il progressivo
sviluppo delle dottrine nel periodo classico e la formazione lenta e
difficile del sistema del diritto privato. Il tentativo del Pernice,
nella sua opera di Labeo doveva fallire necessariamente, perché
prematuro. Il Lenel, per primo, nellopera fondamentale Da Edictum
Perpetuum, poi lEisele e il Gradenwitz insegnarono il metodo per
scrutare e scomporre i vari elementi racchiusi nei frammenti del Corpus
iuris. Ma quei primi Maestri affrontarono raramente le dottrine, ben
consapevoli delle profondità che esistono nel Corpus iuris, e
dordinario si limitarono alla diagnosi delle interpolazioni. I
giovani scolari, invece, credettero di poter toccare il fondo del Corpus
iuris derivando dalle interpolazioni le dottrine, uno ictu,
considerando le une e le altre come un tutto inscindibile rispetto alla
paternità, e per ciò saltando quattro secoli di elaborazione
giurisprudenziale del diritto. E pertanto essi furono portati a
rappresentare il ius civile romano immobile dalle XII Tavole a
Diocleziano; come se i giuristi classici si fossero beati, da Servio a
Modestino, a cantare il diritto delle XII Tavole ut carmen
necessarium. Di conseguenza essi scoprirono Platone e Aristotele nel
Corpus iuris, che sarebbero passati da Berito a Costantinopoli e
poi a Bologna,[19]
non da Roma, per diffondere le loro dottrine. Noi abbiamo visto invece
che il periodo più fervoroso nella formazione della scienza giuridica
cade dallepoca ciceroniana a
quella adrianea e sotto linflusso diretto di dottrine greche, ma
vagliate, discusse, sperimentate nella pratica dalla giurisprudenza che
ha vivo il senso della realtà e sempre presenti la natura e la
finalità del diritto. Da quel momento sinizia il lavoro delle
dottrine con una più profonda analisi e interpretazione dei fatti
umani, scrutati dal lato psicologico, nei mezzi, negli scopi e negli
effetti. Tutti i giuristi delle due scuole concorrono, con nobile gara,
allopera. I Proculiani emergono nella formazione della dottrina del
possesso. Più poderosa è lelaborazione dei Sabiniani nel campo dei
negozi. Le osservazioni, i dibattiti, i risultati sincalzano luno
dopo laltro, nei negozi, solenni o non solenni, nel campo dei diritti
reali, nel possesso, negli istituti di diritto penale. Responsi e
giudicati dei veteres sono corretti, regole di diritto limitate
in una sfera più ristretta. Lopera ferve per due secoli: nulla
dies sine linea. Il diritto si rinnova tutto, ius civile e gentium.
Si rinnova nelle decisioni e nella elaborazione dommatica. Si compie la
prima, essenziale fusione del ius gentium col ius civile,
quanto agli elementi interni dei negozi del commercio, negozi adibiti
nella città turbinosa per le più varie relazioni giuridiche da una
popolazione che diviene ogni giorno più cosmopolita. Si viene formando
insieme, più lentamente, un sistema di diritto privato che si
sostituisce alle rozze classificazioni in genera e species
delle figure di diritto.[20]
Ora, invece, cè un elemento vivo e possente che determina la
coordinazione delle decisioni, la formazione di nuove dottrine e del
sistema del diritto privato. In particolare, nel campo dei negozi
giuridici, si forma la dottrina del contractus nella sua nozione
più larga, come si riscontra nel diritto moderno, e che abbraccia i
negozi che servono al trasferimento e alla costituzione dei diritti
reali, e alla costituzione e allo scioglimento di vincoli obbligatori.
Il punto centrale di essi è la conventio. Conventio,
contractus, pactum
Ora si può fare un passo avanti per chiarire tutta questa
dottrina che può annoverarsi tra le più gravi e tormentate nella
scienza romanistica contemporanea. Lesame esegetico fatto, per quanto
in maniera sommaria, e più la coordinazione dei singoli risultati
dentro il corpo delle dottrine medesime, che si venivano formando, ci
hanno dato nelle mani, come io mi lusingo, nuovi elementi di conoscenza,
che debbono per lo meno avvicinarci alla soluzione del problema.
Riprendiamo per un momento il l. IV ad Ed. di Ulpiano, dove (fr.
1§ 3 D.2,14) riscontrammo la celebre nozione formulata da Pedio, cioè:
conventionis nomen generale est. Io dissi sopra che la prima
categoria di negozi indicata nel testo, rovinato dai Compilatori, era
quella degli atti solenni del ius civile, dalla mancipatio
alla stipulatio, che hanno in se conventionem. Ma
largomento non era esaurito. Nella Palingenesia del Lenel[21]
noi ritroviamo sotto la Rubrica, certamente ben restituita dal Lenel,
De pactis et conventionibus, i seguenti passi che si
leggono del resto nello stesso titolo Dig. 2,14: fr.
5 Conventionum autem tres sunt species; aut enim ex publica causa
fiunt, aut ex privata: privata aut legitima aut iuris gentium. Publica
conventio est quae fit per pactum, quotiens inter se duces belli quaedam
paciscuntur. fr.
7 Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam
exceptiones. § 1 Quae pariunt actiones in suo nomine non stant
sed transeunt in proprium nomen contractus: ut emptio, venditio, locatio
conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri similes
contractus. § 2. Sed et si in alium contractum res non
transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit esse
obligationem: ut puta dedi tibi rem ut mihi alias dares, dedi ut aliquid
facias. hoc sunallagma esse et huic nasci civilem obligationem. Et ideo
puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum
ut Pamphilum manumittas: manumisisti; evictus est Stichus. Iulianus
scribit in factum actionem a praetore dandan; ille ait civilem incerti
actionem id est praescriptis verbis sufficere; esse enim
contractum, quod Aristo sunallagma dicit, unde haec nascitur actio. Questi
passi, visti nellinsieme, ci rappresentano con vivezza il momento
più notevole della formazione della dottrina generale della conventio,
come fu formulata da Pedio. Che i testi furono stroncati e alterati dai
Compilatori sintende benissimo. Intanto è sicuro che la dottrina era
esposta come unintroduzione generale alla materia dei pacta.
Il Lenel annota sagacemente[22]
al gruppo dei frammenti riferiti: ad rubricam pertinent. Anche
Paulus nel l. III ad Ed. che corrisponde al l. IV di Ulpiano, ha
la stessa introduzione generale, dalla quale conosciamo il celebre fr.
38 D.44,7 che illustrava la conventio solenne, la stipulatio.[23]
E dallo stesso libro proviene il fr. 6 D.2,14 intercalato tra i passi
ulpianei sopra riportati e che riguarda la legitima conventio.
Dunque, i giuristi dellepoca dei Severi sono già in grado di
premettere nel commento allEdictum de pactis una introduzione
teorica relativa alla conventio. Il commento di Pomponio non
offriva particolari di rilievo in proposito. E
malgrado le gravi interpolazioni giustinianee il contenuto della
trattazione non fu del tutto sepolta, e la sua importanza è ancora
visibile. Nel fr. 5 si fa menzione di tres species di conventiones,
la quali poi nel testo devastato divengono quattro. Losservazione è
dellAlciatus, ed il fatto incontestabile è significativo. Non
possiamo pretendere di restituire il testo. Come semplice congettura
vorrei spiegare il fenomeno dicendo: Ulpiano indicava duo genera
di convenzioni:[24]
I ex publica causa II ex privata. Che trattasse nel testo
delle convenzioni pubbliche appare nellesempio residuo che segue e
che riguarda i trattati di pace. Gaius III,94 ne fa cenno a proposito
della stipulatio. Ma la nostra attenzione deve rivolgersi alla conventiones
privatae, delle quali certamente Ulpiano doveva indicare tres
species: 1. legitima, 2. iuris gentium, 3. iuris
praetorii. Le
due prime sono attestate nel passo dei Digesti. 1.
La conventio legitima non può ritenersi inventata dai
Compilatori, è genuina, per quanto sia una infelice manipolazione dei
Compilatori il fr. 6 di Paulus, che segue.[25]
E accertato questo punto per rintracciare le conventiones legitimae,
se non ci soccorre il fr. 6 di Paolo, abbiamo ora un preciso indizio di
esse nel fr. 1 § 3 che precede, dello stesso Ulpiano, che si riferiva
nelloriginale a tutti i negozi solenni del commercio, cioè alla mancipatio,
alla in iure cessio, alla dotis dictio, allacceptilatio,
alla stipulatio, come fu dimostrato sopra. La stessa enumerazione
doveva trovarsi nel fr. 6 di Paolo, più volte ricordato; onde ora ci è
nota la causa della sua distruzione operata dai Compilatori.[26] 2.
La seconda specie comprendeva i negozi iuris gentium. Ulpiano
dice nel testo (che per la forma non è perspicuo e rivela ritocchi
compilatorii) che le conventiones che pariunt actionem assumono
qui il nome di contractus. Gli esempi sono quelli noti dal
testo di Labeone (fr. 19 V.S.), meno il mandatum, e in
più il commodatum e il depositum. Ma ciò non è
rimarchevole in questo luogo. Quel che importa grandemente è, invece,
che mentre Labeone dava come caratteristica del contractus, detto
dai Greci sunallagma, la reciprocità delle azioni: ultro citroque
obligatio, rivelata del resto anche da Gaio III,137, ora Aristone
indica con la stessa voce greca la convenzione, tecnicamente contractus,
che può avere un nome e non averlo (c. innominatus). La
discussione dei giuristi, specie tra Aristo e Iulianus, riguardava il
punto seguente: se la speciale categoria di conventiones sul
tipo: dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dovesse annoverarsi
nellordine dei contractus. Ma il problema nella trattazione di
Ulpiano è determinato e dipendente dalla nozione del contractus,
che è species delle conventiones, e precisamente la species
iuris gentium. Di ciò non è lecito dubitare ormai. Giuliano negava
a quei tipi di convenzioni il carattere iuris gentium, e
lefficacia del contractus, cioè di generare unobligatio
e unactio civilis. Giuliano riconosceva in quei casi
lammissibilità di unactio in factum;[27]
li annoverava perciò nella categoria delle conventiones iuris
praetorii. Se tutto ciò e vero, e non saprei come si possa negarlo,
nellepoca adrianea la nozione del contractus apparisce formata
secondo la dottrina aristotelica del sunallagma, la quale, per quanto si
riferisce ai negozi del commercio, riconosce nella volontà la forza
generatrice degli effetti giuridici: ekousia de legetai, oti en arch twn
sunallagmatwn toutwn ekousioj.[28]
La giurisprudenza aveva compiuto il suo lavoro di analisi, e aveva
constatato che realmente in tutti i negozi iuris gentium era la conventio
elemento comune e caratteristico. Si noti che i tipi dei negozi del
commercio erano in buona parte esemplificati da Aristotile nel luogo
citato. Se la critica
contemporanea ha negato questa derivazione del contractus, e se
ha creduto di poter distruggere il fondamento della nozione medesima,
essa ha perduto il suo tempo. Una tradizione giuridica così imponente,
che ha le sue radici nella giurisprudenza romana del primo secolo
dellImpero, non può distruggersi con osservazioni formali sui testi
di legge. La tradizione ha fondamenti incrollabili. Il risultato
dellindagine coincide per questo rispetto con quello raggiunto dal
Pernice,[29]
che fu certamente il più profondo scrittore della materia, e riconobbe
che la teoria del contractus si formò nellepoca adrianea. Gli
elementi nuovi che ho raccolti in questa trattazioni mettono la cosa
fuori dubbio. E vero che la nozione del contractus come
semplice accordo di volontà, non fu e non poteva essere formulata dai
giuristi romani, ma di ciò troveremo presto la spiegazione. 3.
La terza specie doveva comprendere le conventiones iuris praetorii,
che fu cancellata dai Compilatori. Il motivo della soppressione dovrebbe
apparire chiaro, dopo le esperienze e gli studi da me compiuti sulla
fusione del ius honorarium col ius civile e quindi col ius
gentium. E rimarchevole in proposito che la fusione fu compiuta
con maggiore intensità e costanza nei primi libri Digestorum,
cioè in quella parte dellopera legislativa eseguita con maggior
calma. Così si spiega che nel tit. Dig. 2,15, che segue, e porta la
rubrica de transactionibus, pactum e stipulatio
Aquiliana furono perfettamente equiparati; nel senso che il pactum
transactionis effettua ora per sé stesso la estinzione di tutte le
obbligazioni precedenti. I Compilatori formarono alluopo un testo
chiarissimo collocato nel principio del titolo, e che è del seguente
tenore: fr.
2 D.2,15 Transactum accipere quis potest, non solum si Aquiliana
stipulatio fuerit subiecta, sed et si pactum conventum fuerit factum. Se
è così, la soppressione delle convenzioni pretorie, come categoria a
sé in una trattazione teorica, qual era quella ulpianea, deve apparire
naturalissima. Ma
abbiamo altri elementi per constatarla. a)
Nello squarcio di Ulpiano i pacta nuda che non generano azione ma
solo eccezioni sono classificati come figure del ius gentium.
Infatti il § 4 del fr. 7 si ricollega immediatamente al principio dello
stesso frammento, di cui rappresenta lo svolgimento. E nel pr. è detto:
Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam
exceptionem. Or
il § 4 è universalmente riconosciuto interpolato,[30]
e nella dottrina medioevale costituì il punto di partenza e il
fondamento saldo per laffermazione che pactum e stipulatio
sono nulli se manca la causa. Io soggiungo ora che il principio del
testo citato dovette assumere per opera dei Compilatori anche il
contenuto della categoria delle conventiones iuris praetorii,
delle quali: quaedam actiones pariunt quaedam exceptionem.
Nessuno infatti potrà contraddirmi, se io affermo che conventiones
iuris gentium che producono soltanto exceptionem non ne
esistono. Quelle che avevano questo carattere erano tecnicamente
indicate come: nuda pacta, tutelate dal pretore mediante exceptio. b)
La categoria dei pacta che produce or actionem or exceptionem
non poteva mancare nella trattazione ulpianea; perché appunto Iulianus
ai contratti cosiddetti innominati riconosceva solo efficacia pretoria,
non civile; e perché inoltre sarebbe strano supporre che Ulpiano,
preludendo con una trattazione così larga alla materia dei pacta,
non avesse fatto cenno di essi nel quadro teorico disegnato. Questo è
inconcepibile. La trattazione era impostata dal giurista con eleganza;
dalla conventio nomen generale, che aveva importanza
in tutti gli ordinamenti romani, iuris civilis, iuris gentium,
iuris praetorii, passava naturalmente il giurista al commento
allEdictum relativo ai pacta conventa. Nel passo
riportato dai Compilatori il nesso tra la introduzione e il commento
speciale manca. Il § 7 del fr. in esame
inizia ex abrupto la trattazione dellEdictum.
Conchiudo pertanto che la categoria dei pacta, la specie delle
conventiones che aveva efficacia solo nel diritto pretorio,
fu soppressa dai Compilatori, per i motivi ormai noti. Resta
a spiegare infine la definizione del contractus che è riportata
da Theophilus. Che i Romani non abbiano definito il contractus si
capisce bene. Essi ne determinarono il carattere fondamentale, che gli
è conferito dalla conventio. Ma ciò non bastava alla
definizione, perché ora sappiamo che anche il nudum pactum era
riconosciuto come una conventio; e tuttavia tra contractus e
pactum la differenza era profonda. Perciò Ulpiano indica nel fr.
7 § 1 cit., altri elementi, cioè un proprium nomen
desunto dalla causa, come si rileva anche dal § 2 che segue. Per i
Romani solo il pactum era una semplice conventio,
definitio da Ulpiano nello stesso squarcio che abbiamo esaminato: 1 § 2
D.2,14: Et est pactio duorum pluriumve in idem placitum consensus.
Da questo testo Theophilus ricavò la definizione del contractus,
con una versione letterale: I.3,13,2
Sun£llagma d sti dÚo À ka pleiÒnwn ej tÕ aÙtÕ sÚnodÒj
te ka suna
nesij. E
questa definizione che sarebbe stata assurda per i giuristi classici,
era divenuta invece vera per i Bizantini. Infatti, in seguito alla
dimostrazione esauriente che ho fornito altrove,[31]
oggi sappiamo che nel diritto postclassico qualsiasi pactum
divenne produttivo di azione. La distinzione tra pactum e stipulatio
(inter praesentes), tra pactum e contractus era
sparita. Quindi era ovvio che il nome tecnico di contractus
abbracciasse ora la categoria più larga di conventiones, cioè
tutti i pacta, perché tutti ormai producevano azioni.
Ladattamento della definizione del pactum al contractus
fa onore, quindi, a
Theophilus. La definizione è vera nel nuovo diritt. Essa contiene
lelemento generale, produttivo di ogni vincolo giuridico nei negozi
del commercio. Escludo, anche qui, che ladattamento si possa
attribuire alla elaborazione scolastica, nel periodo pregiustinianeo,
perché in tal caso la nozione sarebbe passata nella Compilazione. Ma lo
escludo poi principalmente per questo, che i Compilatori, se avessero
avuto nelle mani una nozione dommatica così notevole nel campo dei
negozi, essi non avrebbero dimostrato nella materia dei pacta
tante incertezze e oscillazioni, di cui ho dato la prova nello scritto
citato. I Compilatori conoscevano in proposito il diritto della pratica,
non la formulazione dommatica. Riformarono un numero considerevole di
decisioni antiche guidati con sicurezza dalla prassi. Spettava, invece,
alla dottrina italiana, dalla Glossa allAlciatus, riconoscere che
secondo il diritto consacrato nel Corpus iuris ogni patto fosse
munito dazione; e con mirabile sagacia e profonda conoscenza del Corpus
iuris la dottrina italiana formò la massima: omne pactum esse
contractum. La definizione del contractus, adottata da
Theophilus, veniva così confermata dai migliori interpreti della
Codificazione. Il contrasto e il dileggio degli Umanisti, specie del
Cuiacio, e contro la Glossa e contro i Commentatori, per quella massima
erano determinati e alimentati da formole e decisioni, che
rappresentavano nellopera legislativa punti morti del sistema
giuridico, divenute ormai vere preziosità di eruditi, le quali non
potevano per nulla oscurare la verità né arrestare lo sviluppo
naturale del diritto.[32]
Nel campo dei negozi del commercio la verità era stata formulata da
Pedio nel sec. II dellImpero, e da questo punto la direzione e lo
sviluppo della dottrina erano determinati con precisione. Il
diritto moderno, nei suoi principi fondamentali, era nato dunque per
naturale evoluzione, senza opera di legislatore, nel periodo da
Costantino a Giustiniano. Lesempio della dottrina del contractus
e dei pacta è tipico. Anche il diritto è un corpo vivo, del
quale il divino prodigio non si palesa se non si conoscono tutte le
parti di dentro che lo formano. Il contenuto essenziale del diritto
moderno, considerato nella sua sostanza di norme e di dottrine, è di
formazione romana. In Roma la giurisprudenza si manifestò nella opera
dei suoi artefici la maestra e la regina di tutte le scienze; perché,
nutrita unicamente dellesperienza della vita, potè scoprire le
leggi che governano le azioni umane e rappresentarne come in uno
specchio le forme, le cause e gli effetti. Ed ora che per la prima volta
ci si è mostrata nella sua piena luce lopera superba della
giurisprudenza classica, noi possiamo ben comprendere la forza del
maestoso tronco latino, che ha potuto resistere a tutte le
bufere per una serie di secoli, e immettere sempre più profonde
radici e sempre gittare nuovi, rigogliosi rami.Ed ora la tradizione
giuridica romana deve risorgere contro il facile e sconsiderato amore
del nuovo. Noi dobbiamo ritornare con maggior lena e fede al Corpus
iuris, approfondire la conoscenza di esso per trarne forza e
ammaestramento ad andare avanti. PARTE
II Il
diritto da Costantino a Giustiniano Nel
corso della storia vi sono rivoluzioni profonde che non appariscono in
documenti, perché esse si sono svolte lentamente, insensibilmente,
senza lotte, ma che tuttavia hanno rinnovato il fondo della società
umana e gli ordinamenti giuridici. Siffatte rivoluzioni restano celate
alla stesse generazioni che le hanno vissute. Gli effetti si vedono a
grande distanza di tempo, quando la differenza tra lantico e il nuovo
viene alla luce. Levoluzione del diritto romano, nel periodo da
Costantino a Giustiniano, sotto certi aspetti ha assunto il carattere
duna rivoluzione, ed appartiene a questordine di avvenimenti. Essa
era già compiuta nel momento della codificazione ordinata da
Giustiniano, e ben nota agli artefici della medesima, almeno nelle sue
linee generali.[33]
Ma glinterpreti, a cominciare dai contemporanei di Giustiniano, non
ebbero più gli elementi di confronto, onde fino al sec. XIX il fenomeno
restò completamente nellombra. Si ritenne facilmente che il diritto
tramandato da Giustiniano fosse sostanzialmente quello stesso creato
dalla giurisprudenza romana, perché le leggi contenute nei Digesti e
nel Codice erano decorate dai nomi degli antichi giuristi e degli
Imperatori. Nemmeno la scoperta del ms. di Gaio, avvenuta nel 1816,
potè modificare essenzialmente quella credenza. Essendo i 2/3 dei
Digesti riempiti di estratti dalle opere di Ulpiano e di Paolo, vissuti
nel III secolo, la maggior parte delle diffferenze che si venivano
notando dal confronto tra lopera di Gaio e i Digesti si attribuivano
senza grande sforzo a sviluppi di dottrine e di norme, avvenuti
dallepoca degli Antonini allepoca dei Severi e
a quella di Diocleziano. E per altro il Corpus iuris è
costituito in modo da creare questa illusione. In esso gli ordinamenti
romani del periodo classico: ius civile, ius gentium, ius
honorarium appariscono ancora ben distinti, le differenze essenziali
tra istituti e azioni civili e pretorii ancora vivono, e molti principii
fondamentali dellantico ius civile a prima vista sembra che
conservino il loro primo vigore. Naturalmente le contraddizioni sono in
ogni singolo punto di diritto rimarchevoli, rispetto ai principii di
base e alle decisioni particolari. Glintepreti sindustriarono in
ogni tempo, con metodi e tendenze diversi a risolvere i problemi e a
conciliare comunque le antinomie. La scuola storica tedesca, dopo la
scoperta di Gaio, non portò alcuna luce in questo campo. Piuttosto,
peggiorò la situazione; poiché fu condotta a interpretare il Corpus
iuris con lo spirito di Gaio, a costruire dottrine e decidere
controversie secolari dando la preferenza ai testi che riportavano
principii e decisioni del diritto classico. Così gli studi più
profondi sul diritto romano, col sussidio di nuove fonti e del
meraviglioso sviluppo di tutte le discipline storiche, ci allontanavano
sempre più dalla cognizione di quel diritto codificato da Giustiniano e
ci avvicinavano viceversa al diritto classico. Si ripeteva, in altri
termini, quello che era avvenuto nel secolo XVI per opera degli
Umanisti. Soltanto
sulla fine del sec. XIX lo studio delle interpolazioni potè a poco a
poco rivelare il distacco che esiste tra il diritto classico, elaborato
dai romani giureconsulti e il nuovo codificato da Giustiniano. Ma come
il Fabro, nel sec. XVI, aveva considerate le alterazioni dei testi
antichi come facinora Triboniani, così anche i critici moderni
cominciarono dallattribuire a Giustiniano tutte le riforme, e le
giudicarono inette, audaci, sconsiderate, con grande biasimo del
legislatore. Ciò non sorprende, naturalmente; perché per la forma le
interpolazioni più appariscenti sono
senza dubbio barbare; e per la sostanza, guardate singolarmente, e
guardate in sé appariscono come storture di logica e pervertimento di
dottrine in confronto ai testi classici, modello insuperabile di
finezza, di compostezza e di rigore scientifico. Questi però erano
giudizi di prima impressione; in realtà mancavano gli elementi stessi
del giudizio, cioè la conoscenza delle cause che avevano determinate le
modificazioni, e poi la veduta dellinsieme dellopera legislativa.
Sulle imperfezioni formali di essa il giudizio è ormai definitivo.
Rispetto alle cause che produssero un così profondo mutamento nel
diritto, le indagini e la discussione sono ancora vive. Nel 1908 il
Mitteis[34]
per il primo notò, dando alla sua affermazione un significato più
generale, che tra il diritto giustinianeo e il diritto classico esisteva
un contrasto, e che in realtà nel mondo bizantino il diritto sera
profondamente mutato. E molti scrittori subito dopo credettero daver
scoperto i fattori della rivoluzione operatasi nel diritto romano nel
periodo della decadenza, riconoscendoli, precipuamente, nellinflusso
delle consuetudini orientali e nellelaborazione dommatica fatta nelle
scuole della parte orientale dellImpero, e particolarmentge in quella
celebre di Berito. Il Mitteis non aveva alcuna colpa nella scelta di
questo indirizzo preso dalla critica contemporanea. Nemmeno nella sua
famosa opera Das Reichrecht und das Volksrecht aveva avuto o
coltivato una simile idea.[35]
Ma è pur certo che quel libro diede lo spunto e limpulso a indagini
in quella direzione. Io non devo ritornare sulla critica, fatta sopra
rispetto a un tale indirizzo e ai prodotti che esso ha dato. Ora
sappiamo che lerrore fondamentale di questa scuola consiste
nellavere trascurato le indagini sullo sviluppo del diritto romano
dallepoca ciceroniana a quella dei Severi, e particolarmente
nellavere ignorato lintensa elaborazione delle dottrine giuridiche
fatta dai giuristi del primo secolo dellImpero. La scoperta delle
interpolazioni non poteva, per sé stessa, illuminare tutti i problemi
che il contenuto di esse suscitano. Non lo poteva, perché il metodo
delle indagini era sbagliato, procedendosi dallesterno allinterno;
mentre logicamente, appresa la tecnica interpolazionistica, si sarebbe
dovuto prima di tutto approfondire il diritto classico e procedere alla
ricostruzione delle dottrine dallinterno allesterno. I papiri
greco-egizi daltro lato non potevano fornire che elementi sussidiari
alle fonti romane e non sostituirsi a quelle. Ma
la critica in qualsiasi campo è sempre cosa facile. Per essere efficace
e definitiva essa deve però essere accompagnata da una ricostruzione,
che valga da sé stessa a demolire le opinioni e i risultati che tengono
il campo. Mi rivolgo pertanto a questopera di ricostruzione, che ha
ora saldi fondamenti nello studio che insieme abbiamo compiuto nei
giorni passati. Le
cause dellevoluzione del diritto romano. La
evoluzione del diritto romano nel periodo della decadenza non si deve
attribuire a cause esterne, cioè alla influenza di altri diritti e
tanto meno a elaborazione scolastica, bensì a cause interne. La prima
di queste cause e la più generale si riscontra nel mutamento degli
ordinamenti processuali. Il quale deve essere considerato, non come
effetto di un atto legislativo puro e semplice, ma come un avvenimento
che si svolge gradatamente e si compie in una crisi vasta politica,
amministrativa, sociale e religiosa, che si manifestò alfine
nellImpero da Diocleziano in poi. In proposito bisogna che si tengono
presenti due considerazioni. Il diritto romano era, da una parte, un
prodotto unico nella storia, troppo complesso per la ricchezza e
varietà delle sue forme e per la sua fine elaborazione scientifica, per
poter vivere con tutti i suoi attributi, senza la direzione vigile e
illuminata della giurisprudenza e del pretore. Inoltre,
il diritto creato da Roma, in condizioni privilegiate, elaborato e
svolto dalla giurisprudenza e dal pretore, aveva raggiunto un grado di
perfezione inarrivabile, era munito di una forza organica
indistruttibile, onde esso non poteva perire al primo urto, anche in una
crisi generale di tuti gli ordinamenti del passato. In
queste due affermazioni ci troveremo sicuramente tutti consenzienti. Il
diritto romano, dunque, non poteva perire ma doveva semplificarsi per
vivere. Continuò a vivere in complexu, in tutto lImpero, con
tutte le sue fonti, costituite dagli scritti dei giuristi e dalla
collezione dei rescritti imperiali eseguita al tempo di Diocleziano e
ampliata nel IV secolo. Si venne semplificando per necessità di
adattamento. Si concentrarono le fonti di cognizione, la procedura, le
istituzioni giuridiche stesse. Raccolte private furono fatte subito,
nelle quali sotto apposite rubriche si riunivano estratti dai rescritti
e dalle opere degli ultimi giuristi, spesso suntati e messi in armonia
con le leggi imperiali o con la pratica del tempo. Leggi furono emanate
per alleviare le difficoltà che la pratica non era più in grado di
superare col proprio sapere: così la legge che toglieva vigore alle
note di Ulpiano e di Paolo a Papiniano; la cosiddetta legge delle
citazioni, che attribuiva nei tribunali autorità soltanto alle opere
degli ultimi 4 giuristi (Papinianus, Ulpianus, Paulus, Modestinus) e a
quelle di Gaius, la cui fama si era affermata in questo periodo in tutte
le scuole dOriente e dOccidente. La legislazione si sforzava
inoltre di provvedere alle esigenze dei nuovi tempi, di risolvere
problemi e di togliere il disagio che le forme romane e le antiche
istituzioni romane suscitavano ormai nel vasto impero.[36]
Espedienti futili, tutti questi, di fronte al formidabile problema
delladattamento del diritto alle reali esigenze del tempo; specie
quando si consideri la miseria di quei prodotti legislativi, e il
disordine e lignoranza della pratica descritti con vivi colori da
Ammiano Marcellino.[37] In
tali condizioni di cose, ladattamento e la semplificazione del
diritto incombevano unicamente alla pratica giudiziaria, la quale, rebus
ipsis dictantibus, seppe assolvere alla meglio il suo compito,
traendo dalla immensa ricchezza del diritto elaborato dai Romani quel
tanto che era necessario alla quotidiana amministrazione della
giustizia. Si venne così attuando nella pratica una reale
semplificazione di tutti gli ordinamenti romani; la quale si diresse
immediatamente a congiungere in un solo ordinamento da una parte il ius
honorarium e il ius civile e dallaltra il ius civile
e il ius gentium. Da questa doppia fusione derivò un sol corpo
di diritto, il nuovo ius civile del diritto giustinianeo (novum
ius) composto della parte sostanziale e vitale che i vari
ordinamenti romani contenevano in sé stessi. I.
Fusione del ius honorarium col ius civile. Il
movimento che doveva produrre la unificazione del ius honorarium e
del ius civile in un solo corpo di diritto siniziò sin
dallepoca di Costantino, e la codificazione si attuò via via ma con
grande rapidità in conseguenze delle riforme negli ordinamenti
giudiziari. Scomparso il pretore, la datio iudicis e poi le formulae
processuali, erano per ciò stesso venuti meno lorgano e i mezzi
che avevano creato in Roma e sviluppato quel singolare dualismo in tutti
gli istituti di diritto. Nella cognitio extraordinaria
del Basso Impero il giudice prese il posto del pretore, ed egli
applicava direttamente, senza i congegni della procedura classica e
senza i mezzi creati dal diritto pretorio, le decisioni definitive che
erano riportate per i singoli casi sia negli scritti dei giuristi sia
nei rescritti imperiali. La innovazione era impercettibile;
perché nelle decisioni dei giuristi in definitiva era il rimedio
del ius praetorium che prevaleva; e quella stessa decisione che
era stata applicata nella pratica del diritto classico, ora era adottata
come ius civile. Così i due ordinamenti si venivano riunendo in
un unico diritto, senza opera di legislatore. La critica contemporanea
ha accertato gli effetti di questa fusione nellopera di Giustiniano.
La causa, infatti, che determinò le interpolazioni in uno straordinario
numero di testi fu appunto quella di far scomparire il dualismo tra ius
civile e ius praetorium o di eliminare mezzi e formulae
proprii del ius praetorium. I risultati generali di tutte queste
varie operazioni si possono riassumere in tre categorie, come segue: 1.
La scomparsa di istituti, principii, norme e decisioni del ius civile,
i quali erano caduti in desuetudine, surrogati nella pratica da norme e
decisioni fondate sul ius honorarium. 2.
La eliminazione di istituti, mezzi e norme del ius honorarium,
che nel periodo classico avevano compiuto la loro funzione di correggere
il ius civile; onde, venuto meno il conflitto, erano divenuti
inutili. 3.
La fusione di istituti, nozioni, norme e forme del ius civile con
quelli del ius honorarium, da cui risultavano nuove figure e
forme giuridiche costituite da elementi diversi. Le
costituzioni emanate da Giustiniano nel corso dellopera legislativa
attestano or luno or laltro degli effetti sopra indicati. Le leggi
di Giustiniano in proposito, siano abolitive di istituti o di nomi
antichi, o creative di nuove figure e forme giuridiche, sono atti
postumi; dacché sanzionavano legislativamente quello che era stato
consacrato dalla pratica giudiziaria. Ma le attestazioni
incomparabilmente più numerose ci vengono rivelate ora dalle
interpolazioni. Se si volesse fare un elenco dei rifacimenti
giustinianei, eseguiti ai fini sopra indicati, e si volesse fare una
parca illustrazione delle cause e degli effetti delle stesse
interpolazioni, si dovrebbe scrivere ormai un grosso volume. Al
fine informativo che ha questo corso è necessario ordinare
lesposizione in maniera sintetica, mettendo nella giusta luce gli
esempi più dimostrativi. E prima di tutto è utile avere una precisa
cognizione del fatto materiale stesso, cioè del metodo usato dai
Compilatori nei rifacimenti dei testi classici per eliminarvi la
decisioni del ius civile e sostituirvi quelle che avevano
fondamento nel ius honorarium. Il metodo era semplice; bastava
cancellare nel testo una parole, una frase, un periodo, a volte anche
spostare o inserire o eliminare un non per ottenere
leffetto. Riporto
tre esempi.
Come
si vede dal confronto diretto del testo originale con quello dei
Digesti, la menzione dellactio ficticia fu eliminata nei
Digesti e la funzione che essa adempiva nel ius honorarium è ora
assunta direttamente dal ius
civile. Lo stesso effetto si consegue ipso iure. Si osservi
per la valutazione critica delle interpolazioni che tutti gli elementi
del testo furono rispettati e lasciati al loro posto, anche i nomi dei
giuristi, ai quali nei Digesti si attribuisce unopinione tecnicamente
opposta a quella che essi avevano rappresentata. Il
confronto del fr. <Ia. della pergamena egizia conservata nella
Università di Strasburgo>*
col fr. 32pr. D.15,1 Ulp. licet hoc iure contingat, tamen aequitas
dictat, iudicium in eos dari, qui occasione iuris liberantur [38]
dà lo stesso risultato. Con la soppressione della parola rescissorium
si attribuì la facoltà al creditore di ripetere lazione contro
laltro coobbligato, senza bisogno della in integrum restitutio,
che era necessaria nel diritto classico. Interpolazioni analoghe, per
eliminare appunto la in integrum restitutio, sono innumerevoli
nei Digesti. Cito ancora un esempio
del tutto simile al precedente per quanto manchi per il controllo
il testo originale:
Le manipolazioni dei testi eseguite con un metodo così semplice
e pratico furono preferite dai Compilatori, specie[40]
quando si trattava di fondere in un corpo solo ius civile e honorarium,
e di far prevalere, come di consueto, la decisione del ius honorarium,
senza adottarne i mezzi procedurali. Così tante volte fu soppressa lexceptio
doli, e la nullità dellatto fu dichiarata direttamente in forza
del ius civile. Lesempio
più cospicuo di questa categoria è offerto dal fr. 30 D.12,1 Paulus 5 ad
Plaut. Qui pecuniam creditam accepturus spopondit creditori
futuro in potestate habet, ne accipiendo se ei obstringat. Qui fu
soppressa la exceptio.[41]
Ciò si desume non solo dai termini tecnici: spopondit ...obstringat
che accertano il vincolo costituito pel ius civile con la sponsio;
ma più direttamente ancora da Gaio IV, 115, 116, 119 che illustra
appunto il concetto della exceptio doli con lesempio più
semplice contemplato dal fr. 30 riferito; confr. inoltre Ulp. fr. 2 § 3
D.44,4. Accertato
il fatto materiale, e insieme il metodo tenuto dai Commissari per
operare la fusione dei due ordinamenti classici, possiamo dalla stessa
costanza e semplicità dei mezzi usati bene arguire che la
semplificazione del diritto in questo senso rispondeva ad un concetto
programmatico del legislatore, e di più affermare che tale programma
non era stato escogitato dal legislatore ma piuttosto dettato dallo
stato del diritto al momento della codificazione. Ed è pure
rimarchevole a questo riguardo, che il legislatore non solo ha piena
coscienza dello stato del nuovo diritto, ma anche delle cause che ne
avevano prodotto il mutamento, in confronto a quello romano classico, e
pure del momento storico in cui esso si venne svolgendo. Ed è bene
mettere in evidenza questi fatti, attestati da Giustiniano in varie
occasioni e da punti di vista generali o particolari, perché la critica
moderna sè sbandata e disorientata precisamente per questo, per aver
perduta la fiducia in
Giustiniano, ritenendo le sue dichiarazioni indegne di fede. Giustiniano
è veritiero, e le notizie storiche che egli dà sullo stato del diritto
anteriore sono preziose, anche se colorite con tinte troppo esagerate o
sgraziate. Tralasciando per ora di considerare quanto dice il
legislatore in proposito nelle constitutiones introduttive alle
singole parti della Compilazione a riguardo delle scuole e dei libri
antichi che erano in uso e della pratica dei tribunali e dellimmenso
lavoro compiuto per adattare e rammodernare i testi classici in
conformità al diritto del suo tempo, notizie tutte che debbono essere
tenute sempre presente e dai Dupondii e dai critici, quel che
maggiormente interessa nella nostra indagine è raccogliere dalle varie
parti della Compilazione le opinioni che i Commissari stessi enunciano
sui mutamenti del diritto antico nel corso della loro alacre fatica. Nelle
I.2,10,3 a proposito della forma del testamento adottata dal ius
novum il redattore del testo così si esprime: Sed cum paulatim
tam ex usu hominum quam ex constitutionum emendationibus coepit in unam
consonantiam ius civile et praetorium iungi, constitutum est... Il
testo apparve in ogni tempo di colore oscuro. Per noi ora è
limpidissimo. Tutte le parole sono precise, rappresentative della
realtà storica: paulatim, usu hominum...coepit iungi... cioè
nella prassi giudiziaria e nella pratica degli affari i due ordini
giuridici si venivano fondendo in un solo ordinamento. Quando avveniva
ciò? Lo apprendiamo da altri testi non meno precisi. Un altro passo
delle Inst. ci dice
come avvenne che cadde in desuetudine la successio per universitatem,
la quale aveva luogo dei beni del debitore o non solvente o fallito o
morto sine herede neque alio iusto successore (Gai 3,79). Il
testo dice: I.3,12
et tunc (sc. successio) locum habebat, quando iudicia
ordinaria in usu fuerunt; sed cum extraordinariis iudiciis posteritas
usa est ideo cum ipsis ordinariis iudiciis etiam bonorum venditiones
exspiraverunt. Qui
dunque sono determinate la causa e il momento della evoluzione del
diritto; cioè appena cadde in desuetudine lordo iudiciorum
privatorum e si
consolidò generalmente luso della cognitio extraordinaria.
Dunque, causa ed effetto furono contemporanei: cum ipsis ordinariis
iudiciis ... exspiraverunt. E si noti, anche qui, che in desuetudine
cadde la procedura della bonorum venditio, dorigine pretoria,
con tutte le sue finzioni, o ambages come dice Giustiniano, che
essa presupponeva e che ci sono note da Gai 3, 77; ma non cadde in
desuetudine il diritto materiale creato dal pretore per lesecuzione
sui beni del debitore in contrapposto allesecuzione sulla persona,
che era stabilita dallantico ius civile. Onde nel risultato
qui abbiamo un esempio insigne in cui il ius honorarium prende il
posto del ius civile, diviene ius civile; allimperium
del pretore si sostituisce lofficium iudicis, come il testo
dichiara nella continuazione. Anche la frase posteritas usa est
è da notare. Essa si riferisce con determinatezza al momento iniziale
della nuova procedura; e se la stessa frase è adoperata spesso da
Giustiniano senza più precisa indicazione, noi ora abbiamo nel testo
esaminato un punto certo di riferimento. Ancora
più importante,perché ha un valore generale, è un altro testo che
riguarda tutto il sistema formulare. La distinzione fondamentale nella
procedura classica tra actio directa e actio utilis
scomparve naturalmente nella cognitio extraordinaria. E
Giustiniano lo dichiara in una forma notevole in uno dei primi libri dei
Digesti: fr.
47 § 1 D.3,5 ...quia in extraordinariis iudicis, ubi conceptio
formularum non observatur, haec suptilitas supervacua est maxime cum
utraque actio eiusdem potestatis est, eundemque habet effectum. Labolizione
delle formule era stata stabilita da Costantino nel 342, ed è certo che
esse non ebbero più alcun valore giuridico, anche se la pratica
continuò a usarle per i vantaggi che gli schemi delle azioni offrivano.
Lattestazione del legislatore, intanto, fatta in luogo opportuno,
nellinizio dellopera, ha un doppio valore. Conferma il fatto
storico, da un lato; mentre dallaltro è un monito agli interpreti
della Codificazione a non dare alcuna importanza alla terminologia usata
dai classici, rispetto alle azioni, dacché esse sono ormai tutte eiusdem
potestatis. Non è dubbio che ciò vale pure per le actiones in
factum. Ora tutte le azioni sono civili, perché tutta la
codificazione contiene ius civile, qualunque sia lorigine
delle norme e delle azioni. Anche glinterdicta furono
aggregati alle actiones: I.4.15.8. E Giustiniano ne dà la
ragione in una interpolazione inserita in un rescritto di Diocleziano: c. 3 C.VIII,1 Interdicta autem licet in extraordinariis iudiciis proprie locum non habent, tamen ad exemplum eorum res agitur. Ciò
significa che sparito il pretore, che emanava comandi e divieti, dai
quali traeva origine la speciale procedura interdittale, ora, cioè
nella cognitio extraordinaria, il diritto proviene dalla legge,
la procedura è quella comune, mentre gli effetti giuridici restano tali
e quali erano stati stabiliti dallEditto pretorio. Giustiniano
credette che questi solenni ammonimenti fossero sufficienti per
lintelligenza dellopera legislativa. Come mai poteva nascere
lequivoco di ritenere che le categorie delle azioni civili e pretorie
fossero ancora vive nella Compilazione? Se egli in molti passi, anzi
normalmente, riprodusse la terminologia classica è ben certo che ciò
fece per limpossibilità, certamente sperimentata, e dichiarata,[42]
di poter disintegrare i testi classici. Quando fu costretto a farlo,
dovette estrarne dei sunti; che sono in realtà in gran numero, e
costituiti per lo più di brevi paragrafi, contenenti una massima, una
decisione, più decisioni, senza particolari elementi procedurali.
Per ciò il legislatore procede a riguardo dei nomi delle azioni
con tutta libertà. Da una parte lascia la terminologia antica. La segue
nelle interpolazioni, dando actiones utiles o in factum,
dove landamento del passo suggeriva quegli espedienti. Muta le
azioni, specialmente per surrogare azioni civili alle pretorie, in
particolare allactio de dolo.[43]
Fa largo uso della condictio, che sostituisce regolarmente ad
azioni pretorie. E conseguentemente dichiara in un celebre testo che la:
Certi condictio competit ex omni causa, ex omni obligatione...sive ex
certo contractu petatur, sive ex incerto cet., fr. 9pr. D.12,1. Dallesperienza
che ci viene ora dalle interpolazioni, nelle quali appare la condictio,
certi o incerti, adoperata nei rapporti più varii, si è
indotti a credere che la condictio fosse in realtà nella pratica
del diritto postclassico lazione più generale, che tendeva a
sostituire un gran numero di actiones honorariae o a provvedere a
fatti o rapporti per i quali il diritto classico non dava azione alcuna.
Esempi di questa categoria sono moltissimi. Ricordo la condictio
impensarum, la condictio per togliere larricchimento, la condictio
ex omni contractu. Questa frase è notevole nel testo sopra
riferito. Se è vero, come è stato dimostrato, che nel nuovo diritto
ogni patto ha valore di contractus, quella nozione generale
acquista un senso più pieno. Se vogliamo sapere, quale azione può
derivare nel nuovo diritto da una scommessa, da una pollicitatio,
da un patto speciale congiunto a un negozio aleatorio e così via, la
risposta più sicura è: la condictio.[44]
La
scuola storica del sec. XIX, assorbiti tuti glinsegnamenti che potè
derivare dal prezioso l. IV di Gaio, fu indotta non solo ad approfondire
le nozioni gaiane nelle fonti giustinianee, il che era anche possibile
usando molta circospezione, ma fu portata inoltre ad interpretare il Corpus
iuris con la scienza largita da Gaio. Ciò doveva fatalmente
generare la più completa misintelligenza della codificazione; sino al
punto da ritenere ancora tutta viva in essa la distinzione delle actiones
civiles e honorariae, di obbligazioni civiles e honorariae,
di ius civile e honorarium, dimenticando i moniti di
Giustiniano. Glinterpreti antichi non commisero erori così enormi.
Per citare un esempio, Vinnio conosceva bene che la distinzione di
obbligazioni civili e pretorie era sparita nella Compilazione, e che le
azioni avevano ormai tutte la stessa natura. Naturalmente egli cita
testi che ora conosciamo interpolati; appunto perché quei testi danno
il tono allopera legislativa. E fatte queste constatazioni, emergono
da sé stesse un numero considerevole dinterpolazioni destinate
appunto a unificare ius civile e ius praetorium, nelle
varie direzioni sopra distinte. In
moltissimi testi è interpolata la frase ipso iure
collocata per sostituire il rimedio pretorio; utroque iure si
riporta appunto ai due ordinamenti insieme, ormai fusi;[45]
iuribus indica il ius civile e praetorium,[46]
civiliter opposto a naturaliter comprende insieme il
rapporto civile e pretorio, così a riguardo del possesso,[47]
così a riguardo delle obbligazioni;[48]
così, sempre, come attesta Vinnio,[49]
iure legitimo è frase equivalente a ipso iure, e spesso
ha sostituto un rimedio pretorio.[50]
Lelenco
sarebbe infinito, a volerlo continuare. Ma nel chiudere questa parte
della dimostrazione, non posso tacere della soppressione rigorosamente
eseguita nella Compilazione delle actiones ficticiae. Le formulae
ficticiae erano tutte del ius honorarium. Soppresso ogni
elemento che le ricordasse come tali, ne derivò che tutte le decisioni
relative appariscono nel nuovo diritto discendenti dal ius civile.
In un lavoro, che vedrà la luce ben tosto, sarà dimostrato che le actiones
ficticiae racchiudevano il vigoroso progresso del ius civile,
attuato dal pretore nella sua iurisdictio. Il nuovo ius civile
del diritto giustinianeo deriva in gran parte dalle actiones
ficticiae. La eliminazione costante dellorigine pretoria di
quelle decisioni significa dunque assunzione cosciente da parte dei
Compilatori della miglior parte del ius honorarium nel corpo del ius
civile. Premessa
la constatazione di questi fatti materiali, è agevole ora osservare le
trasformazioni che glistituti di diritto subirono nel processo
dellevoluzione e la struttura che essi presentano alfine del nuovo
sistema giuridico. Le mutazioni procedono naturalmente in tutti i sensi,
come fu detto sopra. Cadono istituti o forme del ius civile;
cadono mezzi processuali del ius honorarium; si fondono in varia
proporzione ius civile e praetorium. In molti casi il
legislatore con la solita verbosità ne dà ragione nelle costituzioni
emanate nel periodo della codificazione. Tutti
gli scrittori, specie nel sec. XIX, misero in rilievo nei punti più
appariscenti e in singoli istituti il fatto dellavvenuta eliminazione
o fusione dei vari elementi.[51]
Anche la Glossa potè scoprire interpolazioni nei Digesti con il
confronto delle riforme enunciate da Giustiniano. Mancava soltanto una
base larga di osservazioni e di ricerche per giungere alla valutazione
dellopera legislativa del sec. VI. Questa base è apprestata ora dal
ricco materiale interpolazionistico che permette di risolvere i singoli
problemi dimportanza capitale che rimangono ancora insoluti, e nello
stesso tempo il problema generale dellorigine e della natura del
diritto giustinianeo. Per
assolvere questo compito sarà sufficiente, almeno provvisoriamente,
scegliere un numero di esempi tratti dalle varie parti del diritto
privato ordinandoli per materia. 1)
Dominium ex iure quiritium in bonis habere. La
fusione è completa nella codificazione. La scomparsa del nudum ius
è dichiarata clamorosamente da Giustiniano, con parole di alto
dispregio: vacuum et superfluum verbum: c. 1 C.7,25 a. 530-31. Le
conseguenze sono costanti e generali. Le
cause pretorie dellin bonis habere divengono cause
dacquisto diretto del dominium. a)
Il bonorum possessor acquista subito dominium rerum: fr. 1
D.37,1. b)
Sparisce lapplicazione più generale dellactio Publiciana;
cioè per gli acquisti a domino compiuti senza le forme solenni
del ius civile. c)
La missio in possessionem ex secundo decreto conferisce al
possessore il dominium, e non semplicemente come era nel diritto
classico la condicio usucapiendi.[52] 2)
Possessio civilis comprende ora la possessio ad interdicta,
e si oppone alla possessio naturalis. La protezione del possesso
è garentita dal ius civile per mezzo di actiones. 3)
Usucapio e longi temporis praescriptio si fondono in unico
istituto, con la prevalenza degli elementi edittali. 4)
Le forme di servitus praediorum riconosciute e protette dal
pretore divengono iuris civilis. Cadute le forme solenni del
diritto quiritario, tutte le servitutes si
costituiscono pactionibus et stipulationibus, traditione,
patientia. Le modalità e le limitazioni imposte dalle servitù
inefficaci nellantico ius civile, ma largamente tutelate dal
pretore, sono ora tutte riconosciute efficaci, in conformità delle
convenzioni. 5)
Obligationes iuris civilis e obligationes riconosciute dal
pretore sono ora del tutto pareggiate, e si contrappongono alle obligationes
naturales. 6)
Stipulatio, contractus, pactum costituivano nel diritto classico
tre categorie distinte. Le prime due munite di efficacia civile con actiones
civiles, lultima protetta solo dal pretore, con azioni e in
generale con eccezioni. Le tre categorie si confondono nel diritto
giustinianeo. La categoria generale della conventio, già fissata
dalla giurisprudenza classica, ebbe il suo completo svolgimento nel
diritto postclassico. La massima che ogni convenzione lecita genera
azione se non apparisce formulata teoricamente è sostanzialmente
attuata nella Compilazione. 7)
Pactum transactionis. Ha lo stesso valore e la stessa efficacia
della stipulatio Aquiliana, la quale anzi è sostituita dal pactum.
Tale pareggiamento o surrogazione apparisce ora come una semplice
manifestazione dello sviluppo descritto sotto il numero che precede.
Certo nella transactio si maturò ben presto. Nel testo Visigoto
di Paolo I,1 si legge una sentenza in cui per la
prima volta spunta la frase pacti obligatio; la quale
finora non ha avuto una spiegazione soddisfacente. Inoltre nella stessa
fonte (S. I,3 = fr. 15 D.2,15) la stipulatio Aquiliana è
rappresentata come un accessorio del pactum; e vi si consiglia di
aggiungere ancora una penale per
la garanzia nel caso di rescissione del pactum. I due testi
furono certamente rifatti nel periodo postclassico. I Compilatori della lex
Wisigothorum e quelli del Digesto rinvennero il fr. 15 già
rammodernato. Onde è lecito conchiudere che lAquiliana non
solo era caduta in desuetudine, ma non era più nemmeno intelletta nel
periodo della decadenza, e che essa era stata sostituita in tutto dal pactum.[53]
Il primo riconoscimento dei singoli pacta fu del resto graduale,
aiutato dalla legislazione, così a riguardo della donatio,[54]
della dos, in cui il patto sostituì le forme solenni del diritto
classico. Rispetto alle obbligazioni delle usurae mediante pactum,
lo sviluppo fu completato da Giustiniano nella. 541 con la Novella
134,4. 8)
Hereditas e Bonorum possessio si sono fuse. Perciò
sparisce la B.P. sine re. Nel nuovo diritto il bonorum
possessor acquista il dominio delle cose corporali, ha tutte le
azioni che competono allheres, senza alcuna finzione, e
risponde di fronte ai terzi come heres. Se ha la stessa posizione
giuridica dellheres, non può avere importanza che siano state
conservate nelle Inst. e nei Dig. e nel Cod. la terminologia e le
disposizioni dellEditto, e che questultime anzi siano state
corrette in varii punti; dacché questo fenomeno non è singolare, e
dipende dalla imperfetta comprensione dei Compilatori della già
compiuta evoluzione del diritto. Ciò è provato dal fatto che subito
dopo, nellanno <543> con la Novella <118> tutta la
materia della successione intestata fu riordinata e si attuava la
perfetta fusione degli istituti del ius civile col ius
honorarium. La cognatio ora prende decisamente il posto della
agnatio, che era stata la base della famiglia romana e del
diritto successorio civile. 9)
Tutte le forme civili dei testamenti caddero successivamente in
desuetudine, da ultimo quella per aes et libram. La prevalenza
della forma riconosciuta dal pretore, del testamentum septem testium
signis signatum, costituì la base della nuova e definitiva forma,
che dagli stessi Compilatori è indicata come risultante
da elementi civili, pretorii e legislativi.[55]
E
ovvio che levoluzione delle forme degli atti si era compiuta più
rapidamente e in maniera visibile, con lintervento della
legislazione, perché le forme rappresentano la condizione prima
della validità degli atti giuridici. In questo campo il
conflitto tra ius civile e ius honorarium, tra diritto
dellImpero e consuetudini provinciali fu più aspro e immediato, fin
dal sec. III, e si dovette comporre subito, appena dopo Diocleziano. Le
forme proprie del ius romanorum erano destinate
a sparire. 10)
Forme dei legati e genera legatorum caddero in
desuetudine. Lattestazione ci viene da Giustiniano, il quale nella.
529 constata:[56]
quam posteritas optimis rationibus usa nec facile suscepit nec
inextricabiles circuitus laudavit? La
posteritas, come sappiamo, è rappresentata dalle
generazioni postdioclezianee; la frase nec facile suscepit
porta leco delle difficoltà che le forme romane suscitavano nella
pratica, della viva disapprovazione di esse e conseguentemente
degli sforzi per
eluderne losservanza. Del resto in questa materia levoluzione
sera iniziata ben tosto, col S.C. Neronianum,[57]
che aveva attenuato il rigore del legatum per vindicationem. La
giurisprudenza aveva poi interpretato liberamente il precetto del
Senato. Ma mentre sparivano le forme dei legati si attenuava sempre più
la differenza di essi con i fideicommissa. Nel diritto
giustinianeo essi si trovano completamente uguagliati.[58]
Il fatto che nel Corpus iuris fu mantenuta la terminologia
classica, che distingueva essenzialmente
le due figure, sappiamo, per le esperienze fatte, che non ha alcuna
importanza. Ma piuttosto è anche qui rimarchevole la rapidità
dellevoluzione, la quale si spiega: a)
per luso sempre più frequente dei fedecommessi, che permettevano
alla posteritas di evitare le forme dei legati; b)
perché la fusione dei due istituti, come già dellhereditas e
del fideicommissum hereditatis, sera iniziata nel
periodo classico, come appare dalla trattazione di Gaio II, 247ss., dove
sono segnate le varie tappe della efficacia sempre maggiore riconosciuta
ai fedecommessi, e dove apparisce, di pari passo, la progressiva
estensione agli stessi di limitazioni e prescrizioni legislative che
vigevano per la hereditas e per i legata. Senatoconsulti,
imperatori e giurisprudenza seguivano decisamente questindirizzo. Il
quadro disegnato comprende glistituti fondamentali del diritto
patrimoniale, e rispecchia in una forma inequivocabile il momento, le
cause, i modi dellevoluzione del diritto romano, dal classico al novum
ius, codificato da Giustiniano. La consuetudine, e specialmente la
pratica giudiziaria, fu costretta nel
periodo postclassico a isfoltire, senza indugio, dei rami secchi la
bella selva del diritto classico. Scomparso il pretore e venute meno le formulae,
la superba flora romana allevata con tanta cura, giorno per giorno, fin
dallinizio della città, dalla giurisprudenza, dai magistrati, dal
Senato, dagli imperatori e da tutto il popolo, doveva ridursi nei limiti
e nelle forme che erano strettamente necessarii. In primo luogo il
dualismo tra ius civile e ius honorarium doveva comporsi,
dacché esso era sorto in condizioni del tutto singolari, come un fatto
transitorio, a causa dello sviluppo rapido e prodigioso della vita e
della civiltà di Roma. Nessuno può pensare che il conflitto tra quei
due ordinamenti fosse una cosa normale e duratura. E prima di passare alle conseguenze notevoli derivate dalla fusione qui tratteggiata, permettete che io faccia tre osservazioni che servono a sgombrare il terreno da possibili obiezioni. a) Sarebbe erroneo suppore che levoluzione del diritto sia stata determinata principalmente dal conflitto scoppiato tra il diritto romano e i diritti provinciali della parte orientale dellImpero, dopo la constitutio del 212 di Caracalla, la quale aveva esteso a tutti gli abitanti dellImpero la civitas romana. Se questa fosse stata la causa principale, e non quelle naturali che io ho indicate, non si spiegherebbe il fatto che nellOccidente ai commissarii della lex Wisigothorum, e cioè prima di Giustiniano, apparve necessario di semplificare il diritto, di togliere le ambiguità, lamentando, come appunto fa Giustiniano, la antiqui iuris obscuritas. Or ciò dimostra che le istituzioni romane avevano subito la stessa crisi, nellOriente e nellOccidente, determinata dalla medesima causa. Per ciò gli ammodernamenti dei testi coincidono nelle fonti occidentali e nelle orientali; nella legge dei Visigoti e nella Compilazione di Giustiniano. Particolarmente inintellegibili erano ormai le forme solenni degli atti e i mezzi processuali. Abbiamo notato già che la stipulatio Aquiliana non sintendeva più nellOccidente; mentre del libro IV di Gaio non restò traccia nella legge Visigota. b)
Che levoluzione fu effettuata dalla consuetudine, e non dalle leggi o
dalle scuole, è provato dal fatto che
molte interpolazioni inserite nei passi dei Digesti appariscono
in aperto contrasto con principii fondamentali codificati dallo stesso
Giustiniano. E non raramente si osserva che istituti parzialmente
modificati nel periodo della Codificazione ebbero subito dopo nelle
Novelle il regolamento definitivo, preannunziato dalle interpolazioni.
Questo fatto impressionò il Cuiacio. Un esempio di questo genere ho
illustrato sopra, e concerne la grave dottrina dei pacta, in
particolare del pactum delle usurae. La spiegazione ora è
ovvia. I Compilatori, buoni conoscitori del diritto del loro tempo,
erano guidati dalla pratica dei tribunali, potevano perciò uniformare
alla stessa singole decisioni, ma non avevano di tutte le dottrine, ed
era impossibile pretenderlo, matura cognizione. La preparazione della
scuola allopera legislativa era mancata completamente; anche rispetto
ai principii più elementari, già rovesciati dalla evoluzione del
diritto. Addurre esempi sarebbe superfluo; tanto essi furono numerosi e
impressionanti. c)
La precipitosa rapidità nellesecuzione dellopera, determinata da
cause esteriori, spiega, in parte, il vizio capitale della medesima, che
risiede nellamalgama di diritto antico e nuovo, infarcito nella
codificazione. I testi classici furono accolti con rifacimenti
improvvisati, dogni specie. Ma i Compilatori conservarono assai
spesso la struttura, la terminologia dellesemplare, e dordinario
anche le parole, comunque riordinate e coordinate. Ho avvertito più
volte che questo non era il programma che serano proposto
nellesecuzione dellopera. Dalla c. Deo auctore § 10 si
rileva il proposito di procedere nella formazione di essa eliminando
tutti gli elementi caduti in desuetudine, attenendosi strettamente alla
pratica giudiziaria e alla consuetudine. Questo programma fu attuato con
buona intelligenza nel principio dei Digesti, in cui il conflitto tra ius
civile e honorarium, in ispecie, fu eliminato quasi
regolarmente. Esempi notevoli ne offrono i titoli XIV e XV del libro II
Dig. come ho dimostrato sopra. *
* * Fatti
questi rilievi possiamo affrontare lultimo problema che concerne gli
effetti della fusione del ius civile e honorarium. Se la
trasformazione del diritto fu determinata principalmente da quella
causa, che investiva dun
colpo tutta la complessione del diritto privato, gli effetti dovevano
essere costanti e uniforme lo sviluppo dalle antiche alle nuove forme.
E intuitivo che la fusione doveva produrre la rovina di tutta la
dommatica del ius civile costruita dalla giurisprudenza classica.
Il diritto pretorio aveva attuato un ampio svolgimento del diritto
civile, in tutte le direzioni, ampliandolo e correggendolo. Ma se in
questultima fase sera unito al ius civile, o aveva preso il
posto dello stesso ius civile, il risultato doveva essere
matematico ed inevitabile: quello cioè, che le categorie, gli schemi,
le nozioni fondamentali del diritto quiritario restavano frantumati, e
si dovevano ricostruire ex novo includendovi le istituzioni
pretorie, e il più delle volte anzi con lassoluta prevalenza delle
istituzioni pretorie. Pochi esempi saranno sufficienti per accertare che
lo spostamento nella dommatica avvenne appunto nella direzione indicata.
E anche qui è appena necessario notare che i Bizantini, se ebbero la
conoscenza del fatto nei singoli punti, non ebbero né lintelligenza
del risultato complessivo, né la potenza di ricostruire glistituti
giuridici con i nuovi elementi che verano penetrati e divenuti
costitutivi. I.
Nullità e annullabilità degli atti giuridici. Si è deplorato sempre
che i Romani non abbiano avuto una terminologia precisa in questa
materia.[1]
Non so se ciò sia vero. Ma in ogni caso, prima di pronunziare
sullargomento un giudizio definitivo, è necessario chiarire un
problema fondamentale, che è quello posto dallavvenuta fusione dei
due ordinamenti: civile e pretorio. Nel diritto classico latto poteva
essere nullo pel ius civile (ipso iure). Poteva essere
valido pel ius civile, ma annullabile con mezzi proposti dal ius
honorarium. In questultimo caso si poteva paralizzare
lefficacia dellatto con una exceptio: doli, quod metus
causa, e così via. Si poteva ancora chiedere la rescissione dun
atto già esaurito, o di atti o di effetti semplicemente perfetti
secondo il ius civile, per mezzo della in integrum restitutio,
quando esistessero condizioni speciali stabilite dallEdictum.
La terminologia naturalmente rappresentava con precisione la diversa
natura, la intensità, i mezzi e gli effetti della nullità civile o
pretoria. Ma avvenuta la fusione dei due ordinamenti, tutti i mezzi del
diritto pretorio per paralizzare latto o rescinderlo dovevano cadere.
Tutti quei casi, pertanto, di annullabilità per exceptionem o per
in integrum restitutionem divennero casi di nullità ipso iure.
Ciò si dovette verificare subito nella procedura extraordinaria.
Sparito il pretore, la causae cognitio passò al iudex,
investito della lite. Questi, essendo in possesso di tutti gli elementi
della causa forniti dalle parti, pronunzia ex officio la nullità
dellatto. La terminologia classica diventa oscillante, si rimescola
tutta. La exceptio del processo formulare, anche se mantenuta,
aveva esaurito la sua funzione, con lo sparire del contrasto tra ius
civile e ius honorarium. Quella che è ancora denominata exceptio
nel Corpus iuris è
una semplice allegazione di fatto, come fu riconosciuta dalla Glossa e
dai Commentatori. Onde essa può essere presentata in qualsiasi stadio
del processo, sino alla sentenza.[2]
Perciò in alcuni testi del Corpus iuris si dice che dolus
e metus sono contrari al consenso, alla bona fides, nel
senso che viziano latto ipso iure.[3]
A questo stato del nuovo diritto corrispondono le interpolazioni
accertate nel Corpus iuris. 1.
Rispetto allexceptio,[4]
la quale fu:
a) eliminata in molti passi e surrogata dallofficium
iudicis
b) applicata pure nei iudicia bonae fidei
c) congiunta a volte con lofficium iudicis con la
frase: exceptione aut (vel) ipso iure (officio
iudicis)
d) e infine lexceptio non consuma più lactio
cui è opposta, ma ha solo leffetto di diminuire la condanna. In
questo caso si manifesta apertamente la sua natura; divenuta ormai un
mezzo di tutela di una ragione di diritto materiale che si contrappone
alla ragione dellattore. 2.
Rispetto alla in integrum restitutio.
Essa fu quasi regolarmente eliminata nelle decisioni riportate
nel Corpus iuris. La constatazione fu fatta già dal Savigny, ed
ora, rispetto alla i.i.r. propter metum ciò fu largamente
dimostrato dallo Schulz; il quale, peraltro, non ha bene apprezzato
limportanza storica del fenomeno. Alcuni esempi caratteristici nei
quali appare chiaro il significato della soppressione furono riportati
sopra. Ora si afferma il diritto alla ripetizione o alla rescissione
senza in integrum restitutio;[5]
ovvero si dice che questa competit[6]
come qualsiasi azione in forza di diritto. In un testo di Harmenopulos[7]
si nota che latto estorto
per vim è nullo: kai to pragma aniscuron estin. II.
Rappresentanza nei negozi giuridici. Il ius civile non ammetteva
rappresentanza diretta, e il principio non fu mai violato dalla
giurisprudenza. Ma ciò non significa che i Romani non abbiano sentito
il bisogno di quello istituto. Si son dette tante cose inutili sul
proposito. Il vero è che senza la rappresentanza diretta non si può
concepire attività di commercio ed efficace protezione delle persone,
che non sono in grado di curare i propri affari o di agire in giudizio.
La rappresentanza diretta fu in realtà riconosciuta in Roma
nella cognitio extra ordinem; largamente applicata poi, quanto
agli effetti pratici, dal Pretore; sia con formulae ficticiae,
sia con inversione della condemnatio a favore della persona
dellinteressato, o infine con formulae in factum. Il progresso
del diritto fu sempre attuato dal pretore; e soltanto per questo
poterono i Romani mantenere illesa, rispetto ai principi fondamentali,
la struttura arcaica del loro ius civile. Nel
diritto postclassico la situazione si mutò. Divenuto civile
tutto il ius, per effetto dei mutamenti processuali, la
rappresentanza diretta si manifestò già largamente sviluppata, e negli
affari e nel processo e a favore di persone sottoposte a tutela o a
cura. Chiusa finallora dentro le formulae ficticiae, adiecticiae
qualitatis, in factum, col cadere delle formulae venne subito
alla luce belle formata. Lazione è data ora directo,
recta via al dominus (pupillo, minore etc.)
contro il terzo per atti compiuti dal
rappresentante; e viceversa al terzo contro il dominus negotii o
contro il dominus litis. I Compilatori mantennero in moltissimi
casi la denominazione di actio utilis, altre volte la
soppressero. La critica moderna ha fatto una vera strage di queste
azioni utiles, in rem o
in personam, ed ha perduto anche qui il retto sentiero. Noi
constatiamo, invece, che col venir meno dell ordo iudiciorum
privatorum era avvenuta una rivoluzione nella dommatica del
diritto.[8]
Il principio per extraneam (liberam) personam non
adquiritur; il principio alteri stipulari nemo potest
erano caduti a terra; e indipendentemente da qualsiasi influsso dei
diritti provinciali, la rappresentanza diretta
era riconosciuta per principio nella vita del diritto; cioè la
rappresentanza legale, la rappresentanza nel processo, la rappresentanza
negli affari. III.
Per la stessa causa, con lo stesso processo storico e nelle medesime
forme indicati sotto il numero che precede, nel nuovo diritto apparvero
in piena maturità nuovi istituti di diritto civile già riconosciuti di
fatto dal pretore con gli artifizi delle formulae; ovvero
apparvero largamente ampliate regole, leggi antiche o istituzioni che la
giurisprudenza non aveva avuto né il potere né la necessità di
estendere al di là dei limiti segnati dal ius civile. Qui
basterà indicare per indicem i casi più notevoli. E cioè: a)
Il riconoscimento dei contratti a favore di terzi. b)
Lazione di arricchimento fondata sul principio della dottrina stoica
che inibiva qualsiasi lucro con danno altrui; principio che il pretore
aveva attuato nella sua iurisdictio per via di actiones in
factum, ficticiae, utiles, negotiorum gestorum e così via. c)
Lapplicazione generale della lex Aquilia per qualsiasi danno
che ad altri fosse arrecato per fatto colposo di una persona. Anche le
lesioni corporali prodotte a persona libera ebbero sanzione dalla lex
Aquilia, in base allo sviluppo che il pretore aveva dato alla stessa
mediante azioni in factum o utiles. d)
Il principio che la dote, sciolto il matrimonio, deve essere restituita
alla donna o ai suoi eredi, come un proprio patrimonio della donna.
Questo principio era stato applicato dal pretore, con la guida della
giurisprudenza in tutti i casi in cui lequità ne suggeriva la
necessità o anche lopportunità per motivi economici o etici. E
ovvio che in tutti questi istituti la comparsa delle nuove forme o dei
nuovi elementi nellorganismo stesso del ius civile veniva ad
alterare profondamente la struttura dommatica di essi; che perciò si
rinvengono nel Corpus iuris disorganizzati, contorti,
contraddittori e spesso in uno stato irriducibile. La
dottrina moderna ne ha addossata la colpa ai Bizantini, alle scuole; che
al postutto non hanno avuto altra colpa che quella di non averci messe
le mani. Ma, del resto, la nostra pretesa dun nuovo riordinamento del
diritto mentre avveniva la disorganizzazione del complesso sistema
giuridico romano non è evidentemente eccessiva? IV.
Finora non è riuscito di determinare con precisione la struttura
dlelobligatio romana. Varie ricostruzioni si sono tentate, e
dal dibattito sono scaturite diverse dottrine, delle quali due,
tralasciando di enumerare le intermedie, segnano i punti estremi.
Luna costruisce lobligatio romana come un vincolo, un
assoggettamento della persona del debitore; laltra come un vincolo
prettamente patrimoniale. Le
due nozioni hanno naturalmente buoni fondamenti testuali e storici. Il
problema non può risolversi né conciliando, comunque, i testi, né
creando rappresentazioni dommatiche intermedie e ibride. Io dico, che
bisogna distinguere la figura dellobligatio secondo il ius
civile da quella pretoria. Ed è naturale che la unione dei due
ordini doveva produrre effetti considerevoli sulla struttura dellobligatio. Pel
ius civile, è fuori dubbio, la obligatio fu sempre
considerata come un vincolo della persona del debitore. Considerato
questo vincolo certamente in modo più mite col progresso della civiltà
e della elaborazione scientifica del diritto, non si alterò tuttavia la
nozione di esso, e cioè il suo carattere personale, mantenuto fermo
dalla giurisprudenza classica. Questo si prova con argomenti diretti e
irrefragabili. a)
La obligatio non è trasmissibile ad altra persona; passa allheres
e soltanto allheres perché questi assume la posizione
giuridica del suo autore. Ma non può iniziarsi dallheres (Gai
III,101). I debiti periscono per qualsiasi capitis deminutio,
anche per effetto della minima c. deminutio. Periscono per
la morte del debitore sine herede, e temporaneamente anche per la
prigionia di guerra.[9]
b)
La esecuzione è sempre personale pel ius civile, e direttamente
essa non investe in alcun modo il patrimonio del debitore.[10]
La legis actio per pignoris capionem è eccezionale per debiti
sacrali o di carattere pubblico. In contrapposto il diritto pretorio
riconobbe il rapporto obbligatorio essenzialmente come un vincolo che
investe il patrimonio del debitore. Infatti
il pretore creò vari mezzi e istituti per rendere perseguibili contro
il patrimonio del debitore anche le obbligazioni estinte pel ius
civile. I
rimedi pretori sono notissimi: formulae ficticiae, in factum, in
integrum restitutio, e soprattutto la missio in possessionem e
la venditio bonorum descritte da Gaio III, 77ss. Da questo testo
si desume, che non solo la venditio bonorum del diritto pretorio
era venuta a surrogare la feroce esecuzione delle XII Tavole sul corpo
del debitore; ma pure, che fossero o no esistenti i debiti pel ius
civile, il pretore assicurava sempre ai creditori il soddisfacimento
di essi sul patrimonio del debitore. Il
contrasto, pertanto, tra ius civile e ius honorarium ha in
questo punto due aspetti. Riguarda in primo luogo la natura del vincolo,
che non è considerato come strettamente personale; tanto è vero che
lobbligazione è ritenuta viva e perseguibile anche senza la persona
del debitore. Riguarda, in secondo luogo, e conseguentemente
lesecuzione che ha luogo sul patrimonio e non più sulla
persona. Il giureconsulto Cecilius in Gellius XX,1,19 insiste su questo
stato del nuovo diritto, dicendo che al procedimento primitivo,
inesorabile, inumano, era stata sostituita la venditio dei beni: sicuti
nunc bona venum distrahuntur. Or
secondo il processo storico a noi noto, nel diritto postclassico,
sparito il pretore, caduta la in integrum restitutio e tutte le formulae,
la esecuzione del diritto pretorio fu assunta nella pratica come
istituto iuris civilis: onde è ora nei poteri del giudice (officio
iudicis) di ordinare la esecuzione sui beni. Per
fortuna, di questo trapasso degli istituti pretorii al ius civile
abbiamo una precisa relazione di Giustiniano, già riferita sopra, e
nella quale è detto che le bonorum venditiones cum ipsis ordinariis
iudiciis expiraverunt (I.3,12). Le conseguenze dordine dommatico
furono considerevolissime, e sono visibili nei Digesti. A parte che le
tracce dellantico diritto, come al solito, non potevano sparire
tutte; è da notare: a)
nel Corpus iuris la obligatio può sussistere senza la
persona del debitore, il che vuol dire che il vincolo non è più
considerato personale, per essenza.[11] b)
la esecuzione della condanna investe sempre il patrimonio del debitore.
Se trattasi di azioni in rem, esse si eseguiscono sulla cosa
stessa: manu militari officio iudicis.[12]
Le condanne da azioni in personam sono parimenti rese esecutive
sul patrimonio del debitore, con la missio in possessionem e la venditio
dei beni ordinate dal giudice secondo esige la necessità del caso. Non
cè altro esempio che serva meglio di quello qui descritto, e che
riguarda la struttura dellobligatio, a illustrare il processo
storico dellevoluzione del diritto romano. I Compilatori, come abbiam
visto, avevano in proposito idee chiare, perciò il mutamento del
diritto poterono segnalarlo con precisione e attuarlo con costanza
nellopera legislativa. La pratica giudiziaria aveva subito trovato la
sua via in questo punto di diritto. Il mutamento si era compiuto
rapidamente nella nuova
procedura, perché essa assunse come ius civile il contenuto
materiale deglistituti del diritto pretorio, che già nel periodo
classico serano sostituiti completamente al ius civile. La
scuola, qui come altrove, aveva nulla da suggerire e da insegnare. Le
istituzioni giuridiche, già lungamente sperimentate, prendevano il loro
posto da sé stesse. Tutti i rimedi pretorii escogitati per sovvenire o
paralizzare il ius civile cadevano per atrofia. II.
Fusione del ius gentium col ius civile. Il
processo storico che produsse la fusione del ius gentium col ius
civile è ormai a noi noto, perché esso siniziò e svolse nel
periodo della giurisprudenza classica, mercè lanalisi acuta dei
giuristi rispetto agli elementi costitutivi dei negozi solenni del
commercio. Il risultato delle indagine fatte sopra appare più chiaro e
più sicuro dopo che abbiamo scoperto e messo in luce il corso della
evoluzione di tutto il diritto romano. Il
ius civile, abbiamo visto, restò immobile soltanto esteriomente,
rispetto allesigenza delle forme solenni, ma non a riguardo degli
elementi interni costitutivi dei negozi. In questo campo il lavoro della
giurisprudenza fu intenso e quanto mai fruttuoso. Ma anche in ordine
alle forme limmobilità del ius civile è più apparente che
reale. Anche le forme subivano semplificazioni notevoli, delle quali non
è necessario qui ripetere le prove. Certo le differenze formali e
sostanziali tra negozi iuris civilis e iuris gentium si
venivano attenuando lentamente. Siccome, infatti, tutti i negozi,
delluno e dellaltro ordine, servivano ad effettuare il commercio
dei beni e in particolare a costituire rapporti obbligatori, avendo essi
lo stesso campo dazione e un identico scopo, la fusione dei due
gruppi in ununica categoria era inevitabile, imposta dalla stessa
realtà. Ed i negozi iuris gentium ebbero ben tosto la stessa
protezione giuridica con actiones civiles; la stipulatio
fu estesa anche ai non cives, e resa iuris gentium. E
mentre ii caratteri proprii delluno esercitavano il loro influsso su
laltro gruppo di rapporti giuridici, daltra parte la protezione
giuridica della civitas romana si estendeva di continuo a singoli
individui, a città, a genti, sino alla famosa costituzione di Caracalla
della. 212 che diede la civitas a tutti gli abitanti
dellImpero, con lesclusione dei dediticii. Tutto
ciò serve a indicare la direzione del movimento del diritto verso la
unificazione anche del ius civile e del ius gentium. Le
forme del ius civile erano un prodotto di una civiltà primitiva,
e apparivano sempre più artificiose. Così, per esempio, nella pratica,
la sola traditio e non la mancipatio era adoperata
nellalienazione di cose mobili appartenenti alle res mancipi.
Ed invero la prevalenza sempre maggiore nella pratica delle figure
giuridiche del ius gentium era determinata dagli stessi elementi
costitutivi, più semplici e soprattutto di carattere naturale, dacché
essi riprendevano la realtà stessa come si manifesta nel mondo degli
affari. Lanalisi della giurisprudenza romana fu magistrale a questo
riguardo, cioè nello scovrire e fissare le leggi che governano
lattività degli uomini in ordine allo scambio dei beni e
allattuazione di relazioni giuridiche. E la scomposizione analitica
degli elementi dei negozi condusse la giurisprudenza alla ricostruzione
sintetica sempre più precisa e più larga delle categorie giuridiche.
Anche i negozi del ius civile erano stati compresi nellesame e
attratti nellorbita della categoria generale dei negozi. La
giurisprudenza aveva constatato, come sappiamo, che gli stessi elementi
naturali si riscontrano nei negozi solenni, cioè la conventio
e la causa; i quali, seppure coperti dalla forma, nondimeno
debbono esistere, come nei negozi iuris gentium, perché essi
siano pienamente efficaci. Che la inefficacia sia diretta, cioè per lo
stesso ius civile; o indiretta, cioè attuata dallo ius
honorarium, appare cosa di secondaria importanza. Questo è il
giudizio di Cicerone.[13]
E questa è la realtà. Il vizio della conventio o della causa,
rende ora latto nullo o almeno annullabile. Se la forma solenne è
sempre necessaria, essenzialmente necessaria, essa è divenuta una veste
degli elementi naturali del negozio. Lassoluto dominio della forma,
dei verba, che fu il punto di partenza del ius quiritium,
tramontava giorno per giorno. Il pretore annullava atti che erano
pienamente validi pel ius civile. Il pretore, daltra parte,
seguendo la giurisprudenza, rendeva efficaci convenzioni anche se non
rispondevano a tutti i requisiti imposti dal ius civile. Inoltre,
il pretore con formulae ficticiae molto spesso derogava alle
stesse forme solenni, riconoscendo efficace il negozio come se la
solennità fosse stata compiuta. Ciò significava, nella maniera più
patente, che la coscienza giuridica esigeva ormai il riconoscimento e la
protezione dei negozi aventi tutti i requisiti naturali in ordine, anche
se difettosi nella forma; e viceversa esigeva la nullità degli atti
compiuti iure, quando fossero manchevoli negli elementi interni,
di carattere sostanziale. La prevalenza, pertanto, di elementi naturali
era in cammino, e viceversa la decadenza delle forme preannunziava la
loro scomparsa. Ciò
avvenne, difatti, gradatamente nel diritto postclassico, da Costantino
in poi. Dopo la constitutio Antoniniana, fino a Diocleziano gli
imperatori reprimono con estremo e inopportuno rigore la inosservanza
delle forme solenni romane, pronunziando la nullità degli atti. La
reazione però si manifesta vigorosa subito dopo, precisamente nella
materia delle donazioni e della dote, che hanno nella vita familiare di
ogni tempo unimportanza essenziale.[14]
Rispetto alla stipulatio la solennità fu abolita da Leone.[15]
Nella pratica, anche anteriormente alla data ora indicata, le forme
solenni furono considerate compiute quando fossero attestate da un
documento scritto. Così nella stipulatio,[16]
nella manumissio,[17]
nella tutoris auctoritas. La scrittura prende via via il posto
delle solennità orali. Il trapasso dalla oralità alla scrittura si
compie mediante presunzioni iuris et de iure. Le quali perciò
appariscono in gran numero nel Corpus iuris, espresse di regole
con il verbo credere (credendum est; creditur).
Siffatte presunzioni riguardano per lo più le forme o il contenuto
degli atti, in particolare la volontà delle parti. La giurisprudenza
romana non ricorreva mai per questi rispetti a presunzioni; constatava
losservanza o meno della forma, e interpretava il contenuto
dellatto dalla realtà, riguardata nei suoi elementi soggettivi e
oggettivi, con larte inarrivabile che essa possedette. Le presunzioni
sono un prodotto della pratica giudiziaria del periodo della decadenza.
Segnano, in primo luogo, il trapasso dalla vita alla morte delle forme
solenni romane. Segnano, in secondo luogo, la scomparsa dellarte
dellinterpretazione, la quale deve sapere discernere nei fatti e
negli atti giuridici gli elementi reali e decisivi. Raccogliendo
ora i risultati di questo processo evolutivo, possiamo nella
codificazione di Giustiniano constatare già compiuta la fusione del ius
civile e del ius gentium. La unicità della categoria dei
negozi che costituisce il campo proprio del ius gentium
si manifesta per i seguenti caratteri: 1.
Tutte le forme solenni romane sono scomparse, sostituite in qualche caso
dalla scrittura. La forma della stipulatio, che sera ritenuta
unica superstite, per quanto attenuata, non esiste più nella realtà.
Dopo la legge di Leone del 472 essa divenne una mera convenzione, la
quale non esige nemmeno leffettiva presenza delle parti.[18] 2.
Scomparse tutte le forme solenni ne derivò la perfetta eguaglianza di
tutti i negozi. a)
La traditio divenne il modo generale di trasferimento del
dominio. La distinzione delle res (mancipi e nec
mancipi) era scomparsa.[19] b)
Diritti reali si costituiscono pactionibus et stipulationibus o
mediante traditio.[20] c)
Rapporti obbligatori nascono da conventiones (contractus,
pacta, stipulationes). 3.
Conventio e causa
sono elementi naturali, costitutivi di tutti i negozi reali o
obbligatori. La categoria dei negozi astratti, la cui validità era
indipendente dalla causa, scomparve completamente. Ora tutti i negozi
sono causali, secondo le norme del ius gentium. Perciò il
creditore deve provare la causa del suo credito, se essa non apparisce
dallatto (cautio indiscreta: fr. 25 § 4 D.23,3). E se
lobbligazione è già costituita per una causa per sé efficace, es. re,
consensu etc., la stipulatio si ritiene fatta ex
abundanti: fr. 5 § 3 D.3,5.[21]
Onde anche la stipulatio è divenuta causale, nel senso comune
che la sua esistenza dipende dalla realtà e liceità duna causa.
Ciò fu riconosciuto dagli antichi interpreti. La dottrina contraria era
prevalsa nella scuola storica nel sec. XIX, ma è stata superata dagli
studi più recenti.[22] La
surrogazione della scrittura alle forme romane merita ancora
unulteriore osservazione. La decadenza
delle forme solenni romane che ebbe, come sè visto, effetti
così notevoli nella dommatica giuridica, si suole oggi riportare quasi
esclusivamente allinflusso delle consuetudini dei paesi orientali,
nei quali la scrittura era largamente usata nella vita del diritto. Il
contrasto per questo riguardo tra Roma e lOriente è caratteristico.
Roma parla, lOriente scrive. E
in realtà non si deve negare linflusso di quelle consuetudini sul
diritto romano, che si manifesta subito con Costantino. Dopo la constitutio
Antoniniana, più volte ricordata, le forme romane nei paesi
ellenistici furono asservite al documento scritto. Ma se ciò è vero,
questa causa non può essere ritenuta esclusiva. La trasformazione delle
forme solenni orali in forme scritte doveva avvenire necessariamente. La
decadenza delle forme orali sera iniziata, come ho notato, nel
periodo classico. Anzi esse si mantennero
a lungo nel mondo romano, per motivi del tutto eccezionali. E
cioè: da una parte per la grande disciplina e per la tenace tradizione
del ius civile; e dallaltra per lintervento del pretore, il
quale, nei casi in cui linosservanza delle forme poteva produrre
effetti iniqui, veniva in soccorso con formulae ficticiae,
concedendo lazione come se latto fosse stato compiuto nelle forme
prescritte. A
provare la giustezza di queste osservazioni basterà ricordare che nel
periodo classico la cautio, che attestava la solennità orale,
era molto diffusa nella pratica fin dal tempo di Cicerone; e questa
pratica preparava sicuramente la via alle forme scritte. In proposito è
notevole che Cicerone frequentemente accenna a dubbi dinterpretazione
e a controversie giudiziarie riguardanti stipulationes e si
riferisce sempre allo scriptum.[23]
Ciò non deve essere dimenticato, dunque, quando si vogliano valutare le
cause e i fattori dellevoluzione del diritto romano. Se nel diritto
giustinianeo le forme degli atti e i mezzi di prova preferiti e a volte
esclusivi sono rappresentati decisamente dagli instrumenta,[24]
limportanza di essi di fronte ai testes, in special modo,
aveva percorso la sua evoluzione lenta ma sicura nella pratica sin dal
tempo della Repubblica. III.
Recezione nel ius civile di rapporti riconosciuti dal ius
naturale. Nel
movimento generale del diritto che si verifica nel periodo di cui ci
occupiamo è attratto anche il ius naturale; nel senso che
rapporti che erano riconosciuti come semplici obbligazioni naturali
passano al ius civile, muniti per ciò di piena efficacia
giuridica. Il trapasso avviene pure qui secondo la legge
dellevoluzione accertata nellepoca classica. La protezione di
fatti e rapporti garentita dapprima dal pretore in modo imperfetto, per
lo più mediante exceptio, ma a volte con formulae in factum,
è assunta in seguito dal ius gentium, attuata con azioni civili.
E del resto è noto, che secondo la concezione romana la fonte del ius
gentiumè appunto il ius naturale. Nel
diritto postclassico è ovvio che questo trapasso di rapporti dal ius
naturale al civile si è compiuto in maniera più vasta e
più rapida. Gli
esempi più significativi e importanti sono i seguenti: 1.
La retentio che si accordava in molti casi come sola forma di
tutela, es. per impensae fatte in buona fede su cose di altri,
aveva fondamento sul diritto naturale. Perciò nel diritto classico la retentio
presuppone sempre la bona fides dellagente che la invoca
ed è protetta mediante lexceptio doli. Questo carattere dello
ius retentionis non può essere messo in dubbio, perché è
rivelato dalla decisione di Papiniano contenuta nel fr. 1 § 4 D.20,1,
che non fu compresa nemmeno dal Cuiacio.[25] Nel
diritto nuovo i rapporti protetti con la semplice retentio furono
muniti di actio (condictio, actio negot. gestorum, de in rem
verso) e perciò considerati iuris civilis. Lestensione,
poi, dellactio anche al possessore di mala fede dipende dal
principio più generale nemo ex aliena iactura locupletari debet,
che fu riconosciuto e attuato senza alcuna limitazione.[26] 2.
Nuda pacta fatti in buona fede furono riconosciuti e protetti dal
pretore come cause di obbligazioni naturali. La dottrina antica fu
concorde in questo punto a partire dalla Glossa.[27]
Nella cognitio extraordinaria, come sappiamo, essi furono
gradatamente muniti di azioni civili. 3.
Lo schiavo non può assumere obbligazioni; il suo debito vale soltanto
natura. Anche la promessa fatta al padrone ut eum
manumitteret non acquistava efficacia giuridica con la manumissione.[28]
Nel diritto giustinianeo però essa diviene coercibile. Forse è
possibile, in base ai risultati delle nuove indagini sulle fonti,
formulare il seguente principio generale: tutti i rapporti posti in
essere dallo schiavo divengono civili con lacquisto della libertà.
La formola parrà eccessiva, perché lo stato del diritto antico
apparisce ancora in grande rilievo nella Compilazione. Ma è certo che
in essa si rinvengono decisioni impressionanti; e che daltra parte il
principio non è così eretico come sembra a prima vista ove si rifletta
che il pretore in molti casi dava contro lo schiavo manomesso actio
de dolo e formulae ficticiae per costringerlo
alladempimento.[29] Considerato,
pertanto, il valore degli esempi illustrati, che abbracciano vaste
categorie di obbligazioni naturali passate rapidamente nella sfera del ius
civile, si può ben intendere, anche per questo rispetto, la legge
dellevoluzione diretta al riconoscimento giuridico pieno di rapporti
che dapprincipio si presentano come semplici obbligazioni naturali.
Ciò, ovviamente, non può significare che la categoria delle
obbligazioni naturali in uno stadio progredito del diritto sparisca; ma
soltanto questo, che i tipi o casi di obbligazioni naturali seguono lo
sviluppo della vita sociale e si rinnovano di continuo.[30] *
* * I
punti illustrati per provare la fusione del ius civile e del ius
honorarium, del ius civile e del ius gentium o
naturale, gettano ora un fascio di luce potente su tutta levoluzione
del diritto romano, che si riflette sulle fonti giustinianee e su quelle
pregiustinianee; nonché sulla dommatica del diritto privato, vale a
dire sulla struttura assunta dalle istituzioni giuridiche nel ius
novum e nellepoca
moderna. Levoluzione
qui descritta dirada le nebbie che avvolgono le dottrine contenute nel Corpus
iuris. Essa disperde dispute teoriche secolari sui varii punti di
diritto, e mette in luce gli avvenimenti che determinarono la
trasformazione del diritto privato e gli elementi che concorsero a
rinnovarlo e a riformarlo. Noi
possiamo ora seguire nelle fonti romane il corso dellevoluzione,
continuo e indefettibile, che ci dà ragione del valore di potenza e di
resistenza di quel diritto a tutte le vicissitudini delle dottrine
germogliate dal caos del Corpus iuris. Gli
è che tutte le nostre istituzioni di diritto privato hanno radici
profonde nel ius civile dei Romani ravvivato e rammodernato
sapientemente con opera
assidua dal pretore, elaborato dai grandi giuristi di Roma. Il diritto,
fenomeno vitale per eccellenza, sera formato in Roma assumendo tutti
gli elementi dalla complessità enorme dei fenomeni sociali. Allorché
venne meno poi nella cognitio extraordinaria il potere superiore
che aveva mantenuto lequilibrio tra i vari ordinamenti, la crisi
scoppiò vasta e profonda; ma in essa non poteva rimanere travolta una
tradizione giuridica così complessa, ricca di contenuto cioè di mezzi,
di forme, di esperienza; una tradizione che aveva dentro di sé
lanalisi più perfetta di elementi di vita, rivelatisi
allosservazione illuminata di tante generazioni di magistrati e di
giuristi, elementi assunti già nellorganismo del diritto e
generatori essi stessi di vita e di una civiltà superiore. Sospettare,
come si è fatto, uno smarrimento completo della tradizione romana,
così luminosa, così organica, per linflusso di diritti inconditi o
per le elucubrazioni di scuole mediocri, è cosa assurda oltre ogni
immaginazione. Le generazioni che vivono dopo epoche di splendore di
civiltà vivono sempre una vita parassitaria. Le istituzioni giuridiche
romane avevano solo bisogno di semplificazione. Il compito di riassestare e semplificare il diritto incombette alla consuetudine, in primo luogo alla pratica giudiziaria; la quale trovò subito i mezzi e le vie più dirette. Il diritto si venne ricomponendo da sé stesso; nella parte essenziale con gli stessi elementi classici: ius civile e ius honorarium si fusero in un unico ordinamento; e così il ius civile e il ius gentium. Il diritto così ricomposto appare nuovo sostanzialmente. E nuovo in realtà nella struttura e nella dommatica. Ma rappresenta nei suoi elementi costitutivi una reincarnazione del diritto creato da Roma, che ha assunto alfine la forma definitiva per compiere la sua missione storica universale. indice
delle fonti citate I. FONTI GIURIDICHE a) Fonti pregiustinianee Gai Institutiones 1.119 1.123 1.128 2.8 2.35 2.50 2.103 2.104 2.197 2.247
ss. 2.252 3.12
ss. 3.77 3.77
ss. 3.79 3.84 3.85 3.89
ss. 3.91 3.94 3.101 3.114 3.129 3.136 3.169 3.179 3.196 3.198 3.208 4.11 4.30 4.33 4.38 4.80 4.115 4.116 4.119 4.153 4.178 Fragmenta Gai Augustoduniensia 67 Fragmenta
Vaticana 49 50 83 254 263 Mosaicarum
et romanarum legum collatio 1.6.2 Pauli
Sententiae 1.7.4 2.31.31 2.31.35 5.2.1 5.7.2 5.23.3 Tituli ex corpore ulpiani 19.15 20.2 29.12 b) Fonti giustinianee Codex repetitae praelectionis 2.3.20 2.20.3 4.14.3 4.22.1 4.22.2 4.44.5 6.2.22 6.43.1 6.43.1
pr. 6.43.2 7.25.1 7.31.1 7.37.10 7.40.3 7.50.2 8.1.3 8.37.14 Constitutio Deo auctore §
1 §
10 Constitutio Omnem §§
1-2 Constitutio Tanta § 1 § 9 § 10 § 11 § 14 Digesta Iustiniani 1.3.29 1.3.30 2.14.1.2 2.14.1.3 2.14.5 2.14.6 2.14.7 2.14.27.9 2.14.30.1 2.14.30.2 2.15.2 2.15.5 2.15.7 2.15.7.1 2.15.7.2 2.15.7.4 2.15.15 3.5.47 3.5.47.1 4.2.21.5 4.3.7.7 4.3.7.8 4.5.1.3 4.5.8 5.1.35 6.1.5.4 6.1.68 6.2.11.1 7.2.3.2 8.1.4 8.3.13 pr. 8.3.33.1 9.2.51.2 10.3.14.1 10.4.7.1 10.4.19 11.1.9 11.1.11 11.7.14.11 11.7.32
pr. 12.1.9
pr. 12.1.9.8 12.1.9.9 12.1.18 12.1.20 12.1.30 12.6.23.3 12.6.33 12.6.65.1 12.6.65.3 13.7.37 13.15.3.1 14.2.8 14.3.13
pr. 15.1.32
pr. 16.3.29 17.1.55 17.2.51
pr. 18.1.9 18.1.74 18.5.3 18.5.5 18.5.5
pr. 18.6.14.1 19.1.49 19.2.46 19.5.5.2 19.5.15 22.2.5 23.3.9.3 23.3.21 23.3.80 23.3.83 24.1.58.2 24.1.64 27.7.4.3 28.1.23 28.5.35
pr. 28.5.35.3 29.2.86 30.4
pr. 33.2.1
pr. 33.10.7.2 33.10.10 33.10.33 34.2.32.1 34.5.29 35.1.17
pr. 35.1.17.1 37.1.1 39.2.5.9 39.2.12 39.2.15.16 39.2.15.33 39.2.18.15 39.5.1
pr. 39.5.6 39.5.31.1 40.2.23 40.4.54
pr. 40.8.1 41.1.5.1 41.1.9.3 41.1.9.6 41.1.9.8 41.1.31
pr. 41.1.36 41.1.55 41.2.3.1 41.2.3.3 41.2.3.11 41.2.3.18 41.2.3.23 41.2.10.2 41.2.18.2 41.2.21.1 41.2.25.2 41.2.3.3 41.2.3.6 41.2.3.18 41.2.13
pr. 41.2.17.1 41.2.18.3 41.2.21.1 41.2.21.2 41.2.25 41.2.26 41.2.44.2 41.2.47 41.2.51 41.3.37
pr. 41.7.7 41.7.9.5 41.9.1.2 42.5.4 43.16.1.9 43.16.1.25 44.4.2.3 44.4.4.18 44.4.11
pr. 44.7.1 44.7.3.1 44.7.3.2 44.7.4.1 44.7.4.2 44.7.5
pr. 44.7.35.2 44.7.38 44.7.44.2 44.7.54 44.7.55 44.7.57 45.1.5
pr. 45.1.32 45.1.35.2 45.1.52 45.1.56.4 45.1.56.8 45.1.99 45.1.137.1 45.1.141.5 46.1.21.3 46.2.8 46.2.14 46.2.24 46.2.31 46.3.1 46.3.5 46.3.16 46.3.34.2 46.3.98.6 46.3.72.1 46.3.97 46.4.8
pr. 46.4.14 46.4.19
pr. 46.4.23 46.5.1 47.2.1.1 47.2.1.3 47.2.43.4 47.2.43.5 47.2.43.10 47.2.43.11 47.2.46.8 47.2.52.7 47.2.52.19 47.2.56.1 47.2.56.3 47.2.65 47.2.67.2 47.2.68
pr. 47.9.3
pr. 47.19.6 48.8.1.3 50.16.6.1 50.16.116 50.16.125 50.16.225 50.17.116 Institutiones Iustiniani 2.1.45 2.1.47 2.1.48 2.3.4 2.4.1 2.10.1-3 2.13.5 2.20 2.20.3 2.23.7 2.29 2.30 3.2.3 3.6.10 3.12 pr. 3.13.2 3.14.1 3.15.1 3.15.3 3.19.3 3.19.12 3.24.3 3.25.2 3.27.1 4.1.7 4.1.8 4.1.18 4.15.8 Novellae Iustiniani 118 134.4 c) Fonti bizantine Basilica 11.6.67 Schol. 24.5.3 Exabiblos 1.12.55 Paraphrasis Theophili 2.6.5 4.1.7 d) Fonti epigrafiche e papirologiche Corpus Inscriptionum Latinarum 10.318 Lex Rubria 20 Res gestae divi Augusti 30.4 P.S.I. 1.55 II. FONTI LETTERARIE Aristoteles Ethica ad Nicomachum 5.2.13 6.2 Cicero Brutus 52 152 196 De
inventione 1.70 2.14 2.54 2.100 De
legibus 1.17 3.8 De
natura deorum 2.168 De officiis 1.32 3.21 in Verrem actio secunda 1.42.109 Laelius 92 Orator 3.24 Partitiones
oratoriae 126 136 pro
Caecina 18.51 23.65 34.99 pro Tullio 29.34 Topica 25 26 28 Gellius Noctes
Atticae 4.4 6.3.35 11.18.14 11.18.21 11.18.23 20.1.19 20.1.41 Lucretius De
rerum natura 3.94 Procopius Anecdota Quintilianus Declamationes 331 Rhetorica ad Herennium 2.14 Sallustius in Catilinam 1.2 Seneca De beneficiis 5.14.2 5.20 De controversiis 7.4 Servius grammaticus Commentarius in Vergilii Aeneidem 4.103 Valerius Maximus Dicta
et facta memorabilia 6.1.8 Varro De lingua Latina 69 ss. 71 72 INDICE I
problemi La
volontà La
voluntas negli istituti del ius gentium Conventio,
contractus, pactum
Parte II
Il
diritto da Costantino a Giustiniano Le
cause dellevoluzione del diritto romano I
Fusione del ius honorarium col ius civile II
Fusione del ius gentium col ius civile III
Recezione nel ius civile di rapporti riconosciuti dal ius
naturale. Indice
delle fonti citate
Note: [1]
<Windscheid, Pand. § 82 n. 2; Hellmann, Z.S.S. v.
23, 1902, p. 380ss.; v. 24, 1903, p. 50ss.> [2]
Vide fr. 23 § 3 D.12,6 fr. 11pr. e 4 § 18 D.44,4 c. 2 C.
7,50: cfr. Guarneri, Studi Perozzi. [3]
fr. 116 D.50,17; c. 5 C.4,44.
Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 300 e Schulz, Z.S.S. v. 43, p.
209. [4]
Z.S.S. v. 43, p. 295ss. [5]
fr. 65 § 1 D.12,6; c. 3 C.2,20: in rem quoque ... [6]
Paul. Sent. 1,7,4; fr. 86 D.29,2 cfr. Pringsheim, Z.S.S.
v. 42, p. 654. [7]
Exabibloj I,12,55. [8]
Dal diritto romano classico, p. 631ss. e la trattazione più
larga nelle Formulae ficticiae. [9]
Cfr. Gai. I,128; II, 35; III, 84, 85, 114; IV, 38, 80; Ulpian. XIX,
15; XXIX, 12; fr. 1 D.40,8 (interp. competit, e del resto
rimaneggiato), cfr. 4 D.42,5 (sed hoc...futurum Trib.); Gai
III,77ss. [10]
Cfr. Woess in Z.S.S. v. 43, p. 485ss. [11]
Cfr. Archiv f. Rechtsphilosophie v. XVI, p. 512ss. [12]
fr. 68 D.6,1. [13]
Cic., off. I,
<32> [14]
Cfr. Mél. Girard, II, p. 416. [15]
<I.3,15,1.> [16]
<Paul. Sent. 5,7,2.> [17]
Fr. 23 D.40,2. [18]
<c. 14 C. 8,37; I.3,19,12.> [19]
<c. 1 C. 7,31.> [20]
<I.2,3,4; 2,4,1; fr.
11 § 1 D.6,2 (itp.).> [21]
Sul testo Segrè, Studi per Simoncelli, p. 361. [22]
Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 287ss., 337 ivi per lantica
letteratura. Male il Wendt in Jherings Jahrb. v. 38 p. 20ss
il quale negò levoluzione e ritenne la stipulatio fosse
stata sempre causale. La dottrina esposta nel testo è insegnata ora
da Sohm-Mitteis, Instit., p. 411, 412; Lenel, Deutsche
Literatur Zeitung a. 1924, p. 241. [23]
Cfr. Costa, Cicerone giureconsulto, I, p. <153 n. 5.> [24]
Cfr. Z.S.S. v. <43, p. 312ss.> [25]
Cfr. B.I.D.R.v. 20, p. 244ss. Per il problema in generale cfr.
Dal diritto romano classico al diritto moderno, p. 266; anche
Goldschmidt, Handbuch des H.R., I § 94 n. 14. Il
Windscheid, Pand. §§
287 n. 5; 289 n. 1 nega lobbligazione naturale come fondamento
del ius retentionis. [26]
Cfr. in proposito Dal diritto romano classico al diritto moderno,
p. <376ss.; 429ss.; 652ss.>, dove la materia è esaminata
largamente anche rispetto al diritto moderno. [27]
Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 342. [28]
c. 3 C.4,14: cfr. Basil. 24,5,3.
Z.S.S. v. 43, p. 361. [29]
fr. 7 § 8 D.4,3. Mitteis, Priv., p. 202 n. 32, p. 319;
Riccobono, Formulae ficticiae. [30]
Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 372.
[1]
Cfr. Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 283. [2]
Reth. 1,13 (1374). [3]
Cfr. Mommsen, Strafrecht, p. 97 n. 5. [4]
Gell., 6,3,35. [5]
Cicero, pro Tullio 29,34; Seneca, de benef. 5,14,2; de
controv.7,4; Giovenale 13,199. [6]
Collat. 1,6,2; fr. 1 § 3 D.48,8. [7]
Cfr. Schulz, Einführung cit., p. 65. In contrario Huvelin, Le
furtum, p. <375ss.> [8]
Anche nel fr. 47 D.41,2 di Papiniano si tratta del depositario che
costituisce di possedere per sé. E citato Nerva, ed ammessa la
perdita immediata del possesso da parte del deponente. Anche questo
passo è fortemente interpolato: Beseler, Beitr. III, 88. [9]
Nel testo è sicuramente interpolata la frase finale: quod verum
esse arbitror, che non può attribuirsi a Ulpiano, la cui
opinione era contraria. [10]
Gell., 11,18,23. [11]
Cfr. Paul. 29 D.16,3; Sent. II,31,35;
3 § 18 D.41,2; Papin. 55 D.17,1; Ulp. 1 § 1 D.47,2; 52 § 19
D.47,2. [12]
Gai 2,50; cfr. I.4,1.7; fr. 37pr. D.41,3; Gai 3,208, cfr. I.4,1,18;
Gai 4,178; Paul., Sent. II, 31,35; Ulp. fr. 43 § 5 D.47,2; <Iul.>
51 § 2 D.9,2; <Ulp.> 51pr. D.17,2:
testo interpolato, ma solo nel periodo et sane...credendum est;
Iulianus, 56 § 3 D.47,2. [13]
Cfr. Cic., off. 3,21: ut praeter suum quisque emolumentum
spoliet aut violet alium. [14]
Cfr. Gell. 11,18,21; Paul., Sent. II, 31,31; fr. 1 § 3
D.47,2; Ulp. 43 § 4 D.47,2. [15]
Paulus, Sent. II,31,35. [16]
Cfr. Gell. 11,18,14; fr. 67 § 2 D.47,2; fr. 7 § 7 D.4,3. [17]
Cfr. fr. 6 D.47,19 Paul. ad Neratium; 43 § 5 D.47,2 (interp.
recte dictum est); fr. 46 § 8 eod. (interp. formale: verum
tamen est); Gai 3,198; I.4,1,8. [18]
Sarà bene avvertire che togliendo anche da Gai 2,50 il periodo
finale con la frase adfectus furandi nulla si muta; perché
tutto il testo è costruito sul credere, existimare
dellagente. Inoltre la massima: furtum enim sine affectu
furandi non committitur, è in Theophilus II,6,5 e IV,1,7
riportata in latino, come egli riporta in tutti gli altri casi in
latino i proverbi giuridici. Losservazione è dello Schrader, Inst.,
p. 252. La regola di cui qui trattiamo formulata dai veteres
si dovette affermare con Sabino e Cassio: cfr. fr. 3 § 18 D.41,2. [19]
Cfr. Pringsheim, Beryt und Bologna. [20]
Un esempio cospicuo rispetto al possesso nel fr. 3 § 23 D.41,2. [21]
Pal. II, p. 240. [22]
Pal. II, p. 240 n. 3. [23]
Cfr. Z.S.S. v. 43 p. 307ss.; Lenel, Pal. I, p. 971. [24]
Questa congettura potrebbe richiamarsi ad un indice greco dei passi
riferiti del Digesto, venuto alla luce di recente in un papiro
egizio, pubblicato nei P.S.I. v. I nr. 55 dal Vassalli e in B.I.D.R.
vol. 24 p. 192. Il papiro nel verso l. 3 e 4 riporta il fr. 5 di
Ulpiano così: Ulp. conventionwn ... eij duo diaireitai eis publecon
pakton kai eis privaton (per il termine diairesij = distinctio v.
Peters, Digestenkomm., p. 23). Lindice fu composto
certamente ad uso delle scuole da un antecessore contemporaneo di
Giustiniano. Vassalli pensa a Theophilus. Ma è sicuro che
nellindice si rinvengono elementi pregiustinianei. In varii
lavori io ho potuto dimostrare che questo fenomeno si nota in tutti
i sunti o commenti fatti dai contemporanei di Giustiniano alle
singole parti della Compilazione, e che ciò si deve alluso fatto
dagli antecessori delle antiche versioni greche delle opere dei
giuristi e dei Codici, che erano diffuse nelle scuole orientali. Cfr.
B.I.D.R. v. 9 p. <272ss.>
Cfr. anche B. scolii ad h.l., Heimbach I, 557. [25]
Così anche il Mitteis, R. Privatrecht, I, p. 36 n. 19, ed
ivi citati. Il Mitteis richiama in confronto il fr. 77 R.J: actus
legitimi. [26]
Sul testo v. Pernice, Z.S.S. v. 9, p. 198. [27]
Cfr. fr. 5 § 2 D.19,5. [28]
Eth. Nicom. V,2 (4), 13, p. 1130. [29]
Z.S.S. v. 9, p. 125. [30]
Cfr. Z.S.S. v. 43 p. 297s. [31]
Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 338ss. [32]
Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 363ss. [33]
Si veda specialmente la c. Tanta. [34]
Röm. Privatrecht, I, Vorwort. [35]
Il pensiero del Mitteis si ricostruisce con precisione dal 1891 al
1917. Reichsrecht
(1891): lopera nel programma del M. era limitata a provare la
persistenza del diritto volgare nelle province orientali, anche dopo
la c. di Caracalla e non linflusso che quel diritto potè
esercitare sul diritto giustinianeo, rispetto al quale egli scriveva
(p. 10): noch die grösste Zurückhaltung räthlich ist; die letzen
Ziele die hier auszutreben sind, werden erst nach sehr langer,
geduldiger Arbeit zu erreichen sein. Parole preziose! Nel
1908 (l.c. nella nota precedente) il grande Maestro non vedeva
ancora lultima méta. E nel 1917 in una luminosa conferenza (<Antike
Rechtsgeschichte und
romanistisches Rechtsstudium, in Gymnasium, vol. 18>)
elevava un inno al diritto romano, additando il Corpus iuris
come la fonte più ricca e ancora inesplorata delle dottrine e
svalutando il diritto greco e quindi tutte le scoperte dei moderni.
Linsegnamento è davvero solenne. [36]
Qui sono da notare molte leggi, che riguardano la forma dei negozi,
la lingua, <?>. [37]
<Res gestae, XXX,4.> *
[Lindicazione della fonte manca nel testo. Essa è ricostruibile
tramite la notazione che si legge in S.Riccobono, Corso di diritto romano. Formazione e
sviluppo del diritto romano dalle XII tavole a Giustiniano. Parte II,
1933-34, 130, ove si parla di un ritrovamento in Egitto di una
pergamena ora a Strasburgo; ivi, in nt. 1 si rinvia alle notizie
sul documento fornite dal Lenel, Z.S.S. v. 25.] [38]
La genuinità di questo passo è stata messa in dubbio da Beseler, Beitr.
IV,
281; Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 646 n. 1. Ma
vedi contro Levy, Konkurrenz, I, 254 n. 1. [39]
Cfr. Dal diritto romano classico al diritto moderno, p. 636. [40]
Lo stesso metodo fu adottato per eliminare controversie o decisioni
contrarie riferite nei testi. Ciò si constata specialmente nelle
opere classiche annotate dai giuristi posteriori. Un esempio insigne
è dato dal confronto dei fr. 80 e 83 D.23,3, estratti da <Iavolenus
l. 6 ex posterioribus Labeonis>. Molti esempi nella mia
opera Iulianus ad Minicium in B.I.D.R. v. VII e VIII. [41]
Cfr. Z.S.S. v. 43, p. 292. [42]
C. Tanta § 14: impossibile erat eam (sc. legem)
per partem detrahi. [43]
Molti esempi nellopera Dal diritto romano classico al diritto
moderno, p. <606ss.> [44]
fr. 5 D.22,2; cfr. Z.S.S. V. 43, P. 358; c. 1 Cod. 5,12 (pollicitatio
... condictione), anche se fosse vera la congettura del Cuiacio
che ritiene in questo caso la parola condictione derivata da
ex dictione. [45]
fr. 23 D.28,1. [46]
fr. 3 § 1 D.13,5. [47]
fr. 7 § 1 D.10,4; fr. 1 § 9 D.43,16. [48]
fr. 21 § 3 D.46,1. [49]
Inst. III,14,1. [50]
fr. 4 § 3 D.27,7. [51]
Specialmente il Voigt, R.Rechtsgeschichte VIII, p. 76; cfr.
anche Kipp, Geschichte der Quellen, p. 58. [52]
Diritto classico: fr. 3 § 23 D.41,2 12 D.39,2 18 § 15 eod.
Diritto giustinianeo: fr. 15 § 16: dominium capere ... dominus
constituatur; § 33 possidere iure dominii a
praetore iussus. [53]
Z.S.S. v. 43, p. 284. [54]
Z.S.S. v. 43, p. 359ss. [55]
I.2,10,1-3. [56]
c. 1<pr.> Cod.
6,43. [57]
Gai 2,197; 218. [58]
<c. 2 C. 6,43; I.2,20,3>
[1]
<Studien zur Negotiorum gestio, I, 1913; Der
griechische Gedanke in der Rechtswissenschaft, 1921; Z.S.S.
v. 42, p. 227ss.; 261ss.> [2]
<Z.S.S. v. 42, p. 273ss.> [3]
<La caractère oriental de loeuvre de Justinien et les
destinées des institutions classiques en Occident, 1912.> [4]
<Possessio quae animo retinetur, in BIDR v. 30,
1921, p. 69ss.> [5]
< Animus furandi, 1922; Le fonti delle obbligazioni
e la genesi dellart. 1097 del codice civile, in Riv.
dir. comm., v. 21, 1923.> [6]
<Cfr., ad es., Schulz, Z.S.S. v. 43, 1922, p. 210s.>
[7]
Alibrandi, <Opere, I,> p. 587; Gradenwitz, Z.S.S.
v. 26, p. 365; Eisele, Z.S.S. v. 30, p. 111; Beseler, Beitr.
III, 105; Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 276. [8]
Gellio, 4,4; Cfr. 20,1,41: in negotiorum quoque contractibus. [9]
Gai 3,128ss. [10]
Contro v. Dal diritto romano classico al diritto moderno,
in Annali del Seminario di Palermo, v. III-IV, p. <275 n.
1.> [11]
Il testo di Paolo è difettoso perché alla motivazione citata ne
segue unaltra: quia causa propter quam dedi non est secuta.
Grave problema questo delle doppie motivazioni, che non si risolve
collattribuirne una ai Bizantini, come si fa oggi. Trattandosi di
opere annotate da giuristi posteriori, comè quella di Paulus ad
Plautium da cui il fr. proviene, si deve considerare anzitutto
se non derivi una delle motivazioni dal giurista annotatore. Nel
caso in esame ci troveremmo di fronte ad una motivazione nuova,
determinata dalla dottrina della volontà, affermatasi nellepoca
adrianea. Notevole che lo stesso fenomeno osservai or son trentanni
nel mio primo lavoro (Archivio Giuridico,
<v. 50, p. 270ss.>) a proposito del fr. 37 D.13,7
estratto dalla stessa opera Paulus 5 ad Plaut. in cui ritorna
il contrasto tra volontà e causa. Su questo testo v. più oltre. [12]
Cfr. Mitteis, Röm. Privatrecht, I, p. 147. [13]
Cfr. fr. 15 D.19,5: habet in se negotium aliquod. [14]
<Studien zur Negotiorum Gestio, I, p. 14ss.; 103.> [15]
Dal diritto romano classico al diritto moderno, p.
<256ss.> [16]
Su questo passo vedi lampia mia trattazione in
Dal diritto romano classico al diritto moderno. [17]
O.c., p. 254. Cfr.,
Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 315. [18]
Cfr. Annali del Seminario di Palermo v. VIII, p. 481ss. [19]
La frase: animus recipiendi è equivalente. Se in molti passi
è interpolata (cfr. Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 310) non
esprime una nuova dottrina. [20]
Cfr. I.3,27,1. Testi che la annoverano come contractus sono
interpolati. [21]
Cfr. Dal diritto romano classico, p. 297 e n. 1. [22]
Cfr. anche Roby, Roman privat law in the times of Cicero, v.
II, p. 3. [23]
Cfr. Pringsheim, Z.S.S. v. 42, p. 667 n. 5. [24]
La correzione del fr. 25 § 2 D.41,2 proposta dal Van de Water quod
Quinto Mucio seguita dal Mommsen e dal Krüger non ha
fondamento; la frase quod quasi magis prolatur si deve
leggere quod quidem magis prolatur: cfr. B.I.D.R. v.
<VI, 1894, p. 229ss.> [25]
fr. 51 D.41,2. [26]
fr. 3 § 3 D.41,2. [27]
<fr. 1 § 21 D.41,2; fr. 31 § 1 D.39,5 = V.F. 254.> [28]
<fr. 51 D.41,2. > [29]
<fr. 3 § 1 D.41,2.> [30]
<fr. 6. D.39,5.> [31]
<fr. 9 § 3 D.23,3; 18 § 2 D.41,2.> [32]
<fr. 55 D.41,1.> [33]
<fr. 14 § 1 D.18,6.> [34]
<fr. 74 D.18,1; fr. 1 § 21 D.41,2; fr. 9 § 6 D.41,1;
I.2,1,45> [35]
<Paul. Sent. 5,2,1;
fr. 3 § 11 D.41,2; fr. 44 § 2 D.41,2; fr. 1 § 25
D.43,16.> [36]
Cfr. Schulz, Einführung, p. 73. [37]
Per questi rapporti più particolarmente cfr. le mie Formulae
ficticiae. [38]
Cfr. fr. 9 § 8 D.12,1: tuo nomine voluntate tua. Perciò nel
testo è sicuramente interpolata la frase che precede et
ignorante. Il testo per altro è in ordine. Solo Giustiniano
ammise acquisto di possesso, e di diritti nel campo del commercio, etiam
ignorantibus. [39]
fr. 25 D.41,2. [40]
Cfr. Schulz, Einführung, p. 64; Pringsheim, Z.S.S. v.
42, p. 288. [41]
B.XXIII, 1 c.9 Heimbach v. II, p. 602. Un
altro testo dei Basilici è citato dal Pringsheim l.c. [42]
fr. 3 § 18 D.41,2. [43]
Cfr. I.2,1,48. [44]
Sul testo Berger, < B.I.D.R. v. 32,> p. 172.
[45]
Cfr. i testi citati da Giavoleno in poi e fr. 2 § 8 D.14,2. [46]
Cfr. fr. 43 § 10 D.47,2: non teneri, quia, inquit, res non
intervertitur ei qui eam sponte reiecit. [47]
Pringsheim, ZS.S. v. 42, p. 284; e già Berger, B.I.D.R.
v. 32, p. 172.
[1]
Z.S.S. v. 43, p. 307ss. [2]
Cicero, Part. or. 136: non in verbis ac litteris vim
legis positam esse; de inv. I,70; Quintiliano, Decl.
331: sed ipsa vi ac potestate; Celso, fr. 17 D.1,3: scire
leges non hoc est verba earum tenere sed vim ac potestatem.
Cfr. 29 e 30 D.1,3 e fr. 6 § 1 D.V.S. [3]
Schanz, Geschichte der röm. Litt.,
I, p. 309. [4]
fr. 17 § 1 D.35,1; fr. 54pr. D.40,4. [5]
I.2,20; 29; 30; 9 D.18,1; 5 § 4 D.6,1; 29 D.34,5 fortemente
interpolato; 32 D.45,1; e su questi passi Eisele, Jherings
Jahrbücher, v. 23, p. 18ss. [6]
fr. 17pr. § 1 D.35,1. [7]
fr. 5 § 4 D.6,1. [8]
fr. 9pr.§ 1 D.18,1. [9]
Così nel fr. 35 § 3 D.28,5. [10]
Eth. Nicom. VI, 2 (1139). [11]
Beiträge IV, p. 197. [12]
De offic., 1.32; cfr. Topic. 28; in Verrem II,1,42,109. [13]
Quintiliano: XI,3,66 nutus...et in mutis pro sermone est. [14]
Z.S.S. v. 43, p. <385ss.> [15]
Brutus, 152. [16]
Topic. <25-26>; pro Caec. 18,51; de inv.
II,14. [17]
fr. 19 D.10,4: respondit: forse Servio. [18]
Z.S.S. v. 42, p. 248. [19]
Z.S.S. v. 43, p. 175. [20]
Eth. Nicom. VI,2 (1139). [21]
Cfr., Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, p. 32ss. [22]
Lex Rubria c. xx.; Partsch, Z.S.S. v. 42, p. 248. [23]
fr. 5pr. D.45,1;
fr. 52 D.45,1; fr. 1 D.46,5. [24]
Lenel, Pal. II, 1218. [25]
I Compilatori hanno spesso compiuto trasposizione di parole per
rappresentare lo stato del nuovo diritto. Anche nel fr. 35 § 2
D.45,1 ho notato lo stesso verbo perficitur unito a consensus
e dimostrai (B.I.D.R. v. 31, p. 29) che i termini che erano
nel testo furono spostati. Ciò perché il consensus nella stipulatio
divenne lelemento fondamentale e decisivo: cfr. I.3,15,1;
3,19,3; c. 10 C.7,37; fr. 5 D.2,15 e su questi passi Z.S.S.
v. 43, p. 275ss. Anche nel fr. 1 § 3 D.2,14 la frase nisi
habeat consensum evidentemente spuria, doveva essere
nelloriginale nisi habeat in se conventionem.
Fondandomi su queste esperienze oso supporre che nel passo in esame
la motivazione di Venuleio fosse del seguente tenore: nam
stipulatio, quamquam verbis perficitur, tamen sine utriusque
consensu nulla est. [26]
I.3,15,3 Lesame particolareggiato di questo caso e di quelli
che seguono sino al n. 6 fu da me fatto nella Revue dHistoire
du droit, v. 3, p. 333ss. [27]
fr. 4 D.8,1; fr. 56 § 4 D.45,1. [28]
fr. 13pr. D.8,3 Iavolenus ex Cassio. [29]
fr. 44 §§ 1.2 D.44,7. [30]
fr. 33 § 1 D.8,3. [31]
fr. 1pr. D.33,2. [32]
fr. 5pr. D.18,5. Con
la correzione del testo proposta dal Siber, Z.S.S. v. 42, p.
73 il problema si sposta, ma il valore della decisione e della
motivazione resta integro nel senso da me dichiarato. [33]
Mitteis, Priv. Recht, I, p. 45 n. 12, e testi ivi citati. [34]
fr. 30 § 2 D.2,14 (dove fu soppressa la discussione del problema);
fr. 14 e 24 D.46,2. [35]
fr. 72 § 1 D.46,3. Per la formazione della nuova dottrina v. Annali
del Seminario di Palermo, vol. XI, p. 341-370. [36]
Per questa frase cfr. fr. 5pr. D.18,5, esaminato sopra. [37]
fr. 8 D.46,2. [38]
fr. 56 § 8 D.45,1; fr. 31 D.46,2. [39]
fr. 44 § 2 D.44,7. [40]
Ferrini, Pand. p. 174 n. 3; Costa, Exceptio p. 135. [41]
Tribon.? [42]
fr. 30 § 1 D.2,14. [43]
fr. 141 § 5 D.45,1. [44]
Z.S.S. v. 43, p. 426. [45]
fr. 8 D.4,5. [46]
E per altro che il passo subì gravi rimaneggiamenti fu riconosciuto
dal Wlassak, Prozessgesetze, II, p. 122. Il testo originale
doveva riferirsi ai patti dotali: cfr. Lenel, Pal. <Pomponii
635 n. 2>. *
<fr. 55 D.44,7.> [47]
Cfr. fr. 31pr. D.41,1;
fr. 26 D.41,2; I.3,24,3, riferentisi tutti alla traditio, ma
nel diritto classico anche alla mancipatio. Nel fr. 55 in
esame conductio è interpolata; era forse dotis nomine
come nel § 3 Inst. 3,24. [48]
Cfr. Bruns, Fontes, p. <360>; Partsch, Longi
temporis praescriptio, p. 84 n. 2. [49]
Gai II,103, 104, 252. Dicis causa: cfr. Walde, Latein.
ethimol. Wörterbuch ed ivi citati. [50]
Servius, in Aeneid. <IV,103>: coemptio: quasi
emptionem faciunt. [51]
Cfr. Schulz, Z.S.S. v. 43, p. 198 n. 7. La
critica contemporanea ha espresso pure forti dubbi per la
classicità della denominazione contractus bonae fidei.
Segrè, Studi Fadda, v. VI, p. 367; Levy, Konkurrenz der
Actionen, v. I, p. 87 n. 4; Siber, Z.S.S. v. 42, p. 75 n.
1. [52]
Z.S.S. v. 42, p. 256ss. [53]
Gai 1,119: quaedam venditio; fr. August. 67: trasferimento
dellhereditas al fideicommissarius; Ulp. XX.2: testamentum
per aes et libram; Gai 3, 169; I.3,30,1: solutio imaginaria;
Gai 3,173: imaginaria solutio per aes et libram; fr. 3 § 1
D.4,5: imaginaria servilis causa nella mancipatio allo
scopo della emancipazione; Gai 1,123: coemptio; fr. 49
D.19,1: collusio imaginaria. Molti altri testi in Berger l.c.
nella nota che segue. [54]
Cfr. Heumann-Seckel, Handlex., sub v. imaginarius;
Berger, Pauly-Wissowa, Real Encyclop., v. imaginarius;
Vocabularium iuris. romani III, 388. Nei
ll.cc. si distingue bene latto solenne ficticius, imaginarius valido
dallatto simulatus nullo, ma il fondamento della
distinzione non è dato. [55]
Actus legitimi nel fr. 77 R.J. indica appunto atti
solenni del ius civile, quantunque non si possa considerare
come denominazione tecnica. [56]
fr. 10 § 2 D.41,2. Linterpolazione della l. 46 D.19,2 è sicura,
ma gli appunti del Partsch l.c. p. 263 colpiscono i
Compilatori non la dottrina dellatto simulato. [57]
fr. 64 D.24,1. [58]
Walde, Lat. ethimol. Wörterb., sub h.v. [59]
Auth men oun h dianoia kai h alhqeia praktikh. tou de praktikou
kai dianohtikou h alhqeia omologwj ecousa th orexei th orqh
alhqeia to ergon. [60]
Cfr. Kipp, Geschichte der Quellen, <p. 126 n. 97>. [61]
Cfr. Ulp. 5 § 9 D.39,2: et belle S.Pedius definit triplicem esse
causam operis novi nunciationis. [62]
fr. 1 § 3 D.2,14 Ulp. 4 ad Ed. [63]
Su questo testo è da vedere ora la mia dissertazione sulla dotis
dictio in Studi Perozzi. [64]
Cfr. Lenel, Pal. Iuliani n. <222.> [65]
Cfr. fr. 20 D.12,1 che sarà esaminato più oltre. [66]
Cfr. fr. 16 D.46,3, e su questo passo Annali del Seminario di
Palermo v. XI, p. 380. Questo passo si può per altro intendere
nel senso che ante eius pecunia facta est per
commistione, non già in forza della traditio. [67]
E la menzione della mancipatio e della in iure cessio
si deve ritenere soppressa in tutti i testi fondamentali che
trattavano del trasferimento del dominio. Così la c. 20 C.2,3 di
Diocleziano: Traditionibus [et usucapionibus] dominia
rerum non nudis pactis transferuntur; doveva dire: Mancipationibus,
in iure cessionibus et traditionibus dominia cet. [68]
Z.S.S. v. 43, p. 287.
[1]
C. Tanta § 9. [2]
Bas. XI, 6, 67 Schol. [3]
Contro anche Lenel, Z.S.S. v. 34, p. 374; e Mitteis, ibidem,
p. 407. [4]
Pringsheim, Z.S.S. 1921, 273. Albertario,
Animus furandi, <in Pubblicazioni Univ. Cattolica del
Sacro Cuore, 1922 > [5]
Cic., de inv., II,100; de legib. I,
<17>. [6]
Il testo gaiano è lacunoso; ma sintegra sicuramente con quello
delle Inst. Cfr. Ferrini, B.I.D.R. vol. 13, p. 180. [7]
Hofmann, Die Kompilation der Digesten Iustinians, Wien 1900. [8]
Zeitschr. f. gesch. Rechtswiss., v. 4, 1820. [9]
Die Oströmischen Digestenkommentaren und die Entestehung der
Digesten, in Berichte der Königl. Sächs. Gesellsch. d. W.,
v. 65, p. 3ss. [10]
Opere, v. I, p. 87. [11]
Die Herstellung der Digesten, 1922. [12]
Z.S.S. v. 43, p. 379ss. [13]
Cfr. I.3,6,10 I. Proem., § 2 c. Deo auctore,
§ 1 c. Omnem, §§ 1-2 c. Tanta, § 1. [14]
I.2,13,5; 2,23,7; 3,2,3; c. 22 C.6,2. [15]
C. Tanta, § 11. [16]
I.3,12pr.; c. 1 C.6,43. [17]
Cfr. 35 D.5,1. [18]
Cfr. fr. 1, 5, 97 D.46.3. [19]
<C. Tanta § 10>
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