Pubblicazioni - Annali 2002

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Alle origini del sindacato di costituzionalità
di Gaetano Mancuso

(Dalla monarchia alla repubblica)

 

Premessa

Un discorso sull’esistenza di organi e procedimenti miranti ad accertare la legittimità costituzionale di atti o comportamenti posti in essere dagli organi di uno Stato trova una sua naturale collocazione nel contesto di un’esperienza moderna, caratterizzata, innanzi tutto, dall’esistenza di una Carta o, quanto meno, di una prassi costituzionale rispetto alle quali valutare la conformità dei singoli provvedimenti.

In effetti, il problema del sindacato di costituzionalità si è posto, specificamente, col sorgere del concetto di costituzione – quale ordinamento disciplinante la struttura e l’organizzazione di una comunità politica, nella variegata molteplicità di rapporti intersoggettivi e di poteri che ne costituiscono  l’ordito – e della connessa nozione di costituzionalismo.

Entrambe codeste nozioni  - quanto meno nella loro organica e compiuta formulazione – sono creazione dell’esperienza politico – costituzionale moderna, e traggono origine dalle vicende di politica e di pensiero che caratterizzarono l’Inghilterra del secolo decimosettimo, trovando la loro conclusione nella “ Gloriosa Rivoluzione “ del 1688-89. Non meno decisivi furono, inoltre, gli apporti della speculazione filosofico – politica francese del  secolo decimottavo e della conseguente esperienza rivoluzionaria, e l’influsso, infine, delle dottrine elaborate dai pensatori politici nordamericani, matrice della  rivoluzione delle colonie inglesi d’America.

Le nozioni suddette presuppongono, innanzi tutto, l’organizzazione di una civitas ossia di una comunità politica; organizzazione posta in atto attraverso uno strumento,  non solamente normativo, che sancisca taluni principi ritenuti fondamentali per l’esistenza stessa di siffatta comunità, che disponga l’istituzione dei  poteri e delle strutture organizzative mediante i quali essi si realizzano e, nel contempo, la loro disciplina, che garantisca le situazioni giuridiche soggettive dei componenti la comunità politica: uno strumento, siffatto, che si identifica, per l’appunto, in un  “ordinamento” , sancito in un’apposita Carta o risultante da una prassi politica, cui si dà il nome di  “costituzione”. In particolare, la nozione di costituzionalismo presuppone una razionalizzazione concettuale dei principi e degli strumenti che trovano posto nella costituzione, tra i quali, fondamentale, il principio della separazione dei poteri, di fronte alla riconosciuta esistenza di un complesso di situazioni giuridiche soggettive la cui titolarità compete a ciascun componente la comunità politica ancor prima che uti civis, in quanto uomo, essere dotato di ragione[1]. Situazioni il cui punto d’imputazione è, quindi, l’uomo come tale, che si identificano nei diritti naturali sanciti solennemente dalle  “dichiarazioni”  del secolo decimottavo, ma anche dalle Chartae delle libertà e dei diritti di cui si sostanzia l’esperienza politico – costituzionale inglese del tardo Medioevo. Codesti diritti naturali – che si concretizzano, in definitiva, nei diritti innati o personalissimi dei moderni ordinamenti positivi, o anche nelle c.d. libertà fondamentali – si pongono come situazioni giuridiche soggettive preesistenti allo Stato, dal quale sono riconosciute ma non costituite, e possono bene considerarsi come il fondamentale prodotto delle dottrine ispirate al liberalismo e al conseguente avvento dello Stato di diritto in antitesi allo Stato assoluto  ( o di polizia ), che aveva caratterizzato il quadro politico – costituzionale durante il Medioevo e agli albori dell’Età moderna.

Ciò posto, è nostro convincimento che anche per l’età antica,  e nel contesto  di un’indagine volta a ricostruire la storia delle antiche costituzioni, sia legittimo e metodologicamente corretto porre il problema dell’esistenza di organi e di procedimenti di accertamento della legittimità costituzionale di atti o di comportamenti statualmente rilevanti, posti in essere dai soggetti istituzionali nel quadro dell’esperienza giuspubblicistica romana, nelle diverse fasi di cui siffatta esperienza ebbe a sostanziarsi. Porre, in altri termini, il problema di un costituzionalismo ante litteram, traendo motivo da una perspicua ricerca condotta da uno studioso inglese in un passato ormai non più recente[2].

E’ noto che un’attività nomofilattica veniva esercitata già in Grecia da appositi organi[3]. A Roma la situazione non è diversa, sebbene sia necessario distinguere, a nostro avviso, per momenta, tra le varie fasi che hanno contraddistinto il fluire della storia costituzionale romana. E ciò per il diverso porsi non solo dell’esperienza costituzionale all’interno delle formae civitatis delle quali si sostanzia la storia costituzionale di Roma, ma anche per la diversa incidenza dei parametri alla cui stregua valutare l’operato dei singoli soggetti istituzionali,  in relazione alla nozione della giuridicità di un ordinamento, quali che ne siano i fattori determinanti siffatta giuridicità[4].

Sebbene, come si è or ora sostenuto, la formulazione e l’elaborazione delle nozioni di costituzione e di costituzionalismo siano il prodotto del pensiero giuspubblicistico moderno, non può negarsi che siffatte nozioni abbiano trovato una loro prima sistemazione e un approccio scientifico nel pensiero politico classico greco-romano: in particolare, nella speculazione filosofico- politica di Platone e Aristotele e nella riflessione di Cicerone.

Nel pensiero platonico – aristotelico la nozione di costituzione si precisa nella descrizione delle forme di Stato e di governo considerate, a differenza dai moderni, come un unicum.[5]

Peraltro, codesta nozione non ha un carattere meramente descrittivo sibbene  assiologico e quindi normativo, in quanto che essa ricomprende il valore del nomos ossia della legge, quale criterio cui riferire  la legittimità del potere e del suo esercizio[6]. Anzi, è, per l’appunto, la conformità del potere – considerato sotto i due profili, della titolarità e dell’esercizio – alla legge ciò che, a nostro giudizio, consente di discorrere, per l’esperienza costituzionale greca, di un costituzionalismo, sia pure con caratteri e significato diversi da quelli che la nozione ha assunto in epoca moderna.

D’altra parte, la conformità di cui discorriamo è alla radice della teoria platonico – aristotelica della ciclicità delle costituzioni e del loro degenerare in forme corrotte, nelle quali chi governa – siano costoro l’uno, i pochi, i molti – non persegue il bene comune e l’interesse dei governati, ma il personale interesse.

Non diversamente si pone il problema per l’esperienza costituzionale romana, nel cui contesto si colloca, con valore paradigmatico nei riguardi del pensiero politico repubblicano, la riflessione ciceroniana.
Il termine e la correlativa nozione di constitutio sottendono, infatti, l’idea di un ordinamento che non è soltanto il  “modo di essere”  della comunità politica romana considerata in un dato momento storico, e, più esattamente, quello della libera res publica, ma anche il complesso delle norme legislative e delle prescrizioni di varia origine – consuetudinarie, convenzionali, sacrali – vigenti, e alle quali i cives si sentono in qualche modo vincolati[7].

Ciò val quanto dire che anche per i Romani l’esigenza di un sindacato di costituzionalità delle leggi e degli atti statualmente rilevanti sia stata avvertita a iniziare dalla Repubblica, come forma civitatis succeduta al regnum.

Tuttavia, è nostro convincimento che anche riguardo al regnum si possa discorrere di un’esigenza costituzionalistica e di un controllo della conformità dei poteri e del loro esercizio a modelli in qualche modo prestabiliti. Non diversamente è legittimo discorrere di un costituzionalismo rispetto alle esperienze politico – costituzionali del Principato e del Dominato.

Per quanto attiene, in particolare, al sindacato di costituzionalità, questo, pur dovendosi considerare, come si è detto, un prodotto della moderna problematica costituzionale, risponde a un’esigenza antica[8].

Gli strumenti all’uopo realizzati o semplicemente concepiti risalgono all’età moderna[9], ma già nell’esperienza giuspubblicistica greco-romana  il problema venne posto e risolto con l’istituzione di soggetti istituzionali cui era, tra gli altri compiti, demandata la funzione di un controllo della legittimità degli atti e dei comportamenti statualmente rilevanti.

Per quel che riguarda l’età moderna, il problema del sindacato costituzionale è stato fortemente condizionato dal modo in cui il pensiero politico e l’esperienza storica vennero a rappresentarsi la nozione di costituzione. Una nozione, codesta, che coinvolgeva, a sua volta, la soluzione del problema della sovranità, scomposto nei suoi due profili della titolarità e dell’esercizio.  

La concezione monista della costituzione, propria delle monarchie del secolo decimonono, attribuendo la sovranità – nella titolarità e nell’esercizio – al re – sovrano, escludeva di per sé la possibilità, anche a  livello teorico, di un sindacato di costituzionalità rimesso a soggetti costituzionali specificamente creati all’uopo.

E, d’altra parte, la situazione non mutò con l’avvento del liberalismo e della penetrazione delle idee politiche liberali nella tematica costituzionalistica.

Il pensiero politico liberale esaltava il ruolo sovrano del parlamento, quale organo rappresentativo delle istanze politiche dei cittadini, ruolo che si manifestava nell’esclusiva competenza del parlamento, titolare del potere costituente, a creare l’ordinamento costituzionale e a disporne la revisione, qualora esso non fosse conforme alle istanze della coscienza sociale.

Siffatta concezione, che si riannodava, in qualche modo, alla teoria totalitaria russeauiana del popolo sovrano, identificava, com’è noto, nella legge – espressione della sovranità del parlamento o, secondo Rousseau, del popolo come totalità dei cittadini – il solo strumento con cui rendere costituzionale ciò che contrastasse con la costituzione[10]. Ciò non escludeva, d’altronde, che l’esigenza di una giustizia costituzionale autonoma, anche sul piano concettuale, fosse oggetto del dibattito politico sviluppatosi in Francia, ai tempi della rivoluzione[11].

Ma è nel nostro secolo appena trascorso che il problema del controllo di costituzionalità si è  posto e risolto organicamente, con particolare riguardo alle esigenze degli Stati federali, sul precedente storico dell’esperienza costituzionale degli Stati Uniti d’America. Non è un caso che « il primo organico esperimento di giustizia costituzionale aperto al controllo di costituzionalità sulle leggi » [12]sia stato quello realizzato nella costituzione austriaca del 1920.

L’avvento delle costituzioni pluraliste, caratterizzate dall’ingresso dei partiti sulla scena costituzionale e dalla conseguente apertura delle carte costituzionali a principi programmatici ispirati alle diverse ideologie, ha, poi, contribuito al diffondersi di organismi imparziali cui delegare il delicato ruolo del sindacato di costituzionalità.

In Italia, com’è noto, l’istituzione della Corte Costituzionale non è avvenuta in modo, per così dire, indolore.

Il controllo di costituzionalità che presuppone, in effetti, un’attività interpretativa del dettato costituzionale ai fini della sua attuazione, fu oggetto di un acceso dibattito politico, in sede di Assemblea Costituente, nel quale tornarono a manifestarsi problematiche e tendenze apparentemente sopite durante l’esperienza fascista. Problematiche e tendenze che riecheggiavano antiche idee sulla sovranità del popolo realizzantesi attraverso il parlamento e il primato della legge, intesa anche come strumento di revisione e di attuazione della costituzione, e che crearono notevoli resistenze riguardo alla determinazione delle attribuzioni della Corte.

L’esigenza maggiormente avvertita dai nostri costituenti del ’47 era di evitare che, nel contrasto tra Corte e potere legislativo, la prima potesse condizionare e sminuire la sovranità del legislatore, assumendo un ruolo politico tale da pregiudicarne l’imparzialità e, nel contempo, da consentirle di usurpare funzioni proprie, in linea di principio, di altri soggetti istituzionali[13].

Per quanto riguarda l’esperienza giuspubblicistica romana, se prescindiamo dalla fase monarchica – in cui il sindacato costituzionale è rimesso, fondamentalmente, al re, e si configura, come vedremo, con connotazioni affatto specifiche – è durante la successiva Repubblica che siffatto sindacato assume i caratteri che, in certa misura, lo assimilano al moderno controllo di costituzionalità.

Esso viene, infatti, esercitato, fondamentalmente, da due dei soggetti istituzionali che costituiscono l’ordinamento repubblicano – l’assemblea centuriata e il senato – i quali,  pur partecipando della sovranità dello Stato, manifestano in questo modo una loro propria sovranità.

Ma è giunto, a questo punto, il tempo di addentrarci nella ricerca, iniziando col porre il nostro problema in relazione alla prima delle formae civitatis  assunte dalla comunità politica romana, il regnum.

 

Cap.I

Costituzione e sindacato di costituzionalità nel Regnum

 

1.- La costituzione regia e il potere costituente del re.

 

Nella concezione dei Romani l’ordinamento costituzionale del regnum viene istituito, in una con la fondazione di Roma, dal suo leggendario eponimo, Romolo. Nel medesimo tempo in cui provvede all’impianto territoriale della città, Romolo dat iura ossia “ crea “ le strutture organizzative e gli ordinamenti della primitiva comunità politica.

Sin dalle origini due sono gli elementi strutturali sui quali poggia la costituzione romulea: il  ritus e la lex.

Lo attesta espressamente Livio, là dove narra ( 1.8.1 ), che Romolo «rebus divinis r i t e perpetratis vocataque ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus nulla re praeterquam l e g i b u s poterat, iura dedit ».

Nel pensiero politico romano Romolo si pone, quindi, come l’ipostasi del potere costituente. Egli è il  “padre della costituzione” , se è lecito servirci della locuzione usata da Kelsen.

Romolo, peraltro, non procede di suo pieno arbitrio, ma è vincolato, nella sua opera, dal volere divino, manifestato attraverso gli auspicia, segni tangibili, questi ultimi, dell’autodeterminazione degli dei.

Nella rappresentazione che ne offrono gli antichi anche gli auspicia sono opera del re: lo attesta Cicerone ( de re publ., 2.10.17 ), « cum …haec egregia duo firmamenta rei publicae peperisset, auspicia et senatum,» e quindi è al re che deve attribuirsi la creazione delle tecniche mediante le quali sia possibile interpellare gli dei e conoscerne il volere.

Pertanto, anche il ritus è di creazione regia, ovviamente per quel che riguarda i procedimenti e le tecniche di accertamento delle manifestazioni di volontà degli dei. Non si trascuri, al riguardo, il fatto che gli antichi pongono nel dovuto risalto la caratterizzazione augurale del potere regio – il rex come optimus augur – intendendo in questo modo sottolineare la preminente attitudine regia nella conoscenza dei procedimenti e delle tecniche auspicali.

Peraltro, il ritus non si identifica esclusivamente con gli auspicia.

Gli antichi discorrono di mores et instituta maiorum. Studi recenti hanno identificato i primi con azioni-poteri posti in essere dai singoli; i secondi con il complesso di siffatti comportamenti che, per la loro tipicizzazione, si concretizzano in altrettanti modi di vivere sia dei singoli che dei gruppi cui essi appartengono. Di conseguenza il ritus ossia il complesso dei comportamenti e delle tecniche rituali costituirebbe la sostanza del primitivo ordinamento – e ciò conformemente al valore semantico originario espresso dal termine ius – la cui connotazione fondamentale sarebbe la fattualità, e quindi il carattere ontologico, con esclusione della caratterizzazione deontologica propria della moderna nozione di ordinamento[14]. 

In altri termini, i mores, lungi dal concretizzarsi in regole di condotta, si identificherebbero in comportamenti i quali, a motivo della loro regolarità rituale vincolerebbero sia i singoli che i gruppi cui riferirsi.

Pur accogliendo, in linea di massima, i risultati cui gli studi suddetti sono pervenuti, è nostro convincimento che l’ordinamento regio non possa risolversi a pura e semplice fattualità[15], ma, al contrario, si caratterizzi anche per la presenza di norme cui imputare i comportamenti sia dei singoli che dei gruppi cui riferirli.

Già il concetto stesso di regolarità rituale racchiude, a nostro avviso, la consapevolezza di un complesso di  regole ossia di norme alla cui stregua valutare i comportamenti e i procedimenti posti in essere.

Ma non basta. Si è esattamente rilevato che la fattualità del primitivo ordinamento non esclude ma anzi ricomprende  «la posizione di criteri positivi di guida e di valutazione della condotta sociale collettiva »[16] cui riferire i comportamenti dei singoli e dei gruppi, così come le relazioni intersoggettive all’interno di ciascun gruppo e tra gruppi diversi.

Siffatti criteri, i quali si risolvono, in definitiva, in altrettanti giudizi di valore, erano rimessi, nell’età che precedette il costituirsi della prima comunità politica, ai patres, nella loro qualità di capi sovrani dei gruppi precittadini – familiae e gentes – e, successivamente al rex nella sua qualità di supremo capo politico e militare, di sommo sacerdote, di giudice del gruppo cui era preposto.

D’altra parte, l’ordinamento regio non appare riducibile unicamente ai mores et instituta maiorum ossia, in altri termini, al ritus. In effetti, accanto al ritus si pone la lex ( regia ), ossia la manifestazione della sovrana autodeterminazione del rex.

Infatti, sebbene gli antichi attestino l’esistenza, in epoca regia, di un procedimento legislativo non dissimile, nella sostanza e nella forma, da quello proprio dell’età repubblicana[17], sembra assai certo che la legge si concretizzasse, durante il regnum, in una manifestazione normativa unilaterale della volontà del rex, e che le testimonianze degli antichi al riguardo siano il prodotto di un procedimento metodologico assai frequente nei loro tentativi di ricostruzione storica di eventi assai risalenti: il procedimento dell’anticipazione di istituti e di eventi meno risalenti alle fasi più antiche della storia costituzionale romana.

D’altra parte, ove si presti fede alle antiche testimonianze, e si ritenga verosimile che il presentasse le sue proposte di legge al comizio – l’assemblea curiata – la legge rimane pur sempre un atto d’iniziativa regia e quindi, in qualche modo, uno strumento dell’opera costituente del re[18]. 

Se, quindi, la costituzione monarchica, pur con l’apporto personale dei singoli re, si pone e si evolve sulla base del ritus e della lex, è a codesti elementi che è necessario fare riferimento se si intenda dare inizio a un discorso sull’esistenza e sulla legittimità, sotto il profilo metodologico, di un controllo di costituzionalità in epoca regia.

 

2.- Il sindacato di costituzionalità in epoca regia: il procedimento.

 

E’ opportuno iniziare il nostro discorso sul controllo della legittimità costituzionale in epoca regia accennando al procedimento mediante il quale siffatto controllo veniva esercitato.

Innanzi tutto per quanto concerne i soggetti costituzionali cui codesto sindacato era riservato.

Al riguardo, codesti soggetti si identificavano, secondo il nostro convincimento, nel re, nei componenti il collegio augurale, e, infine, nei patres del regium consilium ossia del primitivo senato[19].

Per quanto riguarda il re è ovvio che essendo questi l’esclusivo titolare del potere costituente e il supremo legislatore della comunità cittadina, il controllo della legittimità costituzionale dei suoi atti statualmente rilevanti, così come degli atti e dei comportamenti degli altri soggetti istituzionali, competesse a lui in prima istanza. Ma non solo per questo.

Non si trascuri, infatti, che il re, per la sua posizione nei riguardi delle divinità e per il possesso degli auspicia, rivestiva la posizione di custode e, insieme, di garante della regolarità rituale degli atti, regolarità in cui si concretizzava – è legittimo pensarlo – l’accertamento della legittimità costituzionale.

In altri termini, accertare la legittimità costituzionale di un atto o di un comportamento doveva, di necessità, implicare, in quell’epoca, la sua conformità al ritus – se l’atto, cioè, fosse stato compiuto rite- e, inoltre, se fosse o meno conforme ai  “segni”  – auspicia e auguria – mediante i quali gli dei manifestavano la loro volontà[20].

Non si trascuri, al riguardo, che la creazione degli auspicia – secondo l’opinione degli antichi – era da ascriversi al primo rex. Al re competeva, quindi, l’interpretazione primaria, se non esclusiva – insieme col monopolio dei procedimenti e delle tecniche di accertamento della volontà divina – degli auspicia e, congiuntamente con gli augures, l’interpretazione degli auguria ossia dei signa che la divinità avesse voluto offrire di propria iniziativa.

E’, ancora, da ritenere che l’accertamento e il conseguente giudizio in ordine alla regolarità rituale dell’atto non si limitasse alla sua conformità agli auspicia e agli auguria, ma contemplasse anche la sua conformità ai mores et instituta maiorum.

In altri termini, il controllo di costituzionalità compiuto dal re doveva assumere, quale termine di riferimento, non solamente l’ “ordinamento”  divino, sibbene anche l’ “ ordinamento”  dei maiores ossia dei soggetti, precisamente i patres, i cui poteri avevano dato luogo alle strutture organizzative che avevano preceduto e, nel contempo, determinato la nascita della prima comunità politica romana.

Pertanto, anche il regium consilium – costituito, per l’appunto, dai patres – doveva esercitare un controllo sulla regolarità rituale degli atti compiuti dai soggetti istituzionali della primitiva organizzazione statuale. Siffatto controllo non avrebbe potuto concretizzarsi in altra forma se non quella dell’auctoritas patrum, sia pure nei contenuti e nei limiti che codesta funzione assume in epoca regia[21]. Quanto sosteniamo trova, d’altronde, conferma nella testimonianza degli antichi, i quali attestano che l’auctoritas patrum costituiva il necessario complemento del potere regio[22], e che la pronuncia dei patres, sulle questioni loro sottoposte dal re, assicurava la legittimità rituale dell’atto da compiere.

Per quanto, infine, riguarda il collegio augurale, il sindacato da questi esercitato concerneva la conformità degli atti alla volontà divina, manifestata mediante i signa. Peraltro, il collegio augurale non si limitava a dichiarare la non conformità alla volontà divina dell’atto preso in esame, ma ne annullava gli effetti. La pronuncia degli auguri era, quindi, costitutiva di efficacia giuridica non ristretta al ius sacrum , sibbene estesa al ius publicum – se ci è consentito di valerci di questa nozione in riferimento all’età monarchica – data  la rilevanza degli auguria e degli auspicia in tema di ius publicum.[23] In questa prospettiva si colloca il divieto opposto dall’augure Atto Navio a Tarquinio Prisco di mutare i nomi dei Titienses, dei Rhamnenses, e dei Luceres, nel quadro delle riforme costituzionali decise da codesto re:«…nec potuit ( scil.Tarquinius ) Titiensium et Rhamnensium et Lucerum mutare, cum cuperet, nomina quod auctor ei summa augur gloria Attus Navius non erat,» ( Cic., de re publ., 2.20. 36; cfr. anche Liv., 1.36.3 ). Non si trascuri, infine, che anche il sindacato esercitato dagli auguri costituiva una manifestazione della loro auctoritas, non diversamente dai patres del regium consilium. E’, quindi, verosimile che il controllo della regolarità rituale dell’atto venisse esercitato anche dai componenti del collegio augurale indipendentemente o, a seconda delle circostanze, congiuntamente al controllo regio. D’altronde, il re stesso era, come si è detto, augure; anzi, come attestano gli antichi, optimus augur ( Cic., de divin., 1.2.3 ).

 

Cap.II

Costituzione e costituzionalismo nell’esperienza repubblicana

1.- Il problema della costituzione nella Repubblica.

 

Il dato fondamentale che emerge dalle antiche testimonianze sull’ordinamento costituzionale repubblicano è identificabile nell’assenza di una costituzione scritta ossia di un documento tecnico-formale che ponga e definisca l’assetto generale della comunità politica, l’organizzazione dei poteri istituzionali, le relazioni tra poteri e cittadini, i diritti e i doveri di questi ultimi.

Nel sistema delle fonti del diritto quale è presentato dalle antiche testimonianze non vi è traccia di una Charta costituzionale, ma è, viceversa, la lex ( publica ) che viene menzionata al primo posto[24].

D’altra parte, l’esistenza, nella lingua dei Romani, del termine constitutio – da cui discende il nostro  “costituzione”  – non offre argomento per indurre che ai Romani fosse presente la nozione di un documento formale. In effetti,  come tra poco vedremo, codesto termine non può considerarsi quale omologo del nostro, ma assume ben diverso valore e significato.

Non vi è, quindi, traccia, in Roma, di una costituzione in senso formale né di un sistema di norme costituzionali distinte e sovraordinate rispetto alle norme poste dalle leges ( publicae ), sistema da cui possa trarsi la nozione di una gerarchia delle norme quale, viceversa, è dato rilevare nel dualismo ateniese politéia – nomoi.

Il fatto che, nel sistema delle fonti del diritto, la lex occupi il primo posto conferma, senza possibilità alcuna di dubbio, che essa rivestiva, nell’esperienza giuridica romana, nel contempo i caratteri e la natura della norma costituzionale e della norma ordinaria, e serviva a soddisfare entrambe le esigenze: di provvedere, cioè, alla creazione o alla modifica dell’assetto organizzativo dello Stato e, insieme, alla disciplina dei rapporti intersoggettivi tra i privati[25].

La lex, peraltro, rivestiva un ruolo “costituente” , come abbiamo veduto  anche nella precedente forma civitatis, il regnum.

Essa era lo strumento di cui si servirono i reges per dare vita all’organizzazione della comunità politica: la lex regia si pone, infatti, quale manifestazione della volontà regia, considerata nella sua funzione di   “produzione”  dell’ordinamento costituzionale[26].

Parimenti è mediante la lex che viene costituito l’ordinamento costituzionale repubblicano, la cui vicenda più volte secolare è marcata da talune leges che costituiscono altrettanti punti di riferimento per la storia dell’organizzazione della civitas repubblicana[27].

Ammesso pure che alle origini dell’ordinamento costituzionale repubblicano vi fosse una sorta di  “norma fondamentale” che garantisse la stabilità dell’assetto istituzionale, mediante il divieto di ripristinare il regnum, si rimane pur sempre nell’ambito della lex. [28]

E’, codesto, un aspetto peculiare dell’esperienza costituzionale repubblicana. Una singolarità che può, forse, spiegarsi alla luce di una caratteristica specifica della lex: l’essere, questa,  una  manifestazione normativa  “costituente” ossia idonea a produrre ordinamento e, in particolare, ordinamento costituzionale.

In effetti, le leges publicae delle quali abbiamo notizia rivestono, in larga maggioranza, siffatto carattere, in quanto che pongono in essere strutture organizzative della civitas o incidono comunque sulla sua organizzazione.

Tradotto il nostro discorso nei termini dell’attuale terminologia costituzionalistica si può, quindi, legittimamente affermare che ogni lex publica è, in varia misura, una legge costituzionale[29].

Codesta singolarità consente di comprendere come mai mancasse, nell’esperienza giuspubblicistica dei Romani, una Carta costituzionale, una costituzione scritta distinta, anche sotto il profilo formale, dalla legge ordinaria. E’, infatti, la legge l’elemento strutturale portante della comunità politica e, nel contempo, ne è il polo di aggregazione. Un carattere, codesto, che viene recisamente sostenuto da Cicerone, la cui opinione può considerarsi paradigmatica rispetto al pensiero giuspubblicistico romano di età repubblicana[30].

Pertanto, pur non escludendo che la nozione romana di constitutio assuma, in genere, una valenza di ordine biologico – rappresentando, in concreto, la struttura per così dire  “corporea”  della comunità politica – pur non escludendo il carattere  “fattuale”  dell’organizzazione costituzionale repubblicana[31], non possiamo non riconoscere che, quanto meno nella tarda Repubblica – se dobbiamo prestare fede alla testimonianza di Cicerone – il pensiero giuspubblicistico romano abbia posto l’accento sulla componente normativa di siffatta organizzazione e sull’incidenza della legge al suo interno[32].

Se, peraltro, la lex assolve siffatta funzione, ciò avviene, a nostro giudizio, in quanto che essa non è semplicemente una determinazione autoritativa emanante da determinati soggetti istituzionali, ma è il prodotto di un pactum, di una conventio tra costoro, e precisamente tra magistratus, populus, senatus.

La partecipazione di questi soggetti istituzionali è paritaria, nel senso che essi si dispongono su di un medesimo piano, nell’equilibrio dinamico dei poteri che, rispettivamente, esprimono e, nel contempo, manifestano, per l’appunto, nella legge: potestas ( ma, forse, meglio si direbbe imperium ) magistratuale, libertas comiziale, auctoritas senatoria.

Il carattere pattizio della lex publica risulta, del resto, bene lumeggiato dalla definitio che ne dà Cicerone ( de re publ., 1.32.49 ), secondo cui la lex è civilis societatis vinculum ossia e in altri termini null’altro che obligatio, sebbene codesta definizione ponga in risalto il prodotto della conventio e non il momento genetico da cui deriva il rapporto obbligatorio come, viceversa, avviene, con maggiore consapevolezza, nella definitio che ne dà Papiniano in D.1.3.1.

Posta, quindi, la natura convenzionale della lex, e la sua funzione  “costituente”  – nel senso prima precisato – si spiega come la costituzione stessa della civitas, quanto meno per quella parte posta in essere dalle leges, si ponga come il prodotto storicizzantesi di altrettante conventiones tra i soggetti istituzionali. E si spiega, altresì, l’efficacia relativa, nel tempo, della lex, nel senso che essa – quanto meno durante la Repubblica – non assume la natura e i caratteri della norma generale e astratta, sibbene la natura e i caratteri della disciplina dei casi concreti, la cui durevole efficacia nel tempo è determinata dalla concorde volontà dei soggetti che l’hanno posta in essere. Una volontà che, in ogni momento, per varie cause, può divenire discorde.

D’altra parte, l’idea di un  “patto” tra le forze politiche e i poteri istituzionali che esse esprimono, concluso in un determinato momento storico, non è estranea, a nostro giudizio, alla genesi delle moderne carte costituzionali, specie per quel che attiene al fine politico che queste carte intendono esprimere e, nel contempo, conseguire, e intorno al quale si dispongono[33]. La differenza, rispetto all’esperienza romana, sta in ciò che codesta convenzione si è obiettivata, per così dire, cristallizzandosi in un sistema che, almeno in linea di principio, non viene ritenuto suscettibile di modificazioni.

 

2.- Constitutio, status, forma civitatis: la costituzione nella terminologia degli antichi.

 

Sulla base delle fonti di cui disponiamo sembra certo che il termine constitutio sia stato usato, per la prima volta, da Cicerone[34].

Tra gli scritti ciceroniani più strettamente attinenti all’esperienza costituzionale romana, è nel de re publica che il termine ricorre più di frequente[35], con una varietà di significati che ne pongono in risalto sia l’aspetto dinamico – quale attività volta a disporre e sistemare un insieme di elementi i quali si correlano e si compongono in un insieme omogeneo – sia il profilo statico dato, per l’appunto, dall’oggettivarsi di siffatta attività ordinatrice[36].

  In questo secondo significato constitutio esprime la nozione di un assetto istituzionale in cui ordine normativo e strutture organizzanti e organizzate si fondono in un unicum; ma anche la nozione di una struttura essenziale e, al contempo, esistenziale della civitas, il suo  “modo di essere”  in un determinato momento storico.

Peraltro, il modo di essere di una comunità politica non è altra cosa che il suo status: non a caso si trovano frequentemente usate da Cicerone le locuzioni status rei publicae – status civitatis nel medesimo significato e valore di constitutio.[37].

In questa prospettiva il pensiero politico della Repubblica – che può senz’altro identificarsi con la riflessione ciceroniana – conferisce alla nozione di constitutio una chiara connotazione tecnica. Una connotazione che si rivela nel profilo organizzativo della constitutio, nel suo porsi quale “ordinamento”  esclusivo della comunità politica[38], e che, in definitiva, è alla radice del moderno concetto di costituzione.

Dunque, constitutio come  “modo di essere”, ma anche come manifestazione sostanziale ed esclusiva di una civitas, di cui si possa cogliere, in certo senso, l’aspetto esteriore ossia la  “forma” [39]. In effetti, dalla terminologia degli antichi appare legittimo indurre l’equazione forma = constitutio, equazione che consente di comprendere come il mutamento della forma di governo venga configurato come modificazione della forma civitatis.

 

3.- La constitutio come status, modo di essere della comunità politica, e come forma di Stato e di governo.

 

Si è poc’anzi osservato come la constitutio , colta nel suo profilo statico, si risolva in uno status civitatis ossia in un modo di essere, in una situazione istituzionale obiettiva assunta, in un dato momento storico, dalla comunità politica.

E’, quindi, la constitutio che conferisce a una civitas una sua specifica forma, la quale, al tempo stesso, ne rivela l’essenza e la distingue da ogni altra comunità politica.

In questa prospettiva non sorprende che il pensiero politico repubblicano consideri la civitas medesima come uno status ( o, ciò che è lo stesso, una constitutio  ), del populus ossia di quel che, per i Romani, identificava la nozione di Stato[40].

In quest’ordine di idee si può bene affermare che la forma della civitas conferisca al populus una connotazione specifica, la quale si concreta in una forma di Stato e di governo[41] in cui l’unico, sovrano, titolare del potere sia il populus ossia la totalità dei cittadini[42].

La speculazione politica ciceroniana procede, com’è noto, dalla tripartizione aristotelico – polibiana delle forme di Stato, che vengono identificate nei tria genera rerum publicarum: regnum, optimatium dominatus, civitas popularis.[43]

L’identificazione della civitas popularis con la terza forma di Stato – la democrazia – si correla alla costruzione concettuale della civitas quale constitutio populi e, al contempo, ne rende ragione. In questo senso: che la civitas, nell’ambito dei tria genera di res publica, costituisce il genus in cui populo sunt omnia,[44] e, correlativamente, omnia per populum geruntur.[45]

L’identificazione della civitas ( popularis ) con la democrazia viene, d’altra parte, confermata dall’ulteriore configurazione della civitas quale iuris societas, una forma di Stato e di governo nella quale pari sono la situazione giuridica e la titolarità dei diritti dei cittadini, nella sfera pubblicistica e in quella privatistica[46].

Parimenti, la configurazione del regnum e dell’optimatium dominatus con altrettali status di una comunità politica rende, a nostro giudizio, legittima l’identificazione della nozione di status – modo di essere con la forma di Stato – governo, e, in definitiva, con l’  “ordinamento”  politico-istituzionale della comunità medesima.  

Nel pensiero giuspubblicistico tardo-repubblicano regnum, optimatium dominatus, civitas popularis si identificano, peraltro, con altrettanti status rei publicae.

E’, quindi, da ritenere che la nozione di res publica non esprima una specifica forma di Stato e di governo.

E’ vero che Cicerone identifica, nella sua celeberrima definizione, la res publica con la res populi, ma è altresì vero che anche il regnum, come si è testé detto, viene considerato come una forma ( status ) di res publica. E, di certo, il regnum non può considerarsi una res populi, bensì una sua res del re.

Non si trascuri, infatti, che il regnum implica, secondo Cicerone, una servitus ossia l’esatto contrario della libertas, anche se la servitus generata dal regnum è una servitus iusta, conforme alla regolarità rituale, laddove la servitus generata dalla tirannide è una servitus iniusta, difforme dalla regolarità rituale.

Di conseguenza, il concetto moderno di  “repubblica”  non può farsi derivare dal concetto romano - anche se talune oscillazioni negli impieghi ciceroniani del termine e della corrispondente nozione possano generare, talvolta, perplessità al riguardo - e non esprime, a nostro giudizio, l'idea di una forma di Stato opposta alla  “monarchia” [47].

 

4.- La costituzione come prassi politica, come tradizione, come esperienza.

 

Altre connotazioni della costituzione romana sono ravvisabili in talune sue manifestazioni, in ordine alle quali essa si pone, al contempo, come prassi politico-istituzionale, tradizione, esperienza.

Codeste manifestazioni si colgono, a nostro giudizio, nell’affermazione con cui Cicerone dà inizio alla trattazione del secondo libro del de re publica, e precisamente là dove sostiene il primato della civitas romana sulle altre civitates, per la ragione che  « nostra…res publica non unius esset ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot constituta saeculis et aetatibus.».[48]

L’organizzazione costituzionale della comunità politica romana, a differenza delle comunità straniere, non scaturisce, quindi, dall’attività costituente di un legislatore,  in un determinato momento storico,  sibbene da un complesso di apporti che si sono manifestati nel corso della storia , più volte secolare, della Repubblica.

Codesti apporti provengono da varie fonti e da diversi soggetti dotati di potere costituente: innanzi tutto dai mores et instituta maiorum ossia dai comportamenti rituali  riconducibili ai patres e ai loro rapporti intersoggettivi; dalle leges ossia dalle manifestazioni di volontà normativa del populus Romanus; da quei fatti e comportamenti non necessariamente costanti o legittimi che, con terminologia mutuata dalla moderna dottrina costituzionalistica, possiamo definire come consuetudini ( ma anche convenzioni ) costituzionali[49]; dalle interpretazioni e dalle riflessioni dei giuristi in ordine a codesto complesso di fenomeni[50]; dalla dialettica cui danno vita le forze politiche e i poteri istituzionali di cui si intesse l’ordito della civitas.

In questa prospettiva la costituzione romana repubblicana si pone – sia pure limitatamente a talune sue connotazioni – come prassi. Una prassi che si inserisce nel contesto di una tradizione che essa medesima concorre a formare. Una prassi che appare profondamente connessa al tessuto dell’esperienza culturale, prima ancora che politica, dei Romani, in quanto determinata e, al tempo stesso, condizionata dalla loro concezione dello Stato e dal modo di rappresentarsi la res publica.

La convinzione che la comunità politica ripetesse dagli antichi mores il suo primo  “ordinamento” emerge, d’altronde, dalla domanda che si pone Cicerone, commentando il verso enniano «moribus antiquis res stat Romana virisque», e cioè se rimanga ancora qualcosa delle antiche costumanze che costituivano le fondamenta della res publica.[51]

Questa convinzione traspare, peraltro, da varie altre testimonianze ciceroniane, secondo le quali i mores e gli instituta maiorum da una parte, le leges dall’altra, costituivano l’ordito della costituzione repubblicana[52].

In siffatto ordine di idee si comprendono appieno il significato e il valore che riveste l’exemplum ossia il fatto o il comportamento che si conformi a un precedente ovvero lo contrasti o lo neghi, sebbene negli exempla che punteggiano la storia costituzionale della Repubblica siano da ravvisare, come vedremo, talune convenzioni costituzionali[53].

Mores, leges, exempla – insieme alla interpretazione e alla riflessione operata dagli antichi in ordine a codesti fenomeni – concorrono a risolvere l’ordinamento costituzionale romano nella ben più vasta nozione di esperienza giuridica, e a cogliere, nel contempo, di siffatto ordinamento, il carattere precipuo – che risulta , d’altronde, ribadito dalla testimonianza ciceroniana ( de re publ., 2.1.2 ) – della  sua storicità, del suo continuo attuarsi nella quotidiana vicenda umana[54].

 

5. – I  “poteri costituenti”  nell’esperienza costituzionale repubblicana.

 

La nozione di  “potere costituente” appartiene, com’è noto, al pensiero politico moderno[55]. Essa esprime l’attitudine di un soggetto istituzionale – sia questi da identificare con una persona fisica ovvero con un ente collettivo – a produrre ordinamento e, in specie, ordinamento costituzionale.

Di regola il titolare del potere costituente – venuta meno, ormai, l’epoca delle monarchie assolute in cui tale potere apparteneva al monarca – viene identificato nel popolo che, direttamente o indirettamente, attraverso suoi mandatari – ad es., un’assemblea costituente – detta a se stesso talune regole cui conformarsi, e appresta un complesso di strutture organizzative che lo costituiscono in una societas civium, in una comunità politica organizzata, conferendogli, al contempo, una specifica identità[56].

Il potere costituente non può che emanare da un soggetto sovrano ossia da un soggetto che non ripeta da altri la propria attitudine a produrre ordinamento, e che trovi in se stesso il titolo della propria legittimazione. Codesto potere è, pertanto, la fondamentale, se non esclusiva, manifestazione della sovranità.

Or non vi è dubbio che l’ordinamento costituzionale repubblicano scaturisca, fondamentalmente, dall’attitudine costituente di taluni soggetti sovrani, nel senso poc’anzi precisato. Intendiamo riferirci ai magistratus cum imperio, al senatus, al complesso dei comitia. Magistratus, senatus, populus – inteso, quest’ultimo, nel significato specifico di  “insieme dei cives deliberanti nelle assemblee comiziali” [57] –costituiscono altrettanti elementi strutturali della civitas, e ne determinano l’ordinamento che ciascuno di essi concorre a costituire[58].

Si è prima osservato che, in assenza di un documento costituzionale redatto in forma scritta, è alla legge che occorre, in primo luogo, rivolgere la nostra attenzione, e segnatamente alla lex ( publica ) rogata, pur non potendosi a priori escludere che talune leggi costituzionali – per avvalerci di una moderna locuzione – rivestissero la natura e i caratteri della lex data, come avvenne, ad esempio, nel caso della lex XII Tabularum.

Posto, quindi, che la lex ( publica ) sia produttiva di ordinamento costituzionale, risulta confermato il carattere sovrano dei poteri che concorrono, rispettivamente, alla sua formazione: imperium , auctoritas,libertas.

La lex si pone, quindi, come manifestazione di sovranità, e ciò in un duplice significato: come manifestazione della sovranità limitata – ci si passi l’espressione – propria di ciascuno dei tre poteri costitutivi della civitas; come manifestazione della sovranità complessiva del populus Romanus, considerato come sintesi delle tre partes che concorrono a costituirlo, e a cui i tre cennati poteri appartengono: magistratus, senatus, comitia.[59]  

 

6.- I caratteri dello status civitatis nella riflessione ciceroniana e le sue implicazioni in ordine al problema del controllo di costituzionalità.

 

E’ necessario, a questo punto, riprendere in esame la testimonianza ciceroniana sui caratteri della costituzione repubblicana per le implicazioni che ne derivano riguardo al problema del sindacato costituzionale.

Come si è veduto, nel sostenere la tesi della superiorità della forma civitatis romana rispetto a quella delle altre civitates, Cicerone traeva argomento dal procedimento di formazione dell’ordinamento costituzionale e dalle conseguenti connotazioni di siffatto ordinamento:

 

de re publ.,2.1.2:« Is dicere solebat ob hanc causam praestare nostrae civitatis statum ceteris civitatibus, quod in illis singuli fuissent fere, qui suam quisque rem publicam constituisset legibus atque institutis suis, ut Cretum Minos, Lacedaemoniorum Lycurgus…nostra autem res publica non unius esset ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot constituta saeculis et aetatibus.».

 

Secondo Cicerone, dunque, l’ordinamento costituzionale della Repubblica non poteva considerarsi il  “prodotto”  dell’attività costituente di un singolo legislatore, ma sibbene come il risultato di un’attività posta in essere dalle generazioni che si erano succedute, nel corso della storia, sulla scena politico-costituzionale romana.

Siffatto ordinamento era, quindi, il prodotto delle esigenze culturali, dei conflitti politici e delle istanze economico-sociali quali si erano venute manifestando nella coscienza collettiva, attraverso la diuturna vicenda della storia. Esigenze, conflitti, istanze di cui si alimentava la lotta per il potere, che si manifestavano sia in singoli e specifici provvedimenti normativi – le leges publicae – sia, e ancor più, in una prassi politica caratterizzata dai comportamenti dei soggetti di diritto pubblico – magistrati, senato, assemblee popolari, e dalle valutazioni che di siffatti comportamenti venivano compiute dalla collettività.

Dalla testimonianza ciceroniana emergono, a nostro giudizio, due fondamentali connotazioni della costituzione repubblicana, che bene possono estendersi  alla costituzione romana considerata nelle sue diverse fasi e nei suoi assetti, quanto meno sino all’avvento del Dominato: la sua  fattualità  – nel significato che di siffatta nozione è stato, tempo addietro, precisato, e la sua normatività[60].

Peraltro, ove si intenda porre il problema dell’applicabilità, alla costituzione repubblicana, delle nozioni elaborate dalla moderna dogmatica costituzionalistica al fine di precisare la natura e i caratteri delle moderne costituzioni, si può legittimamente configurare siffatta costituzione come un ordinamento storico, aperto, flessibile.

E’ appena il caso di  avvertire che l’ambito di applicazione della testimonianza ciceroniana va ristretto alla costituzione repubblicana e fors’anche a quella monarchica.

Con l’avvento del Principato, e, via via che si procede verso il Dominato, l’ordinamento costituzionale perde sempre più marcatamente il carattere della fattualità per assumere sempre più decisamente una connotazione esclusivamente normativa , connessa al valore e all’incidenza delle manifestazioni della volontà del princeps.

D’altra parte, un procedimento di indagine metodologicamente corretto neppure può considerare la costituzione monarchica o quella repubblicana come ordinamenti unitari e omogenei, ma deve distinguere i momenta attraverso i quali si pongono e si evolvono le strutture organizzative e normative della civitas.[61]

E’, quindi, per pure finalità descrittive che discorriamo di costituzione monarchica o repubblicana, laddove sarebbe, invece, più corretto discorrere di costituzioni monarchiche o di costituzioni repubblicane.

Peraltro, posto che la genesi dell’ordinamento costituzionale non si esaurisce in un unico atto né si manifesta in un momento storico determinato, e data l’assenza di un testo normativo formale da cui codesto ordinamento tragga origine, il problema della legittimità costituzionale di un provvedimento o di un comportamento assume connotazioni del tutto particolari, ben diverse da quelle che caratterizzano gli ordinamenti moderni.

Inoltre, riconosciuta la mancanza di un sistema gerarchico che distinguesse tra norme costituzionali e norme ordinarie, è verosimile che il problema della legittimità costituzionale dovesse risolversi nella obiettiva conformità di un singolo “ fatto “ alla prassi consolidata o nei giudizi di valore espressi dalla comunità, considerata nella collettività dei cittadini o in taluni soggetti istituzionali nei cui poteri rientrasse l’esercizio del controllo di costituzionalità.

Si è, peraltro, rilevato che  la prassi costituzionale repubblicana si concretizzava  in talune regole di condotta o in taluni comportamenti che rivestivano la natura e i caratteri delle convenzioni e delle consuetudini costituzionali.

 Gli antichi discorrevano di exempla, qualificando come nova, perniciosa, pessima exempla quei fatti o quei comportamenti ( ma anche quelle norme ),  che violavano o contraddicevano manifestamente l’ordine costituzionale.

D’altra parte, non sempre l’avverarsi di siffatti exempla comportava, di necessità, una violazione della costituzione, ma si poneva come un “ fatto costituente “ – ci si passi la locuzione – ossia produttivo di un nuovo ordine costituzionale. Un fenomeno, codesto, di cui va tenuto conto nel quadro di un’indagine volta ad accertare la natura e i caratteri di un sindacato di costituzionalità.

 

7.- I fenomeni della  “decostituzionalizzazione”  e della  “rottura della costituzione”  alla luce dei caratteri dell’ordinamento costituzionale repubblicano.

 

Mediante la nozione di  “rotture”  della costituzione la dottrina costituzionalistica intende le modifiche apportate alla costituzione « nelle forme a ciò prescritte, rivolte a derogare solo per singole fattispecie a determinate norme, le quali pertanto rimangono in vigore continuando a regolare tutte le altre.»[62].

Si tratta, quindi, di deroghe che, di solito, non implicano un sovvertimento di elementi essenziali o non contrastano con le finalità dell’ordinamento costituzionale, la cui giustificazione risiede o nell’espressa previsione da parte del testo costituzionale o nelle lacune del medesimo, lacune che possono evidenziarsi di fronte all’emergere di nuove istanze nella coscienza sociale.

Diverso dalle rotture della costituzione è, viceversa, il fenomeno della cosiddetta  “decostituzionalizzazione” , che si manifesta in un mutamento dell’ordinamento costituzionale dovuto, in genere, a modificazioni tacite della costituzione.

Il fattore discriminante i due fenomeni risiede, quindi, nell’esistenza o meno di di una specifica previsione da parte del testo costituzionale, sia che essa si manifesti in norme espressamente dettate dal legislatore costituente sia che essa sia configurabile al livello di una semplice possibilità.

In ogni caso entrambi i fenomeni presuppongono, di necessità, l’esistenza di una costituzione formale, rigida , data la loro non sicura configurabilità di fronte a un ordinamento costituzionale caratterizzato dalla flessibilità e dalla storicità.

Per quanto riguarda l’esperienza costituzionale romana della Repubblica, e la possibilità di configurare, nel suo ambito, i due fenomeni cui si è accennato, è nostra opinione che soltanto il primo – le rotture della costituzione – possa configurarsi, pur con le necessarie cautele, imposte dall’impiego, in ordine a un’esperienza del passato, di categorie e schemi concettuali formulati per un’esperienza del presente.

Al riguardo occorre avere presente la peculiarità dell’ordinamento costituzionale romano che non si fonda, come si è detto, su di una costituzione scritta, ma si viene formando e completando attraverso la prassi e la legislazione ordinaria.

Siffatta peculiarità esclude che si possa identificare, in ordine alla costituzione repubblicana, il fenomeno della decostituzionalizzazione, in quanto che lo strumento usato per introdurre modifiche costituzionali è quasi sempre individuabile nella legge, sia essa data o rogata, nell’opera riformatrice di magistrature straordinarie per lo più costituenti – ad es. le magistrature istituite con l’espressa finalità di rem publicam constituere – e, infine, nelle consuetudini e nelle convenzioni costituzionali. A ciò si aggiunga l’attitudine a   “produrre ordinamento”   insita, quale sua peculiare caratteristica, nell’imperium dei magistrati. Un potere, siffatto, il cui contenuto non si esaurisce nella sostanza e nelle connotazioni di eminente carattere militare, ma si manifesta, non meno essenzialmente, nella potestas constituendi ossia nel potere di emanare norme organizzative e di comportamento le quali accrescono ininterrottamente l’ordinamento[63].

La prassi, per ciò che  la concerne, non opera, in genere, modifiche, quanto, piuttosto, rotture dell’ordinamento costituzionale, attuate mediante lo strumento dell’exemplum ossia del fatto o del comportamento contrario alle leges o ai mores et instituta maiorum.[64]

Taluni tra siffatti comportamenti si risolvono, in effetti, in altrettali deroghe dell’ordinamento esistente; altri, viceversa, in innovazioni le quali implicano abrogazioni in tutto o in parte dell’ordinamento vigente.

Quali esempi del primo ordine di deroghe possono essere ricordati due episodi narrati da Livio, concernenti altrettante contentiones tra i tribuni plebis e i magistrati patrizi.

Il primo viene narrato in

 

Liv., 7.17.12-13:« In secundo interregno orta contentio est, quod duo patricii consules creabantur, intercedentibusque tribunis interrex Fabius aiebat in duodecim tabulis legem esse, ut, quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset; iussum populi et suffragia esse. Cum intercedendo tribuni nihil aliud, quam ut differrent comitia, valuissent, duo patricii consules creati sunt, C. Sulpicius Peticus tertium M. Valerius Publicola, eodemque die magistratu inierunt.» ;

 

 

Il secondo in

 

Liv., 9.33. 4-9:« Ap.Claudius censor circumactis decem et octo mensibus, quod Aemilia lege finitum censurae spatium temporis erat, cum C. Plautius collega eius magistratu se abdicasset, nulla vi compelli ut abdicaret potuit. P. Sempronius erat tribunus plebis, qui finiendae censurae intra legitimum tempus actionem susceperat, non popularem magis quam iustam nec in vulgus quam optimo cuique gratiorem. Is cum identidem legem Aemiliam recitaret auctoremque eius Mam. Aemilium dictatorem laudibus ferret, qui quinquennalem ante censuram et longinquitate potestatem dominantem intra sex mensum et anni coegisset spatium, ‘ Dic agedum ‘ inquit, ‘ Appi Claudi, quidnam facturus fueris, si eo tempore quo C. Furius et M. Geganius censores fuerunt censor fuisses.’ Negare Appius interrogationem tribuni magno opere ad causam pertinere suam; nam, etsi tenuerit lex Aemilia eos censores, quorum in magistratu lata esset, quia post illos censores creatos eam legem populus iussisset, quodque postremum iussisset id ius ratumque esset, non tamen aut se aut eorum quemquam qui post eam legem latam creati censores essent, teneri ea lege potuisse.».

 

Entrambi i brani che, per migliore comprensione, abbiamo trascritto nell’intero contesto, attestano l’insorgere di due exempla che si risolsero in altrettali deroghe alla costituzione della civitas. Ambedue le deroghe concernevano il disposto di leges publicae, le quali, malgrado la violazione subita, rimasero in vigore e continuarono a produrre i loro effetti.

La prima deroga – che si risolveva nella creatio di due consoli, entrambi patrizi  - costituiva un’aperta violazione della lex Licinia-Sextia de consule plebeio, del 367 a.C., la quale, com’è noto, aveva disposto la riserva di uno dei due seggi consolari ai plebei[65].

La seconda deroga si traduceva in una violazione della lex Aemilia, rogata dal dittatore M.Mamerco Emilio nel 434 a.C., che limitò, verosimilmente, la durata della censura a diciotto mesi, apparendo contraria ai mores et instituta maiorum l’originaria durata quinquennale della magistratura censoria.  Anche in questo caso si trattava di un exemplum, posto in atto dal censore Appio Claudio, nel 310 a,C.

In verità, in quest’ultimo caso, la rottura dell’ordinamento era imputabile a un solo soggetto, avendo l’altro censore, collega di Appio, osservato il disposto della legge. Peraltro, sotto il profilo formale, il problema si poneva ugualmente, dato che il comportamento di Appio si poneva in palese contrasto con la disciplina imposta dalla lex Aemilia.

Gli esempi or ora addotti riguardano le deroghe all’ordinamento costituzionale.

Costituivano, viceversa, exempla implicanti la rottura della costituzione determinata da una sua abrogazione, sia pure parziale, i casi del cosiddetto senatus consultum ultimum, dell’abrogatio magistratus, e dell’abrogatio imperii.

Per quanto riguarda il Sc. ultimum, codesto provvedimento deliberato, forse per la prima volta, dal senato in occasione dei torbidi interni provocati dai tentativi di riforma dell’ordinamento costituzionale posti in atto da Tiberio Gracco nel 132 a,C.,[66] sospendeva le garanzie costituzionali della intercessio, tribunizia e magistratuale, e della provocatio ad populum.

Sotto il profilo costituzionale, peraltro, esso si risolveva in un’abrogazione parziale dell’ordinamento, per quella parte che concerneva, per l’appunto, le garanzie disposte dalle leges sulla provocatio e, verosimilmente, dalle leges ordinatrici del tribunato della plebe, in favore del cittadino[67].

In effetti, le connotazioni del ricorso costante e della stabilità, assunte da siffatto provvedimento senatorio, inducono a ricorrere, quale criterio di valutazione, alla nozione di abrogazione, piuttosto che a quella della deroga, data la sistematica disapplicazione della disciplina legislativa e, insieme, consuetudinaria, delle garanzie e dei conseguenti limiti all’imperium magistratuale in favore dei singoli cives. Codesta disapplicazione può assumersi, in effetti, quale indizio dell’emergere di un nuovo assetto costituzionale relativo alla situazione che contraddistingueva, sotto il profilo del ius publicum e della constitutio rei publicae, il cittadino che venisse dichiarato formalmente hostis rei publicae.

In ordine all’abrogatio magistratus, uno dei pochi casi attestati nelle fonti è quello della destituzione disposta dal concilio della plebe,ai danni del tribunus plebis M. Ottavio, collega, di Tiberio Gracco. La motivazione con cui Tiberio giustificò il gravissimo provvedimento non ne attenua il carattere di aperta violazione dell'ordine costituzionale[68].

Infine, per quel che riguarda l’abrogatio imperii, qualunque ne fosse stato l’originario campo di applicazione, essa rimaneva un exemplum  di estrema gravità, in quanto che l’imperium era considerato come un potere personale del magistrato, non conferito da alcuno, e quindi sottratto alla competenza elettorale delle assemblee popolari[69].

 

8.- Il problema delle modificazioni dell’ordinamento costituzionale alla luce del principio “ Quodcumque postremum populus iussisset id ius ratumque esset” .

 

Abbiamo or ora veduto come il problema delle modifiche apportate all’ordinamento costituzionale assumesse specifiche connotazioni in relazione alle particolari caratteristiche dell’esperienza politico – costituzionale romana.

Dobbiamo adesso occuparci di un ulteriore profilo di codesto problema, di fondamentale rilievo ai fini della sua soluzione. Ci riferiamo all’esistenza, nel quadro dell’ordinamento costituzionale della Repubblica, di un principio che sanciva l’onnipotenza del potere legislativo del populus.

Codesto principio, attestato nella forma espressa dalla locuzione tecnica   “quodcumque postremum populus iussisset id ius ratumque esset” ,[70] risaliva, secondo gli antichi, alla legge delle XII Tavole, ed esprimeva il sovrano potere del populus Romanus di cassare ogni sua precedente manifestazione di volontà normativa, in una specifica materia, nel caso in cui avesse nuovamente deliberato.

Esso esprimeva, in altri termini, la sovrana autodeterminazione del populus – nel significato di  ente collettivo risultante dalla sintesi dei soggetti istituzionali che ne costituivano la struttura, magistrati, senato, assemblee deliberanti – e, pertanto, la sua illimitata potestas constituendi, la quale giungeva al punto che esso potesse annullarsi quale soggetto costituzionale sovrano, e farsi oggetto dell’altrui potere sovrano[71].

Codesto principio manifestava  una concezione fondamentalmente storicistica e relativistica del diritto, onde quest’ultimo si poneva come un fenomeno in continua evoluzione, così come in continua evoluzione era la coscienza sociale dei cittadini. Pertanto, la legge, al pari delle altre fonti del diritto, non era considerata come un dato assoluto, cristallizzato e insensibile al mutare dei tempi e delle condizioni storiche. La sua validità e la sua efficacia erano relative, e, mutando i tempi e le esigenze della coscienza collettiva del populus, qualunque legge, anche la più solenne, perdeva la sua forza.

La nostra argomentazione può apparire lapalissiana, ma, a quel che sembra, non lo fu per i nostri costituenti del   1946, se si considera che l’art.131 del Progetto del vigente testo costituzionale così recitava: « La forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale », e che, nel testo definitivo ( art.139 ), pur essendo stato rimossa l’affermazione del carattere definitivo, è rimasta l’esclusione della possibilità di una revisione costituzionale. Un vero monstrum giuridico, inconcepibile per i Romani[72].

Il divieto, per noi incomprensibile, di modificare l’ordinamento preesistente, sancito in uno dei  capita inseriti nella sanctio di ogni lex rogata, veniva contestualmente  contraddetto e neutralizzato dal disposto di un’altra clausola, anch’essa inserita nella sanctio delle leges publicae: il caput tralaticium de impunitate, che disponeva la non imputabilità, in ordine al crimen di fraus legi, di quanti, magistrati o cittadini, avessero, con le loro azioni o omissioni, contravvenuto al disposto delle leggi precedenti[73].

Nel pensiero politico repubblicano la perpetuità della legge è nulla più che un’aspirazione del legislatore, e le clausole che sembrano sancirla non sopravvivono alla sorte della legge che le contempla[74].

L’innato pragmatismo dei Romani li poneva al riparo da una concezione dogmatica,  “feticistica”  , del diritto. Essi concepivano l’ordinamento della civitas come un fenomeno che veniva evolvendosi secondo l’evolversi delle istanze di vario ordine – sociale, economico, politico, culturale, religioso – via via che queste istanze venivano manifestandosi nella coscienza sociale. Non deve, quindi, stupire che il fenomeno delle modifiche dell’ordinamento costituzionale, poste in essere sia dalla prassi che dalla legislazione, fosse assai frequente a Roma, sì da potere essere considerato come una costante dell’esperienza politico-costituzionale dei Romani.

In questa prospettiva, il giudizio di valore espresso sugli exempla cui abbiamo accennato può considerarsi come indizio dell’emersione di una concezione fondamentalmente normativistica dell’ordinamento costituzionale. Non è un puro caso che le testimonianze, al riguardo, appartengano, in maggioranza, all’ultimo secolo della Repubblica. In effetti, è in questo periodo che, specie nel pensiero politico ciceroniano, si può cogliere la tendenza a enfatizzare il valore e il significato della legge e, nello stesso tempo, l’evoluzione che questa presenta nell’esperienza giuspubblicistica repubblicana. In questo senso: che da regola del caso concreto, da semplice  “precedente” , la cui validità ed efficacia sono poste continuamente in discussione dalla dialettica delle forze politiche e dei poteri istituzionali, la legge si avvia a divenire la norma gerarchicamente sovraordinata alle altre fonti del diritto, e ad assumere i caratteri della generalità e astrattezza che alla legge assegna il moderno pensiero giuspubblicistico[75]. Non è un caso che la prima sistematica delle fonti del diritto appaia, se non ci inganniamo, proprio in Cicerone[76], e che la definizione della lex publica come generale iussum populi appartenga a un giurista, Ateio Capitone, vissuto tra la fine dell’ultimo secolo della Repubblica e gli inizi del Principato[77]. Peraltro, pur enfatizzando, come si è detto, il valore della legge, il pensiero politico ciceroniano  - da noi assunto, di necessità, come paradigma del pensiero politico tardo-repubblicano - non riesce a svincolarsi dai condizionamenti imposti dall’esperienza costituzionale repubblicana, in guisa che riesce difficile determinare se esso descriva un’effettiva realtà costituzionale o non manifesti, piuttosto,  una nobile aspirazione del filosofo dello Stato, oscillando – com’è dato cogliere nelle sue numerose testimonianze – tra l’essere e il dover essere.

Il princio  “quodcumque postremum populus iussisset”  può chiarirci la ragione dell’assenza di una  costituzione formale nell’esperienza giuspubblicistica dei Romani.

La lex publica, in forza di codesto principio, si poneva, in effetti, come manifestazione della sovrana volontà del populus – come corpus di universi cives – e, quindi, escludeva una distinzione e una discriminazione gerarchica tra norme costituzionali e norme ordinarie.

Il principio in questione riconduceva, in altri termini, il potere costituente, il potere di revisione e il potere legislativo a un unico soggetto istituzionale: il populus[78].

 

9.- Il costituzionalismo  romano e il controllo di costituzionalità.

 

Abbiamo già rilevato come sia la nozione che il termine medesimo di  “costituzionalismo”  non provengano dall’esperienza politico-costituzionale dell’antichità classica, ma siano il prodotto del pensiero politico e dell’esperienza costituzionale dell’età moderna[79].

 “Costituzionalismo”  è un termine che si  connette a  “costituzionale”  ossia a un qualificativo che esprime, fondamentalmente, la sostanza delle forme di Stato e di governo caratterizzate dai principi della separazione dei poteri, delle garanzie dei diritti pubblici soggettivi nei confronti dei poteri dello Stato, e del conseguente controllo della legittimità costituzionale degli atti posti in essere dagli organi e dai poteri dello Stato.

In questa prospettiva il fenomeno del costituzionalismo si correla alle dottrine del razionalismo settecentesco e del liberalismo ottocentesco le quali, com’è noto, affermavano la titolarità in capo a ogni uomo, in quanto persona ossia in quanto essere dotato di ragione, di un complesso di diritti innati che – lo si è già detto – lo Stato ha il compito di riconoscere e di garantire attraverso la predisposizione di strumenti idonei, primo fra tutti l’emanazione di una Carta costituzionale.

L’esistenza di una costituzione, formalizzata in un documento scritto cui si riconosceva una particolare solennità, rispondeva, in effetti alle istanze propugnate dalle dottrine cui si è accennato, istanze che si manifestavano nell’esigenza del garantismo, secondo cui l’organizzazione stessa dello Stato assumeva carattere strumentale ai fini della tutela delle libertà fondamentali del cittadino[80].

Si è già rilevato come, da un attento esame delle connotazioni assunte dall’esperienza politico-costituzionale di Roma, così come da quella della Grecia classica, sia parso legittimo e corretto, sotto il profilo metodologico, discorrere di un costituzionalismo degli antichi, intendendo condensare, in siffatta nozione, gli elementi speculativi e le concorrenti vicende politico-costituzionali che, così in Grecia come a Roma,dimostrano il sorgere e l’affermarsi di esigenze non dissimili da quelle che fornirono materia al sorgere della moderna nozione[81].

E’ necessario, tuttavia, distinguere tra l’esperienza greca e quella romana, in quanto che esse si presentano con connotazioni differenti e, in particolare, per la discriminante costituita – relativamente all’esperienza greca – dall’esistenza di una costituzione scritta e da un sistema gerarchico delle norme costruito sulla base della distinzione politéia – nomoi.[82]

Nell’esperienza politico-costituzionale della Grecia classica è dato ritrovare l’esistenza di un concetto di costituzione nei due rispettivi significati di organizzazione della polis e di testo normativo nel quale erano sanciti il fine e l’ideologia di una comunità politica, e, nel contempo, veniva disciplinata la posizione dei suoi organi e dei suoi poteri. L’esistenza di una charta, redatta, di solito, da un legislatore costituente più o meno leggendario, assolveva, infatti, a quelle esigenze di certezza del diritto e di garantismo che costituiscono la sostanza della moderna nozione di costituzionalismo.

La legge ( nomos ) assumeva una funzione strumentale nel soddisfacimento di siffatte esigenze. Ciò emerge nettamente da un brano della Politica di Aristotele che è operae pretium trascrivere integralmente:

 

Arist., Polit., 4.1.1289 a : « La costituzione è un ordine imposto alla città concernente il modo di distribuzione delle magistrature, il governo della cittadinanza e il fine della comunità nel suo complesso e di ciascuno dei suoi membri.Le leggi, in quanto distinte dalle norme fondamentali della costituzione, hanno il compito di prescrivere le regole secondo cui i magistrati devono governare e punire i trasgressori.»[83].

La consapevolezza dell’esistenza di un complesso di principi-guida cui deve ispirarsi l’organizzazione della polis; l’intuizione della distinzione tra norme costituzionali – nelle quali quei principi si incarnino – e norme ordinarie, e della loro relazione gerarchica; la coscienza che l’azione dei poteri statali debba uniformarsi a siffatti principi come condicio sine qua della sua legittimità consentono, come si è, poc’anzi, affermato, di ritrovare nell’esperienza politico-costituzionale dei Greci taluni dei contenuti essenziali dai quali, in seguito e nell’età moderna, trarrà alimento la nozione moderna del costituzionalismo.

Per quanto riguarda Roma la presenza di tematiche costituzionalistiche si rivela, innanzi tutto, nell’esigenza – tipica della forma civitatis repubblicana – di premunirsi nei riguardi di una sempre possibile restaurazione del regnum ossia di una forma di Stato e di governo la cui connotazione dominante era, nella concezione dei Romani, la servitus.[84]

Livio ( 2.1.9 ) narra che Giunio Bruto, il capo dei congiurati che avevano rovesciato la dispotica monarchia etrusca, aveva indotto il popolo a giurare che mai più avrebbe tollerato che un re regnasse in Roma. Codesto giuramento trovò, di lì a poco, sanzione legislativa in una delle leges Valeriae dell'anno 509 a.C., che configurava come crimen, punito con la pena della sacratio capitis et bonorum, l'adfectatio regni ossia il disegno di ripristinare la forma monarchica di Stato[85]. In codesta legge, che sanciva il carattere definitivo e irrinunciabile della forma repubblicana della civitas, si ravvisa, a nostro parere, la prima fondamentale manifestazione del costituzionalismo romano.

In questa prospettiva si collocano, analogamente, le leges in materia di provocatio ad populum, unicum praesidium libertatis secondo Livio[86], le quali rispondevano all'esigenza di limitare l’assolutismo dell’imperium magistratuale nei confronti del cittadino, sia con l’imporre al magistrato di concedere la provocatio al cittadino fatto oggetto della sua coercitio sia col vietare l’istituzione di magistrature esenti dal limite della provocatio.

Siffatte leggi, ponendo il cittadino al riparo dall'arbitrario esercizio del ius coercitionis ad opera del magistrato, rispondevano alle medesime esigenze che, molti secoli più tardi, avrebbero condotto all'emanazione, in Inghilterra, dell'Habeas Corpus.

D'altra parte, l’esigenza di premunirsi nei riguardi di una pur sempre possibile restaurazione del regnum riappare nella proposta di legge del tribuno della plebe C.Terentilio Harsa  che prevedeva l’istituzione di una magistratura di cinque membri avente la finalità di regolamentare per legge l’imperium consolare[87]. L’imperium dei consoli avrebbe dovuto, d’ora in avanti, essere sottoposto alla definizione e ai limiti della legge, nella quale s’identificava la sovrana volontà del populus. 

A Roma, nell’assenza di una costituzione scritta, è, infatti la legge che risponde alle esigenze del costituzionalismo.

Lo conferma, d’altronde, un’incisiva testimonianza ciceroniana, tratta dall’orazione in difesa di Aulo Cluenzio, che possiamo considerare esemplare, in relazione alle tematiche che animavano il dibattito politico nel quadro dell’esperienza costituzionale repubblicana:

 

Cic.,  pro Cluent. 53.146:« Ut corpora nostra sine mente, sic civitas sine lege suis partibus, ut nervis ac sanguine et membris, uti non potest. Legum ministri magistratus, legum interpretes, iudices, legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi esse possimus.».

 

La legge è, quindi, l’elemento portante delle strutture organizzative che compongono la civitas. Essa è, nel contempo, lo strumento che realizza e garantisce la libertas ossia non solo l’autodeterminazione del singolo, ma altresì la sua partecipazione responsabile e attiva alla gestione della res publica. A patto, però, che ci si disponga a un’obbedienza e a un rispetto assoluti nei confronti della legge, sì che possa configurarsi una condizione di assoggettamento di tutti, magistrati e cittadini, non dissimile dalla schiavitù. Una schiavitù nei riguardi della legge.

Cicerone si vale, al riguardo, di una locuzione usata, secoli prima, da Platone, nel dialogo sulle Leggi, per affermare la necessità logica che il cittadino obbedisca alla legge nell’interesse comune e, in definitiva, per la salvezza della polis.[88]

La legge, dunque, caratterizza la forma civitatis repubblicana nei confronti del regnum.

Ciò traspare nettamente da due testimonianze fornite, rispettivamente da Livio e dal giurista classico Pomponio.

La prima si segnala per la sua singolarità, poiché scolpisce, sia pure in forma aneddotica, l’antitesi tra regno e Repubblica sulla base, per l’appunto, dell’esistenza o meno della legge nel quadro politico-costituzionale:

 

Liv. 2.3.2-4:« Erant  in Romana iuventute adulescentes aliquot, nec ii tenui loco orti, quorum in regno libido solutior fuerat, aequales sodalesque adulescentium Tarquiniorum, adsueti more regio vivere. Eam tum aequato iure omnium licentiam quaerentes, libertatem aliorum in suam vertisse servitutem inter se conquerebantur: regem hominem esse a quo impetres ubi ius, ubi iniuria opus sit; esse gratiae locum, esse beneficio , et irasci et ignoscere posse, inter amicum atque inimicum discrimen nosse; leges rem surdam, inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi quam potenti, nihil laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris…».

 

L’antitesi è posta tra il re e la legge, ma è evidente che essa sottende l’antitesi tra du forme di Stato, la monarchica e la repubblicana, caratterizzate da due distinte forme di normazione: la volontà del re e la legge.

La prima partecipa, per così dire, della condizione umana del re, con cui, in buona sostanza, s’identifica; la seconda è colta nel suo oggettivarsi nella realtà del diritto, indipendentemente dalle persone fisiche e dalle volizioni che l’abbiano posta in essere.

L’astrattezza e l’imparzialità della legge si contrappone, quindi, alla concretezza e alla parzialità della volontà regia, ipostatizzata nella persona fisica del monarca.

Ora, per tornare al nostro problema, non vi è dubbio che la legge realizzi la completa parificazione giuridica dei cives, risolvendosi nell’abolizione di ogni privilegio e garantendo, nel contempo, le classi socialmente ed economicamente più deboli. In altri termini, la legge realizza le condizioni di una par condicio civium e di certezza del ius che connotano la nuova forma civitatis, e la distinguono nettamente dalla forma precedente, nella quale il principale, se non l’unico elemento di valutazione e di guida degli atti e dei comportamenti, individuali e collettivi, è dato dalla volontà del re.

Codeste condizioni ben possono farsi rientrare nell’ambito della nozione del costituzionalismo repubblicano. Esse, d’altra parte, emergono nettamente dalla seconda testimonianza, fornita, come si è detto, da Pomponio, in un brano del suo Enchiridion:

 

D. 1.2.2.1 ( Pompon. Libro sing. Enchirid. ):« Et quidem initio civitatis nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum agere instituit omniaque manu a regibus gubernabantur.».

Non diversamente, nella sostanza, da Livio, anche Pomponio pone un’antitesi: da una parte la lex e il ius;  dall’altra la manus del re.

Anche Pomponio pone in risalto il  “fisicalismo”  dei fatti di produzione normativa – per valerci della felice concettualizzazione dell’Orestano – in età regia, i quali si concretano e si risolvono nell’assorbente e assoluto potere del rex, che tutto governa e dal quale tutto dipende. Un concetto, codesto, ribadito da Pomponio, là dove afferma che « initio civitatis huius constat reges omnem potestatem habuisse » ( D. 1.2.2.14 ).

L’assenza di certezza del diritto e delle leggi caratterizza, nel convincimento di Pomponio, la posizione giuridica del cittadino nei confronti del re, di fronte al quale non stanno cives, soggetti di diritto, bensì schiavi, res.[89]

La fondazione della res publica, o meglio, della civitas popularis – per usare la locuzione ciceroniana – denota, quindi, in antitesi al regnum, l’avvento dello Stato di diritto – per valerci, in questo caso, di una nozione moderna – dello Stato fondato sulle leggi.

In effetti, l’istituzione della magistratura decemvirale aveva per scopo principale la redazione di un corpo di leggi – come risulta dalla titolatura medesima del decemvirato, legibus scribundis [90]– affinché, osserva Pomponio,« civitas fundaretur le gibus».[91]

Posto, quindi, che il rispetto della legge contraddistingue la forma civitatis repubblicana, e che nella legge s’identifica il fondamentale criterio di legittimazione dei comportamenti di tutti i componenti la civitas – magistrati e cittadini – e lo stesso principio di legalità, ne deriva che il problema dell’accertamento della costituzionalità di siffatti comportamenti  - e degli atti che ne derivano – si risolve, sia pure non esclusivamente, nel problema della conformità dei medesimi alla legge[92]. A codesto problema occorre rivolgere, adesso, la nostra attenzione.  

 

10.- Il sindacato costituzionale come controllo della conformità alle leges degli atti e dei comportamenti imputabili ai soggetti istituzionali. Opportunità di distinguere un sindacato improprio e un sindacato proprio ( o tecnico ) di costituzionalità.

 

Abbiamo prima veduto come, nei confronti di atti o comportamenti che si ponessero in contrasto con le leges o con i mores et instituta maiorum gli antichi discorressero di exempla, nova o mala che fossero.

L’uso di codesto termine esprime, indubbiamente, un giudizio di valore manifestato dalla comunità politica; un giudizio che, a parer nostro, può bene essere considerato come il prodotto di una sorta di sindacato costituzionale che chiameremmo improprio, in quanto esercitato non da soggetti istituzionali tra le cui attribuzioni rientrasse anche quella del controllo di costituzionalità, sibbene dalla civitas nel complesso dei suoi componenti.

In effetti, il sindacato in senso proprio s’identifica, a nostro giudizio, con la funzione lato sensu nomofilattica esercitata dal senato e, in via subordinata, da altri soggetti istituzionali.

In questa prospettiva va considerato, ad es., il giudizio formulato dai censori nei riguardi dei retori latini: « Haec nova, quae praeter consuetudinem ac morem maiorum fiunt, neque placent neque recta videntur». [93]. Sebbene si sia ravvisata in codesto giudizio una prova della inderogabilità dei mores, e siffatta inderogabilità sia stata elevata a  “principio fondamentale del diritto pubblico” [94] romano, sembra che il giudizio censorio si fosse risolto in una valutazione di ordine morale e, forse anche, di opportunità politica[95].

Peraltro, perché possa discorrersi di un sindacato di costituzionalità in senso proprio, è necessario riferirsi, fondamentalmente, alle leges publicae, nel senso che è la conformità o la difformità di un atto o di un comportamento nei confronti delle leges che determina un giudizio di legittimità costituzionale.

D’altronde, tra gli atti illegittimi, sotto il profilo costituzionale, è compresa, ovviamente, anche la legge, e la legge comiziale in particolare. La legge, in effetti, pur concretandosi, come si è detto, in un atto complesso[96], cui partecipano i tre soggetti istituzionali dell’ordinamento repubblicano  - magistrati, comizi, senato – e pur esprimendo la sovrana autodeterminazione del populus Romanus, quale sintesi di siffatti soggetti, avrebbe potuto bene essere affetta da vizi sia formali che sostanziali[97].

Vedremo, tra poco, come la testimonianza degli antichi intervenga, al riguardo, presentandoci una casistica che, quand’anche fosse lontana dalla completezza, ha il pregio di mostrare come il principio decemvirale che sanciva l’onnipotenza della potestas constituendi del populus incontrasse, in realtà, taluni limiti che quest’ultimo non poteva valicare, pena la nullità delle sue deliberazioni.

Si è poc’anzi accennato all’opportunità di distinguere tra un sindacato di costituzionalità in senso proprio e un sindacato in senso improprio. Rinviando, per il momento, l’esame della prima species di sindacato, è necessario fermare adesso la nostra attenzione su quei soggetti istituzionali i quali esercitavano, a nostro avviso, la seconda species di sindacato. Codesti soggetti si identificano con i magistrati in genere, con i tribuni della plebe, con taluni collegi sacerdotali quali i collegi dei pontefici e degli auguri[98].

Cap.III

Il sindacato di costituzionalità improprio

1.- I magistrati: l’esercizio del sindacato improprio di costituzionalità alla luce di taluni principi strutturali della magistratura romana.

 

Per quanto concerne gli atti e i comportamenti dei magistrati, il problema della loro incostituzionalità si presenta di non facile soluzione. Una casistica in questo senso ci condurrebbe ben oltre i limiti della nostra indagine e sarebbe, forse, impossibile. E' sufficiente, a parer nostro, tenere presenti i principi che informano la magistratura e, in particolare, quelli della temporaneità, della responsabilità e della collegialità, per renderci conto delle specifiche connotazioni che possa assumere il profilo dell’illegittimità costituzionale degli atti e dei comportamenti magistratuali, e delle particolari modalità cui debba informarsi il relativo sindacato.

La durata temporanea, in genere annuale, caratterizza, nella costituzione repubblicana, tutte le magistrature ordinarie, salvo talune eccezioni. Ciò comportava, come è stato esattamente rilevato[99], un limite temporale all’esercizio del potere da parte del titolare dell’ufficio e, nel contempo, l’irrevocabilità dell’ufficio medesimo nelle ipotesi di vizi da cui fosse affetto o di atti o comportamenti contrari all’ordinamento costituzionale.

Pertanto, ove si fosse manifestata l’esigenza di rimuovere dall’ufficio il magistrato, nelle ipotesi or ora accennate, non si sarebbe potuto procedere alla sua destituzione, ma sarebbe stato necessario che fosse il magistrato medesimo a dimettersi, di sua iniziativa. Ciò per il carattere eminentemente personale del potere magistratuale e nell’assenza di una legge di conferimento del medesimo e di una conseguente istituzionalizzazione[100].

E' da ritenere, quindi, che nell’ipotesi di un giudizio di illegittimità costituzionale emesso nei confronti del magistrato, nell’assenza di mezzi di coazione diretta, sul terreno del ius publicum, tutto fosse rimesso alla fides.[101] In ossequio a codesta norma di comportamento - avvertita come cogente ancora nell’epoca di maggior fiore della Repubblica - è assai probabile che il magistrato abdicasse spontaneamente al suo ufficio.

Al principio della temporaneità è strettamente connesso quello della responsabilità del magistrato.

Siffatto principio implicava che il magistrato fosse responsabile sia nei riguardi dei privati cittadini che nei riguardi del populus Romanus, ma codesta responsabilità diveniva operante solo successivamente all’uscita di carica del magistrato[102].

Per quanto riguarda il nostro problema è certo che i magistrati erano tenuti, al momento di entrare in carica, a iurare in leges - un giuramento sostanzialmente non dissimile dall’odierno giuramento, prestato dai membri del governo, di osservare la Costituzione - così come erano tenuti a giurare, al momento di rimettere la carica, di avere osservato le leges durante la gestione del loro ufficio. Ma, verosimilmente, codesta prassi si affermò a partire dal II sec. a.C.[103] , e solo da quell’epoca acquistò rilevanza giuridica. In effetti, il senato avrebbe potuto non approvare la relatio presentata dal magistrato uscente, con la conseguenza che quest'ultimo avrebbe potuto essere sottoposto a un processo, dapprima, probabilmente, extra ordinem,[104] e successivamente, una volta affermatosi il sistema delle quaestiones perpetuae, dinanzi ai tribunali ordinari. Un processo, peraltro, che, pur risolvendosi in un giudizio sulla legittimità costituzionale degli atti e dei comportamenti imputabili al magistrato, doveva essere fortemente segnato da connotazioni di prevalente ordine politico.

Per quanto, infine, riguarda la collegialità, è nostra opinione che il diritto di opporre intercessio agli atti del magistrato non condivisi dal collega assolvesse, in certo modo, alla funzione di un provvedimento connesso a un giudizio di legittimità costituzionale degli atti e dei comportamenti del magistrato, emesso dal collega. L'effetto era, in questo caso, il blocco della specifica attività del magistrato con la conseguente sospensione degli atti posti in essere. Verosimilmente, il criterio vigente era il medesimo che presiedeva alle normali manifestazioni del ius prohibendi del magistrato: il criterio espresso nella nota formula  “par maiorve potestas plus valeto”[105].

In questa prospettiva rientrava non solo il potere di obnuntiatio connesso all'intervento magistratuale in caso di auspicia sfavorevoli - ma sibbene il divieto di servare de coelo. Siffatti poteri, miranti a bloccare l’attività dei magistrati dotati di minor potestas, manifestavano se non proprio un giudizio in senso tecnico, quanto meno una valutazione discrezionale del magistrato in ordine alla legittimità costituzionale degli atti compiuti dai magistrati inferiori.    

 

2.- Il sindacato dei tribuni plebis.

 

Anche nel caso dei tribuni della plebe si può discorrere di un sindacato di costituzionalità improprio, ma con le necessarie riserve.

Le connotazioni rivoluzionarie del tribunato della plebe implicavano che i tribuni potessero non soltanto esercitare il loro ius intercessionis contro gli abusi degli altri soggetti istituzionali, ma spingere la loro azione sino alla riforma delle leges e dello stesso mos maiorum.[106]

Sarebbe, forse, legittimo discorrere, in questo caso, di un'attività mirante alla rottura dell'ordinamento costituzionale ( patrizio ), piuttosto che a reprimere atti o comportamenti illegittimi. In effetti, la configurazione della intercessio tribunizia come potere di annullamento - cassazione dell'atto compiuto dal magistrato non rende, forse, intera ragione della complessità della sua natura[107].

Peraltro, posto che il sindacato di costituzionalità ricomprende, come si è detto, il controllo della conformità degli atti e dei comportamenti dei soggetti di ius publicum alle leges publicae, non vi è ragione di dubitare che esso si estendesse alle leges sacratae e ai senatus consulta, con la conseguente intercessio in caso di violazioni dell’ordinamento costituzionale.

A questo riguardo, per quel che si riferisce, in particolare, ai SCC. giova trascrivere una testimonianza che evidenzia siffatta attività di controllo della legittimità costituzionale dei senatoconsulti, che ne dimostra, tra l'altro, il carattere risalente:

 

Val Max., 2.2.7:« Illud quoque memoria repetendum est, quod tribuni pl. intrare curiam non licebat, ante valvas autem positis subselliis decreta patrum attentissima cura examinabant, ut, si qua ex eis improbassent, rata esse non sinerent. Itaque veteribus sanatus consultis C littera subscribi solebat, eaque nota significabantur illa tribunos quoque censuisse.».

 

Nell'ambito concettuale in cui ci muoviamo non appare  superfluo addurre ancora una testimonianza. Intendiamo riferirci alla lex ( ma, verosimilmente, un plebiscitum ), rogata nel 67 a.C. dal tribuno della plebe Gaio Publio Cornelio, che sanciva l’obbligo, per i pretori, di attenersi, nell'esercizio della loro iurisdictio, all’editto pubblicato all'inizio dell’anno magistratuale.

Si tratta di un brano di Asconio che si rivela, a nostro giudizio, di estremo interesse in quanto che è l’unica testimonianza - se non ci inganniamo - che mostri di riferire testualmente parte del disposto della legge:

 

Ascon., in Cornel., 1.48.119 ( Stangl ):« Aliam deinde legem Cornelius, etsi nemo repugnare ausus est, multis tamen invitis tulit, ut praetores ex edictis suis perpetuis ius dicerent: quae res cunctam gratiam ambitiosis praetoribus, qui varie ius dicere assueverant, sustulit.».

 

E' evidente che l’intervento del tribuno era dovuto all’esigenza di reprimere l’abuso di potere  dei pretori, i quali ritenevano perfettamente legittimo non doversi attenere alle promesse e ai programmi formulati nei loro editti giurisdizionali. Alla radice di siffatta iniziativa era, quindi, l’intento di ricondurre l’attività edittale del pretore nei binari della legittimità e della legalità costituzionale.

 

3.- Il sindacato dei collegi sacerdotali: pontefici e auguri.

 

Anche taluni collegi sacerdotali e, in particolare, i collegia dei pontifices e degli augures, esercitavano una sorta di sindacato costituzionale.

La competenza del collegio pontificale non si limitava alla religio e al ius sacrum, ma si estendeva alle res profanae, intendendo ricomprese nel loro ambito sia le res privatae che le res publicae, come  attesta una chiara testimonianza ciceroniana:

 

Cic., de har.resp., 7.14 :«…quorum ( scil. pontificum ) auctoritati, fidei, prudentiae maiores nostri sacra religionesque et privatas et publicas commendarunt.».[108]

 

Ai pontifices, così come agli augures, competeva, in effetti, il controllo della regolarità dei riti, della religio, del ius sacrum, degli auspicia, e le loro pronuncie, in materia, avevano effetto vincolante nei riguardi dei destinatari.

E' vero che non si trattava di un sindacato avente a specifico oggetto il ius publicum e le leges, ma abbiamo già prima osservato come, nell'età più risalente e ancora per molti secoli, sino a quando le sfere del ius e del fas non assunsero i loro fines e non si compì il processo di laicizzazione del diritto, ius publicum, ius sacrum, religio costituissero altrettanti aspetti di una poliedrica esperienza che dalla loro interazione traeva, per l’appunto, fondamento e sostanza[109].

E, d’altra parte, è certo che ancora alla fine della Repubblica e oltre, nell’età del Principato, il ius sacrum costituiva una delle componenti strutturali del ius publicum, come non mancò di rilevare la giurisprudenza dell’età dei Severi, attraverso la celeberrima definitio ulpianea:

 

D.1.1.1.2 ( Ulp. libro primo inst.):« publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit.».

 

Se, inoltre, si ponga mente all’intima compenetrazione degli auspicia nella complessa problematica del potere, e alla conseguente interazione tra imperium e auspicium, tra auspicia e auctoritas patrum, tra auspicia patrum e interregnum, apparirà chiaro come non sia possibile, altrimenti che sotto il profilo concettuale, operare una netta distinzione tra siffatti elementi e quelli più specificamente connessi alla sfera costituzionale. Anzi, se è vero che la nozione antica della constitutio civitatis è quella di una struttura essenziale – come dicemmo – e, al contempo, esistenziale della comunità politica, è chiaro come, neppure sotto il profilo metodologico sia del tutto legittimo o, quanto meno, opportuno separare ciò che, viceversa, era connesso, offrendosi a una rappresentazione unitaria.

Per quanto riguarda gli auguri, che la loro competenza si estendesse anche a materie di rilevanza costituzionale risulta esplicitamente attestato da Cicerone:

 

Cic., de leg., 2.12.31:« Quid enim maius est, si de iure quaerimus, quam posse a summis imperiis et summis potestatibus comitiatus et concilia vel instituta dimittere vel habita rescindere?…quid magnificentius quam posse decernere, ut magistratus se abdicent consules? quid religiosius quam cum populo, cum plebe agendi ius aut dare aut non dare? quid? leges  non iure rogatas tollere, ut Titiam decreto collegii, ut Livias consilio Philippi consulis et auguris? nihil domi, nihil militiae per magistratus gestum sine eorum auctoritate posse cuiquam probari?».

 

Le pronuncie del collegio augurale riguardavano la regolarità delle assemblee, la decadenza dei magistrati dal loro ufficio, la regolarità della procedura di convocazione dei comitia e dei concilia, la conformità delle leggi alla costituzione, la legittimità degli atti e dei comportamenti magistratuali.

Per quanto riguarda, in particolare, le leggi sembra certo – se dobbiamo prestar fede alla testimonianza ciceroniana – che la pronuncia degli auguri producesse l’effetto dell’abrogazione della legge non iure rogata, giustapponendosi all’analoga pronuncia del senato. L’accertamento del vizio che inficiava la legge non si limitava, quindi, a dichiararne la non conformità alla religio, ma giungeva sino ad annullarne gli effetti, ponendosi come pronuncia direttamente esecutiva e costitutiva, al contempo, di effetti giuridici sia sul terreno del ius sacrum che nell’ambito del ius publicum.[110]

Cap.IV

Il sindacato di costituzionalità in senso proprio: le assemblee popolari e il senato.

1.- L’illegittimità costituzionale delle deliberazioni comiziali e senatorie.

 

Dalla testimonianza degli antichi è dato rilevare che un sindacato di costituzionalità poteva essere esercitato non solo sulle deliberazioni delle assemblee popolari, leges, sibbene anche sulle deliberazioni del senato, senatus consulta.

Siffatto sindacato poteva riguardare sia la legittimità che il merito del provvedimento.

Limitando, per ora,  il nostro esame alle leggi, è opportuno avvertire che, in ordine ai motivi di merito, la casistica che è dato trarre dalle fonti è varia, e una sua disamina ci condurrebbe ben oltre i limiti che abbiamo prefissato alla nostra indagine[111].

In ordine alla legittimità, questa poteva essere rilevata sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale.

Noi fermeremo la nostra attenzione unicamente su quei vizi di illegittimità – formale e sostanziale – che si rivelano, a nostro giudizio, particolarmente rilevanti sotto il profilo costituzionale[112].

In ordine alla forma del provvedimento le fattispecie che richiamano il nostro interesse riguardano l’inosservanza dei limiti derivanti dall’obnuntiatio, dal divieto di servare de coelo, dal mancato rispetto degli auspicia, dalla turbativa dei lavori assembleari in seguito all’esercizio della violenza morale dovuta, in genere, alla presenza di armati[113]. L’inosservanza di codesti limiti si concretizzava, com’è evidente, in altrettali vizi del procedimento di formazione della legge o del senatoconsulto.

Per quanto concerne i limiti derivanti dal divieto di servare de coelo e dall’obnuntiatio, l’inosservanza era imputabile al magistrato, e non inficiava unicamente il procedimento legislativo ( o del senatoconsulto ), ben potendosi estendere – come si è detto – agli atti di governo e agli altri comportamenti statualmente rilevanti del magistrato.

Codesti vizi, peraltro, non si profilavano come cause specifiche di invalidazione dell’atto, ma ricadevano nella generica inosservanza dei limiti posti dalla religio e dagli auspicia.

Ad analoghe considerazioni deve, a nostro giudizio, pervenirsi in ordine alla fattispecie della rogatio contra auspicia, particolarmente frequente durante l’ultimo secolo della Repubblica, in piena crisi delle istituzioni, tenuto conto del silenzio delle fonti al riguardo.

La turbativa dei lavori delle assemblee popolari si risolveva in una fattispecie specifica: la legge per vim lata.[114]

In ordine alla sostanza veniva in considerazione, innanzi tutto, un limite che definiremmo  “strutturale”  della libera civitas: il divieto di ripristinare il regnum, mutando, quindi, la forma civitatis.

Siffatto divieto aveva formato l’oggetto del giuramento imposto da Giunio Bruto ai congiurati contro i Tarquini; giuramento sanzionato successivamente in un’apposita legge, e precisamente nella lex Valeria del 509 a.C., che aveva configurato, per l’appunto, come crimen, punito con la sacratio capitis et bonorum, l’adfectatio regni ossia il disegno di mutare, apertamente o surrettiziamente, l’assetto istituzionale dello Stato.

Si deve ritenere che codesto divieto fosse avvertito, nella coscienza sociale, come un limite invalicabile da parte dei soggetti istituzionali, ravvisandosi in esso la fondamentale garanzia costituzionale dei cittadini.

Non diversamente si poneva un secondo limite, derivante dal divieto di infliggere pene capitali ai cittadini senza concedere loro il diritto di provocare ad populum.

Siffatto divieto aveva formato l’oggetto, per la prima volta, di una lex Valeria, rogata anch’essa nel 509, e, successivamente, era stato ribadito da una norma delle XII Tavole e da altre deliberazioni popolari, nel corso dell’epoca repubblicana.

In effetti, anche il ius provocandi ad populum costituiva una garanzia costituzionale del cittadino nei confronti dell’assoluto imperium magistratuale. Una garanzia estesa sino al divieto di istituire magistrature esenti dal limite della provocatio, disposto da una delle leges Valerio – Orazie del 449 a.C.

Un terzo limite derivava dal divieto di privilegia rogare ossia proporre disposizioni legislative che riguardassero il singolo cittadino[115]. Anch’esso rientrava, a nostro avviso, nell’ambito delle garanzie costituzionali, tenuto conto di ciò che il privilegium si risolveva, in genere, in una disposizione legislativa sfavorevole nei riguardi del destinatario, e che, inoltre, appariva sfornita del carattere della generalità, essendo disposta nei confronti di un singolo cittadino[116].

Altri vizi di legittimità, oltre a quelli cui si è accennato, riguardavano, rispettivamente: l’inosservanza del divieto di abrogazione di una legge regolarmente deliberata[117] o di una legge preesistente[118]; il mancato rispetto del divieto di cassazione di una specifica legge imposto, con apposito giuramento, ai senatori[119]; l’inosservanza, infine, dei limiti al potere legislativo delle assemblee deliberanti, in materia di ius ( civile ), di ius sacrosanctum, di leges preesistenti[120].

E’ necessario fermare, adesso, la nostra attenzione su codesti vizi.

Per quanto riguarda il mancato rispetto del divieto di abrogazione totale o parziale di una legge preesistente, detto divieto era disposto in appositi capita della sanctio. Così, ad es., recitava il caput IV del fragmentum Tudertinum:

 

« ne quis hanc rogationem abrogato neve huic rog]ationi abrogato, neve de hac rogatione derogato [ quod eius contra leges publicas populi Romani ]…senatusve populi Romani ius[sionem factum non erit. Quod aliter rogatum e[rit in hac rogatione]…eius h(ac) l(ege) n(ihil) r(ogatur).».[121]

 

A codesto divieto, che la dottrina considera assoluto, faceva riscontro il limite, relativo, che sanciva il divieto di abrogazione o deroga per saturam.[122]

La sanzione, com’è dato indurre dal brano testé trascritto, era data dalla nullità della rogatio presentata in violazione del divieto.

Tuttavia, è da ritenere che codesti limiti non vincolassero in assoluto il potere delle assemblee deliberanti, le quali ben potevano, in ossequio al principio quodcumque postremum populus iussisset, cet., approvare rogationes presentate in contrasto con i cennati limiti.

D’altra parte, nella sanctio di ogni legge figurava anche il c.d. caput tralaticium de quid impunitate, il quale sanciva  “si quid contra alias leges eius legis ergo factum sit, id ne fraudi esto” , scagionando dall’ipotesi di fraus legi il comportamento del magistrato che avesse proposto una rogatio in contrasto con i suddetti limiti, che avesse compiuto atti o tenuto comportamenti vietati o, infine, che avesse omesso atti o comportamenti imposti dalle leggi preesistenti[123].

E’ nostra convinzione che i limiti di cui discorriamo rivestissero un valore e un significato meramente politico, e non fossero oggetto di una pronuncia di illegittimità sotto il profilo del ius publicum.

Natura squisitamente politica rivestiva, in effetti, il divieto di una possibile invalidazione, da parte delle assemblee o del senato, di una specifica legge. Codesto limite, a quanto afferma Cicerone, era disposto nella rogatio Clodia de exilio Ciceronis del 58 a.C., e sanciva  “non posse nec per senatum nec per populum infirmari[124]

In ogni caso, la validità e l’efficacia di siffatti limiti era subordinata alla vigenza della legge che li disponeva, nel senso che, una volta abrogata la legge, veniva meno anche la sanctio con tutte le sue clausole. Lo attesta inequivocabilmente Cicerone in un brano di una sua lettera all’amico T.Pomponio Attico, del novembre 58:

 

Cic., ad Att., 3.23.2: « sed vides numquam esse observatas sanctiones earum legum quae abrogarentur. nam si id esset, nulla fere abrogari posset; neque enim ulla est quae non ipsa se saepiat difficultate abrogationis. Sed cum lex abrogatur, illud ipsum abrogatur quo non eam abrogari oporteat.».

 

In altri termini, anche se il legislatore tenda a rivestire di eternità quanto abbia disposto, esso non può vincolare il legislatore futuro, sottovalutando il fatto che ogni legge è, necessariamente, il prodotto temporum et aetatum.[125]

A non diverse considerazioni possiamo, infine, pervenire in ordine ai limiti derivanti dal ius ( civile ), e dal ius sacrosanctum.

Le clausole che disponevano siffatti limiti sono, infatti, da intendersi – e, verosimilmente, lo erano nella valutazione che ne esprimevano i Romani – quali clausole autolimitatrici della potestas statuendi del populus. Esse avrebbero in tanto dispiegato la loro efficacia e mantenuto la loro validità in quanto e fintanto che il populus avesse inteso osservarle e avesse, in questo modo, lasciato che esse condizionassero l’esercizio della sua sovrana autodeterminazione[126]. Senza trascurare, inoltre, il fatto che la presenza di codeste clausole induce a ritenere a contrario che la lex publica potesse incidere anche sulle materie in ordine alle quali si sanciva il divieto di legiferare, come, in effetti, avvenne frequentemente nel corso della Repubblica[127].

I vizi di cui si è discorso potevano, dunque, risolversi in altrettali cause di invalidazione della lex publica, ma taluni di essi potevano investire anche le deliberazioni del senato. Lo si evince, infatti, dalla testimonianza di

 

Cic., Phil., 12.5.12: « Senatus consulta falsa delata ab eo iudicavimus: num ea vera possumus iudicare? ».

 

che si riferisce alla pronuncia di incostituzionalità e alla conseguente cassazione disposta dal senato in ordine a taluni senatoconsulti emanati su richiesta e iniziativa di M. Antonio, dopo la morte di Cesare.

 

2.- Il sindacato delle assemblee popolari.

 

Alcuni frammenti dell’orazione pronunziata da Cicerone, nel 65 a.C., in difesa del trib. pl. P. Cornelio, accusato di crimen maiestatis, ci informano in ordine ai genera di invalidazione di una legge e al relativo procedimento:

 

Cic., pro Cornel., 24: « Quattuor omnino genera sunt, iudices, in quibus per senatum more maiorum statuatur aliquid de legibus. Unum est huiusmodi: placere legem abrogari; ut Q. Caecilio M. Iunio coss., quae leges rem militarem impedirent, ut abrogarentur… tertium est de legum obrogationibus, quo de genere persaepe S.C. fiunt, ut nuper de ipsa lege Calpurnia, quo derogaretur. quartum: quae lex lata esse dicatur, ea non videri populum teneri; ut L.Marcio Sex.Iulio coss. De legibus Liviis.».[128]

 

Codesti genera, cui corrispondono altrettanti interventi del senato in materia di leges, si concretizzavano, rispettivamente, nell’abrogatio, nella obrogatio, nella solutio legibus, e in un quarto genus, purtroppo andato perduto nel brano ma che, verosimilmente, doveva identificarsi nella derogatio.[129]

Cicerone non fornisce la definizione di ciascuno degli interventi menzionati, limitandosi a lumeggiarli attraverso esempi[130].

Peraltro, da alcune altre testimonianze apprendiamo che l’abrogatio si risolveva in una rimozione totale della legge; la derogatio in una sua rimozione parziale; l’obrogatio in un emendamento al testo legislativo[131].

Verosimilmente l’orazione pro Cornelio doveva espressamente trattare dei casi in cui una legge potesse essere abrogata, in tutto o in parte, o anche privata della sua efficacia, per vizi di legittimità o per motivi di merito.

Per quanto riguarda il soggetto istituzionale competente a esercitare il sindacato di costituzionalità sulle leggi, la testimonianza ciceroniana induce a ritenere l’esistenza di una competenza specifica del senato a statuere in materia: si sarebbe trattato, inoltre, di una competenza risalente ( more naiorum ). Ma non di una competenza esclusiva.

Infatti, dal tenore di altre testimonianze ciceroniane emerge che siffatta competenza era di pertinenza, congiuntamente, del senato e del popolo, il quale ultimo la esercitava mediante le deliberazioni legislative delle assemblee comiziali.

Così, ad es., in

 

Cic., de re publ., 3.22.33:« Huic legi nec obrogari fas est neque derogari aliquid ex hac licet neque tota abrogari potest, nec vero aut per senatum aut per populum solvi hac lege possumus, cet.».

 

Altre volte, viceversa, Cicerone discorre di una competenza esclusiva delle assemblee popolari; così in

 

De inv., 2.45.134: «…deinde indignum esse de lege aliquid derogari aut legem abrogari aut aliqua ex parte commutari, cum populo cognoscendi et probandi aut improbandi potestas nulla fiat;».[132]

 

Non si può, d’altra parte, pensare che la competenza esclusiva del senato in materia si limitasse unicamente ai casi di dispensa dall’osservanza della legge ( solutio legibus ) : lo escludono sia la testimonianza della pro Cornelio, sopra trascritta, che altre testimonianze ciceroniane[133], così come l’inequivocabile affermazione di

 

De dom., 27.71: « Senatus, quidem, cuius est gravissimum iudicium de iure legum, quotienscumque de me consultus esset, totiens eam nullam esse iudicavit.».

 

E’, quindi, assai probabile che, in assenza di norme costituzionali in materia, la competenza di cui discorriamo avesse subito un processo evolutivo sanzionato dall’affermarsi di una prassi costituzionale, in questo senso: che dapprima essa fosse di pertinenza del senato e delle assemblee popolari che la esercitavano congiuntamente, e che, negli ultimi tempi della Repubblica, fosse stata avocata a sé, in via esclusiva, dal senato[134]. A queste considerazioni siamo, d’altronde, indotti da quanto Asconio riferisce in altro luogo del suo commento alla pro Cornelio:

 

in Cornel., 57 ( Stangl 47 ):« …promulgavitque legem ( scil.Cornelius ), qua auctoritatem senatus minuebat, ne quis nisi per populum legibus solveretur. quod antiquo quoque iure erat cautum; itaque in omnibus S.C., quibus aliquem legibus solvi placebat, adici erat solitum ut de ea re ad populum ferretur: sed paulatim ferri erat desitum, resque iam in eam consuetudinem venerat, ut postremo ne adiceretur quidem in senatus consultis de rogatione ad populum ferenda;».

 

Asconio, quindi, mentre ribadisce che la competenza del senato in materia era consacrata dalla vetustas – antiquo iure – ossia da una prassi costituzionale consolidata al punto da ritenerla materia di ius publicum – iure – riferisce che in tutti i senatoconsulti che disponevano la solutio legibus era consuetudine inserire una clausola che rinviava la decisione ultima al popolo. Col trascorrere del tempo, peraltro, codesta prassi era caduta in desuetudine e la clausola veniva regolarmente omessa.

A questo punto si potrebbe obiettare che Asconio non faparola di abrogazione o di deroga della legge, sibbene unicamente della solutio. Ma la sua testimonianza – che si inserisce nel contesto dell’argumentum dell’orazione, che egli riassume[135] – mira a lumeggiare la personalità del tribuno Cornelio e la sua ostilità nei riguardi del senato. Ostilità che si era rivolta, in particolare, nei riguardi degli interventi del senato in materia di dispensa dalle leggi, e che, alla fine, aveva conseguito qualche risultato. Sappiamo, infatti, dal medesimo Asconio, che Cornelio, non avendo potuto, per l’insuperabile opposizione del senato e della nobilitas, conseguire lo scopo di rimettere la solutio legibus alle assemblee popolari, era, tuttavia, riuscito a fare approvare una rogatio la quale sanciva che, in tema di solutio, occorresse la presenza di almeno duecento senatori per la validità della relativa deliberazione, escludendo, nel contempo, la possibilità di intercessio – da parte di quei tribuni che si fossero manifestati in favore del senato – avverso la sua rogatio:

 

Ascon., in Cornel., 57 ( Stangl 47 ):« …promulgavitque legem, qua auctoritatem senatus minuebat, ne quis nisi per populum legibus solveretur…tum Cornelius ita ferre rursus coepit, ne quis in senatu legibus solveretur nisi CC non minus adfuissent, neve quis, cum quis ita solutus esset, intercederet, cum de ea re ad populum ferretur.».

 

Asconio soggiunge che il testo della rogatio, così emendato, era favorevole all’auctoritas senatoria, ma, ciò malgrado, rimase inviso ai senatori. Lo scopo perseguito da Cornelio – come non manca di rilevare Asconio – era quello di minuere auctoritatem senatus ossia di ridurre il ruolo costituzionale del supremo consesso, specie in tema di sindacato di costituzionalità.

D’altronde, che esistesse una prassi costituzionale consolidata secondo la quale era opportuno che il magistrato coinvolgesse sia le assemblee popolari che il senato, ogni qual volta fosse questione di procedere all’invalidazione di una legge, emerge chiaramente da un altro brano dell’orazione:

 

pro Cornel., frgg. 20;21:« …possum dicere hominem summa prudentia spectatum, C.Cottam, de suis legibus abrogandis ipsum ad senatum rettulisset;».[136]

 

ma codesta prassi aveva ceduto, come abbiamo dianzi visto, a una nuova consuetudine: quella di rimettere all’esclusiva competenza del senato il giudizio sulla costituzionalità delle leggi.

Peraltro, è da ritenere che il coinvolgimento dei due soggetti istituzionali – popolo e senato – sebbene espressamente attestato sia da Cicerone che dal suo commentatore, in tema di dispensa dall’osservanza della legge, intervenisse anche nei casi di invalidazione o modifica della legge per ragioni di opportunità politica, come sembra emergere dal brano or ora trascritto.

In effetti, ove si ponga mente a quanto da noi prima sostenuto in merito alla natura della lex publica – l’essere questa un atto complesso risolventesi in una pactio tra magistrato, popolo e senato – non deve sorprendere che i medesimi soggetti istituzionali che avevano concorso alla confezione della legge intervenissero a invalidarla, emendarla, o a dispensarne dall’osservanza quando ciò si rendesse necessario o opportuno. Risolvendosi, secondo il nostro convincimento, la lex publica in una convenzione costituzionale, è indubbio che essa si configurasse come il prodotto della dialettica politica, che coinvolgeva non solamente i tradizionali soggetti istituzionali della Repubblica, sibbene anche i tribuni della plebe, il cui inquadramento tra i magistratus populi Romani, quanto meno a partire dalla definitiva equiparazione dei plebiscita alle leges, è fuori dubbio[137].

Posto, quindi, che, quanto meno sino al III sec.a.C., il sindacato di costituzionalità veniva esercitato dalle assemblee popolari, sia pure congiuntamente al magistrato e al senato, è necessario adesso precisare il significato e il valore che rivestiva, nel quadro dell’ordinamento costituzionale repubblicano, il principio  “quodcumque postremum populus iussisset id ius ratumque esset”.[138]

Codesto principio sembrerebbe, in effetti, opporre un’insormontabile obiezione a quanto da noi sinora sostenuto. Esso sanciva, infatti, la piena sovranità del populus nel manifestare, con efficacia normativa, la propria volontà sia nel presente che per l’avvenire, con la conseguenza che il populus avrebbe potuto revocare o modificare quanto precedentemente disposto, sia per motivi di legittimità sia per motivi di merito o di opportunità politica, ove quanto disposto si fosse posto in contrasto con la prassi costituzionale consolidata o, semplicemente, con la  sua volontà attuale.

E’, peraltro, nostra convinzione che il principio in questione non facesse riferimento al complesso delle assemblee deliberanti, sibbene al populus come corpus costituito dalle diverse sue componenti costituzionali ossia, in altri termini, allo Stato romano, e che sancisse, quindi, il principio della sovrana autodeterminazione dello Stato che, per l’appunto, nelle leges si manifestava.

Siffatto principio presupponeva, d’altronde, il sussistere di una dialettica politica che non avrebbe potuto avere libero corso se non attraverso il permanere di un equilibrio dinamico tra le partes populi ( magistratus, comitia, senatus ), le quali, ciascuna nel proprio ambito, si ponevano, nel quadro dell’ordinamento repubblicano, quali soggetti sovrani[139]. Un equilibrio il cui tramonto segnò la crisi e la conseguente scomparsa della Repubblica.

Pertanto, nell’assenza di norme scritte al riguardo, la questione dell’illegittimità costituzionale delle leggi, o degli atti statualmente rilevanti, travalicava spesso i confini del diritto per assumere la natura e i caratteri di un problema di dialettica politica tra i concorrenti poteri dello Stato.

E’ da rilevare, a conclusione del nostro discorso sul sindacato esercitato dalle assemblee popolari, che un tale sindacato aveva luogo già in sede di emanazione della legge.

Intendiamo riferirci a quelle clausole le quali sancivano, come si è veduto, la nullità delle deliberazioni comiziali in materia di ius civile, sacrosanctum o in contrasto con leggi precedenti.

Sebbene l’effettiva portata di codeste clausole costituisca un vero e proprio enigma per lo studioso delle istituzioni romane, a parer nostro la loro efficacia e la loro validità dovevano essere poste in relazione con la norma – questa effettivamente inderogabile – che sanciva la sovrana autodeterminazione del populus, nel complesso delle sue parti costitutive ossia dello Stato.

Ciò val quanto dire che le clausole di cui discorriamo si ponevano, verosimilmente, nella concezione che di esse si facevano i Romani, quali clausole autolimitatrici, come si è detto, della potestà normativa dello Stato, alla cui sovrana determinazione era rimesso, in definitiva, il loro vigore.

 

3.- Il potere nomofilattico del senato.

 

Sulla base delle testimonianze prima esaminate possiamo, quindi, affermare che, all’incirca a partire dal III sec. a.C., si venne affermando, nel quadro dell’ordinamento costituzionale romano, una esclusiva competenza nomofilattica del senato.

 Siffatta competenza si risolveva nella rescissione delle leges così come delle deliberazioni senatorie ( senatus consulta ), che si rivelassero in contrasto con le parti costitutive dell’ordinamento - mores et instituta maiorum , ius civile, ius sacrosanctum, leges preesistenti - o che fossero affette da vizi afferenti al procedimento di formazione.

Peraltro, prima di procedere nella trattazione, intendiamo precisare che l’intervento senatorio in tema di abrogatio, obrogatio, derogatio, solutio dalle leges e dai senatus consulta incostituzionali, si manifestava attraverso un iudicium che rivestiva, a nostro giudizio, la natura e i caratteri di un provvedimento giurisdizionale.

I provvedimenti che il senato emanava nella forma del senatus consultum o, più esattamente, come tosto vedremo, del decretum, possono, in effetti, considerarsi come pronunce di giurisdizione costituzionale le quali non solo dichiaravano l’incostituzionalità dell’atto sottoposto alla cognitio senatoria, ma sibbene ne operavano la rimozione dall’ordinamento[140].

Al riguardo, è da credere che la cassazione delle leggi e, in genere, dei provvedimenti incostituzionali, si concretizzasse nella materiale rimozione, disposta dal senato, delle tabulae in cui erano incisi, dagli alba - le pareti imbiancate destinate alla pubblicazione dei pubblici documenti - dal foro, come, con icastica locuzione, attesta Cicerone in

 

Phil., 12.5.11:« …num figentur rursus eae tabulae quas vos decretis vestris refixistis?».[141]

 

Un discorso a parte deve farsi in ordine alla solutio legibus.

In effetti, la dispensa dall’osservanza della legge era diretta - come risulta dalle testimonianze - all'intero populus, ricomprendendo in codesta nozione non solo i privati cittadini ma anche i magistrati.

In verità, codesta dispensa - per valerci di un termine usuale nel linguaggio dei giuristi romani - appare, a prima vista, supervacua. Infatti, una volta che il provvedimento incostituzionale fosse stato rescisso, non perdeva, per ciò stesso, ogni efficacia? Eppure, come abbiamo veduto, la solutio rientrava tra le manifestazioni del potere nomofilattico del senato. Non solo, ma da Cicerone apprendiamo che un’espressa solutio, non necessariamente conseguente a una pronuncia di incostituzionalità, avrebbe potuto essere disposta dal senato nel contesto di un giudizio di non imputabilità nei riguardi di coloro - cittadini o magistrati - che si fossero resi responsabili di comportamenti suscettibili di una sanzione giuridica: così, ad es., nel caso di diserzione, come emerge da

 

Cic., Phil. 5,12,34:« Quapropter  ne multa nobis cotidie decernenda sint,…censeo ut iis qui in exercitu M. Antoni sunt ne sit ea res fraudi, si ante Kalendas Februarias ab eo discesserint.».[142]

 

La motivazione menzionata da Cicerone - ne sit ea res fraudi - richiama alla nostra attenzione l’omologa locuzione presente nel testo del caput tralaticium de impunitate, una delle clausole disposte nella sanctio di ogni lex publica - id ei ne fraudi esto - che escludeva l’imputabilità, relativamente al crimen di fraus legi, nei riguardi di chi avesse tenuto un comportamento contrario alla legge, ove questa avesse disposto in contrasto con leggi precedenti.

Per questo riteniamo, quindi, di dovere precisare che la solutio doveva, verosimilmente, configurarsi come provvedimento autonomo e non necessariamente conseguente alla cassazione del provvedimento dichiarato incostituzionale. A meno di non essere costretti ad ammettere che, malgrado la cassazione, il provvedimento continuasse a dispiegare la propria efficacia, al punto che si rendesse necessaria un’espressa dispensa dalla sua osservanza da parte dei destinatari[143].

Vero questo assunto, ne deriverebbe, quale logica conseguenza, l’impossibilità di ammettere, anche in linea di principio, l’esistenza medesima di un sindacato di costituzionalità;  il che è, peraltro, escluso dalla testimonianza delle fonti.

A nostro giudizio, l’unica possibile chiave di lettura, in ordine al problema della solutio, è data dalla natura dei rispettivi poteri del populus e del senatus, dal loro fondamento costituzionale.

Ponendosi siffatti poteri come sovrani, e non ripetendo da una Carta costituzionale o da una legge istitutiva la loro genesi e la loro disciplina, ben poteva darsi che, nell’esercizio della rispettiva sovranità, sia le assemblee popolari che il senato giungessero al punto di escludere, in determinate ipotesi, l’efficacia dei provvedimenti, in particolare le leggi, nei quali fosse venuta a manifestarsi la loro sovrana autodeterminazione.

Ma una volta venuto meno l’equilibrio dinamico tra codesti poteri e affermatosi il ruolo egemone del senato, si comprende come quest'ultimo rivendicasse il diritto di esercitare, con esclusione degli altri soggetti istituzionali, non solo il giudizio esclusivo sulla legittimità delle leggi e degli altri provvedimenti statualmente rilevanti, ma giungesse a manifestare la propria sovranità sino al punto di sostituire al criterio di un’obiettiva legittimità il suo insindacabile apprezzamento.

In ogni caso è fuor di dubbio che il ius statuendi del senato, in materia di sindacato costituzionale, costituiva una delle principali manifestazioni del suo potere omnicomprensivo, che ben possiamo definire sovrano. Un potere che, nella letteratura politica e nel pensiero giuspubblicistico repubblicani, veniva concepito e rappresentato mediante il ricorso al termine auctoritas, la cui pregnanza di significati e valori era ben nota ai Romani della Repubblica[144]. Non a caso, infatti, Asconio avverte, nel suo commento alla pro Cornelio, l’esigenza di precisare che le rogationes proposte dal tribuno miravano al preciso scopo di minuere auctoritatem senatus.

Il brano di Asconio attesta, come si è veduto, l’esistenza di una funzione nomofilattica del senato che poneva codesto consesso in una posizione di preminenza anche in ordine all’esercizio del sindacato di costituzionalità.

Con ciò non intendiamo certo aderire alla tesi che rappresenta la posizione del senato, nei confronti delle assemblee deliberanti, assimilabile a quella tenuta - nella sfera del diritto privato - dal tutore nei confronti del pupillo, con la conseguenza che il populus si sarebbe venuto a trovare nella condizione di un’incapacità non solamente di agire, ma sibbene anche giuridica, sotto il profilo costituzionale[145]. E neppure alla tesi che sostiene la preminenza costituzionale del senato, nei confronti dei magistrati e dei comizi, configurando una sorta di gerarchia tra i tre poteri che costituiscono l’ordinamento repubblicano.

Codeste tesi non rispecchiano, a nostro avviso, la reale esperienza costituzionale romana, quale è data, del resto, indurre dalla testimonianza delle fonti, sia giuridiche che letterarie. Le fonti non prospettano l’esistenza di un rapporto gerarchico tra i tre soggetti istituzionali da cui risulta costituita la civitas né, tanto meno, affermano la preminenza del senato sui comizi e sui supremi magistrati[146]. Anzi, se dobbiamo prestar fede alla testimonianza di Cicerone – l’unica cui, per organicità e completezza possiamo riferirci, quanto meno per l’esperienza costituzionale tardo-repubblicana - se ne induce tutto il contrario, in questo senso: che l’optimus status civitatis non avrebbe potuto essere costruito  altrimenti che sull’equilibrio dinamico tra i tre soggetti istituzionali dell’ordinamento repubblicano e sui loro rispettivi poteri. Un equilibrio che richiama alla mente l’esperienza costituzionale dell’Inghilterra moderna del Balance tra i due Trusts: King and Parliament, soggetti sovrani entrambi. Un equilibrio sottolineato, con indubbia chiarezza, da Cicerone in un passo del

 

De re publ., 2.33.57:« tenetote quod initio id enim dixi, nisi aequabilis haec in civitate compensatio sit et iuris et officii et muneris, ut et potestatis satis in magistratibus et auctoritatis in principum consilio et libertatis in populo sit, non posse hunc incommutabilem rei publicae conservari statum.».[147]

 

E' vero che, in un  altro luogo, un brano della pro Sestio, Cicerone tributa al senato forse il più bell’elogio che la letteratura romana ci abbia tramandato[148], ma pur nell’intento apologetico che sembra ispirare il suo discorso, egli non intende spingersi oltre la constatazione del delicatissimo ruolo costituzionale assolto dal senato quale consilium dei magistrati. Se, poi, codesto ruolo avesse determinato un’effettiva preminenza del supremo consesso nella gestione della res publica, sì da farne un soggetto di governo cui competeva la direzione dello Stato e la determinazione dell’indirizzo politico, questa situazione rientrava nella logica dell’equilibrio dinamico tra i tre poteri della civitas, e nella conseguente prevalenza fattuale ora dell’uno ora dell'altro, secondo il momento storico e le conseguenti vicende della politica.

Il fatto è che ciascuno dei tre soggetti istituzionali - magistratus, comitia, senatus - non ripeteva, come si è poc’anzi osservato, la propria esistenza da una legge istitutiva né da una Carta costituzionale[149], ma ciascuno di loro trovava in se stesso e nel suo porsi di fatto le ragioni del suo fondamento costituzionale e della giustificazione del ruolo esercitato nel quadro dell’ordinamento repubblicano, il cui carattere fattuale è stato, come si è detto, bene a ragione sottolineato[150].

Inoltre, quale che sia la posizione  che si intenda assumere  sul problema della legittimità costituzionale e del connesso sindacato, nell’esperienza giuspubblicistica repubblicana, è necessario tenere nel giusto conto il presupposto, per così dire, pregiudiziale del ruolo assunto dalla prassi e dalle leges publicae nella costruzione dell’ordinamento costituzionale, in conseguenza - come si è avuto modo di rilevare all’inizio della nostra ricerca – dell’assenza di una costituzione scritta. E devono, altresì, tenersi nella giusta considerazione il significato e il valore del precetto decemvirale, più volte ricordato, che sanciva l’onnipotenza della sovrana determinazione dello Stato ossia del populus quale sintesi dei tre poteri - potestas,libertas,auctoritas - e corpus di universi cives.

Certamente questo non implica che i Romani non avvertissero l’illegittimità di determinati atti o comportamenti dei soggetti istituzionali, sia sotto il profilo della non conformità alle leges, sia sotto il profilo della irregolarità rituale, nel contrasto in cui, talvolta, si ponevano nei riguardi dell’usus, della vetustas, dei mores, del ius sacrum. Ma induce a valutare con estrema cautela il problema della  “costituzionalità”  quale doveva essere avvertito nell’esperienza romana[151].

D’altra parte, non si deve trascurare il carattere  “patrizio” della lex publica ( rogata ), esattamente sottolineato da Papiniano[152], e, ancora prima, da Cicerone[153], in virtù del quale, come si è detto, la legge si pone come il prodotto di una cooperazione o, più esattamente, di una conventio tra i tre poteri della civitas. Siffatto carattere doveva, in effetti, condizionare il problema della costituzionalità della legge, in quanto che, concretandosi quest'ultima in un accordo tra i tre soggetti istituzionali, ne determinava, in certo modo, una preventiva assunzione di responsabilità circa i limiti nel cui rispetto tali soggetti avrebbero dovuto operare.

Infine, non va trascurato il particolare sistema di consuetudini nei comportamenti e negli atti dei tre soggetti istituzionali, e di accordi taciti o espressamente manifestati. Un  sistema reso particolarmente complesso dalla situazione costituzionale romana, unica nel suo genere, della coesistenza di due ordinamenti - patrizio e plebeo - fondati su presupposti del tutto distinti, e ciascuno con una sua specifica efficacia. Consuetudini, siffatte, di cui si sostanziava la prassi costituzionale cui attingeva l’ordinamento, che bene possono configurarsi,  lo si è detto, come convenzioni costituzionali[154]. Ma non solamente atti o comportamenti consuetudinari, sibbene anche leggi - le leges comiziali, per l’appunto, - le quali rivestono, come si è osservato, a motivo del loro carattere pattizio, la natura della convenzione costituzionale: lo dimostra il singolare atteggiarsi della lex, durante il corso della Repubblica, e ancora nei primi tempi del Principato, come regola del caso concreto, come  “precedente”  o exemplum, e non piuttosto come disciplina generale e astratta delle molteplici fattispecie che costituivano la sostanza dell’esperienza politico-costituzionale[155].

 

4.- Il senato e l’esercizio del sindacato di costituzionalità: a ) l’auctoritas patrum; b ) il senatus consultum ( decretum ).

 

a). A nostro modo di vedere, in ordine all’esercizio del sindacato di costituzionalità da parte del senato, è necessario distinguere tra l’auctoritas patrum e il senatus consultum o, più esattamente, il decretum senatorio. 

Fissiamo, per il momento, la nostra attenzione sulla patrum auctoritas.

Abbiamo già accennato al ruolo esercitato dai patres del regium consilium, in epoca regia, mediante la funzione dell’auctoritas patrum. Essa costituiva, probabilmente, un requisito di efficacia e, nel contempo, di validità dell’atto su cui i patres fossero chiamati a intervenire, congiuntamente e, forse, subordinatamente al rex.

Il fondamento di tale funzione è da ricercare, a nostro giudizio, nell’originaria posizione dei patres quali soggetti sovrani, posti a capo degli organismi di natura essenzialmente politica – le familiae e le gentes – che avevano, verosimilmente, preceduto il sorgere della civitas. E, ancora, nel loro possesso, quali patres, degli auspicia ossia del potere di porsi come intermediari tra la divinità e il potere politico, nel senso di accertare la conformità delle manifestazioni di siffatto potere alla volontà degli dei.

Pprescindendo, per ora, dal proporre una soluzione al problema della natura dell’auctoritas patrum: se essa si risolvesse, cioè, in un accertamento della legittimità o del merito dell’atto su cui intervenisse, è nostra opinione che l’auctoritas patrum costituisse non solo una condicio sine qua della conformità dell’atto agli auspicia e ai mores et instituta maiorum, ma sibbene fosse parte integrante del procedimento di formazione dell’atto medesimo.

Su questo punto le testimonianze degli antichi non lasciano adito a dubbi: lo dimostrano, rispettivamente, Cicerone

 

de re publ., 2.32.56:« …populi comitia ne essent rata, nisi ea patrum adprobavisset auctoritas;».

 

pro Planc., 3.8:« Tum enim magistratum non gerebat is, qui ceperat, si patres auctores non erant facti…» ;

 

e Livio

 

1.17.9:« hodie quoque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta: priusquam populus suffragium ineat, in incertum comitiorum eventum patres auctores fiunt.».

 

Da codeste testimonianze si rileva che l’auctoritas patrum non solo interveniva in ordine alle deliberazioni comiziali – sia quelle dei comitia centuriata, così come dei comitia tributa e, verosimilmente, anche le deliberazioni dei concilia plebis – ma anche in ordine all’assunzione della carica da parte dei magistratus.[156]

E’ da supporre che la validità e l’efficacia di codeste deliberazioni fosse subordinata all’adprobatio dei patres, e che quest’ultima rivestisse i caratteri di un intervento di estremo rigore, tanto da suggerire a Livio l’impiego del termine  “vis”  – per qualificare l’intervento dei patres – la cui pregnanza di significati è fuori discussione.

Per quanto, inoltre, riguarda le species delle deliberazioni, è da ritenere verosimile che l’auctoritas patrum inerisse sia alle leges, sia alle elezioni, mentre invece sembra ne fossero esenti le deliberazioni comiziali in materia di iudicia criminali[157].

Ma veniamo, ora, alla natura dell’intervento senatorio. Un problema, codesto, sulla cui soluzione non vi è accordo tra gli studiosi.

In effetti, la patrum auctoritas è stata identificata ora con un controllo di costituzionalità delle leggi e degli atti magistratuali[158]; ora con un controllo di merito[159]; o, infine, con un  “controllo politico assolutamente discrezionale” [160] che, peraltro, non avrebbe escluso un sindacato di legittimità costituzionale.

Premesso che – come è stato esattamente rilevato – la distinzione tra controllo di legittimità e controllo di merito è il prodotto di un procedimento metodologico che risente di schematizzazioni e di concettualizzazioni che appartengono alla moderna dogmatica costituzionalistica[161], e, pertanto, di scarsa utilità, se non anche pericoloso ai fini della corretta valutazione del pensiero giuspubblicistico dei Romani  - nei limiti, s’intende, in cui siffatto pensiero si traduca e si manifesti nella loro terminologia – codesta distinzione si palesa inadeguata a cogliere la complessa natura dell’auctoritas patrum.

E’, in effetti, spesso difficile determinare il criterio che avesse ispirato una pronuncia senatoria sulla legittimità costituzionale di un provvedimento che investisse gli interessi della civitas. E, d’altronde, è stato esattamente rilevato che nei giudizi di legittimità costituzionale anche la nostra Corte si è sovente pronunciata secondo criteri di opportunità, seppure « non emergenti nel tessuto della sentenza »[162].

Tra le inequivocabili prove a favore dell’opportunità politica di talune valutazioni che avrebbero indotto i patres a interporre la loro auctoritas in alcuni casi in cui – ove questa si fosse concretata in un mero controllo di legittimità costituzionale – avrebbero dovuto negarla, viene addotta la testimonianza di

 

Liv., 7.16.7-8:« Ab altero consule nihil memorabile gestum, nisi quod legem novo exemplo ad Sutrium in castris tributim de vicensima eorum qui manumitterentur tulit. Patres, quia ea lege haud parvum vectigal inopi aerario additum esset, auctores fuerunt; ceterum tribuni plebis, non tam lege quam exemplo moti, ne quis postea populum sevocaret, capite sanxerunt: nihil enim non per milites iuratos in consulis verba, quamvis perniciosum populo, si id liceret, ferri posse.».

 

Livio, com’è noto, si riferisce alla vicenda originata dall’approvazione della lex Manlia de vicesima manumissionum, rogata dal console del 357 a.C. Cn. Manlio Capitolino ai comizi riuniti, per la prima volta, per tribù, nell’accampamento, a Sutrium[163].

Il procedimento seguito e il luogo di convocazione costituivano, indubbiamente, un novum exemplum, come, d’altronde, Livio non manca di rilevare.

I patres, quindi, avrebbero dovuto negare, in linea di principio, la loro auctoritas, trattandosi di atti che si ponevano in contrasto con la prassi costituzionale. Eppure, essi concedono l’auctoritas sulla base di considerazioni di opportunità politica, dato che – lo pone in risalto Livio – l’imposta introdotta dalla legge avrebbe procurato una non trascurabile entrata alle esauste casse dello Stato. Non solo, ma l’interpositio auctoritatis dei patres conseguì l’effetto di una sanatoria dei vizi da cui era affetta la legge[164], rendendo quest’ultima del tutto valida ed efficace, come dimostra il successivo intervento dei tribuni plebis – motivato anch’esso da considerazioni di legittimità costituzionale – volto a evitare il ripetersi, in futuro, di exempla siffatti.

E’ ben vero che, nel caso in questione, l’auctoritas patrum sembra risolversi in un giudizio di merito, ma non per questo viene meno la sua natura, nel senso sopra precisato: che, cioè, essa si ponesse, fondamentalmente, quale manifestazione della funzione nomofilattica esercitata dal senato. D’altronde, si è già avuto modo di rilevare che l’auctoritas potesse essere motivata da valutazioni ispirate al criterio dell’opportunità politica, senza perdere, per ciò stesso, la sua essenziale connotazione.

Per quanto, poi, attiene alla sanatoria dell’atto viziato, è necessario richiamare quel che doveva essere, verosimilmente, il carattere originario dell’auctoritas, conformemente al significato e al valore espressi dal termine, per cui essa si poneva come  “aumento” ,  “accrescimento”  di una situazione ritualmente o giuridicamente deficitaria[165]. Essa poteva, quindi, rendere valido ed efficace un atto viziato; sia che il vizio si ponesse in relazione con la sfera del mos sia che concernesse la sfera del ius.

L’esercizio della funzione nomofilattica da parte del senato non si concretava, come si è detto, unicamente nella interpositio auctoritatis a opera dei patres.

Le fonti attestano una specifica competenza, in materia, dell’intero senato patrizio-plebeo. Un intervento che si concretava nella forma del senatus consultum.

Peraltro, è nostra convinzione che l’esercizio del sindacato di costituzionalità si manifestasse non attraverso il consultum, sibbene nella forma del decretum ossia di un provvedimento senatorio che costituiva una species distinta e autonoma all’interno del genus delle deliberazioni del senato[166].

Non deve, al riguardo, sottovalutarsi il fatto che Asconio, nel brano di cui ci siamo prima occupati, faccia esplicito riferimento a uno statuere, e, quindi, implicitamente, a una potestas ( o ius ) statuendi del senato, che si manifestava, verosimilmente, mediante decreta[167].

Quanto sosteniamo risulta, d’altronde, confermato dalla testimonianza di Cicerone il quale, nelle Filippiche, trattando dell’abrogazione, disposta dal senato, dei provvedimenti manifestamente incostituzionali presi dal console M.Antonio, menziona espressamente il decretum:

 

Cic., Phil., 12.5.12:« Senatus consulta falsa delata ab eo iudicavimus: num ea vera possumus iudicare? Leges statuimus per vim et contra auspicia latas iisque nec populum nec plebem teneri: num eas restitui posse censetis?…Immunitates ab eo, civitates, sacerdotia, regna venierunt: num figentur rursus eae tabulae quas vos decretis vestris refixistis?».

 

La pronuncia nomofilattica del senato si concreta in un iudicium ossia in un provvedimento di giurisdizione costituzionale, ma, al tempo stesso, essa costituisce una manifestazione del ius statuendi senatorio che si esprime e si manifesta mediante il decretum.

Attraverso i  suoi decreta il senato manifesta il proprio potere nomofilattico che è, a un tempo, giurisdizionale e normativo, privando di efficacia vincolante, nei riguardi dei destinatari, i provvedimenti adottati da Antonio. La dispensa dalla loro osservanza, che investe l’intero populus, è, in questo caso, la conseguenza giuridica del iudicium  mediante il quale il senato, dichiarando il vizio formale dei provvedimenti illegittimi, ne ha disposto la cassazione.

Peraltro, il sindacato di costituzionalità esercitato dal senato si estrinseca, talvolta, nel sottoporre alla sanzione legislativa comportamenti giudicati criminosi e, nel contempo, incostituzionali[168].

Le considerazioni che precedono e le testimonianze sinora esaminate inducono, quindi, a ribadire l’esistenza di una distinzione tra due species  deliberandi del senato, e cioè, rispettivamente, il senatus consultum e il decretum, e a ravvisare nel decretum lo strumento mediante il quale si manifestava il potere nomofilattico del senato.

D’altra parte, le ragioni che inducono a ritenere che il decretum si ponesse quale manifestazione della volontà normativa del senato, e si distinguesse, pertanto, dal senatus consultum, sono state da noi fornite in altra sede, e non sembra, quindi, opportuno né pertinente all’oggetto della presente ricerca soffermarci su di esse[169].

E’ necessario, adesso, fermare la nostra attenzione sul rapporto corrente tra la patrum auctoritas e il decretum, nel quadro dell’esercizio del sindacato di costituzionalità.

E’ noto che una delle leges rogate dal dittatore Q. Publilio Filone, nel 339 a.C., dispose che l’auctoritas patrum venisse prestata dai patres - la componente patrizia del senato - non più successivamente al suffragium espresso dai comizi, sibbene preventivamente ossia al momento della presentazione della rogatio a opera del magistrato[170].

Le fonti, peraltro, a lato di codesta auctoritas, menzionano di frequente un senatus consultum, richiesto dal magistrato che intendesse presentare la sua rogatio al comizio, allo scopo di promuoverne un esame e di ottenere il preventivo assenso da parte del senato.

La terminologia delle fonti non fa distinzione tra  auctoritas senatus e il senatus consultum in riferimento a codesto senatoconsulto preventivo, qualificando la rogatio preventivamente approvata, mediante le locuzioni  “ex auctoritate senatus- ex senatus consulto”.

In effetti, è nostro convincimento che la terminologia di cui si valgono gli antichi rifletta la loro perdurante incertezza in ordine alla distinzione tra decretum e senatus consultum: lo dimostra l’analisi di numerose testimonianze nelle quali le cennate locuzioni fanno seguito alla espressa menzione del decretum senatorio[171]. Pertanto, è da ritenere che la scarsa accuratezza terminologica degli antichi abbia sovente confuso tra le due species  deliberandi del senato, così come ha confuso tra l’auctoritas patrum e l’auctoritas senatus intesa, quest'ultima - sotto il profilo terminologico -  come sinonimo del decretum mediante il quale il senato interveniva preventivamente, col proprio parere, nell’ambito del procedimento legislativo. In realtà, come si è detto, si trattava di atti distinti, avuto riguardo ai soggetti da cui promanavano e in relazione agli effetti prodotti sulla rogatio magistratuale.

In ordine ai soggetti, sembra assai certo che l’auctoritas patrum venisse interposta unicamente dai patres ossia dai membri patrizi del senato patrizio-plebeo di epoca repubblicana, laddove, invece, l’auctoritas senatus promanava dall’intero consesso.

In ordine agli effetti, non sembra inverosimile che sia l’auctoritas patrum che il senatoconsulto preventivo si risolvessero in un parere giuridicamente non vincolante il magistrato[172], specie se si tien conto di ciò che si trattava, ormai, per quanto riguarda l’auctoritas patrum, di un atto mantenuto in vita per motivi sacrali e di regolarità rituale del procedimento legislativo. Non esisteva, infatti, una norma costituzionale che sancisse l’obbligo del magistrato di conformarsi al parere espresso dal senato.

La situazione era, viceversa, differente sul piano politico.

In effetti, il magistrato avrebbe potuto discrezionalmente decidere se mantenere la sua rogatio, contro il diverso avviso del senato, ovvero modificarla, in  un’apposita contio,  o, infine, ritirarla.

Il senato, d’altra parte, avrebbe potuto servirsi dell’intercessio tribunizia per costringere il magistrato recalcitrante. La casistica testimoniata dalle fonti è varia[173], e induce a pensare che, in assenza di una norma di ius publicum, tutto si risolvesse nei termini della dialettica politica tra i soggetti istituzionali.

 

5.- Considerazioni conclusive sul sindacato di costituzionalità in epoca repubblicana.

 

Il nostro discorso sul sindacato di costituzionalità si conclude con talune considerazioni.

Innanzi tutto, l’esercizio della funzione nomofilattica sia a opera delle assemblee popolari che del senato dimostra, a nostro giudizio, che l’esperienza giuspubblicistica della Repubblica assegnava alla legge il primato sulle fonti dell’ordinamento costituzionale.

Non è agevole stabilire - allo stato delle antiche testimonianze - se codesta situazione fosse il prodotto di un'esperienza  maturata nell’epoca repubblicana più antica o se, al contrario, essa fosse dovuta a epoca meno risalente, e, segnatamente, agli ultimi tempi della Repubblica.

 La riflessione teoretica in ordine al valore della legge, e il dibattito che ne seguì, vennero riassunti, come si è detto, nel pensiero politico ciceroniano che possiamo, a buon diritto, considerare rappresentativo delle problematiche e delle teorizzazioni costituzionalistiche tardo-repubblicane.

Il primato attribuito alla lex publica, che Cicerone considerava come l’elemento polarizzante le diverse istanze politico-sociali, e più propriamente costituzionali della civitas repubblicana, induce a pensare che nella lex publica i Romani identificassero lo strumento fondamentale con cui provvedere non solamente alla produzione dell’ordinamento costituzionale, sibbene anche alla sua revisione, ove codesto ordinamento non fosse avvertito come rispondente alle esigenze manifestantesi nella coscienza sociale in un dato momento storico. Peraltro, siffatto potere di revisione era strettamente connesso al giudizio di conformità non solo delle leges, ma anche degli atti e dei comportamenti magistratuali, all’ordinamento medesimo, pur nella molteplicità delle sue fonti.

Tradotto, in termini moderni, ciò val quanto dire che, posti di fronte all’alternativa di demandare l’esercizio del sindacato di costituzionalità a un soggetto istituzionale ad hoc o non piuttosto a un soggetto esistente, i Romani della Repubblica optarono per questa seconda soluzione.

D’altra parte, la situazione non mutò allorché venne a concretizzarsi l’esclusiva competenza del senato nel ruolo di giudice delle leggi.

Il senato, infatti, partecipava al procedimento legislativo in virtù della sua auctoritas, e anzi potremmo dire che esso da sempre aveva esercitato il suo ruolo di custode delle leggi, mediante, per l’appunto, l’auctoritas.

Peraltro, il suo potere nomofilattico era venuto precisandosi negli ultimi tempi repubblicani, sia mediante il potere di cassazione della legge illegittima, sia mediante il potere di dispensa dall’osservanza delle leggi[174].

Ciò comportava una seconda opzione per i Romani: quella di scegliere tra un sindacato costituzionale di natura giudiziaria - attribuito a un organo giurisdizionale - ovvero di natura politica. La scelta fu, ancora una volta, per la seconda alternativa.

Non vi è dubbio, infatti, che il senato fosse un soggetto fondamentalmente  politico e non giurisdizionale, anche se non può negarsi che, nell’esercizio del sindacato costituzionale e in taluni altri ambiti, quali, ad es., quello criminale, esso esercitasse una sorta di giurisdizione quanto meno sui generis.

Volendo servirci, nel discorso sin qui fatto, delle argomentazioni di Carl Schmitt, nel dibattito che l’oppose al Kelsen[175], si può affermare che l’impossibilità di considerare la funzione nomofilattica del senato quale manifestazione di un’attività giurisdizionale in senso proprio, deriva da ciò che non vi erano norme di diritto aventi quel grado di precisione e di determinatezza alle quali il senato potesse conformare il suo giudizio.

E qui il nostro discorso chiama in causa, ancora una volta, il carattere della costituzione repubblicana.

Quest'ultima, come si è più volte rilevato, non soltanto non era cristallizzata in un documento, ma soprattutto non risultava costituita unicamente da norme legislative, bensì da un complesso eterogeneo di prescrizioni la cui valutazione rivestiva i caratteri e il significato di un’attività eminentemente politica. Era, in altri termini, il prodotto di un compromesso tra istanze politiche diverse, rappresentate, in un primo tempo, dai tradizionali protagonisti della storia costituzionale romana - i patrizi e i plebei - e, in un secondo momento, dai tre ordines emersi nella dialettica politico-costituzionale dell’ultima età repubblicana[176].

Questo fenomeno consente, quindi, di comprendere il significato e il valore delle decisioni dei vari soggetti esercitanti il sindacato di costituzionalità - sia in senso proprio che improprio, secondo la metodologia da noi seguita - e, in particolare, del senato. Decisioni che appaiono assai spesso motivate da ragioni di opportunità politica che non da obiettivi criteri di legittimità costituzionale.


©
Gaetano Mancuso

Note:


[1] Ma non soltanto il principio della separazione dei poteri, bensì quello, di maggiore rilevanza, del governo limitato e dei suoi molteplici corollari: cfr.,al riguardo, per un primo orientamento

N.Matteucci art.  “Costituzionalismo”  in N.Bobbio – N.Matteucci, Dizionario di Politica, Torino 1976, pp.262 ss.

[2] C. Mc Ilvain, Costituzionalismo antico e moderno, ( prima ediz. italiana, a cura di V.De Caprariis ), Venezia 1956; ripubblicato recentemente, a cura di N. Matteucci,  Bologna 1990. Una critica delle conclusioni cui pervenne Mc Ilwain in M.Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna 1994,pp. 35 ss.

[3] Cfr.A. Biscardi – E.CANTARELLA, Profilo di diritto greco antico,  ( s.d., ma 1974 ),pp. 82 s.

[4] Sul punto cfr. P.CERAMI, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3^ ed., Torino 1996,p. 20.

[5] Cfr. , al riguardo, il nostro breve saggio Forma di stato e forma di governo nell’esperienza costituzionale greco – romana, Catania 1995,pp. 36 ss.; non diversamente M.Dogliani, Introduzione  cit.,pp. 25 s.

[6] Al riguardo pone esattamente il problema del significato e del valore di concetti quali costituzione e costituzionalismo nell’esperienza greca, M.Dogliani, Introduzione, cit., pp. 33 ss. 

[7] Cfr., in questo senso, M.Dogliani, Introduzione,cit.,pp. 73 ss., il quale, peraltro, sembra escludere che di entrambe le nozioni si possa legittimamente discorrere in relazione agli assetti costituzionali che contraddistinguono l’esperienza giuspubblicistica dei Romani.

[8] Rileva esattamente G.Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna 1988,p.11: « …l’esigenza e i tentativi di difesa della costituzione sono antichi come la riflessione sui problemi dello stato. Le garanzie della costituzione che sono state immaginate esprimono in tutti i contesti la radicata aspirazione a stabilizzare le regole della convivenza politica e a difenderle dalla minaccia del caso abnorme imprevisto. Non ritenendosi sufficiente garanzia il puro e semplice lealismo costituzionale delle forze in campo e il loro spontaneo equilibrio, si prevedono strumenti ad hoc.».

[9] Una rassegna in G.Zagrebelsky, La giustizia cit., pp.11 ss.

[10] Sulla problematica costituzionalistica che animò il dibattito politico negli anni delle esperienze rivoluzionarie inglesi e francesi, e sul diverso modo di rappresentarsi l’esigenza di un controllo di costituzionalità, rinviamo alla perspicue analisi di L.Compagna, Gli opposti sentieri del costituzionalismo, Bologna 1998, passim , e di M.Fioravanti , Costituzione e popolo sovrano, Bologna 1998 pp. 47 ss.

[11] Cfr., ad esempio, la proposta di Sieyès, in G.Zagrebelsky, La giustizia,cit.,p. 17.

[12] Così G.Zagrebelsky, La giustizia,cit.,p. 24.

[13] Cfr., su tutto ciò, M.Fioravanti,Costituzione,cit.,pp.100ss.;cfr.anche Pombeni, La costituente, Bologna 1995,pp. 103 ss.

[14] Ci riferiamo, in particolare, ai lavori di R.Santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in AUPA, 30 ( 1967 )pp.103-566, e di P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana,Torino 1996,pp.57 ss.

[15] Così P.Cerami, Potere ed ordinamento,cit.,pp. 105 ss.

[16] Così R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967,pp. 30 ss.

[17] Nel senso che il re presenta la sua rogatio ai comitia curiata, i quali l’approvano: cfr. Pomponio in D. 1.2.2.2 ( Pomp. libro sing.Enchirid.).

[18] Sulla nozione di “ potere costituente”  rinviamo all’art. “ Potere e potestà – II Potere costituente “( a cura di P.G.Grasso), in Enc. dir., vol. XXXIV, Varese 1985, pp.642. Sebbene codesta nozione appartenga all’esperienza costituzionale moderna, essa può bene applicarsi all’esperienza costituzionale romana. Per quanto riguarda il regnum gli antichi attestano che l’ordinamento della comunità politica scaturisce dall’opera dei singoli re. E’, quindi, da ritenere che esso sia stato posto in essere da specifiche manifestazioni di volontà normativa dei re, probabilmente nella forma di leges ( regiae ). Alle manifestazioni del potere costituente dei singoli re non solamente può ricondursi l’origine delle varie istituzioni, sibbene anche la modifica dell’assetto costituzionale esistente. In effetti gli antichi presentano alcuni re – Romolo, Numa, Tullo Ostilio, Servio Tullio – come creatori delle istituzioni; altri – Tarquinio Prisco e ancora Servio Tullio – come riformatori dell’ordinamento preesistente.

[19] Abbiamo intenzionalmente escluso dal novero dei soggetti esercitanti il sindacato di costituzionalità il collegio dei pontefici. La competenza loro attribuita dal re Numa concerneva, infatti i sacra, sia publica che privata, secondo quanto attesta Livio ( 1.20.6 )« Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit.». E, d’altronde, che ai pontefici fosse devoluto il controllo della legittimità dei sacra risulta inequivocabilmente confermato da Cicerone ( ad Att., 4.2.4 ) «…religionis iudices pontifices fuisse, legis esse senatum; se et collegas suos de religione statuisse, in senatu de lege statuturos cum senatu.».

[20] In tema di accertamento della regolarità rituale di un atto valga per tutte la testimonianza di Cic., de re publ., 2.17.31, riguardo alle norme rituali poste da Tullo Ostilio in materia di ius fetiale: «…ut omne bellum, quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque impium iudicaretur.».

[21] Sulla portata e sui limiti della auctoritas patrum in età regia rinviamo, peraltro, al nostro saggio Il senato romano,  Catania 1997,pp. 36 s.

[22] Cfr., ad es., Cic., de re publ., 2.8.14; Liv., 1.17.9; 1.32. 11-13.

[23] Al riguardo di massimo rilievo si rivela la testimonianza di Cic., de leg., 2.12.31: « Maximum autem et praestantissimum in re publica ius est augurum cum auctoritate coniunctum. Neque vero hoc, quia sum ipse augur, ita sentio, sed quia sic existimare nos est necesse. Quid enim maius est, si de iure quaerimus, quam posse a summis imperiis et summis potestatibus comitiatus et concilia vel instituta dimittere vel habita rescindere? quid gravius quam rem susceptam dirimi, si unus augur “ alio<die> “ dixerit? quid magnificentius quam posse decernere, ut magistratu se abdicent consules? quid religiosius quam cum populo, cum plebe agendi ius dare? quid? Leges non iure rogatas tollere, ut Titiam decreto collegii, ut Livias consilio Philippi consulis et auguris? nihil domi, nihil militiae per magistratus gestum sine eorum auctoritate posse cuiquam probari?». Non diversamente Liv., 1.36.6:«Auguriis certe sacerdotioque augurum tantus honos accessit, ut nihil belli domique postea nisi auspicato geretur, concilia populi, exercitus vocati, summa rerum, ubi aves non admisissent, dirimerentur.».

[24] Cfr. Cic., Top., 5.28. che ci fornisce, forse, la prima definizione gerarchica delle fonti del diritto, e, ancora, Pomponio ( D. 1.2.2.12 ), Gaio ( inst. 1.1.2 ), Papiniano ( D. 1.1.7 pr. ).

[25] E’ appena il caso di avvertire che con la locuzione lex publica intendiamo riferirci alla deliberazione comiziale – dei comizi centuriati e dei comizi tributi – che si pone, per l’appunto, quale manifestazione della volontà normativa dello Stato ossia del populus Romanus, e si distingue, per ciò stesso, dalla lex privata, quale disposizione normativa mediante la quale un privato provvede alla disciplina di una propria situazione giuridica.

[26] Si è veduto, infatti, come mediante le leges Romolo e i suoi successori ponessero mano al primitivo  “ordinamento”   costituzionale: cfr. ancora, al riguardo, FIRA, I, nn.1-13.

[27] Intendiamo riferirci, nell’ordine, fondamentalmente, alle leges XII Tabularum, alle leges Valeriae-Horatiae, alle leges Liciniae-Sextiae, alle leges Publiliae Philonis, alle leges Corneliae, alle leges Iuliae.

[28] Una siffatta Grundgesetz – secondo l’interpretazione di L.Lange, Roemische Alterthuemer,vol. I, Berlin 1876,pp. 406; 568 – sarebbe attestata da Tacito, ann., 11.25.5; ma Tacito menziona una lex curiata a L.Bruto repetita, che avrebbe confermato disposizioni dei re concernenti l’istituzione della quaestura, e non fa parola di leggi istitutive della forma repubblicana dello Stato. Dubbi riguardo all’effettiva esistenza della lex in questione in F. De Martino, Storia della costituzione romana,vol.I, Napoli 1972, p.496. Circa il carattere fondamentale di una siffatta norma, da ultimo, P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit., p.59, nt. 97. Si potrebbe, semmai, riconoscere il carattere di Grundgesetz alla lex Valeria del 509 a.C., che comminava la pena della sacratio capitis et bonorum  nei riguardi di colui che regni occupandi consilia inisset ( Liv.2,8,2 ), ma anche in questo caso rimaniamo nell’ambito della legge.

[29] Questa tesi, d’altronde, venne già sostenuta da G. Nocera, Aspetti teorici della costituzione repubblicana romana, in RISG,  15 ( 1940 ),pp. 153 s.

[30] Cfr. Cic., pro Cluent., 53.146 :« Ut corpora nostra sine mente, sic civitas sine lege suis partibus, ut nervis ac sanguine et membris, uti non potest.»; cfr. anche de re publ., 1.32.49: « …cum lex sit civilis societatis vinculum…».

[31] E’ la tesi di R.Orestano, I fatti di normazione, cit.,pp. 28 ss., condivisa, sostanzialmente, da P. Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,pp. 10 ss.

[32] Per quanto perspicue le argomentazioni di P. Cerami (Potere ed ordinamento,cit.,pp.57 ss. ), circa il carattere anormativo della constitutio repubblicana non riescono a convincerci; d’altra parte, non può trarsi argomento dalla titolatura delle magistrature costituenti della fine della Repubblica – leges scribere et rem publicam constituere – per sostenere la tesi del significato strutturale e anormativo del termine constitutio ( così P.Cerami,Potere ed ordinamento, cit., p.60 ). La locuzione in questione, sebbene tecnica, ha il tenore di un’endiadi, e, d’altra parte, i decemviri, la cui istituzione comportò un mutamento della forma civitatis ( Liv., 3.33.1 ), ebbero il compito di leges scribere ( Cic., de re publ., 2.36.61 ).

D’altra parte si è sostenuto che le XII Tavole abbiano tradotto in atto l’idea di una costituzione scritta  ( A.Momigliano, Osservazioni sulla distinzione fra patrizi e plebei, in Les origines de la république  romaine, Genève 1966,p. 217 ), e che esse si configurino come una costituzione-accordo tra patrizi e plebei ( così G.Nocera, Aspetti, cit.,p. 170 ). Ma, a nostro giudizio, la tesi che le XII Tavole costituiscano soltanto un primo tentativo di una codificazione rimane la più convincente. Semmai si può riconoscere la natura di disposizioni di carattere costituzionale unicamente alle Tavole che disponevano in tema di privilegia e di provocatio ad populum. In questo senso e con questi limiti il leges scribere dei decemviri può identificarsi con un’attività costituente.

[33] Cfr., al riguardo, G.Crosa, Il fattore politico e le costituzioni, in Studi Ranelletti,vol.I, Padova 1931,pp.151 ss. e, in particolare,p. 162. Circa il carattere pattizio delle costituzioni un esempio risalente si ritrova, a nostro giudizio, nelle Chartae inglesi d’epoca medievale.

 

[34] Cfr. E.Forcellini, Lexicon totius latinitatis, T.I,Patavii MCMXXXX, v.  “Constitutio”, p.817 ; Thesaurus linguae latinae,  Lipsiae MDCCCCVI- MDCCCCIX, v.  “Constitutio”, cc.525-527.

[35] Cfr. L.Merguet, Handlexikon zu  Cicero,v.  „Constitutio“  Lexikon zu den philosophischen Schriften Cicero’s, vol. 1, Hildesheim, rist. , 1961, v.  „Constitutio » ;p.514; cfr anche Cic., de re publ., 1.26.41; 1.45.69; 2.21.37; 2.21.53.

[36] Per quanto riguarda il primo profilo constitutio si pone quale actio constituendi, e, sotto il profilo linguistico, si configura come nomen actionis, assumendo il medesimo significato di dispositio, discriptio, institutio, ordinatio, come, ad es., in de re publ., 2.21.37, ovvero si risolve nell’atto del constituere, come, ad es., in de re publ., 2.1.2. Sui due significati della nozione, in un ordine di idee sostanzialmente non difforme dal nostro, cfr. G.Nocera, Aspetti, cit.,p. 144.

[37] Cfr. Cic., de re publ., 1.20.33; 1.32.49; 2.1.2; 2.16.30; 2.39.65; de leg., 1.5.15; 1.6.20; 3.2.4; Liv., 3.59.5; 5.49.9; 21.62.11; 22.9.11; 23.24.2; 30.2.9; 30.27.11; 42.28.9.

[38] Nel sostenere la tesi esposta teniamo presente quanto affermava B. Albanese in Iura, 5 ( 1954 ), rec. a R.Orestano,I fatti di normazione, cit.,p. 245, l’essere il diritto « il modo di essere di una società umana in un determinato tempo, in ordine al fine superiore e generalissimo di conservazione della società stessa »; in senso conforme P.Cerami, Strutture costituzionali romane e irrituale assunzione di pubblici uffici, in AUPA,  31 ( 1969 ),p. 79.

[39] Cfr. A.Ernout – A.Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1959, v. “ Forma” , p.247; per l’uso di “ forma”  come sinonimo di  “constitutio”  cfr. Cic., de re publ., 1.34.53; 2.3. 43; Liv. 3.15.3; 3.17.3; 3.33.1, in cui essa si manifesta quale forma civitatis. In effetti, dalla terminologia degli antichi appare legittimo indurre l’equazione forma – constitutio, equazione che consente di comprendere come il mutamento della forma di governo venga configurato come modificazione della forma civitatis. Non a caso Livio ( 3.33.1 ),  qualifica, ad es., l’avvento del decemvirato legislativo come mutamento della forma civitatis:« anno trecentesimo altero quam condita Roma erat iterum mutatur forma civitatis, ab consulibus ad decemviros.». Cfr.anche 3.15.3; 3.17.3. 

[40] Cfr. Cic., de re publ., 1.26.41:«…omnis civitas, quae est constitutio populi,cet.». Peraltro, non si può del tutto escludere che in questo brano  “constitutio”  designi la dispositio del popolo e si ponga, quindi, come nomen actionis. In ogni caso non muta la sostanza delle cose; in questa prospettiva anche la lex si pone quale constitutio populi: cfr. Isid., Orig., 2.10.1:<< lex est constitutio populi…>>.

[41] Com’è noto, la forma di Stato e la forma di governo si risolvono, nel pensiero politico classico, in un unicum; è il moderno pensiero politico che ne ha operato la distinzione: cfr., per un primo approccio al problema, L.Elia, art. “Governo ( forme di )” , in Encicl.  dir. Vol.XIX,Varese,1970, pp.634 ss.; F.Lanchester, art. “ Stato ( forme di )” , in Encicl. dir.vol.XLIII, Varese 1990, pp. 796 ss.

[42] Così Gai. 1.3 : «… populi appellatione universi cives significantur…»; circa la costruzione della nozione di populus come ente collettivo identificantesi  nella totalità dei cives rinviamo al nostro breve scritto Il concetto di costituzione nel pensiero politico greco – romano, in AUPA, 39 ( 1987 ),pp. 339 ss.; cfr., da ultimo, P. Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,pp. 142 ss.

[43] Cic., de re publ., 1.26.41-42; 1.27.43. Codesti genera corrispondono alle costituzioni rette del sistema platonico – aristotelico – polibiano ossia monarchia, aristocrazia, democrazia: cfr. de re publ., 1.28.44:« loquor de tribus his generibus rerum publicarum non turbatis atque permixtis, sed suum statum tenentibus».

[44] Cic., de re publ., 1.26.42.

[45] Cic., de re publ., 1.27.43. Codesto genus rerum publicarum realizza pienamente la libertas ossia la piena autodeterminazione dei cives e la loro responsabile partecipazione alla gestione della res publica: «itaque nulla alia in civitate, nisi in qua populi potestas summa est, ullum domicilium libertas habet» ; ( de re publ., 1.31.47 ). Nella nostra prospettiva, in ordine ai due significati di libertas, possiamo consentire all’affermazione di G.Nocera, secondo cui la libertas « è.. sentita dai romani come affermazione di volontà pubblica soggettiva.», ( Aspetti, cit., 142 ).

[46] Cic., de re publ., 1.32.49. Sulla costruzione della civitas quale societas ( civium ), e precisamente quale societas fondata sul consensus, riteniamo tuttora valide le argomentazioni addotte nel nostro breve scritto Sulla definizione ciceroniana dello Stato, in Sodalitas, Scritti in on. di Antonio Guarino vol. 2 , Napoli 1984,pp. 609 ss.

[47] Quanto sostiene M.Dogliani ( Introduzione cit.,pp. 73 s. ), che, cioè, la res publica sarebbe stata concepita dai Romani « come il governo delle leggi e di una volontà pubblica spersonalizzata risultante dal confluire giuridicamente ordinato dell’attività di organi diversi, e, contemporaneamente, come il ripudio del suo contrario, il regnum, inteso come il governo della volontà – e dell’arbitrio – di un individuo », coglie, indubbiamente, la distinzione tra regnum e libera res publica, quale viene definita dal pensiero giuspubblicistico tardo-repubblicano – si pensi, al riguardo, all’antitesi rex – lex di Liv., 2.3.2-4 – ma non è applicabile in toto all’esperienza costituzionale repubblicana, in quanto non tiene nel dovuto conto il ruolo che, in siffatta esperienza, assolvono la fattualità e la prassi.

[48] De re publ., 2.1.2. La tesi ciceroniana viene ribadita in 2.21.37:«« nunc fit illud Catonis certius, nec temporis unius nec hominis esse constitutionem <nostrae> rei publicae,cet.», in cui  “constitutio”  riveste il significato e il valore di cui discorriamo nel testo.

[49] Sulla nozione di  “consuetudine costituzionale” cfr. P.Rescigno, Le convenzioni costituzionali, Padova, 1972,pp.; per quanto concerne l’esperienza costituzionale romana cfr. G.Branca, Convenzioni costituzionali e antica repubblica romana, in Diritto e storia, Antologia, a cura di Corbino, Padova 1995, pp.85 ss.

[50] Sull’interpretazione della costituzione cfr. P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,pp. 60 ss.

[51] De re publ., 5.1.2:« Quid enim manet ex antiquis moribus, quibus ille  ( scil. Ennius )dixit rem stare Romanam ?».

[52] Cfr., ad es., Cic., de re publ., 2.32.56; 2.38.64; pro Font., 20.46; de dom., 26.68; Phil., 13.6.14; Liv., 2.56.12; 6.41.5; 26.3.8; 27.11.10.

[53] Exempla siffatti provengono da fonti diverse: dai maiores ( Cic., de leg., 2.52.62; 3.18.41; in Pis., 21.50; pro Planc., 5.12; pro Rab. perd., 5.17; pro lege Manil., 20.60; Phil., 5.9.25; 9.1.3; 11.6.13; Liv., 24.8.17; 31.20.3 ); dai reges ( Cic., de re publ., 2.17.31 ); dalla civitas ( Cic., de re publ., 2.39.66; pro rege Deiot., 12.32; Liv., 22.61.1 ); dai singoli magistrati o cittadini o si tratta di semplici precedenti ( Cic., pro Sest., 47.101; pro Rab. post., 11.31; de imp. Cn. Pomp., 9.26; Verr.,2.2.38.93; 2.3.50.118; 2.3.86.198; epist. ad fam.,4.3.1; Liv., 1.49.2; 3.35.8; 4.7.5; 4.13.1; 4.16.4; 4.29.6; 5.29.7; 6.38.10; 7.16.7;8; 8.7.22; 10.15.12; 10.37.9; 22.60.7; 25.4.7; 27.6.4;6;7; 27.8.9; 31.20.6; 31.48.3; 36.39.10; 39.5.2; 39.39.6; 45.21.4 ).

[54] In ordine alla configurazione del concetto di esperienza giuridica come esperienza individuale e, insieme, collettiva della fenomenologia giuridica, e quindi come attività umana orientata verso siffatta fenomenologia, rinviamo alle suggestive pagine di R. Orestano, Introduzione allo studio storico del diritto romano, Torino, ( s.d. ma 1963 ), pp.359 ss.

[55] La determinazione della natura e dei caratteri di siffatta nozione costituisce, tuttora, un problema tra i più complessi della moderna dogmatica costituzionalistica: sul tema, per un primo approccio, cfr.P.G. Grasso, art. “ Potere costituente”, cit.,pp.642 ss.

[56] E’ nettissima, nel pensiero politico della Repubblica, bene rappresentato da Cicerone ( de re publ., 1.25.39 ), la distinzione tra il populus come coetus quoquo modo congregatus ossia come massa accidentalmente aggregata, e il populus come insieme organizzato iuris consensu et utilitatis communione. Soltanto in quest’ultimo caso, infatti, la moltitudine disorganizzata si trasforma in civitas, in una comunità politica la quale, in ultima analisi, non è che una iuris societas ( de re publ., 1.32.49 ).

[57] E’ codesto, in effetti, il significato che traspare da taluni impieghi ciceroniani del termine, distinto dalla più ampia accezione di populus come universitas di cives.

[58] Non si trascuri, infatti, che la lex publica è, allo stesso tempo, un  “patto”  e un atto complesso. E’ per questo che non possiamo condividere la tesi sostenuta, a suo tempo, da G.Nocera ( Aspetti, cit.,p. 154 ), che « i comizi sono sempre assemblee costituenti »; una tesi che non tiene conto del ruolo tenuto, nel procedimento legislativo, rispettivamente, dal magistrato e dal senato, e che, inoltre, non ci sembra suffragata dalle concezioni degli antichi.

[59] La tesi sostenuta da P. Cerami, Strutture costituzionali, cit.,p. 128, configurava, rispettivamente, le magistrature, il senato e le assemblee popolari quali partes rei publicae. A noi sembra più aderente al pensiero ciceroniano qualificare codesti soggetti istituzionali quali partes dell’unitario populus.  “Res publica”  esprime, a nostro giudizio, nella concezione ciceroniana, una  “entità”  distinta dal populus.

[60] Sul carattere  “fattuale”  della costituzione repubblicana, da ultimo, P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,pp. 165 ss.

[61] Al riguardo cfr. P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit., pp.11 ss.

[62] Così C.. Mortati , art.  “Costituzione ( Dottrine generali )” , in Encicl. dir., vol. XI,Varese 1962,pp.191 s.  p.191 s.

[63] Un esempio valga per tutti: la potestas constituendi del pretore che dette origine e alimento a un nuovo sistema, non soltanto processuale ma anche sostanziale, quale, in effetti, il ius praetorium. Codesto complesso normativo non fu, peraltro, soltanto un ordinamento di natura  “ordinaria”  – se così possiamo esprimerci – ma assunse  spesso connotazioni di natura costituzionale.

[64] A nostro giudizio, il fenomeno delle rotture della costituzione si configura, in Roma, in modo non diverso dal presente, in quanto che  gli exempla  - come si vedrà nel testo - possono identificarsi con deroghe, alla norma o alla prassi, attuate per singole fattispecie, le quali non escludono che la norma o la prassi mantenga integra la sua efficacia vincolante per tutte le altre fattispecie.

[65] Cfr., al riguardo, F. De Martino, Storia, cit.,vol. I,pp. 383 ss.

[66] Cfr. F. De Martino, Storia, cit.,vol. II,pp. 485 ss.

[67] Anche il moderno regime del c.d.  “stato d'assedio”  prevede la sospensione delle garanzie costituzionali; si ritiene, peraltro che siffatto regime sia illegale, qualora esista una costituzione rigida, ove non sia espressamente previsto dalla stessa costituzione o dalla legge : cfr., per un primo approccio al problema, G.Motzo, art.  “Assedio ( stato di )”, in Encicl.  dir.,vol.III ,Varese 1958, pp. 250 ss.

[68] La destituzione del tribuno della plebe M.Ottavio venne, com’è noto, disposta dalla lex Sempronia de magistratu M.Octavio abrogando, un plebiscito proposto dal collega Tiberio Gracco e deliberato dal concilium plebis nel 133 a.C. La motivazione della rogatio, addotta da Tiberio, incideva sul profilo costituzionale del vincolo di mandato tra il tribuno e l’assemblea che lo aveva eletto. Per altri esempi di destituzione in danno dei tribuni plebis cfr. T.Mommsen, Droit public romain,vol. II, Paris 1892,p. 304 nt.2.

[69] Sull’ abrogatio imperii cfr. T.Mommsen, Droit public,cit.,pp. 301 ss.; Il fatto che  abrogatio imperii fosse una diretta conseguenza della prorogatio imperii non  esclude l’illegittimità costituzionale del provvedimento: cfr., al riguardo, G.Nicosia, Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di Roma, vol.I, Catania 1989,p. 164.

[70] Cfr. Cic., pro Balb., 14.33; Liv., 7.17.12; 9.33.9; 9.34.6.

[71] In senso contrario alla nostra tesi G. Nocera, Aspetti, cit.,p. 154 ss., il quale sosteneva che l’assenza di limiti al potere del populus era condizionata dal principio politico obiettivato in talune norme strutturali dell’ordinamento repubblicano. Pertanto, l’onnipotenza della sovrana autodeterminazione del populus mai avrebbe potuto spingersi sino al mutamento della forma civitatis repubblicana, in quanto che ciò avrebbe determinato la scomparsa del populus quale soggetto costituzionale sovrano. Ma è, per l’appunto, quel che avvenne con l’instaurazione del Principato e del susseguente Dominato, come avremo modo di dimostrare nel seguito della nostra ricerca. C.Esposito, La validità delle leggi, Padova 1934, pp.68 ss. citava il principio decemvirale a proposito dei rapporti tra una legge anteriore e una posteriore in ordine al problema della sua validità ed efficacia, e come prova di ciò che, tra due atti legislativi forniti di uguale forza, il susseguente prevalga sul precedente. La prevalenza della legge successiva avviene non già perché essa manifesti una più intensa vis della volontà statuale, sibbene «perché ogni singola legge contiene implicito un termine o forse …una condizione risolutiva con effetto ex nunc della sua efficacia e validità.» ( p.76 ).

[72] Cfr., al riguardo, le nostre Riflessioni di uno storico del diritto sul problema delle riforme istituzionali, in Panorami,vol. 4 ( 1992 ),pp. 75 ss. Esemplari, al riguardo, le due massime  formulate da G.D. Romagnosi: « Niuna generazione può assoggettare alle sue leggi le generazioni future » e « Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cangiare la sua costituzione », citate dall’on. Paolo Rossi nella relazione, sulla revisione della nostra Costituzione ( v. Riflessioni,cit., nt. 8 ).

[73] Su queste clausole cfr. il nostro Forma di stato, cit., pp.67 ss.

[74] Così Cicerone in un brano di una lettera all’amico Tito Pomponio Attico: ad Att., 3.23.2. Esattamente rilevava G.Nocera, Aspetti, cit.,p. 145, che « La perpetuità delle leggi scritte romane deve porsi in relazione con la massima, anche essa fondamentale, delle dodici tavole che il popolo non è vincolato dalle sue leggi anteriori.».

[75] Sul tema v. le perspicue argomentazioni di P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,pp. 111 ss., sebbene non sempre coincidenti col nostro ordine di idee.

[76] Cfr. Cic., Top., 5.28.

[77] La definizione è riferita, con rilievi critici,  da Gellio, N.A.., 10.20.2.

     [78] « Se la legge doveva essere espressione della volontà generale, cioè sovrana, una discriminazione gerarchica fra norme giuridiche ( costituzionali e ordinarie ) non sarebbe stata meno illegittima né meno irragionevole di una discriminazione gerarchica fra tipi inammissibilmente diversi di volontà generale:< car la volonté générale> – parole di Carré de Malberg – <est toujours égale à elle même, c’est – à -  dire toujours souveraine, quel que soit l’objet auquel elle s’applique »; così L.Compagna, Gli opposti sentieri, cit.,p. 70.

[79] Per un primo approccio alla problematica sul costituzionalismo cfr. P.Biscaretti di Ruffia, art. “Costituzionalismo”, in Encicl. dir.vol. XI,Varese 1962, pp.130 ss.; N.Matteucci, art.  “Costituzionalismo” , in Dizionario ,cit., pp. 262 ss.

[80] Secondo la concezione garantista, propria dello Stato liberale, l’organizzazione del potere statale risponde, in effetti, all’esigenza di assicurare al singolo la  “libertà dallo Stato”  ossia una condizione di non interferenza dell’organismo statale nella sfera individuale del cittadino: cfr., al riguardo, L.Zampetti, Dallo stato liberale allo stato dei partiti, Milano 1973,pp. 19 ss.

[81] Cfr., al riguardo, C.Mc Ilwain,Costituzionalismo, cit.,pp. 32 ss., cui va indubbiamente riconosciuto il merito di avere posto e risolto il problema in modo metodologicamente corretto.

[82] La distinzione di cui discorriamo è nettamente presente al pensiero politico greco: cfr.Arist., Polit., 4.1.1289 a.

[83] Per la traduzione del brano seguiamo l’edizione delle opere politiche di Aristotele curata da C.A. Viano, Aristotele, Politica e Costituzione di Atene, Torino, rist., 1966,pp. 174 s. Il testo originale è il seguente: polite…a mn g£r ™sti t£xij ta‹j pÒlesin ¹ perˆ t¦j ¢rc£j, t…na trÒpon nenšmhntai, kaˆ t… tÕ kÚrion tÁj polite…aj kaˆ t… tÕ tšloj ˜k£sthj tÁj koinwn…aj ™st…n: nÒmoi d kecwrismšnoi  tîn dhloÚnton t¾n polite…an, kaq'oÞj de‹ toÝj ¥rcontaj ¥rcein kaˆ ful¦ttein toÝj paraxa…nontaj aÙtoÚj.

[84] La servitus, l’asservimento di tutti al potere del re è, in effetti, nella speculazione politica di Cicerone il dato che contraddistingue la forma civitatis monarchica. Si può discutere sul carattere rituale o meno di siffatta condizione, distinguendo una servitus iusta – tipica del regnum – da una servitus iniusta – tipica della tirannide – ma la sostanza del problema non muta: cfr., sul tema, Cic., de re publ., 1.31.47; Coli, Regnum, in SDHI 17 ( 1951 ),pp. 39 ss.

 

[85] Liv., 2.8.2.

[86] Liv., 3.55.4.

[87] Liv., 3.9.5.

[88] Platone, Leggi.,3. 698 b; c; discuteva, infatti, di una doule…an to‹j nÒmoij.

[89] Così U.Coli, Regnum, cit., pp.15 ss;pp. 22 ss.

[90] Liv., 4.4.3.

[91] D.1.2.2.4.

[92] Osservava esattamente G. Nocera, Le garanzie costituzionali durante la Repubblica, in Annali Univ.Camerino, XII, 2,( 1938 ), p. 40:« Sovrana è, in sostanza, la legge del popolo, la lex populi. Costituzionale è tutto quel che è conforme ad essa, incostituzionale tutto quel che ne è difforme. La lex publica è una norma- limite così per la condotta dei cittadini, come per l’attività dei magistrati…».

[93] Riguardo all’editto dei censori, in cui venne formulato il loro giudizio, la cui datazione viene posta intorno al 90 a.C., cfr. Gellio, N.A., 15.11.2; il testo è anche in FIRA, I, n.52.

[94] Così G.Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, Milano 1940,p. 28.

[95] A differenti conclusioni giunge A.Manfredini, L’editto ‘ de coercendis rhetoribus latinis ‘ del 92 a.C., in SDHI 42 ( 1976 ), pp.99 ss.

[96] Così G.Nocera, Il potere, cit., il quale considera la lex publica come « prodotto di una cooperazione paritetica tra gli organi della costituzione » ( p.25 ).

[97] Un’attenta ed esauriente disamina dei limiti e dei vizi degli atti comiziali è, ancora oggi, quella a suo tempo compiuta dal G.Nocera, Il potere, cit.,pp. 35 ss.;pp. 191 ss.

[98] Non sembra legittimo, sotto il profilo metodologico, includere, tra i soggetti menzionati, il populus, inteso quale insieme delle assemblee deliberanti, per due ordini di considerazioni: in primo luogo perché il populus esercita, talvolta, in cooperazione col senato, un sindacato di costituzionalità in senso proprio; in secondo luogo perché, ammessa pure l’esistenza di un potere di cassazione spettante ai comizi in genere, sotto il profilo dell’incostituzionalità, ma da questi non esercitato ( cfr., al riguardo, G.Nocera, Il potere, cit., p.50 ), la deliberazione comiziale rimane pur sempre, come si è detto, un atto complesso e non esclusivo del populus.

[99] Cfr., per tutti, G.Nicosia, Lineamenti, cit.,vol. I,pp. 162 ss.

[100] Cfr., al riguardo, G.Nocera, Il potere, cit.,pp. 51 ss. A prescindere dalla abrogatio magistratus disposta dalla lex Sempronia de magistratu M.Octavio abrogando – verosimilmente un plebiscito proposto da Tiberio Gracco – l’unico caso di destituzione di un console in carica, attestato dalle fonti, concerne la lex  ( o plebiscitum ? ) Octavia de consulatu Cinnae abrogando, dell’87 a.C. Cinna considerò, peraltro, nulla l’abrogazione, per mancata convocazione dell’assemblea popolare ( cfr. G.Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1912,p. 347; G.Nocera, Il potere, cit.,p. 52, nt. 2 ).In merito a una rogatio Gabinia de consulatu Calpurnio Pisoni abrogando, del 67 a.C., il procedimento si interruppe nel suo iter e si fermò allo stadio di semplice rogatio ( cfr. G.Rotondi, Leges,  cit.,p. 372 ).

[101] Sulla fides, come principio strutturale del diritto romano, riteniamo tuttora valide le conclusioni cui pervenne F.Schulz, I principii del diritto romano, trad. it., Firenze 1946,pp. 193 ss.

[102] Cfr., al riguardo, T.Mommsen, Droit public, cit.,vol. II,pp. 381 ss.; G.Nicosia, Lineamenti, cit.,vol. I,pp. 164 ss.

[103] T. Mommsen, Droit public, cit.,pp. 291 ss.

[104] Cfr., al riguardo, il nostro Studi sul decretum, cit.,pp. 92 s. Peraltro, il potere di sottoporre a processo i magistrati anche durante la carica sembra essere attestato dalle fonti: cfr. F.Fabbrini, art.  “Tribuni plebis” , in NNDI ,vol. XIX, Torino  1957 ,pp. 802 ss.;pp. 809 s.

[105] Cic., de leg., 3.4.11.

[106] Esattamente osserva F.Fabbrini, Encicl.Dir.,cit., p. 790: « …spesso la sua azione ( cioè del tribuno ), poteva andare anche contro le leggi e contro il mos maiorum, perché il suo intento era appunto di riformare, non già di mantenersi nei limiti di una legalità restrittivamente intesa…».

[107] In questo senso T.Mommsen, Droit public, cit.,vol. I,pp. 304 ss. ; cfr. anche G.Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982,pp. 66 ss., i cui rilievi sembrano mossi dalle stesse nostre perplessità.

[108] Fr. Anche Macrob., Saturn., 3.3.1.

[109] E’ opportuno rilevare, al riguardo, che la nozione della conformità all’ordinamento di un atto o comportamento statualmente rilevante era bene espressa dal termine  “iustus”  che – come è stato esattamente rilevato – ne esprimeva la regolarità rituale: cfr. M.Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges F.Wubbe, Fribourg 1993, pp.97 s.; P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,p. 107 e R.Orestano, I fatti di normazione , cit.,pp. 102 ss.

[110] Sull’efficacia costitutiva del decretum augurale cfr. anche la testimonianza di Liv., 4.7.3; 8.15.6; cfr., inoltre, il nostro Studi sul decretum, cit., pp.84 s.

[111] Cfr., ad es., Cic., pro Mur., 3.5; Brut., 62.222; de re publ., 2.37.63; Liv., 3.20.6; 3.32.7; 4.35.11; 31.50.8; Flor., epit., 3.17.8; Val.Max., 2.9.5.

[112] Per un’esauriente disamina dei limiti formali e sostanziali al potere legislativo delle assemblee popolari rinviamo all’ancor oggi fondamentale studio di G.Nocera, Il potere, cit.,pp. 34 ss.; cfr. anche F.Serrao, Cicerone e la' lex publica', in Legge e società nella repubblica romana,vol. I, Napoli 1981, p.422.

[113] Potevano, ovviamente,  darsi altri casi di mancata osservanza della regolarità del procedimento di formazione del provvedimento: così, ad es., l’inosservanza del divieto di rogare per saturam, disposto dalla lex Caecilia Didia del 98 a.C. ( cfr. G.Rotondi, Leges, cit.,p. 335 ).

[114] Entrambi i casi – deliberazione contra auspicia o per vim – ricorrono di frequente nelle fonti: cfr., ad es., Cic., in Pis., 13.30; in Vatin., 15.37; de dom., 15.40;41;42; de har.resp., 23.48; Phil., 5.3.8; 5.3.10; 6.2.3; 12.5.12.

[115] Cfr., al riguardo, G.Rotondi, Leges, cit.,pp. 395 s.; il limite in questione derivava, com’è noto, dalla tab. IX delle leges XII Tab. ( cfr. Cic., de leg., 3.4.11 ), ma il divieto di privilegia rogare non impedì che, nel corso della Repubblica, venissero proposte o approvate dalle assemblee popolari rogationes le quali riguardassero il privus ossia il singolo cittadino: sul punto cfr., per tutti, G.Nocera, Il potere, cit.,pp. 217 ss.

[116] L’assenza del carattere della generalità aveva, in effetti, determinato i rilievi critici mossi da Gellio alla definizione di Ateio Capitone: Gell., N.A., 10.20.3;4.

[117] Cfr. G.Rotondi, Leges,cit.,p.99; G.NOCERA,Il potere, cit., 89. La clausola relativa era stata inserita, ad es., anche nella sancito della rogatio VIII tribunorum de reditu Ciceronis, del 58 a.C.: cfr., G.Rotondi, Leges,cit., p.401.

[118] G.NOCERA, Il potere, cit., pp.88ss.

[119] G.NOCERA, Il potere, cit., pp.94 s.

[120] Su codesti limiti, oggetto di appositi capita disposti nella sanctio della legge, G. Nocera,Il potere, cit.,pp.85ss. cfr. anche il nostro saggio Forma di Stato, cit., pp.67 ss.

[121] V. supra, nt.115.

[122] G. NOCERA,Il potere,cit., p.89.

[123] Su codesto caput Cfr. F. SERRAO, La legge, in Classi,partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1974,p.84 s. Sul problema della fraus legi, nelle varie epoche della storia costituzionale romana, cfr., inoltre, l’esauriente studio di L.FASCIONE, Fraus legi, Milano,1983,

[124] Cfr. Cic., ad Att., 3.23.2.

[125] Sulla fondatezza del giudizio ciceroniano, G. Nocera, Il potere, cit.,pp. 88 ss., le cui argomentazioni, sebbene assai acute, non riescono a convincerci; cfr. pure S.Borsacchi, ‘ Sanctio ‘e attività collegiale tribunizia in Cic., Att. 3,23,4,in Legge e società nella repubblica romana, ( a cura di F.Serrao ), Napoli 1981,pp. 439-483. La relatività del disposto legislativo appare una costante del pensiero giuspubblicistico della tarda Repubblica: esemplare, al riguardo, la valutazione espressa da Cicerone in ordine alla lex Valeria de Sulla dictatore creando, dell’82 a.C., in de lege agr., 3.2.5: «Omnium legum iniquissimam dissimillimamque legis esse arbitror eam, quam L. Flaccus interrex de Sulla tulit, ut omnia quaecumque ille fecisset, essent rata. Nam cum ceteris in civitatibus tyrannis institutis leges omnes exstinguantur atque tollantur, hic rei publicae tyrannum lege constituit. Est invidiosa lex, sicuti dixi, verum tamen habet excusationem; non enim videtur hominis lex esse, sed temporis.».

[126] Significativo appare, al riguardo, l’interrogativo postosi da Cicerone sul valore della clausola che disponeva il divieto di deliberare in materia di ius civile, presente nella sanctio della lex Cornelia de civitate Volaterranis adimenda, dell’81 a.C. – «Quid est quod ius non sit, quod populus iubere aut vetare non possit ? » ( pro Caec., 33.95 ) – sebbene la risposta che egli si dà sia nel senso di riconoscere l’esistenza di materie sulle quali non era concesso al populus di deliberare. Ma quanto avrà inciso su questa risposta l’economia della causa che egli stava discutendo?

[127] V. supra, nt.124. In particolare, per quanto concerne il divieto di deliberare in tema di ius civile, Cicerone sostenne, nell’orazione pro Caecina ( 33.95 ), l’incostituzionalità della lex Cornelia de civitate Volaterranis adimenda, rogata da Cornelio Silla nell’81 a.C. Silla, d’altra parte, aveva inteso manifestare il suo ossequio formale nei riguardi della prassi costituzionale inserendo la clausola in questione nella sanctio della legge. Ma, a parte la considerazione che la posizione costituzionale rivestita da Silla, quale dictator rei publicae constituendae et legibus scribendis, lo poneva nella condizione di riformare anche i divieti di cui discorriamo, rimane il fatto che la decisione dei decemviri – dinanzi ai quali venne discussa la pro Caecina – pur dando causa vinta a Cicerone, sul punto specifico dell’incostituzionalità della perdita dello status civitatis disposta da Silla, appare ispirata a motivi di opportunità politica più che a ragioni di stretto diritto. D’altronde, anche se gli esempi di perdita dello status civitatis sono assai rari e non del tutto pertinenti ( cfr., al riguardo, G.Rotondi,  “Eius hac lege nihilum rogatum” , Problemi di diritto pubblico romano, I, in Scritti giuridici,vol. I, Pavia 1922,pp. 382 ss. ), frequenti furono i casi in cui venne concessa la cittadinanza direttamente per legge o, mediante delega del populus, a opera di singoli magistrati ( cfr. G.Rotondi, Eius hac lege, cit.,p. 385, nt.4 ). Quindi, sempre disponendo su una materia sottratta alla potestas statuendi del populus.

[128] Cfr. M.T.Cicerone, Frammenti delle orazioni perdute ( a cura di G. Puccioni ),  Firenze 1971,pp.59 ss. Sul testo v. le differenti lezioni e le correzioni proposte dagli studiosi, in alternativa alla lezione tradizionale, in F.Reduzzi Merola, Studi sui rapporti tra senato e legge in età repubblicana, I, Camerino 1996,pp. 10 ss. , ora ripubblicato in Iudicium de iure legum, Napoli  2001,pp. 1 ss.

[129] Cfr. F.Serrao, Cicerone, cit.,p. 423 e ntt. 56 ,57, la cui interpretazione del brano non sembra ne abbia colto l’esatto tenore.

[130] Cfr.M.T.Cicerone, Frammenti, cit.,p. 59, nn.24;26.

[131] Cfr. Tit. Ulp. 1,3:« Lex aut rogatur, id est fertur, aut abrogatur, id est prior lex tollitur, aut derogatur, id est pars primae legis tollitur, aut subrogatur, id est adicitur aliquid primae legi, aut obrogatur, id est mutatur aliquid ex prima lege…»; D.50.16.102 ( Modest., 7  reg. ): ‘ Derogatur, legi aut ‘ abrogatur’. derogatur  legi, cum pars detrahitur: abrogatur legi, cum prorsus tollitur. Il brano ulpianeo menziona un quinto caso, la subrogatio ossia l’incremento del testo legislativo, omesso da Cicerone; concorda con Ulpiano Modestino, la cui testimonianza ricalca – limitatamente alla derogatio – quella di Fest.,de verb sign.  s.v.  Derogare,  ( Lindsay 60 ): « Derogare proprie est, cum quid ex lege vetere, quo minus fiat, sancitur lege nova. Derogare ergo detrahere est.».  Confonde tra abrogatio e obrogatio Fest., de verb.sign. s.v.  Obrogare ,  ( Lindsay 203 ): « Obrogare est legis prioris infirmandae causa legem aliam ferre,».

[132] Così, ancora, sia pure per ragioni di opportunità politica, in de re publ., 2.37.63 ( abrogazione della tabula iniqua decemvirale che vietava il connubium, a opera del plebiscitum Canuleium,  ( Rotondi, Leges, cit.,pp. 207 s. ), o in Brut., 62.222 ( abrogazione, per i medesimi motivi, della lex Sempronia frumentaria, a opera di M.Ottavio, populi frequentis suffragiis ).

[133] Così, ad es., de dom., 15.40; Phil., 1.9.23; 1.10.24-26; 5.3.10; 5.6.16.

[134] Non oppone difficoltà a quanto sosteniamo la circostanza che, nel frammento della pro Cornelio, Cicerone adduca il mos maiorum quale ratio dell’esclusivo sindacato senatorio in tema di invalidazione delle leggi. Potrebbe, in effetti, trattarsi di un artificio retorico suggerito dall’economia della causa e dall’esigenza di fare apparire suffragata da una risalente vetustas la competenza senatoria.

[135] Ascon., in Cornel., 56 ss. ( Stangl 47 ss. ).

[136] Cfr. G.Rotondi, Leges, cit.,p. 365.

[137] Quanto asserito rende, quindi, ragione del ruolo assunto dai tribuni plebis nell’ambito del sindacato di costituzionalità, specie durante gli ultimi due secoli della Repubblica: sul punto C.Nicolet,Le sénat et les amendements aux lois à la fin de la république, in R.H.D. 36 (1958),pp. 262 ss.

[138] Cfr. Cic., pro Balb., 14.33; Liv., 7.17.12; 9.34.7; 9.39.9.

[139] Sulla tesi del carattere sovrano dei singoli soggetti istituzionali repubblicani rinviamo al nostro Forma di stato, cit., pp.57 ss.

[140] Che si tratti di una giurisdizione costituzionale è, per noi, fuori dubbio; non possiamo, quindi, aderire alla tesi del F. Serrao, Cicerone, cit.,p. 423 s., che il potere nomofilattico del senato fosse di natura politica.

[141] Cfr. anche Phil., 13.3.5:« Acta M.Antoni rescidistis, leges refixistis; per vim et contra auspicia lata decrevistis, cet.», che bene rappresenta l’iter attraverso cui si manifestava l’intervento del senato: pronuncia dichiarativa dei vizi di incostituzionalità ( decretum ), rescissione, ordine di refigere tabulas.

[142] Si trattava, nella fattispecie, di autorizzare i soldati delle legioni di M. Antonio a disertare, allo scopo di passare nelle legioni dei consoli del 43 a.C., A., Irzio e C. Pansa, in vista delle operazioni militari da intraprendere contro Antonio per la difesa della Repubblica.

[143] Vera la nostra ipotesi, ne deriverebbe che la lex publica, in particolare, non rivestirebbe la natura e i caratteri di una semplice regola di condotta valida ed efficace unicamente per la fattispecie e nella situazione contingente che ne avesse determinato l’emanazione, e quindi priva di forza cogente per l’avvenire – (n così P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,pp. 125 ss. ) – ma si porrebbe, viceversa, come disposizione vincolante di per sé, a prescindere dai vizi che ne avessero potuto causare l’illegittimità di forma o di sostanza: La lex publica avrebbe, quindi, goduto di una validità ed efficacia del tutto indifferenti alla pronuncia di illegittimità e alla conseguente cassazione. A diverse conclusioni, in ordine alla solutio legibus, pervenne G. Nocera, Il potere, cit.,pp. 290 ss., le cui considerazioni, legate al problema della natura del senatoconsulto successivo alla deliberazione comiziale, non ci appaiono condivisibili.

[144] Sull’auctoritas senatus, come potere sovrano, rinviamo al nostro breve saggio Senatus auctoritas, in Labeo 27 ( 1981 ), pp.23 ss.; cfr. anche il nostro Il senato romano, cit.,pp. 123 ss.

[145] Una tesi, codesta, sostenuta da certa dottrina del secolo scorso ( cfr., al riguardo, G.Nocera, Il potere, cit., p.243 e nt.1 ), e ripresa, sia pure con le opportune riserve, da taluni studiosi moderni: cfr., ad es., F.De Martino, Storia, cit.,vol. I,pp. 270 s.; contra G. Nocera, Il potere, cit.,pp. 243 ss.

[146] Concordiamo, al riguardo, con le opinioni espresse, a suo tempo, in talune sue perspicue pagine, da G. Nocera, Il potere, cit.,pp. 243 ss., le cui argomentazioni si rivelano in genere, tuttora valide e in buona parte condivisibili.

[147] E’, a nostro giudizio, evidente che la menzione, da parte di Cicerone, della potestas, dell’auctoritas e della libertas, implica un riferimento al potere dei magistrati, genericamente identificato nella potestas; del senato, individuato nella auctoritas senatus, e alla consapevole e responsabile partecipazione degli universi cives alla gestione della res publica, che costituisce il significato specifico, sotto il profilo costituzionale, della locuzione  “libertas populi”. Una locuzione, codesta, il cui significato e valore non si differenziano dalle omologhe locuzioni   “potestas populi”  –  “maiestas populi”  : sul punto cfr., peraltro, il nostro Senatus auctoritas, cit.,pp. 19 ss. e anche Il concetto di costituzione, cit.,pp. 348 ss.

[148] Cic., pro Sest., 65.137:« Senatum rei publicae custodem, praesidem, propugnatorem conlocaverunt; huius ordinis auctoritate uti magistratus et quasi ministros gravissimi consili esse voluerunt, cet.».

[149] A meno che non si debbano considerare una charta costituzionale i misteriosi commentari di Servio Tullio cui accenna Livio ( 1.60.4 ), allorché narra della creazione dei due primi consoli della Repubblica.

[150] Intendiamo riferirci all’acuta indagine di P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,pp. 138 ss., condotta su di una rivisitazione delle testimonianze delle fonti sinora, forse, non del tutto attentamente valutate in dottrina.

[151] Non riteniamo che la tesi da noi sostenuta possa incorrere nel giudizio, formulato, a suo tempo, da G.Nocera ( Il potere, cit.,p. 247 ), sull’assolutismo di talune posizioni della dottrina. Intendiamo soltanto richiamare l’attenzione degli studiosi sulla necessità di tener conto del pragmatismo romano,e sulla conseguente concezione della relatività e della storicità dell’ordinamento costituzionale, icasticamente affermata da Catone il censore in Cic., de re publ., 2.1.2.

[152] D.1.3.1.

[153] Ci riferiamo alla definitio ciceroniana della legge come vinculum civilis societatis ( de re publ. ,1.32.49 ), e, quindi, in altri termini, come obligatio societatis. Su entrambe le definizioni, la ciceroniana e la papinianea, cfr., peraltro, quanto abbiamo sostenuto nella nostra breve nota A proposito della definizione di “ obligatio”  ( I. 3,13pr. ), in Panorami 2 ( 1990 ),pp. 165 ss.

[154] V. supra, p.17.

[155] Sul punto P.Cerami, Potere ed ordinamento, cit.,pp. 109 ss.

[156] I)n merito alla necessità che, anche riguardo alle deliberazioni del concilium plebis – i plebiscita – fosse necessaria l’auctoritas patrum perché tali deliberazioni potessero vincolare l’intero populus, basti citare le testimonianze di Sallustio, hist.fragm .,48.3, e di Gai. 1.3. Le fonti attestano, del pari,  che anche le rogationes proposte dai tribuni della plebe al concilio furono sottoposte al senatoconsulto preventivo ossia all’auctoritas senatus.

[157] In senso conforme Willems, Le sénat de la république romaine, vol.II, Louvain 1883, p.63; inconsistente appare l’argomentazione di T. Mommsen, Droit public, cit.,vol. VIII,p. 239, nt.3; in senso recisamente favorevole F.De Martino, Storia, cit., vol.I,p. 271 s. , che fa leva sulla tesi di T. Mommsen e  su quella di G.Nocera, Il potere, cit.,p. 261, sebbene quest’ultimo appaia incerto al riguardo; perplessità anche in A.Biscardi, « Auctoritas patrum »- Problemi di storia del diritto pubblico romano, Napoli 1987,p. 36, nt.79, il quale, nel suo saggio originario – ( Auctoritas patrum, in BIDR 48 ( 1941 ),p. 430, nt.79 ) – affermava essere il problema non risolvibile, dato il silenzio delle fonti, sebbene « il silenzio dei testi possa aver pure la sua giustificazione nella precoce scomparsa di quella forma di procedura, -( il iudicium populi, n.d.r. ) – in seguito al sopravvenire delle quaestiones » ( ivi ). Recentemente  S. Borsacchi, La vicenda dell’agro Coriolano, in Legge e società nella repubblica romana,vol. I, Napoli 1981,pp. 219 ss., ha citato la testimonianza di Liv., 4.7.5« Ab senatu responsum est iudicium populi rescindi ab senatu non posse, praeterquam quod nullo nec exemplo nec iure fieret, concordiae etiam ordinum causa», per escludere che il potere di cassazione del senato, quanto meno in ordine alla sentenza arbitrale emessa dal comizio tributo sulla controversia tra Ardeatini e Rutuli circa l’appartenenza dell’agro di Corioli. A dire dell’A. la motivazione con cui il senato avrebbe escluso il suo potere di cassazione nella fattispecie sarebbe stata sia giuridica – si sarebbe trattato, in effetti, di un novum exemplum – sia politica: si sarebbe turbata la concordia ordinum e, probabilmente, si sarebbe contravvenuto al principio quodcumque postremum populus iussisset, cet. Le argomentazioni del Borsacchi ci sembrano condivisibili, anche se non ci sembra pertinente il richiamo al suddetto principio, così come, forse, neppure quello alle leggi Valerio – Orazie. Il iudicium in questione non rivestiva, infatti, la natura e i caratteri di una sentenza criminale, bensì si trattava di un iudicium sui generis. Non si può escludere che, d’altra parte, all’epoca dell’episodio ( 446 a.C. ), non si fosse ancora configurato un potere di cassazione del senato, almeno nei termini lumeggiati nel commento di Asconio. 

[158] In questo senso T.Mommsen, Droit public, cit.,vol. VII,pp. 240 ss.; G.Nocera, Il potere, cit.,pp. 249 ss.; pp.259 ss.

[159] Così A.Biscardi, « Auctoritas, cit.,pp. 21 ss., il quale non esclude, peraltro, che in taluni casi l’auctoritas patrum si concretasse in un controllo di natura nomofilattica (v. anche Appendice,p. 231 ).

[160] In questo senso V.Mannino, L’auctoritas patrum, Milano, 1979,p. 120.

[161] Così V.Mannino, L’auctoritas,  cit.,p. 109; cfr. anche pp. 115 s.

[162] Così G.Branca, Caratteristiche e funzione dei giudizi incidentali di legittimità costituzionale, in Atti del Colloquio sul tema: Il controllo delle leggi e degli atti amministrativi in Italia e in Polonia, in Accademia Naz. dei Lincei, 370 ( 1973 ), Quaderno n.185, pp.34 ss. ( dell'estratto ). Non riteniamo di potere condividere la tesi sostenuta da F. Serrao, Cicerone e la lex, cit., p.424, che esclude un potere di cassazione del senato, inteso, quanto meno, quale sua competenza specifica, dovendosi - a suo dire - identificarsi in codesto potere un'attribuzione nettamente politica. Che il sindacato di costituzionalità abbia risvolti di ordine politico è un fatto incontestabile, ma ciò non esclude il carattere giuridico della funzione.

[163] Cfr. G.Rotondi, Leges, cit., pp. 221 s.

[164] Così A.Biscardi, « Auctoritas,cit., pp.29s.;pp.231s.; a differenti conclusioni perviene, viceversa, A.Di Porto, Il colpo di mano di Sutri e il ' plebiscitum de populo non sevocando’. A  proposito della'  lex Manlia de vicensima manumissionum’  , in Legge e società, cit.,pp. 331 ss.

[165] Sul carattere risalente della patrum auctoritas e sulla sua natura sacrale A.Biscardi,  «Auctoritas, cit., pp. 221 ss. ; cfr.  quanto sostenemmo nel nostro studio Alle radici della storia del senatus, in AUPA,  33 ( 1972 ) , pp.298 ss.

[166] Cfr., al riguardo, quanto sostenuto nel già citato Studi sul decretum,pp. 123 ss.

[167] Cfr., Studi sul decretum,cit., pp.161 ss.

[168] Cfr., ad es., Cic., de har.resp.,8.15.

[169] Rinviamo, al riguardo, al nostro Studi sul decretum, cit.,pp. 117 ss.

[170] E’ codesto, infatti, il dato che emerge sicuramente dalla testimonianza degli antichi: cfr., in senso conforme, A.Biscardi, «Auctoritas, cit., pp. 41 ss.

[171] Cfr., al riguardo, il nostro Studi sul decretum, cit.,pp. 139 ss. L’identificazione terminologica tra SC. e decretum è, ad es., pressocché costante in Ascon., in Pis., 6 ( Stangl 14 ); in Cornel., 57 ( Stangl 47 ); 69 ( Stangl 55 ).

[172] Cfr., in senso conforme, A.Biscardi,  «Auctoritas,  cit., p.43. La circostanza che il magistrato potesse, in contrasto col senato, presentare ugualmente la sua rogatio, non oppone difficoltà alla nostra tesi, se si consideri che non esisteva un vincolo di dipendenza gerarchica del magistrato rispetto al senato, trattandosi di due soggetti istituzionali sovrani. E, d’altra parte, i casi in cui la circostanza ebbe a manifestarsi furono assai circoscritti: cfr. A.Biscardi, « Auctoritas, cit., pp. 54 ss.; infine, il fatto che i patres potessero pronunciarsi in modo diverso dall'intero senatus, in tema di auctoritas preventiva, non è  «manifestamente assurdo»  - così A.Biscardi, « Auctoritas, cit., p. 54 - se si tenga conto che si trattava di soggetti istituzionali diversi.

[173] Significativi, al riguardo, gli esempi addotti da C.Nicolet, Le Sénat., cit.,pp. 262 ss.

[174] cfr., al riguardo, l’accurata disamina delle fonti in F.Reduzzi Merola, Studi, cit.,pp. 117 ss. ,e le  «considerazioni conclusive»  ( pp.137 ss. ); cfr. anche Iudicium, cit.,pp. 97 ss.;pp. 141 ss.

[175] Dibattito riassunto, con grande chiarezza, dallo G. Zagrebelsky, La giustizia,.cit.,pp. 28 ss.

[176] Si potrebbe considerarla come  “compromesso di classe” , mutuando questa locuzione, nel suo pregnante significato, da G.Zagrebelsky, La giustizia, cit.,pp. 23 ss.


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