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Per una funzione “strumentale” del diritto romano
in materia di possesso

di Matteo Marrone


in: Studi in memoria di Giambattista Impallomeni, Trieste,
febbraio 1997 (Milano, 1999), pp. 299 ss.


1. Che lo studio del diritto romano quale studio storico trovi in sé la sua ragion d’essere, e non si giustifichi per una pretesa funzione strumentale rispetto al diritto positivo, è oggi un punto fermo, e nessuno più lo mette in discussione. Ma è pure vero che , in talune materie, specie nella maggior parte di quelle regolate dai codici civili, si può bene riconoscere, e in effetti si riconosce, agli studi romanistici anche una funzione che non esito a qualificare «strumentale», dato l’innegabile ruolo che il diritto romano, ed insieme la tradizione romanistica, assumono nella valutazione e spiegazione di tante delle soluzioni codicistiche. Basti pensare, a tacer d’altro, all’esigenza - particolarmente messa in luce da un giurista, Riccardo Orestano, che più di ogni altro si prodigò nel negare il valore strumentale del diritto romano (1) - di prendere le mosse dalla «storia del problema» per la soluzione di questioni giuridiche del presente (2); ché la «storia del problema», quando si tratta di questioni di diritto privato patrimoniale dipendenti dal codice civile, ci porta solitamente indietro di millenni, sino al diritto romano (considerato, naturalmente, in taluno dei momenti della sua più che millenaria evoluzione). È questo un motivo che piaceva tanto al caro Titta, che oggi qui siamo chiamati a ricordare ed onorare.

Diversi sono, in proposito, i possibili punti di vista, e diversi i possibili risultati. Impallomeni privilegiava l'aspetto per cui il diritto romano giustinianeo mantiene valore nella misura in cui consente di integrare le normative civilistiche dei paesi di tradizione giuridica romanistica, in considerazione del fatto che i relativi codici, nell'esprimere, in articoli, princìpi e soluzioni del Corpus juris, hanno lasciato necessariamente fuori tante fattispecie presenti nella compilazione giustinianea; fattispecie spesso, nelle fonti giuridiche romane, decise alla luce di princìpi che in quei codici sono evidentemente presupposti (3).

Altra è la via battuta da chi ha rilevato come la spiegazione di sistematiche, impostazioni e soluzioni, talvolta incongruenze che è dato riscontrare nel codice civile italiano del 1942 sia anzitutto storica dovendosi tale spiegazione cercare nelle fonti romane e negli scritti degli autori della tradizione romanistica (4). Qualche volta, nello stesso codice, è possibile addirittura cogliere impostazioni e soluzioni dipendenti da premesse romanistiche non più valide; relitti storici quindi, che il legislatore del `42 accolse nel codice per un malinteso e non controllato ossequio alla tradizione del diritto romano; relitti, peraltro, su cui i civilisti di oggi continuano talvolta ad arrovellarsi con difficoltà e senza riuscire a venirne a capo, intenti a dare significato ad ogni costo a norme che nel sistema del codice civile appaiono ormai, per le dette ragioni storiche, evidentemente stonate (5).

Ma più spesso tra diritto romano e diritto civile è dato verificare continuità, e quindi convergenze, e l'indagine storica consente di intendere le ragioni di base delle disposizioni che al riguardo vengono in considerazione. I risultati di questo mio discorso, se fondati, saranno in una direzione ancora diversa: mi è parso infatti di potere ravvisare in materia di possesso, tra diritto romano e diritto civile odierno, soluzioni che appaiono diverse ma che, ad un'attenta analisi, si rivelano essere in larga misura sostanzialmente coincidenti. Riguardano aspetti per i quali le esigenze di fondo non sono mutate. L'apparente diversità dipende dal fatto che sono invece profondamente mutate le situazioni sociali e sono cambiati i parametri.

2. Due sono i punti su cui desidero richiamare l'attenzione. Ecco il primo.

Si può ormai convenire, ritengo, che nel diritto romano, anche nell'ultima fase del suo svolgimento, non si pervenne ad una concezione unitaria del possesso. Talché, a seconda degli effetti - ad es., ad usucapionem, ad interdicta -, le figure dei possessores potevano essere diverse. Ad una rappresentazione unitaria pervennero gli interpreti nell'età intermedia, e ad una rappresentazione unitaria si sono attenuti molti codici moderni: certamente il codice civile italiano del 1942. Qui il possesso è stato definito, a tutti gli effetti, come «potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale» (art. 1140 cod. civ.). Di conseguenza viene negato, ad esempio, che siano possessori i conduttori: a costoro, e quindi agli inquilini, agli affittuari di fondi rustici, ai coloni, ai mezzadri, si riconosce la detenzione, non il possesso. Una detenzione però qualificata, autonoma, nel proprio interesse. Ho parlato di affittuari di fondi rustici, coloni e mezzadri: d'ora innanzi, per semplicità espositiva, dirò semplicemente affittuari, comprendendo in questa dizione anche coloni e mezzadri.

Sono tutti, dicevo, insieme agli inquilini e ad altri soggetti, qualificati detentori autonomi, nel proprio interesse: questa ulteriore qualificazione si fa derivare dall'art. 1168 cod. civ., che ammette all'azione di reintegrazione nel possesso sia possessori sia detentori, questi ultimi però sempre che non detengano per ragioni di servizio o di ospitalità. Ebbene, chi detiene per ragioni di servizio o di ospitalità non è ritenuto essere detentore autonomo: non è ammesso pertanto all'azione di reintegrazione; alla quale sono invece legittimati i detentori autonomi. Tra questi, ripeto, affittuari e inquilini.

3. Per diritto romano le cose stavano diversamente.

Non credo si possa dubitare che, rispetto ad affittuari ed inquilini di oggi, le figure corrispondenti delle fonti giurisprudenziali romane cui è dato pensare immediatamente sono i coloni e gli inquilini: ché a coloni e inquilini rinvia non solo il suono delle parole ma anche e soprattutto il fatto che lo schema contrattuale che per essi viene in considerazione nel diritto romano classico e a cui si riferivano le fonti giurisprudenziali che qui vengono in considerazione è quello della locatio conductio, che è la matrice comune delle moderne locazione, affitto, etc.

Ora, a coloni ed inquilini le fonti giuridiche romane negano categoricamente il possesso, o comunque ogni possesso giuridicamente rilevante, e quindi anche la legittimazione all'interdictum unde vi, lo strumento giudiziario sostanzialmente corrispondente all'odierna azione di reintegrazione (6).

La conclusione che più o meno esplicitamente si suole trarre è pertanto che, nel passaggio, attraverso il diritto intermedio, dal diritto romano giustinianeo al sistema del nostro codice civile, l'ambito dei soggetti direttamente tutelati contro lo spoglio si sia esteso: dai possessori del diritto romano ai possessori e detentori dell'art. 1168 cod. civ. Talché, in caso di spoglio, la tutela possessoria, negata a coloni e inquilini del diritto romano, viene invece riconosciuta agli affittuari e agli inquilini di oggi.

4. Questa affermazione va opportunamente ridimensionata: esatta nella sua formulazione letterale, nella sostanza distorce la verità storica. La ragione è che i parametri per il riconoscimento del possesso sono oggi diversi da quelli di ieri; e ancor più diverse sono le due realtà: quella di affittuari e inquilini di oggi e quella di coloni ed inquilini del tempo al quale si riferiscono le fonti romane.

É a tutti nota, infatti, la posizione di indipendenza nella gestione dell'immobile e la situazione di stabilità nel rapporto, e quindi di stabilità rispetto allo stesso immobile, che oggi, anche a prescindere dalla legislazione speciale in materia, si riconosce agli affittuari e agli inquilini.

Affatto diversa la situazione dei coloni e degli inquilini quale appare dalle fonti giurisprudenziali classiche accolte nel Corpus juris. Ché, almeno per la generalità dei casi, si deve ritenere che essi, inferiori socialmente ed economicamente al locatore, fossero nei suoi confronti in una posizione di dipendenza e subordinazione (7).

Né è senza significato, riguardo sia agli uni che agli altri, il fatto che il locatore mantenesse in ogni caso libero accesso all'immobile.

Quanto ai coloni, giova richiamare due testi, molto noti, di Marcello e Papiniano: D.43.16.12 e D.43.16.18 pr. La fattispecie comune ai due passi è quella del colono il quale non ammetta nel fondo il compratore, che è stato dal locatore autorizzato a prendere possesso: questo comportamento è ritenuto del tutto equivalente a quello del colono che vieti l'ingresso nel fondo allo stesso locatore; al quale, pertanto, si dà l'interdictum unde vi. Il giurista dà quindi per scontato che è illegittimo il comportamento del colono il quale proibisca al locatore l'ingresso nel fondo locato.

Che fosse del pari illegittimo l'impedimento opposto dall'inquilino al locatore che intendesse entrare nel locale dato in locazione risulta quanto meno da D.43.17.3.3, di Ulpiano, dove al locatore, impedito di aedes reficere, è dato l'interdictum uti possidetis. Singolare è il caso, testimoniato da altro passo ulpianeo, D.19.2.19.5, dove si dice del locatore che restringe il vano d'ingresso al locale, così impedendo all'inquilino di portare via la propria arca aerata. Sembra, d'altronde, che tutto quel che l'inquilino avesse introdotto nell'immobile fosse soggetto alla perclusio del locatore; il quale era autorizzato a prenderne possesso con atto di autodifesa, salvo i limiti derivanti dall'interdetto de migrando (8).

Ciò che emerge dalle fonti è pertanto che il libero accesso all'immobile locato, quanto meno nel caso di coloni ed inquilini, non era una facoltà al locatore riconosciuta in astratto e in effetti poco o niente esercitata ma, al contrario, una realtà quotidiana. Lo conferma l'accostamento, che si fa in non pochi luoghi del Digesto, tra coloni e inquilini da una parte e servi, procuratori, amici, ospiti, medico, e persino qui ad visitandum dominum venit dall'altro (9) (i quali tutti, ovviamente, non detenevano in maniera esclusiva).

Ecco quindi che a coloni e inquilini non solo non si riconobbero gli effetti giuridici propri del possesso, ma, in termini di `detenzione' (una categoria giuridica estranea alle fonti romane), neanche si riconobbe loro il diritto alla detenzione esclusiva del bene. Detentori sì, ma non in via esclusiva.

È questa una situazione di tipo possessorio che trova talvolta riscontro nell'esperienza giuridica di oggi (10), e che io a suo tempo rilevai essere propria anche dell'usufruttuario del diritto romano (11); oltre che di coloni, inquilini e missi in possessionem (12). Una situazione possessoria che a mio giudizio dà conto, qualche volta più che altri elementi, del fatto che a questi soggetti fu negata la legittimazione attiva agli interdetti uti possidetis e unde vi.

Quanto a coloni ed inquilini, tuttavia, più che il carattere non esclusivo della detenzione, dovette avere un ruolo determinante per escluderne la tutela possessoria la posizione di dipendenza dal locatore. La quale comportava naturalmente, rispetto all'immobile condotto in locazione, provvisorietà ed instabilità. Cosicché ad essi, a differenza che ad usufruttuari e missi, (13) a garanzia della pacifica effettiva permanenza sul fondo non si diede in assoluto alcuna tutela interdittale di tipo possessorio, né contro terzi né contro lo stesso locatore: ad agire contro i terzi autori dello spoglio era ammesso, infatti, solo il locatore (14); né coloni ed inquilini, espulsi dal locatore, avrebbero avuto contro costui alcuna difesa sul piano possessorio: l'unico rimedio utile sarebbe stato l'azione contrattuale per l'id quod interest.

5. In merito alle ragioni per le quali a coloni ed inquilini si negò ogni tutela possessoria, e con essa la qualifica di possessori, giova ancora osservare quanto segue. Allo stesso risultato sarebbe stato del tutto naturale giungere con i metodi e i concetti propri degli operatori del diritto di oggi, i quali fanno dipendere il riconoscimento del possesso dal confronto con una nozione astratta di esso corrispondente a quella codificata. Ma fu del tutto naturale anche per i Romani i quali, per il riconoscimento della tutela possessoria, procedettero - così mi sembra di potere ritenere - sulla base di non espressi criteri di opportunità sì che la difesa giudiziaria con gli interdetti possessori risultasse concessa a quanti, anche per il fatto di avere rispetto alla cosa una posizione indipendente, ne fossero ritenuti giuridicamente e socialmente meritevoli. Talché possiamo azzardare l'ipotesi - che nessuno potrà mai né confermare né smentire - che, se il regime giuridico di coloni ed inquilini del mondo romano fosse stato come quello degli affittuari e inquilini di oggi, i Romani non avrebbero esitato ad ammetterli all'interdetto unde vi. E viceversa, si può supporre che i coloni e gli inquilini di ieri non sarebbero oggi ammessi all'azione di reintegrazione. Su quest'ultimo punto tornerò poco più avanti.

Intanto rilevo che, a volere comparare diritto romano e diritto vigente, le soluzioni rispettive appaiono al contempo divergere e convergere: divergere, perché differenti sono i parametri per l'attribuzione delle qualifiche possessorie e sono differenti, pur nell'identità delle relative denominazioni, le figure dei soggetti considerati. Convergere, perché uguali appaiono le esigenze di fondo e i risultati che se ne fanno derivare.

Può giovare a conferma di ciò richiamare quanto deciso dalla S. C. di Cassazione nella sentenza n. 4403 dell'agosto del 1985 (15): «La locazione di una camera mobiliata cui acceda la prestazione di servizi configura un contratto atipico di alloggio nel quale non può configurarsi in capo al conduttore un vero animus detinendi con conseguente esclusione della tutela possessoria in caso di sua estromissione forzosa». Noi diciamo: la situazione dei conduttori di stanze mobiliate non è comparabile a quella dei veri e propri inquilini. Si tratta di detentori, nessun dubbio, ma non di ospiti, né tanto meno di soggetti che tengano la camera presa in locazione per ragioni di servizio: dovrebbero essere pertanto ammessi all'azione di reintegrazione. Tuttavia la giurisprudenza, evidentemente assimilandoli agli ospiti, li considera detentori non autonomi e nega loro l'azione di reintegrazione. Ecco: a quei detentori che appaiono a noi più simili agli inquilini delle fonti romane anziché ai comuni inquilini di oggi la giurisprudenza nega la tutela possessoria; così come pretore e giuristi romani negavano agli inquilini l'interdictum unde vi. Di fronte a realtà analoghe, le soluzioni sostanzialmente coincidono.

Più coerente appare l'impostazione romana, per cui la tutela possessoria si dà ai possessori, e si nega ai non possessori. Oggi, con una norma collocata nella sedes materiae del possesso, si dà tutela possessoria a soggetti cui la qualifica possessoria è negata. L'incongruenza deriva da quel che siamo andati dicendo in merito alle figure di taluni c.d. detentori e al carattere unitario che la tradizione romanistica, fondamentalmente recepita dal legislatore del `42, è andata attribuendo all'idea del possesso.

6. Il discorso che si è fatto sin qui consente di soffermarci brevemente su un altro punto, pure esso riguardante la dottrina del possesso.

Anche questa volta possiamo prendere le mosse da una norma del codice civile del 1942, l'art. 948 (sostanzialmente corrispondente, per quanto qui interessa, all'art. 439 del cod. del 1865). Riguarda l'azione di rivendica, e vi si dice che essa può essere esercitata sia contro i possessori sia contro i detentori. La norma però, in relazione a quanto disposto dallo stesso codice civile negli articoli 1586 e 1777 (a proposito di conduttori e depositari), deve essere interpretata restrittivamente, nel senso che il detentore convenuto possa laudare actorem, il possessore-dante causa intervenire nel giudizio e il detentore esserne estromesso. E in tal senso, in effetti, si è pronunziata in termini generali la Corte di Cassazione. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha però opportunamente interpretato la norma in modo restrittivo consentendo al detentore, convenuto da un terzo, di laudare auctorem sì che questi possa esser chiamato a intervenire nel giudizio e il detentore esserne estromesso (16).

Questo regime appare derivato dalla fonti romane. Da esse deriva certamente la possibilità, offerta al detentore, di provocare l'intervento in giudizio del possessore-dante causa. Fu stabilita da Costantino nel 331 (C.3.19.2) ed era stata sempre tenuta presente dalla tradizione romanistica.

Ignorata dal codice civile, è stata fatta rivivere in via di interpretazione dalla giurisprudenza della S.C.

Ma interessa di più adesso la norma così come è espressa nel codice civile, per cui all'azione di rivendica si dicono passivamente legittimati possessori e detentori. Anch'essa dipende da un dato delle fonti romane (17), in questa materia sempre tenuto in primo piano dalla tradizione romanistica. Solo che si tratta di un dato che è stato per secoli pressoché da tutti falsamente interpretato. Possiamo dire pertanto che l'attuale formulazione dell'art. 948 è dipesa da un equivoco.

Il testo che in proposito viene in considerazione è il notissimo D.6.1.9 (Ulp. 16 ad ed.). È qui che Ulpiano, premesso che era compito del giudice dell'azione di rivendica verificare se il convenuto avesse il possesso della cosa rivendicata, riferiva che in proposito per alcuni giuristi (quidam), tra i quali Pegaso, si dovesse avere riguardo alla possessio rilevante (quae locum habet) negli interdicta uti possidetis e utrubi; con la conseguenza di negare la rivendica contro depositari, comodatari, conduttori e missi in possessionem. A ciò Ulpiano contrapponeva il suo punto di vista, per cui la rivendica avrebbe potuto bene essere esercitata contro tutti quanti tenent et habent restituendi facultatem.

Ebbene, per lungo tempo il testo è stato interpretato nel senso che Ulpiano, a differenza dei quidam e di Pegaso, ammettesse la rivendica contro tutti i detentori, ad ogni detentore dovendosi riconoscere quella facultas restituendi che Ulpiano riteneva sufficiente per la legittimazione passiva alla rivendica. E poiché quella di questo giurista appare essere la dottrina dei compilatori del Digesto, ecco che, nonostante le evidenti difficoltà che la soluzione in concreto sollevava a fronte della generalità dei casi di rivendica del terzo (18) , nella dottrina dell'età intermedia si consolidò l'idea per cui, nel diritto giustinianeo, e quindi nel diritto comune, la rivendica è ammessa contro possessori e detentori (19). Donde l'uguale soluzione di alcuni codici moderni.

La stessa interpretazione di D.6.1.9 è stata data per scontata da quegli studiosi che dai primi anni di questo secolo hanno, sulle orme del Siber, condannato come spurie le parole finali di D.6.1.9, da puto alla fine (20).

Ma a me sembra di avere dimostrato, dapprima in un breve articolo pubblicato nel 1970 negli Studi in onore di Gioacchino Scaduto (21) - che il testo di D.6.1.9 non può essere interpretato così come era stato generalmente inteso. A parte il fatto che in esso non si dà la rivendica contro quanti rem tenent, e neanche contro quanti restituendi facultatem habent, ma si esige congiuntamente e il tenere e la facultas restituendi, sicché è difficile ritenere che con questa espressione composita si volesse fare riferimento a chiunque comunque tenesse la cosa, a parte ciò, la trama del testo - affermazione dell'esigenza del possesso nel convenuto, interpretazione restrittiva di Pegaso e dei quidam circa il significato di possesso nella rivendica, contrapposizione (mediante autem) di un diverso punto di vista - la trama del testo, dicevo, mostra che, lungi dallo smentire quanto affermato all'inizio (che cioè la rivendica si dà contro il possessore), con le parole finali il giurista intendeva significare che, ai fini di cui si tratta, dovevano essere considerati possessori tutti quanti rem tenent et habent restituendi facultatem((22)).

Con questa espressione, d'altronde, non era fatto riferimento a chiunque avesse una qualsiasi relazione di fatto con la cosa, ma a chi, tenendo la cosa, fosse in qualche modo `legittimato' a restituirla, sì che, per l'effettuata restituzione, non dovesse rispondere ad alcuno. Vi rientravano, almeno di norma, i possessores riconosciuti tali ai fini della difesa interdittale ma vi rientravano anche altri: tra essi, il filius familias in ordine alle cose peculiari, il depositario che avesse convenuto col deponente di restituire al proprietario la cosa depositata, e pochi altri (23) (in ogni caso detentori a nome di un terzo: per i detentori a nome dell'attore non si pose problema: la rivendica contro di essi, pure se poco pratica, non fu mai negata (24) ). Così intesa, la soluzione affermata nella chiusa di D.6.1.9 appare del tutto coerente con la regola espressa nella parte iniziale del testo (necessità, per il giudice, di verificare se il convenuto possegga); e appare coerente con le centinaia di passi del Digesto dove la rivendica è data contro possessori interdittali, e solo eccezionalmente contro altri cui tuttavia possa riconoscersi nient'altro che la facultas restituendi; ché anche costoro, non possessori ai fini della difesa interdittale, finirono per essere considerati possessori ai fini della legittimazione passiva alla rivendica (25).

7. La soluzione dell'ultimo diritto classico, mantenuta nel diritto del Corpus juris, è pertanto questa: la rei vindicatio deve essere rivolta contro il possessore, ma tra i possessori, a tal fine, deve farsi rientrare anche chi, tenendo la cosa, ne abbia la facultas restituendi. La sfera dei soggetti convenibili risulta così diversa da quella dei possessori ad interdicta, ma solo marginalmente.

Fu per non avere inteso ciò, in dipendenza quindi di una falsa interpretazione di D.6.1.9, che nel diritto intermedio, come ho già detto, si proclamò la legittimazione passiva alla rivendica anche di ogni detentore; con la conseguenza che la regola è passata a taluni codici moderni.

Resta vero, però, che i detentori i quali, sia pure in modo autonomo, detengano a nome di altro soggetto, da essi riconosciuto effettivo possessore -, e quindi anche gli affittuari e gli inquilini di oggi -, appaiono essere, almeno normalmente, le persone meno adatte a resistere alla rivendica intentata da un terzo. Ed ecco che il nostro codice civile, da un canto ha ammesso la rivendica anche contro il detentore (art. 948), dall’altro ha stabilito che conduttori e depositari possano essere estromessi dal giudizio sì che l’azione si svolga nei confronti del solo possessore-dante causa. Onde l’interpretazione restrittiva del citato articolo 948 cod. civ. cui si è fatto cenno più in alto: sì, perché riconoscendo che, previa laudatio auctoris, i detentori convenuti possano essere estromessi dal giudizio si nega in buona sostanza che essi siano passivamente legittimati a resistere all'azione di rivendica; o, comunque, si limita notevolmente la portata della norma che ammette la rivendica contro di essi, escludendone praticamente l'applicazione ai casi più frequenti.

Nella sostanza si è inconsapevolmente tornati al regime delle fonti giuridiche romane correttamente interpretate.

Ed ecco che la giurisprudenza della Cassazione ha ragionevolmente interpretato in modo restrittivo la regola circa la legittimazione passiva dei detentori alla rivendica. Sì, perché stabilendo che, previa laudatio auctoris, i detentori convenuti debbano essere estromessi dal giudizio la giurisprudenza ha in buona sostanza negato loro la legittimazione a resistere all'azione; o comunque ne ha notevolmente ristretto la portata, escludendone praticamente l'applicazione ai casi più frequenti.

Nella sostanza si è inconsapevolmente tornati al regime delle fonti giuridiche romane correttamente interpretate. Solo che, in dipendenza della unità del concetto di possesso recepita dal codice, si parla di possessori e detentori. Né saprei individuare detentori contro cui, alla stregua dei possessori che rem tenent et habent restituendi facultatem del testo ulpianeo, l'azione di rivendica possa oggi essere non solo iniziata ma anche continuata.

Ecco quindi che, anche a questo proposito, è dato constatare come, dal diritto romano al nostro diritto positivo, l'esigenza di fondo sia rimasta uguale. L'esigenza è che, tra quanti abbiano relazione di fatto con la cosa, l'azione sia data contro coloro che sono più idonei a resistere e contraddire. Uguale esigenza, soluzioni sostanzialmente corrispondenti. Le diversità sono più apparenti che effettive: dipendono anche questa volta, in buona misura, dalla diversa concezione del possesso. L'indagine storica, ancora una volta, ci aiuta a capire.

© Matteo Marrone
Dipartimento di Storia del Diritto
Università di Palermo

 


Note:

1 V., soprattutto: ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987.
2 Basti qui richiamare ORESTANO, Il problema delle fondazioni in diritto romano, I, Torino, 1959, 210 ss., e le altre opere dello stesso a. richiamate da MARRONE, Problemi delle obbligazioni.: una rilettura in chiave storica., in Riv. critica del dir. privato, 1988, VI, 785 nt. 3.
3 V., soprattutto, IMPALLOMENI La validità di un metodo storico-comparativo nell'interpretazione del diritto codificato [prolusione tenuta a Mogadiscio il 3.9.1970 nell'Aula Magna dell'Univ. Nazion. della Somalia in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico 1970-71], in Rivista di Diritto Civile, 17, 1971, 369 ss.; ora in Scritti di diritto romano e tradizione romanistica (a cura della Facoltà di Giurisprudenza di Padova), Padova ,1996, 287 ss.
4 V., in quest’ordine di idee, GIUFFRE', La datio mutui. Prospettive romane e moderne, Napoli, 1989; dello stesso a., L'emersione dei «iura in re aliena» ed il dogma del numero chiuso, Napoli, 1992; Il diritto dei privati nell'esperienza romana, Napoli, 1993; v. pure, con ampie citazioni di letteratura, VALENTINO, Romanistica e codice civile. Spunti per l'analisi di uno storico «connubium», in Labeo, 41, 1995, 181 ss.; e, prima ancora, GIUFFRÉ, Vicende del divieto di «donatio inter virum et uxorem», in Atti Accad. Napoli, 1972, LXXXIII, 3 ss., 18 ss. dell’estr.
5 Cfr. MARRONE, Problemi delle obbligazioni cit., 785 ss.;
6 Per vero, D.43.16.1.9.(Ulp. 69 ad ed.) ammette all’interdictum de vi armata i possessori naturali: e quindi - si è indotti a pensare - anche i coloni, ai quali in qualche testo - in D.41.5.2.1 (Iul. 44 dig.) e in D.10.3.7.11 (Ulp. 20 ad ed.) - viene riconosciuta la possessio naturalis: v. infatti ALBANESE, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano, Palermo, 1985, 57 note 187 e 188). Per diritto classico, tuttavia, è a dire che il fr. 1.9 viene dai più ritenuto interpolato: v., ad es., NICOSIA, Studi sulla deiectio, I, Milano, 1965, 14 ss.: secondo questo autore - come già per Riccobono, Albertario, e altri - l’originale ulpianeo di D.43.16.1.9 avrebbe fatto riferimento alla possessio iniusta, talché non sarebbe genuino, nello stesso passo, il riferimento alla possessio naturalis.
7 Così, da ultimo, per quanto riguarda i coloni: CAPOGROSSI COLOGNESI, Ai margini della proprietà fondiaria², Roma, 1996; e già, dello stesso a., Grandi proprietari, contadini e coloni nell'Italia romana (I-III D. C.), in Società romana e Impero tardoantico. Istituzioni, ceti, economie, Bari, 1986. Emerge d'altronde dalle fonti come le locazioni di immobili a privati riguardassero in maggior misura coloni e inquilini. - Non appare motivata l'affermazione di MURGA, La «perclusio locatoris» come «vis privata» legitima, in RIDA, 34, 1987, 243 nt. 20, per cui quella dei coloni sarebbe stata, di norma, una posizione economica agiata, o comunque, dal punto di vista economico, non paragonabile a quella degli inquilini. - Per la posizione di dipendenza degli inquilini: MURGA, loc. cit..; e già POLARA, Inquilini qui praedio adhaerent ed aestimatio di un legato nullo, in BIDR, 1969, LXXII, 139 ss.
8 Sulla perclusio del locatore, in vario senso: MURGA La «perclusio locatoris» cit., LA ROSA, La protezione interdittale del pignus e l'actio Serviana, in Studi Sanfilippo, VII, Milano, 1987, 286 s.
9 D.8.6.20 (Scaev. 1 regul.), D.41.2.3.8 e 3.12 (Paul. 54 ad ed.), D.41.2.25.1 (Pomp. 23 ad Q. Mucium), D.41.2.44.2 (Papin. 23 quaest.), D.43.16.1.22 (Ulp. 69 ad ed.), D.43.19.1.7 (Ulp. 70 ad ed.), D.43.19.3.4 (Ulp. 70 ad ed.). Giova qui notare pure che il colono è accostato al depositario in D.41.5.2.1 e in D.10.3.7.11, richiamati supra, nt. 6.
10 Cfr. infatti Cass. 16.6.1969 n. 2129, per cui il concedente, avendo mantenuto il possesso del fondo locato all'affittuario (che ha acquistato la detenzione, non il possesso), «è legittimato all'azione di reintegrazione anche nei confronti dello stesso affittuario, quando questi, immutando lo stato dei luoghi, opera non già nell'ambito del fondo (...) ma quale soggetto estraneo al vincolo derivante dal contratto, ponendosi così sullo stesso piano del terzo che violi il possesso giuridico del concedente».
Cfr. Cass. 13 nov. 1970 n. 2390. V. pure Cass. 24.5.1969 n. 1842 (con riferimento al caso del colono che si rifiuta di procedere alla raccolta dei frutti ed impedisce al concedente di procedervi di persona). Le massime delle sentenze citate si possono leggere in Rassegna di giurisprudenza sul codice civile, Appendice, Milano 1975, 1078 s.
11 Cfr. MARRONE, La posizione possessoria del nudo proprietario, in Ann. sem. Palermo, 1961, XXVIII.
12 Cfr. MARRONE, La legittimazione passiva alla “rei vindicatio” (Corso di diritto romano), Palermo, 1970, 112 ss.
13 In favore dell’usufruttuario, com’è noto, furono estesi in via utile gli interdetti possessori (cfr. Fr. Vat. 90; MARRONE, Osservazioni su «Vat. Fragm. 90», in Studi in onore di B. Biondi, II, Milano, 1963, 271 ss.); in favore del missus si diede un interdetto ‘ne vis fiat ei, qui in possessionem missus erit’ (D.43.4).
14 D.43.16.20 (Labeo 3 pithanon a Paulo epit.). Se nella fattispecie di D.43.16.12 e 18 pr. ,più in alto richiamati, è al colono che si dà l’unde vi contro il terzo, è perché il colono era in precedenza diventato egli stesso possessore (sia pure vi rispetto al locatore).
15 Cass. 8.8.1985 n. 4403, in Nuova Giurispr. commentata, 1986, I, 73; e in Rassegna di giurisprudenza sul codice civile, anni 1984-1988, II, Milano 1990, 1268.
16 Cfr. Cass. 9.4.1969 n. 1143, richiamata in Giust. civile, massim., 1969, 584; e in Rassegna di giurisprudenza sul codice civile, Appendice, Milano 1975, I, 758 n. 13.
17 Così DI MARZO, Le basi romanistiche del codice civile, Torino, 1950, 173.
18 Contro il terzo rivendicante, infatti, il detentore nomine alieno è evidentemente assai meno idoneo a resistere rispetto al possessore-dante causa da cui egli deriva la detenzione. E d’altronde, se si prescinde dai casi eccezionali dei quali dirò appresso, nelle fonti non sono rappresentate fattispecie di rivendica del terzo contro il detentore nomine alieno.
19 V., in proposito la letteratura cui faccio riferimento in La ‘facultas restituendi’ di D.6.1.9 (Ulp. 16 ad edictum): brevi note in materia di legittimazione passiva alla rivendica, in Studi in onore di G. Scaduto, XXX, Padova, 1967, 536, e ivi nt. 3.
20 V. gli autori che cito in La ‘facultas restituendi’, cit. XXX, Padova, 1970, 537 nt. 5; adde, almeno: BETTI, Istituzioni di diritto romano, I(2), Padova, 1942,416 nt. 73; D’ORS, Derecho privado. Romano(6), Pamplona, 1986, 199. Per la genuinità della chiusa puto autem etc. di D.6.1.9: SACHERS, voce Exhibere, in R. E. Pauly-Wissowa, Suppl. X, 1965, 210, e gli autori citati infra, nt. 24.
21 MARRONE, La ‘facultas restituendi’, cit., 533 ss.; cfr. la mia «voce» Rivendicazione (dir. romano), in Encicl. del Dir., XLI, 1989, 18, e gli altri miei scritti richiamati ivi.
22 L’andamento del testo di D.6.1.9, per vero, a causa della notazione di Ulpiano per cui nec ad rem pertinebit, ex qua causa (reus) possideat, può fare pensare: a) che, ai fini della legittimazione passiva alla rivendica per Pegaso e i quidam, a differenza che per Ulpiano, rilevasse la causa possessionis (in tal senso v., ad es., MAC CORMACK, Nemo sibi ipse causam possessionis mutare potest, in BIDR, 75, 1972, 74): b) che a ciò debba connettersi il fatto che Pegaso e i quidam dessero la rivendica solo contro i possessori interdittalli negandola contro depositari, comodatari, conduttori e missi; c) che Ulpiano in fine, o comunque l’autore della chiusa (puto autem etc.), dicesse in ogni caso esperibile la rivendica contro quei detentori contro cui Pegaso e quidam espressamente la negavano (depositari, comodatari, conduttori e missi). Ma, pure ad ammettere i punti a) e b), non ne conseguirebbe necessariamente il punto c): ché, nel tratto puto autem etc., la rivendica è data solo contro quanti (rem) tenent et habent restituendi facultatem; sul cui significato v. nel testo.
23 V. su ciò: MARRONE, La rivendica contro i filiifamilias, in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino, 1974, 175 ss.; La legittimazione passiva, cit., 83 ss.; voce Rivendicazione, cit., 18.
24 Cfr. MARRONE, Contributi in tema di legittimazione passiva alla rei vindicatio, in Studi in onore di G. Scherillo, I, Milano, 1972, 341 ss.; La legittimazione passiva, cit., 33 ss. Contro PETERS, Die Rücktrittsvorbehalte des römischen Kaufrechts, Köln-Graz, 1973, 206 ss., ma. come a me sembra, senza validi argomenti. Condivide il mio punto di vista: KASER; Das römische Privatrecht(2), München, 1971, 433; Nochmals über Besitz und Verschulden bei den ‘actiones in rem, in ZSS.R, 98, 1981, 92 s.; v. pure PROVERA, Indefensio e legittimazione passiva alla rei vindicatio, in Studi in onore di G. Grosso, VI, 323; TALAMANCA, rec a PETERS, Die Rücktrittsvorbehalte ... ,in IVRA, 24, 1973, 384.
25 Si tratta degli stessi soggetti cui faccio riferimento più in alto, in corrispondenza della nt. 23.


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