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Potere e consenso |
Il termine "consensus"(participio
sostantivato di "consentio", composto di "sentio")
(1)
, esprime lidea di una comunanza di opinioni, di una comune mozione
psicologica: "sentire cum", ossia provare
insieme il medesimo sentimento. Questo valore semantico si manifesta nel linguaggio
comune, come dimostrano numerose testimonianze offerteci dalle fonti
letterarie (2)
. Così, ad esempio, tra le più risalenti, quella di Plauto, Pseud. 539: "Quid si hisce inter
se consenserunt... », e, tra le più recenti, quella di Cicerone, de
div. 2, 14, 34: « ...qua ex coniunctione naturae et quasi concentu
atque consensu, quam Graeci sump£qeian appellant... ». Questo significato permane anche in quegli impieghi che,
pur tratti dal linguaggio comune, fanno riferimento a concetti e nozioni
afferenti al diritto e, in genere, all'esperienza costituzionale romana,
arricchendosi, peraltro, di nuove coloriture e più articolate connotazioni. In questa prospettiva appare fondamentale il pensiero di
Cicerone, manifestato attraverso un complesso di testimonianze
alcune delle quali, scelte tra le più significative, esamineremo tra poco,
che assumono, a nostro giudizio, valore paradigmatico nei riguardi del
pensiero politico repubblicano e dell'ideologia che se ne pone alla radice.
Questo per due ragioni fondamentali: da una parte. perché, sfortunatamente,
non ci sono pervenute significative testimonianze di altri pensatori
dell'epoca repubblicana in materia; dallaltra perché è soltanto in Cicerone
che si manifesta una speculazione politico costituzionale complessa,
ricca di contenuti e organicamente articolata nelle sue molteplici
connotazioni e nei suoi numerosi riferimenti a vicende e strutture che
contraddistinsero lesperienza costituzionale repubblicana. Nel de re publica il consensus è
lelemento che caratterizza il populus, quale centro di imputazione di
potere, e vale a distinguerlo dalle aggregazioni umane contingenti e
disorganizzate. Nella celeberrima definizione offertaci nel primo libro, il populus
è, in effetti, la comunità dei cittadini organizzata sulla base del diritto e
della comune utilità. Cic., de re
publ. 1, 25, 39: « Est igitur... res publica res populi,
populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus sed coetus
multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus ». In altra occasione abbiamo sostenuto la tesi che il consensus
si ponga, nel pensiero ciceroniano, come elemento strutturale del vincolo
associativo che stringe tra loro i cives, configurando il populus
come iuris societas, e più precisamente come societas consensu
contracta (3)
. In questa prospettiva, nella quale la comunità politica
repubblicana si organizza sul modello della consimile societas privatistica,
della quale conserva gli elementi strutturali (4) , il consensus si riveste
della forma iuris, e si pone come fascio omogeneo di mozioni
psicologiche, le quali confluiscono in una manifestazione di volontà
collettiva (5)
. Questa volontà se, da una parte, è tecnicizzata dal ius
che nella definitio ciceroniana sopra trascritta vien dato come
presupposto , per altro verso è essa medesima produttiva di ius,
e pertanto è attraverso il consensus che il populus si pone
quale soggetto produttivo di « ordinamento »; ciò val quanto dire che il consensus,
ossia, in definitiva, il pactum, venga considerato come la
fonte di una specifica obligatio, e precisamente della obligatio
societatis che vincola reciprocamente i cives (contraenti) (6)
. E', per lappunto, un pactum nella specie il pactum
societatis((7)) , lelemento che si pone alla radice della
comunità politica, la quale subentra alla originaria condizione naturale
degli uomini. Cicerone si muove, in questa prospettiva, sulla medesima linea
in cui, in altri suoi scritti, sostiene che il pactum sia da
annoverare tra le fonti del ius rivestendosi di un valore positivo,
ossia costitutivo di situazioni giuridiche, come possiamo rilevare, ad es.,
da Part. orat. 37,130:
« Scriptorum autem privatum (scil. ius) aliud est, publicum
aliud. Publicum
lex, senatus consultum, foedus; privatum tabulae, pactum, conventum, stipulatio
». Ma è tempo di tornare al nostro tema. Se il consensus si pone, quindi, alla
radice della societas coetus, ossia, in definitiva, del populus;
se esso è lelemento strutturale che costituisce in populus una
comunità formatasi, per così dire, accidentalmente e tenuta insieme da
elementi occasionali e contingenti, ne deriva che, per l'appunto, sulla base
del consensus, il populus possa essere signore di sé medesimo e
si ponga come unico titolare di potere. In altri termini è in virtù del consensus che il populus
può dirsi, sia pure con terminologia non romana, «sovrano». Non è, al
riguardo, senza significato che Cicerone usi di frequente la locuzione «maiestas
populi» per esprimere la pienezza del potere che si incentra nel populus
(8)
. Possiamo, inoltre, sulla base di quanto siamo venuti
dicendo, intendere appieno come nella legge, nella quale Cicerone identifica
il vinculum societatis (9) , non si manifesti unicamente
il consensus del popolo, ma, in definitiva, la summa potestas
populi, ossia quella « sovranità » del populus cui or ora si è
accennato (10) . In questa prospettiva lo Stato ciò che i Romani
designano mediante la locuzione « res publica », si manifesta
realmente come res populi. La conseguenza è che allorquando il populus
cessi di appartenersi, ma divenga oggetto, res, del potere altrui, -
ciò che avviene fondamentalmente nella tirannide -, non si possa, a rigor di
termini, discorrere di res publica né, in definitiva, di consensus.
Al riguardo Cicerone si esprime in termini inequivocabili: de re publ. 3, 31, 43 : «Ergo ubi tyrannus
est, ibi non vitiosam... sed... dicendum est plane nullam esse rem publicam ». In effetti, la res publica è configurata da
Cicerone come res populi, - le due locuzioni sono sinonime -, sulla
base del consensus e della manifestazione normativa di questo consensus,
ossia della legge, nella quale Cicerone identifica, come si è detto, il vinculum
societatis. Nella legge, infatti, non si manifesta solamente il consensus
del popolo, ma, in definitiva, la summa potestas populi, ossia
quella « sovranità » del populus cui prima si è accennato. Ma la legge si pone anche come vinculum iuris, vera
e propria obligatio che stringe i cives in una societas. E
la societas civium - lo abbiamo pocanzi ricordato -, altro non è che
il populus, con il quale, per l'appunto, si identifica. Al riguardo è
nettissima la testimonianza che Cicerone ci fornisce nella parte iniziale del
medesimo brano poc'anzi esaminato: de re publ. 3,
31, 43: « Ergo illam rem populi, id est rem publicam, quis diceret tum cum
crudelitate unius oppressi sunt universi, neque esset unum vinculum iuris nec
consensus ac societas coetus, quod est populus» (11) . La tirannide, il dominatus - è
questo il termine usato da Cicerone -, è la negazione del consensus,
e quindi della legge e della stessa societas civium, ossia del populus.
Di fronte al dominus - si ponga mente alla pregnanza di
significati espressa da questo termine -, non vi sono cives, sibbene
res, schiavi, e quindi non vi è spazio per il consensus,
così come non vi è spazio per la iuris communio. E' il
consensus che fonda e costituisce la libertas populi. Viceversa, il concetto del rispetto della legge, anzi la
servitù nei riguardi della legge, è ciò che contraddistingue la libertas
populi. Lo afferma incisivamente Cicerone in un lapidario brano
dell'orazione pro Cluentio. 53,146: « ...legum ministri magistratus, legum
interpretes, iudices, legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi esse
possimus ». Cicerone riprende e arricchisce, in questo passo, un concetto
che già era stato espresso da Platone nella « Repubblica » e ribadito
nelle « Leggi »: la necessità che tutti, magistrati e
cittadini, siano doÚloi tîn nÒmwn, ossia « schiavi delle leggi ». Questa fedele e assoluta osservanza della legge è, in
effetti, la conditio sine qua dellesistenza medesima della libertas
populi e, quindi, in ultima analisi, del consensus. In questa prospettiva le esperienze costituzionali che,
nell'arco della storia plurisecolare della civitas, si concretano
nella negazione della libertas, si risolvono, in altri termini,
nella negazione del consensus. Questo avviene già nei primi tempi
della storia costituzionale repubblicana ad opera dei tentativi compiuti da
Spurio Cassio, Marco Manlio, Spurio Melio, volti ad acquisire ed esercitare
una perpetua potestas in populum. Peraltro, non mancano, nella storia della libera res
publica, altre esperienze costituzionali molto più recenti, le quali sono
caratterizzate dalla rottura tra potere e populus in termini di
consenso. Ci riferiamo, in particolare, alla dittatura sillana e alla
esperienza di potere che ebbe per protagonista M. Antonio. Per quanto riguarda la prima, Cicerone la qualifica in
termini inequivocabili. Nella tertia oratio de lege agraria egli così
definisce la lex Valeria de Sulla dittatore creando, rogata dallinterrex
L. Valerio Flacco, nellanno 82 a.C., ai comizi centuriati: de lege agr. 3,2,5 : « Omnium legurn inìquissimam,
dissimillimamque legis esse arbitror eam, quam L. Flaccus interrex de Sulla
tulit, ut omnia, quaecumque ille fecisset, essent rata. Nam cum ceteris in
civitatibus tyrannis institutis leges omnes exstinguantur atqtte tollantur,
hic rei publicae tyrannum lege constítuit » . Il regime istaurato da Silla non ha nulla in comune con
lantica dittatura, ma è, invece, una tirannide e, per di più, una
tirannide che ha ottenuto il crisma della legalità - meglio, una parvenza di
legalità -, mediante la legge. Si potrebbe pensare, a questo punto, che
l'investitura legislativa operata da Flacco non avesse escluso il consensus
populi nei riguardi di Silla, ma si trattava di uninvestitura soltanto
apparente e neppure ineccepibile sotto il profilo formale: sappiamo, infatti,
da altre testimonianze, che la lex cui allude Cicerone fu
sollecitata dallo stesso Silla, e intervenne a cose già fatte, con lunico
scopo di legalizzare a posteriori le riforme costituzionali e gli atti
già posti in essere dal dittatore. Questa legge non solo istituiva un tyrannus,
ossia un dominus (rex iniustus), ma parificava la
volontà di Silla alla legge, sostituendo alla volontà collettiva del populus
la manifestazione della volontà normativa di un solo. Al riguardo è assai
illuminante il commento dello scoliaste gronoviano al brano che abbiamo testè
esaminato: Schol. Gronov. 314, 125 (Ed. Stangl): « Valerius Flaccus
praetor (sic) Sullanis temporibus fuit. Hic tulit legem: quicquid Sulla
dixisset, lex esset ». Vien fatto di pensare al disposto della c.
d. lex de imperio Vespasiani, la quale ratificava in blocco,
comè noto, gli acta compiuti dal princeps - e, per quanto
riguarda lequiparazione della volontà di Silla alla legge -, alla omologa
teorizzazione compiuta dalla giurisprudenza della tarda età classica nei
riguardi della volontà del princeps (cfr. Ulpiano, l. primo inst.,
D. 1,4,1, pr.). Ma, tornando a Siilla, abbiamo testè veduto come la sua
esperienza di potere, nella rappresentazione che ne offre Cicerone, venga
considerata quale tirannide. Peraltro, Cicerone non esita, in altre testimonianze, a
identificarla col regnum, ricollegandosi, in questo modo, a
quel che aveva già sostenuto nel de re publica. Così, ad esempio, in ad
Att. 8, 11, 2: « Genus illud Sullani regni iam pridem appetitur,
multis qui una sunt cupientibus... ». e ancora in Phil. 5,6,17: « ...quod neque
reges nostri fecerunt, neque ii qui, regibus exactis, regnum occupare voluerunt.
Cinnam memini, vidi Sullam, modo Caesarem: hi enim tres post civitatem a L.
Bruto liberatam plus potuerunt quam universa res publica (12)
. Il significato di queste testimonianze è univoco: il
potere di cui Silla appare munito si pone in contrasto con la res populi e
si pone altresì come negazione della libertas e, in definitiva, del consensus. Non diversamente stanno le cose quanto ad Antonio. Scorrendo le Filippiche, in diversi passi emerge
la discrepanza tra il potere esercitato da Antonio e lassetto costituzionale
della Repubblica. Così in Phil. 3, 4, 8 9: « Neque enim
Tarquinio expulso maioribus nostris tam fuit optata libertas quam est depulso
Antonio retinenda nobis. Illi regibus parere iam a condita
urbe didicerant, nos post reges exactos servitutis oblivio ceperat... L. Brutus regem superbum non
tulit; D. Brutus sceleratum atque impium regnare patietur ! », Phil. 5, 16, 44: « Illius (scil. Pompei) opibus
Sulla regnavit, huius (scil. Gai Caesaris) praesidio Antoni dominatus
oppressus est », Phil. 8, 4, 12: « Quae causa iustior est belli
gerendi quam servitutis depulsio? », e, infine, in Phil. 13, 8,
17: « Nam si ipse servire poterat, nobis dominum cur imponebat? et
si eius pueritia pertulerat libidines eorum qui erant in eum tyranni, etiamne
in nostros liberos dominum et tyrannum comparabat? ». Da questi brani risulta evidente un contesto che
dimostra come il regime istaurato da Antonio nullaltro sia se non una species
di dominatus, ossia un regnum vero e proprio. Con Antonio
rivive, in effetti, il regnum ma, si badi, non il iustum regnum delle
origini, sibbene il regnum iniustum, che, come si è detto, si
identifica con la tirannide. In effetti, il regnum - che pure è
considerato uno status rei publicae, ossia una modalità organizzativa
della comunità politica -, non costituisce una forma civitatis che si
opponga, in linea di principio, alla libertas del populus, a
patto che il rex, beninteso, non si trasformi in un dominus (iniustus). Questa degenerazione del regnum si manifesta,
conformemente alla tesi platonico-aristotelica, ogni qual volta il rex non
governi nell'interesse dei governati, sibbene nel proprio interesse; ossia,
in altri termini, ogni qual volta il rex non conformi il suo potere
alla legge. Nel momento in cui ciò avviene, la forma civitatis che si
identifica nel regnum degenera nella tirannide (dominatus iniustus),
e si concreta nella negazione della libertas. Ciò si induce, a
contrario, da quel che Cicerone osserva nei riguardi del regnum, là
dove afferma in de re publ. 2, 23, 43: « ...desunt omnino ei populo
multa qui sub rege est, in primisque libertas, quae non in eo est ut iusto
utamur domino, sed ut nihilo... ». E ancora, la qualifica di « iniustus dominus »
che Cicerone assegna al rex, vale a meglio precisare il
processo degenerativo che trasforma il regnum in tirannide: il tiranno
è, in effetti, un dominus iniustus, ossia che non conforma il suo
potere al ius. A questo punto occorre rilevare, peraltro, che a una
netta orientazione del suo pensiero in materia non corrisponde, in Cicerone,
una terminologia altrettanto rigorosa: lo dimostra l'uso non univoco del
termine « dominus », che è talvolta riferito al rex iustus,
talaltra al rex iniustus, ossia al tiranno, come avviene, ad
esempio, in de re publ. 2, 26, 47: «Videtisne igitur ut de rege
dominus extiterit, uniusque vitio hoc genus rei publicae ex bono in
deterrimum conversum sit? hic est enim dominus populi quem Graeci tyrannum
vocant ... »,e in de re publ. 2, 27, 49: « Habetis igitur
primum ortum tyranni; nam hoc nomen Graeci regis iniusti esse voluerunt... ». Queste considerazioni impediscono di ravvisare alla base
del potere esercitato da Antonio un consensus del populus. Al contrario, il populus è caduto, ancora una
volta, in una dura servitù, simile a quella cui venne ridotto dallultimo
Tarquinio e, in seguito, da quanti si arrogarono, esercitandolo nella
parvenza di una formale legalità repubblicana, un potere dispotico: Cinna,
Silla, Cesare. Gli exempla di iniusta regna che questi uomini
introdussero in Roma, con la violenza e con larbitrio, rivivono ora nel dominatus
istaurato da Antonio. Al populus non rimane che servire: non vi è,
ormai, posto per la libertas, ossia per la partecipazione consapevole
e responsabile di tutti i cives alla gestione della res publica. Le opinioni espresse da Cicerone trovano riscontro
puntuale in alcune notazioni di Livio, sebbene questultimo identifichi
senz'altro il regnum col dominatus, e definisca come servitus
la condizione del populus sottoposto al potere del rex. Al riguardo Livio ci offre una testimonianza
ineccepibile, descrivendo gli eventi prodottisi in seguito alla scomparsa di
Romolo e allistituzione dellinterregnum: 1, 17, 7: « ...fremere
deinde plebs, rnultiplicatam servitutem, centum pro uno dominos f
actos... », e, daltra parte, il regnum viene opposto alla libertas
populi, come avviene in 1, 17, 3: « ...in variis voluntatibus
regnari tamen omnes volebant libertatis dulcedine nondum experta
». Viceversa, il tema del consensus, inteso quale
manifestazione della volontà collettiva del populus, appare anche in
Livio, allorquando, narrando dell'avvento al regno del primo Tarquinio,
afferma (1,35,6) « eum (scil. Tarquinium) haud falsa
memorantem ingenti consensu populus Romanus regnare iussit ». La res publica è ormai divenuta una imago sine
re, un mero flatus vocis: non a caso Cicerone, rimpiangendo i
tempi doro della costituzione repubblicana, discorre di una res publica
amissa: de re publ. 5, 1, 2: « ...rem publicam verbo
retinemus, re ipsa vero iam pridem amisimus... ». Lopposizione talvolta violenta del populus mira,
in effetti, a recuperare la libertas e, insieme con questa, il consensus;
mira, in altri termini, a rendere il populus signore di sé medesimo.
In questo caso ben può affermarsi che il popolo torni ad occupare la sua
res, come attesta Cicerone in de re publ. 3, 32, 44: « ...populi
nulla res erat, immo vero id populus egit ut rem suam
recuperaret ». Il tema della recuperatio libertatis, del recupero
della res populi, ritorna in più luoghi delle Filippiche. Così
in Phil. 3, 8, 19: « Quae sunt predita consilia? an ea
quae pertinent ad libertatem populi Romani recuperandam? », e in Phil.
3, 11, 29: « Quapropter, quoniam res in id discrimen adducta
est utrum ille (scil. Antonius) poenas rei publicae luat an nos
serviamus, aliquando... patrium animum virtutemque capiamus, ut aut
libertatem propriam Romani et generis et nominis recuperemus aut mortem
servituti anteponamus », e ancora in Phil. 4, 5, 11: « ...sic
ego vos (Quirites) ardentis et erectos ad libertatem recuperandam cohortabor
»,
», e infine in Phil. 5, 12, 34: « Haec si censueritis, patres
conscripti, brevi tempore libertatem populi Romani... recuperabitis ». Il mancato recupero della libertas populi non ha
altro esito che la servitus. Per questa ragione la condotta politica
di Cicerone nei riguardi di Antonio è ispirata a questa esigenza
fondamentale: la difesa della libertà repubblicana, il recupero del consensus
e della conseguente concordia ordinum. In questa prospettiva deve intendersi il sostegno dato a
quanti hanno impugnato le armi contro Antonio, siano essi magistrati o
semplici privati, e il favore accordato, sin dall'inizio della sua azione
politica, a Gaio Cesare Ottaviano, il futuro princeps. L'opera di costoro ha, infatti, conseguito il risultato
più ambito: la liberazione del populus da una pesante e ingiusta
servitù. In questo ordine di idee non potrebbe rivelarsi più significativa la mozione rivolta al senato, allindomani della vittoria del 15 aprile 43, con la quale Cicerone propone che vengano tributati ringraziamenti e ampie lodi ai vincitori di Antonio « eorum virtute, imperio, consilio, gravitate, constantia, magnitudine animi, felicitate populum Romanum f oedissima crudelissimaque servitute liberatum ». |
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