Diritti
di patronato e astikoi
nomoi
in P.Oxy. IV, 706
in: Atti del
V Convegno Nazionale Colloqui di Egittologia e Papirologia, Firenze, 10-12
dicembre 1999, a cura dellIstituto Papirologico G. Vitelli (in corso di
stampa)
Lesegesi del P.Oxy. IV, 706 dal momento della pubblicazione a cura di
Grenfell e Hunt ai primi del Novecento, ha continuato a dividere la dottrina
fino ai nostri giorni[1].
Non nutro pertanto lillusione di riuscire a definire una controversa questione
relativa ad un processo riguardante i
rapporti tra patrono e liberto dinnanzi al prefetto dEgitto M. Rutilio Lupo
che si svolse nel 115 d. C. e che ha finito per influenzare la valutazione dei
contatti in Egitto tra la cultura giuridica indigena, la greca e la romana,
tema del nostro incontro. Con la presente nota si vuole rimettere in
discussione i risultati delle più recenti ricerche sui rapporti tra esperienze
giuridiche diverse sotto la dominazione romana (nÒmoj tîn Agupt
wn, nÒmoi tÁj
cèraj, ¢stiko nÒmoi) e sullatteggiamento che i conquistatori dellEgitto
assunsero nei confronti dei provinciali, nel caso in cui le disposizioni locali
fossero risultate più benevole delle romane[2].
Se nella sostanza la ricostruzione del P.Oxy. IV, 706 appare
plausibile, non sembra però che si possa condividere in tutto la particolare
interpretazione fornita da Seidl e seguita da Modrzejewski[3].
Esaminiamo pertanto il P.Oxy. IV, 706:
[c. 11] par'
Agupt
oi[j c. 18]
[toÝj
¢peleuq]rouj toj p£trwsi, tÕn d `Hra[k]le
dhn
[.5
¢peilh]fnai par' aÙtoà ¢rgÚrion ka gegra-
[fnai
ceirÒgr]afon per toà mhdn xein pr©gma
[prÕj aÙtÒn,
ka] ¢nagnÒntoj tÕ ceirÒgrafon Loàpoj
[bouleus£meno]j
met¦ tîn f
lwn ¢pef»nato oÛtwj·
[n mn toj
tîn] Agupt
wn nÒmoij oÙdn per tÁj
[c.10 ka t]Áj
xous
aj tîn ¢peleuqerws£ntwn
[c.15]
¢[ko]loÚqwj toj ¢stikoj nÒmoij
[keleÚw[4] tÕn Damar
]wna `Hrakle
dV tù
p£trwni
[c. 10 k]at¦
tÕn nÒmon. ka tù Damar
wni epen:
[tù p£trwni p]ou ka prost
qhmi £n se mmyhtai
[`Hrakle
dhj
xu]lokophqÁna
se keleÚsw.
presso gli egizi
i liberti
ai patroni, che Eraclide
avesse
ricevuto da lui il denaro ed avesse
scritto il
chirografo di non avere nulla a che fare
con lui, e
Lupo avendo esaminato il chirografo ed
essendosi consigliato
con gli amici, disse così:
nelle leggi
degli Egizi (tois ton Aigyptíon nómois) ( non vè) nulla circa la
e la
capacità di coloro che sono stati liberati
in
conformità alle leggi civiche (astikoì nómoi)
ordino che Damarione al patrono Eraclide
in base
alla legge. E a Damarione disse:
Segui il
patrono ed aggiungo che se ti lamenterai
di Eraclide disporrò che tu sia bastonato.
Secondo Modrzejewski il patrono Eraclide, indigeno e non greco,
avrebbe fatto perfidamente affidamento sulla riluttanza romana - e dunque del
prefetto - ad ammettere che per coloro che fossero stati manomessi una prassi
indigena potesse risultare più favorevole di un inderogabile principio romano
prescrivente per il liberto lobsequium e
le operae nei confronti del patrono.
Nonostante nel papiro si dichiari espressamente che nelle leggi degli Egizi
(indigeni e greci, per Modrzejewski assimilati agli occhi dei romani) non fosse
prevista limitazione alcuna della capacità dei manomessi, Eraclide avrebbe
intentato la controversia contro il suo liberto contando sul fatto che il
prefetto romano non avrebbe potuto porre il manomesso da un egizio in una
condizione migliore di quella che gravava sugli schiavi manomessi dai cittadini
romani e perciò esimerlo dallobsequium e
dalle operae. Lunica difesa
possibile per il convenuto Damarione sarebbe stata allora quella di affidarsi
al chirografo, rilasciato dal precedente padrone al momento della manomissione
quale quietanza del pagamento del prezzo del riscatto, nel quale si dichiarava espressamente
linsussistenza di ogni ulteriore pretesa nei confronti dellex-schiavo (
di non avere nulla a che fare con lui).
Ma la difesa appariva palesemente inconsistente, in quanto il chirografo,
esaminato dal prefetto e dal consiglio di amici giudicante, si rivelava
esclusivamente pertinente al pagamento
del prezzo del riscatto, nulla disponendo in merito alla condizione futura del
liberto, clausola eventualmente prevista - noi notiamo - nellatto agoranomico
della manomissione e non in un semplice chirografo. Linevitabile condanna
sarebbe stata per Modrzejewski allora pronunziata in base agli astikoì nómoi - ius civile romano[5]
e non leggi alessandrine, come comunemente ritenuto - poiché essi non avrebbero
previsto alcuna paramoné ex lege, così come le pratiche indigene non avrebbero
contemplato nessun gravame per il manomesso, quale elemento naturale della
manomissione.
Le conseguenze di tale ricostruzione trascendono la specifica
questione esegetica o di diritto privato greco-ellenistico e romano in merito
ai rapporti tra patroni e liberti, in quanto si riflettono sullinterpretazione
delle controverse e ricorrenti espressioni dei papiri: nÒmoj o nÒmoi tîn
Agupt
wn, tÁj cèraj, picèrioj nÒmoj, gcèria nÒmi<s>ma, ¢stiko nÒmoi,
sui rapporti giuridici in definitiva tra egiziani, greci e romani e
sullapplicazione delle rispettive leggi nellEgitto romano.
Tutto ciò appare ancora
più sorprendente in quanto recenti scoperte dimostrano la sopravvivenza in età
romana di raccolte di pure consuetudini giuridiche indigene tradotte in greco,
analoghe al c.d. Codice di Hermoupolis in demotico [9].
Ed è stato ipotizzato che prolungando
una tradizione di cui il P.Hal. 1 costituisce nel III sec. a.C. il punto di
partenza attualmente conosciuto, dei pratici locali avrebbero raccolto in opere
private, le regole tratte dai diagrammata
e dai prostagmata dei Lagídi, come anche le leggi delle città
greche dEgitto. La casualità dei rinvenimenti ha voluto che noi non avessimo
che delle tracce indirette, sotto forma di rinvii [10]. Se dunque
in età romana si perpetuavano raccolte di leggi indigene nettamente distinte da
quelle greche, appare difficile giustificare lapprossimativa assimilazione
sotto ununica parificatrice espressione di legge degli Egizi, utilizzata
dallalto funzionario romano rivelando, come sottolineato dalla Montevecchi, una notevole ignoranza della realtà etnica e
culturale del paese , una differenza tra le due culture che doveva essere
evidente[11],
soprattutto a chi in sede amministrativa e processuale era affidato il compito
di rimarcare la differenza giuridica tra le diverse etnie[12].
Torniamo allora alla controversia del liberto Damarione citato in
giudizio dallex-padrone Eraclide a prestare i suoi servigi, caso che già a quella
data, 115 d.C., rientrava indubbiamente nella competenza giurisdizionale del
prefetto, anche se solo dalleditto del 133 d.C. di Marco Petronio Mamertino in
P.Yale II, 162, [PP1]col.
III, ll. 24 32 si ricava la specifica
competenza prefettizia in materia (Il
prefetto giudicherà:
riguardo alle accuse che potranno presentare i patroni
contro i loro affrancati, i genitori contro i figli
). E evidente che
questa parte di un testo, che sembra potersi ribadire come un possibile editto
prefettizio giurisdizionale generale[13],
non costituiva certo una novità del momento, ma era invece tralatizia.
Similmente nella celebre Petitio
Dionysiae si presupponeva una devoluzione di competenza giurisdizionale al
prefetto dei rapporti tra padri e figli posteriormente alla data del Pap. Yale,
che menzionava già tale attribuzione processuale, non come novità [14].
Se appare dunque accertata la competenza dellorgano giurisdizionale
adíto, è invece incerta in dottrina la determinazione del tipo di diritto
utilizzabile: adeguandosi infatti alla prassi della personalità del diritto, il
prefetto avrebbe dovuto ricercare, come è noto, la soluzione della questione
nel diritto greco o indigeno in rapporto allappartenenza dei litiganti al
relativo gruppo etnico.
Non tanto il riferimento agli Egizi nella parte
iniziale, purtroppo assai lacunosa, del verbale giudiziario pervenutoci, quanto
la stessa intenzione del prefetto di ricercare
nella legge degli Egizi la regola da applicare al caso specifico ed il
non averla trovata, potrebbe rivelare che si trattasse in realtà dindigeni.
Infatti è fuori discussione che nellantico diritto indigeno mancavano
gravami di sorta per i manomessi. E incerto invece se nel diritto greco
applicato in Egitto fossero esclusi obblighi verso i patroni naturalmente
gravanti sui liberti allatto della manomissione, come si è sostenuto per
ricomprendere sotto lunica espressione legge degli Egizi tanto indigeni, che
greci.
In realtà è probabile che il dovere di devozione del
liberto nei confronti di chi ha elargito il beneficio della libertà -
implicante in diritto romano lobsequium
e le operae - si manifesti non
difformemente anche nel diritto dei Greci - - ed in
particolare in quello applicato in Egitto - in una serie di obblighi gravanti
naturalmente sui liberti, ma occorre distinguere da tali gravami la paramoné, lobbligo cioè frequentemente
previsto di restare a vivere da liberto con il patrono o con persona da costui
designata per un periodo di tempo determinato o a vita[15],
ma non naturalmente scaturente da ogni affrancazione. La confusione tra paramoné e diritti di patronato, oltre
alla scarsezza della documentazione, ha provocato in dottrina esitazioni ad
ammettere che dalle manomissioni agoranomiche[16]
scaturissero doveri di devozione ed obblighi, che nelle manomissioni
testamentarie[17] e nelle
sacre (queste ultime piuttosto rare in Egitto[18])
appaiono invece, con poca coerenza fuori discussione. La paramoné non era conseguenza automatica e naturale della
manomissione, a differenza del diritto di patronato[19].
E evidente infatti che la paramoné
- oltre ad essere pratica antica, non esclusiva della manomissione ma anzi
relativa ad altri tipi di rapporto (come prestiti, garanzie, contratti di
servizio)[20] dai quali
fu nellaffrancamento mutuata[21]
e pur apparendo tanto naturale, anche nel mondo romano, da essere ricordata già
alla fine del III, inizi del II sec. a.C. nei Menecmi di Plauto addirittura
come desiderabile per il manomesso[22]
- non poteva certo essere considerata sotto limpero come condizione normale ed
obbligatoria dei liberti, basata su di una sorta di obsequium e prestazione di operae
rafforzati dal continuo e inderogabile vincolo della convivenza, che avrebbe
potuto essere dimpaccio pur allo stesso patrono. E assai dubbio se in diritto
romano prima della fine del II sec. a.C. vi sia stato un tassativo obbligo per
il liberto di coabitazione con il patrono, ma è comunque certa linesistenza di
esso già alla fine del periodo repubblicano[23].
Si deve riconoscere che sono frequenti le indicazioni di liberti con abitazioni
autonome dal patrono in tale età e diffuse per tutto limpero. Così in Egitto[24],
ove era frequente il proposito di escludere la paramoné tra i greci, se prevista allatto della manomissione,
corrispondendo successivamente una somma in aggiunta al prezzo del riscatto, o
inserendo nellatto di manomissione unesplicita clausola liberatoria[25].
Si trattava infatti di un onere ben più gravoso della douleía e delle apophoraí dello
schiavo manomesso, oggetto di un lascito alla vedova del testatore previsto in
un papiro di Ossirinco del 156 d.C. [26],
che non menzionando alcun obbligo di coabitazione, consente di distinguere i
diritti di patronato, oggetto del lascito, dalla paramoné, oggetto di solito di una specifica riserva del dominus al momento della manomissione.
Trattando della manomissione testamentaria e del suddetto P.Oxy. III, 494, si è
dichiarato che sussisteva una notevole
differenza tra affrancamento peregrino e romano per quanto concerneva il
patronato. In accordo alla legge peregrina il libertus testamentario era obbligato all¢pofor£ e doule
a, mentre il diritto
romano aveva esentato il libertus orcinus da tali prestazioni[27].
Già da tempo tale affermazione è stata ritenuta erronea[28],
in quanto la condizione di liberto orcino nel diritto romano classico era
caratterizzata dal fatto che il liberto aveva certamente il patrono allOrco,
ma non per questo era esentato, come dimostrano numerosi testi, dai iura patronatus nei confronti dei figli
del defunto, al punto da esser qualificato libertus
familiae[29].
E dunque in rapporto al liberto testamentario non sembra che vi fosse
apprezzabile differenza tra il diritto romano ed il diritto locale.
Da una chiara definizione della d
kh ¢postas
ou del lessicografo
Arpocrazione deriva una netta distinzione nel diritto greco del I sec. d.C. tra
paramoné e diritti di patronato: Questa azione è data ai patroni contro i
liberti se essi si separano da loro (
¦n ¢fistînta
te ¢p'aÙtîn ...) o fanno
iscrivere un altro come patrono o se essi non fanno ciò che la legge impone
loro. Una condanna comporta la servitù; unassoluzione la libertà completa[30].
Ancora una volta lobbligo connesso alla paramoné
appare distinto dai doveri che la legge imponeva (iura patronatus)[31]
e questi ultimi in Platone - che significativamente non menziona la paramoné - sembrano consistere ad
esempio nel presentarsi almeno tre volte al mese nella casa dellantico padrone
e nel mettersi a sua disposizione, nel non contrarre matrimonio senza la sua
autorizzazione, nel non acquisire una fortuna maggiore del patrono,
eventualmente donandogli leccedenza[32].
E infatti certo che almeno in alcune città greche sussistevano nÒmoi
¢peleuqeriko determinanti le obbligazioni dellaffrancato nei confronti del
patrono[33]
- non includenti lobbligo della coabitazione, nonostante il caso assai
discutibile di Calymna che ora esamineremo[34]
- ed è significativo che lespressione cwrj okoàntej possa applicarsi ai
liberti; che la circostanza di abitare a parte sia caratteristica proprio
dellaffrancato, come è testimoniato in Demostene [35].
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che a Calymna nel I sec. d.C. le
leggi disciplinanti lo stato dei liberti, a differenza di tutte le altre città
greche, regolarmente prescrivessero la paramoné
come condizione conseguente alla manomissione, poiché hanno rilevato che nelle
affrancazioni da tale località o si riscontra la clausola di coabitazione o
quella riferentesi alla disciplina legale (kat¦ toÝj ¢peleuqerwtikoÝj nÒmouj)
ed invece di supporre, come è naturale, che fossero relative ad obblighi
distinti, hanno sostenuto che tali clausole fossero interscambiabili e per
questo mai simultaneamente presenti[36],
ricavando da ciò la convinzione che il regime dei liberti di Calymna si
distinguesse dal resto della Grecia[37].
Ma torniamo in Egitto dopo esserci resi conto che il liberto
(¢peleÚqeroj, e non leÚqeroj) in seguito ad una d
kh ¢postas
ou avrebbe potuto
essere addirittura revocato in servitù per linadempimento dei doveri di
patronato e che la previsione, al momento dellaffrancamento, di una punizione
per una disobbedienza non avrebbe evidentemente comportato che, in caso di
mancata menzione di essa, il liberto non sarebbe stato punito. Così la
previsione della paramoné non
implicava con certezza che in assenza di essa gli affrancati non fossero
sottoposti ad alcun dovere di patronato, come è stato sostenuto. Libertà
completa concessa dal padrone non escludeva ovviamente la persistenza di alcuni
doveri fondamentali[38]
- tra i quali non era però contemplata la paramoné
- come lobbligo di prestare gli alimenti al patrono indigente, previsto già in
papiri di Elefantina del 243 a.C. (P. Eleph. 3; 4) e corrispondente allanalogo
dovere giuridico del liberto in diritto romano[39];
così era previsto, nel § 9 del Gnomon, che il patrimonio dei liberti degli
¢sto
, morti senza figli e senza testamento, venisse devoluto al patrono ed ai
suoi figli, come in diritto romano.
E stato notato che di frequente si rilevano negli
atti di manomissione clausole, in realtà superflue, illustranti il contenuto
della libertà che si era sul punto di concedere, come lesclusione in futuro di
una vendita dellex-schiavo, la terzietà dellorgano giudicante in caso di controversia,
il diritto di andare e fare tutto ciò che si desideri. E ovvio che dalla loro
mancanza non poteva desumersi alcun mutamento dei diritti del liberto. Così vi
erano clausole talvolta esplicitanti doveri, come gli obblighi di patronato,
mancando le quali non poteva ricavarsi lesistenza di una assoluta libertà. La
mancanza della clausola della paramoné invece
non implicava certo lobbligo di una coabitazione, che era usuale, ma non
doverosa.
Nel caso del processo dinnanzi
a M. Rutilio Lupo, non siamo in realtà in condizione di poter stabilire con
sicurezza se lattore vantasse lobbligo della coabitazione o semplici diritti
di patronato, in quanto lasciutta risposta del prefetto ([tù p£trwni p]ou, segui il padrone) potrebbe essere anche intesa in senso metaforico,
alludendo ad una generica ubbidienza che i liberti devono ai patroni nel
diritto greco. Ciò che più conta è che, sui doveri di patronato e gli
obblighi connessi, diritto romano e diritto
greco non differivano notevolmente e dunque gli ¢stiko nÒmoi menzionati
nel papiro avrebbero potuto essere le leggi alessandrine, che secondo
unipotesi di Sturm si sarebbero potute applicare agli indigeni come una sorta
di diritto suppletivo in assenza della regola da utilizzare[40].
Dopo aver consultato il diritto indigeno sul punto muto (le leggi degli Egizi), il prefetto avrebbe applicato il diritto dei
Greci (le leggi civiche)[41],
al riguardo conforme alle pratiche romane.
Su di un punto cruciale tuttavia diritto locale e diritto romano
probabilmente differivano: sullammissibilità di una convenzionale e totale
esclusione dei diritti di patronato. In diritto romano non era infatti ammessa
lestinzione totale della condizione di liberto per rinunzia del patrono o per
accordo tra patrono e liberto (Libertinae
condicionis constitutis privatis pactis mutare statum non licere
), al
punto che se laccordo si estrinsecava in un processo per la proclamazione
della libertà nel quale il dominus
non faceva la dovuta opposizione fu consentito da un SC Ninniano delletà di
Domiziano di denunziare linganno e di far revocare la sentenza di libertà [42].
La rigidità in materia, che si estendeva al punto da essere addirittura
inefficace una posteriore arrogazione del manomesso da parte del patrono[43],
era forse la conseguenza della peculiarità romana del conferimento
allex-schiavo dello status di
cittadino[44], che
suscitava tra gli antichi, non romani, meraviglia ed ammirazione[45]:
celebre è la lettera di Filippo V agli abitanti di Larissa in Tessaglia del 214
a.C.[46]
nella quale il re ricordava lanomalo costume romano di accogliere gli schiavi
manomessi nella civitas. Ma a frenare
tale ammirazione ed a impedire che il liberto potesse convenzionalmente
conseguire la completa libertà, svincolandosi totalmente anche dai iura patronatus, sussisteva il divieto
del SC Ninniano, che non a caso è da Papiniano collegato al famoso principio
dellinderogabilità del ius publicum
(Ius publicum privatorum pactis mutari
non potest)[47]. E persino
Giustiniano, che ammise la rinunzia al diritto di patronato[48],
lasciò sussistere il dovere di reverentia
ed il diritto del patrono allazione di revoca per ingratitudine.
E noto invece che nei papiri di età successiva alla Constitutio Antoniniana de civitate, è
ammessa lapposizione negli atti di manomissione della clausola liberatoria da
ogni diritto o pretesa del dominus (
di liberare e sciogliere da tutti i diritti
di patronato e da ogni potestà). E si è sostenuto che codesti tardi
documenti - come PSI 1040, BGU 90 (III sec. d.C.), P.Oxy. 1205 del 291 d.C.(=
CPJ 473) - non possano essere utilizzati per dimostrare lesistenza del diritto
di patronato nellEgitto tolemaico, riflettendo certamente il diritto romano,
in quanto posteriori alla concessione della cittadinanza[49].
Ma già La Pira, acuto romanista fiorentino che in questa sede mi piace
particolarmente ricordare, aveva notato lestraneità di tali clausole al
diritto romano, fornendo anche la ragione dogmatica del diverso regime: mentre i diritti di patronato vengono
considerati dal diritto classico come diritti agnatizi, e quindi non
rinunziabili, essi vengono considerati nel diritto giustinianeo come diritti
patrimoniali ai quali si può quindi perfettamente rinunziare[50].
La vicenda infatti appare esemplare per illustrare un chiaro caso in
cui Giustiniano - facendo salva la reverentia
verso i patroni e la revoca della libertà per ingratitudine - accolse una pratica locale [51]
alla quale Diocleziano aveva tentato di reagire con numerose costituzioni[52],
ribadendo lapplicazione dei principi del diritto imperiale[53].
Ma già nel 294 la revoca in servitù non poteva più dipendere solo dal mancato obsequium, ma piuttosto connettersi
allinadempimento di operae promesse[54],
tra le quali anche la coabitazione, che restava tuttavia conseguenza eventuale
e non naturale della manomissione (cum
patrono habitare libertos iura non compellunt) [55].
Dunque i papiri del III sec. d.C. con clausola liberatoria dai diritti
di patronato possono essere utilizzati non solo per testimoniare la differenza
nel diritto dei Greci in Egitto tra paramoné
in essi non menzionata - e diritti di patronato, ma anche per dimostrare la
possibilità di una esclusione totale e convenzionale nel diritto locale dei
diritti di patronato, salva forse la debita reverentia
e la revoca per ingratitudine; liberazione completa che solo per una casualità
documentale, in conseguenza di un accentuato favor liberationis, appare nei papiri dopo il 212 d.C.
Soprattutto essi infine indicano la flessibilità di Rutilio Lupo e del
suo consiglio, che si mostrano disposti ad esaminare un chirografo con una
eventuale clausola invalida per il diritto romano e quindi appaiono propensi ad
applicare ai locali pratiche estranee, ascrivibili ad un diritto dei Greci che
lentamente tendeva a proporsi come diritto degli Egizi[56],
giungendo - nel caso del diritto di patronato - a trovare applicazione nel
diritto romano giustinianeo, in quanto corrispondente, non tanto a pratiche
locali, quanto ad un più evoluto costume della società romano - cristiana.
Se posso infine concludere
con una battuta, indubbiamente gli amministratori romani non avevano seguito
corsi di papirologia giuridica alla Sorbona, ma certamente il diritto romano lo
conoscevano!
Gianfranco Purpura
Dipartimento
di Storia del Diritto
Università
di Palermo
[1] Mitteis, Grundzüge u. Chrest., II, 2, Berlin,
1912, n. 81.
[2] Modrzejewski, La loi des Égyptiens: le droit grec dans
lÉgypte romaine, Proceedings of the XVIII Intern. Congr. of Papyrology
(Athens 25 31 May 1986), II, Athènes, Greek Papyrological Society, 1988 (=
Droit impérial et traditions locales dans l
Égypte romaine, 1990, pp. 383 399.
[3] Per primo Seidl, Rechtsgeschichte Ägyptens als römischer Provinz, Sankt Augustin,
1973, p. 133, esaminando la posizione dei liberti nellEgitto romano ha
affermato che: 1. Nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet
2. Die Römer wollten ferner den Freigelassenen der
Nichtrömer keine bessere Stellung einräumen als solchen der Römer, proprio in
riferimento al P. Oxy. IV, 706. In precedenza Mitteis, Grundzüge u. Chrest.,
cit., pp. 89 e s. - seguito da Taubenschlag, Die römischen Behörden u. das Volksrecht v. u. n. der C.A., ZSS,
49, 1929, pp. 115 ss. (Opera Minora,
I, Warszawa, 1959, pp. 480 e s.) - aveva sostenuto lapplicazione di una regola
alessandrina ad liberto di un egizio, divenuto alessandrino dopo la manomissione.
[4] keleÚomen secondo Mitteis, Chrest., n. 81, l. 10, seguito da Harada, in ZSS, 58,
1938, p. 139.
[5] Così già in
Modrzejewski, La regle de droit dans lEgypte romaine (Etat des questions et
perspectives de recherches), Proceedings of the XIIth Int. Congress of
Papyrology, American Studies in Papyrology,VII, Toronto, 1970, p. 336,
accogliendo unipotesi di Wolff (RIDA, 7, 1960, p. 223 nt. 80 e di Seidl (SDHI,
27, 1961, p.485; Id., Rechtsgeschichte
Ägyptens als römischer Provinz, Sankt Augustin, 1973, p. 133) suscitata
anche dalle difficoltà interpretative del P. Oxy. IV, 706, ma rifiutata da
Biezunska-Malowist, Lesclavage dans
lÉgypte gréco-romaine, II, Wroclaw Varsovie, 1977, p. 148 e Montevecchi,
Aigyptios- Hellen in età romana,
Studi Bresciani, Pisa, 1985, p. 347.
[6] D. 1, 2, 32 pr.;
Modrzejewski, La regle, cit., p. 336.
[7] Wolff, Faktoren der Rechtsbildung im
hellenistisch-römischen Aegypten, ZSS, 70, 1953, pp.42 ss.; Id., Neue Juristische Urkunden, VI. NÒmoj tÁj cèraj, nÒmoi tîn Agupt
wn, ZSS, 96,
1979, pp. 268 ss.; Rea, The Oxyrhynchus Papyri, XLVI, 3285, Legal
Code, Londra, 1978, pp. 30-38; Montevecchi, Aigyptios- Hellen, cit., pp. 347 e
s.; Id., Greci: la coesistenza delle due
culture nellEgitto romano, Egitto
e Società Antica, Milano, 1985, pp. 241 e s.; Bastianini, Le istituzioni pubbliche dellEgitto romano, Egitto e Società
Antica, cit., pp.197 ss.
[8] P. Oxy. II, 237, col. VI, 17. La spiegazione
dellanomalia proposta da Montevecchi, Aigyptios- Hellen, cit., p. 348, che cioè il padre di Dionisia, sposato
con una egizia, invocasse contro la figlia maritata con un egizio piuttosto la
consuetudine giuridica egizia che dava, in caso di g£moj ¥grafoj, il diritto di
riprendersi la figlia, analogo allaferesi
greca, è affrettatamente respinta da Modrzejewski, op. cit., p. 398 nt. 68, notando la grande rarità di questi
matrimoni. Ma ciò non modifica in nulla la fondatezza della spiegazione
proposta.
[9] P. Caire dém. 89127-89130; 89137-89143; Mattha,
Hughes, The Demotic Legal Code of
Hermopolis, Le Caire, 1975 (IFAO, 45); P.Oxy. XLVI, 3285; Pestman, Le manuel de droit égyptien dHermoupolis.
Les passages transmis en démotique et en grec, Textes et études de
papyrologie grecque, démotique et copte, Leyde, 1985, (P.Lugd.Bat. 23), pp. 116
143; Bresciani, Frammenti da un prontuario legale demotico da
Tebtuni nellIstituto Papirologico G.
Vitelli di Firenze, Egitto e Vicino Oriente, 4, 1981, pp. 201 215.
[10] Modrzejewski, La loi des Égyptiens, cit., p. 397.
[11] Montevecchi, Aigyptios- Hellen, cit., p. 348.
[12] Significativa al riguardo è la disposizione del §
49 del Gnomon che vieta ai liberti
degli Alessandrini di sposare donne egizie.
[13] Purpura, KAQOLIKON
DIATAGMA. Sulla denominazione
delleditto provinciale egizio, Studi Biscardi, II, 1982, pp. 507 ss.
Diversamente in Modrzejewski, RHDEF, 69, 1982, pp. 495 e s.; Katzoff, Law as
Katholikos, St. Schiller, 1986, pp. 119 126 e Martini, Su un preteso Katholikon Diatagma egizio, La codificazione del diritto dallantico al moderno,
Napoli, 1998, pp. 179 - 189. In realtà la qualifica di erètaton (in BGU VII, 1578) non fu esclusiva di un editto
imperiale, ma anche caratteristica
di un editto prefettizio, come è dimostrato dal fatto che in SB XIV, 11980 così è denominata anche una Øpograf» del prefetto. Daltra parte è notda ritenersi sicuro che lo stesso tribunale prefettizio fu per tutta letà imperiale sicuramente così
qualificato, come risulta saldamente attestato
nei papiri ((P. Tebt. II, 434 = Mitt., Chrest. 51;
Mitt., Chrest. 89; SB I, 4416; V, 7870; P. Hamb. I, 4 = FIRA III, 168; P. Mil. Vogl. III, 129; IV, 237; VI, 265; PSI VII,
806; P. Strass. IV,
196; P. Wisc. I, 33), e fu detto sacro nel medesimo papiro
BGU VII, 1578. In proposito, ingiustificata è laffermazione di Martini che la frase pi tÕ erÕn bÁma rcÒmenoj non possa in ogni caso
spiegarsi pensando ad una richiesta di essere ammessi al conventus,
dal momento che
il nostro ØpÒmnema...parrebbe che fosse indirizzato al
iuridicus, il quale nella specie fungeva anche da prefetto, perché proprio in tale veste il
funzionario avrebbe potuto presiedere il conventus
! Alla luce della circostanza Riconoscendo che erètaton appare
è nelle fonti papiracee
termine idoneo anche per
leditto del prefetto (Katzoff,
Law as Katholikos,
cit., p. 122 nt. 14), viene
dunque superata la principale remora in
dottrina ad ammettere che si tratti di un editto prefettizio e non
imperiale (Lewis, Emperor
or prefect,
Le Monde Grec. Hommages à Claire Préax, Brussels, 1975, pp. 760 -765). La spiegazione proposta dellanomala struttura del
P. Yale II, 162
come editto prefettizio generale, non scossa dalle perplessità sollevate, continua a giustificare validamente, in assenza di una accettabile alternativa (non si tratta infatti di una nuova costituzione
imperiale, come proposto da Seidl, Eine neue kaiserliche Konstitution über die Appellation, SDHI, 38, 1972, pp. 319 e
s.; Id., Rechtsgeschichte Ägyptens als römischer Provinz, Sankt Augustin,
1973, p. 241, a causa della praescriptio edittale menzionante Petronio Mamertino e del riferimento a materie di giurisdizione prefettizia), sia
la
forma del documento
(impersonale nella parte tralaticia,
personale
nelle effimere
innovazioni di Mamertino), che i suoi contenuti, relativi ad una preventiva determinazione giurisdizionale, tanto civile che criminale, dei rapporti tra governatore dEgitto ed amministrati, tipica di un editto de
adventu. Ciò non esclude naturalmente che il termine kaqol
ikoÒj, oltre che per leditto,
possa essere stato impiegato anche per indicare un precedente consolidato di generale validità ed applicazione, come sostenuto da Katzoff.
[14] P.Oxy. II, 237.
[15] Una rassegna della letteratura sulla paramoné e la sua natura (un tipo di
contratto, una clausola contrattuale, una condizione attinente allo stato della
persona) in Samuel, The role of Paramone
clauses, JJP, XV, 1965, pp. 222 ss. e Waldstein, Operae Libertorum. Untersuchungen zur Dienstpflicht Freigelassener Sklaven, Stuttgart, 1986, pp.
92 ss. Adams, Paramoné und verwandte Texte. Studien
zum Dienstvertrag im Rechte der Papyri,
Berlin, 1964, estende molto il concetto di paramoné,
come contratto di servizio. Cfr. Montevecchi, La Papirologia, Milano, 1988, p. 223. Cfr. per la paramoné in Grecia, oltre allopera di
Calderini, La manomissione e la
condizione dei liberti in Grecia, Roma, 1965, Raedle, Untersuchungen zum griechischen Freilassungswesen, München, 1969,
pp. 136 152; Albrecht, Rechtsprobleme
in den Freilassungen der Böotier, Phoker, Dorier, Ost- und Westlokrer,
Paderborn, 1978, pp. 189 200. Non ho potuto
consultare Beauquier, Affranchissements
et affranchis dans lÉgypte grecque et romaine, thèse de droit, Univ. de
Paris II, 1979 (cfr. RHD, 57, 1979, p. 479). Ripetutamente Waldstein, Operae, cit., pp. 106 ss.; Id., Paramoné und operae libertorum, Festschrift
Kränzlein, Graz, 1986, pp. 143 147, opponendosi alla tesi di Lambert (Les operae liberti, Paris, 1934), che
tendeva ad assimilare la paramoné
greco-ellenistica con lobsequium romano, ha distinto nettamente
la prima dal secondo sottolineando ad esempio la peculiarità della prestazione
nel primo caso anche a soggetti estranei o la sua natura accidentale, non tutelata da specifica azione, ma seguendo
unopinione diffusa ha ritenuto che non vi sia prova di un obbligo relativo
alle operae anche nel diritto
ellenistico applicato in Egitto, trascurando non solo il P. Oxy. IV, 706 (cfr.
Modrzejewszi, op. cit., p. 389 nt.
24; Id., JJP, XXI, 1991, p. 250), ma anche il P. Oxy. III, 494, che
espressamente menziona douleia ed apophorai. Cfr. infra nt. 26.
[16] P.Oxy. I, 48 dell86 d. C. ; 49 (= Mitt.Chr. 359 = Meyer, Jur. Pap. 6) del 100 d.C.; 50 del 100 d.C.; IV, 722 del 91 o 107
d.C.(= Mitt.Chr. 358); P. Lugd. Bat.
XIII, 24 del 98-117 d.C.; P. Oxy. II, 349 descr. (= SB I, 5616); P. Oslo III,
129 del III sec. d.C.; P.Oxy. IV, 723 del 138-161 d.C.; nella forma dellomologia: P. Freib. II,10 (= Meyer, Jur. Pap. 7) del 195-196 d.C.,
proclamata da un araldo (come in P. Strasb 122 del 161- 169 d.C.); P. Strasb.
238 del 177- 178 d.C.
[17] Ad es.: P. Petrie III, 8, col. I, 6-16; 8, col. II
del 238-7 a.C.; P. Oxy. III, 494 (=
Mitt.Chr., 305) del 156 d.C.;
P. Lugd. Bat., XIII, 14 del II sec. d.C.; PSI XII, 1263 del II sec. d.C.; IX,
1040 del III sec. d.C.; P. Strasb. 264; 277. Un elenco in Montevecchi, La Papirologia, cit., p. 201.
[18] Secondo Taubenschlag, Das Sklavenrecht im Rechte der Papyri, ZSS, 50, 1930, p. 165; Seidl,
op. cit., p. 134 e Montevecchi, La Papirologia, cit., p. 201, il liberto del gran dio Serapide
menzionato in BGU VII, 1564 del 138 d.C. dimostra che anche tale forma di
manomissione fu impiegata in Egitto. Un
altro caso sembra essere contemplato in P. Turner 26 del 193-8 d.C.
[19] La paramoné è
ad esempio prevista espressamente nella manomissione testamentaria riferita in
PSI XII, 1263 del II sec.d.C.
[20] Appare in papiri ed epigrafi a partire dal III
sec. a.C.
[21] Samuel, op. cit., p. 308.
[22] Plauto, Menecmi 1032: Sed, patrone, te obsecro, ne minus imperes mihi, quam cum tuus servus
fui. Apud ted habitabo, et quando ibis, una tecum ibo domum.
[23] Fabre, Libertus. Recherches sur les rapports
patron-affranchi à la fin de la répubblique romaine, Roma, 1981, pp. 131
ss.; praecipue, pp. 138 ss.
[24] Nei testamenti romani frequentemente agli schiavi
manomessi furono assegnate specifiche abitazioni. Cfr. ad es. il testamento di Longino Castore in BGU
I, 326 del 191 d.C. In P. Oxy. XXII, 2349 del 70 d.C. un tal Dionisio
appare come liberto del soldato romano
C. Giulio Saturnilo, affrancato quando costui era ancora alessandrino
(Biezunska-Malowist, Les affranchis dans
les papyrus de lépoche ptolémaique et romaine, Atti XI Congr. Intern.
Papirol., Milano, 1965, pp. 441 e s.). Per la gestione della cospicua proprietà
terriera affidata a costui sarebbe stata indubbiamente più utile una residenza
separata.
[25] Così in PSI IX, 1040; BGU I, 90 del III sec.
d.C.ed in P. Oxy. 1205 del 291.
[26] P. Oxy. III,
494, l. 15.
[27] Taubenschlag,
The Law of Greco-roman Egypt in the light
of the Papyri, Warszawa, 1955, pp. 100 e s.
[28] Già rilevato da La Pira, Precedenti provinciali della riforma giustinianea del diritto di
patronato, Studi Italiani di Filologia Classica, VII, 2, 1929, p. 151 nt.
1. Loreti Lorini, La condizione del liberto orcino nella
compilazione giustinianea, BIDR, 1925, pp. 29 ss., ipotizza la sistematica
interpolazione giustinianea di numerosi testi classici; cfr. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Roma, 1925 (rist. Milano, 1963, pp. 240
243), pp. 177 - 180.
[29] D. 26, 4, 3, 3
(Ulp., XXXVIII ad Sabinum:
sed orcinus
libertus effectus ad familiam testatoris pertinebit. In qua
specie incipit tutela ad liberos patroni primos pertinere, quae ad patronos non
pertinuit: quod quidem in omnibus orcinis libertis locum
habet testamento manumissis); 40, 4, 48; 40, 5, 33 pr.; C. 6, 4, 4, 27; 7,
6, 1, 7; Albanese, Le persone nel diritto
privato romano, Palermo, 1979, p. 68 nt. 233.
[30] Arpocrazione, Lexicon
in decem oratores Atticos (p. 50): 'Apostas
ou:
d
kh t
j sti kat¦ tîn ¢peleuqerwqntwn dedomnh toj ¢peleuqerèsasin, ¦n
¢fistînta
te ¢p' aÙtîn À teron pigr£fwntai prost£thn, ka § keleÚousin o
nÒmoi m¾ poiîsin. ka toÝj mn ¡lÒntaj de doÚlouj enai, toÝj d nik»santaj telwj
½dh leuqrouj. Sulla d
kh ¢postas
ou cfr. Lipsius, Das Attische Recht u. Rechtsverfahren,
III, Hildesheim, 1966, pp. 621 ss.
[31] Così in Foucart, De libertorum condicione apud Athenienses,
Paris, 1896, p. 75 in base allo Schol.
in Dem., C. Aristog. I, p. 792, 2 (¢postas
ou] aÛth d
kh st kat¦ tîn ¢peleuqrwn
toÚtJ tù trÒpJ ginomnh· e tij Ãn leuqerèsaj okthn, ka êfqh prÕ toà crÒnou
¢nacwr»saj tÁj ok
aj, gr£fou aÙtÕn ¢carist
aj, ka e ¼lw, d
khn Øpecen.
¢postas
ou d d
kh kat¦ tîn meto
kwn tîn m¾ cÒntwn pol
taj prost£taj. t¾n
mhtra oân toà 'Aristoge
tonoj æj doÚlhn ¡loàsan pwl»sate), debolmente
contestato da Gernet, Droit et société
dans la Grèce ancienne, Paris, 1955 (rist. 1964), p. 172 nt. 2, come nota
di data senza dubbio tarda, che sembrerebbe accordare il ricordo della paramon»
- istituzione greca, ma non
necessariamente ateniese con lidea più o meno precisa di una istituzione del
diritto romano di epoca molto bassa, la revocatio in servitutem liberti
ingrati. Gernet, op. cit., p. 170 appare condizionato
dallipotesi che la díke apostasíou non
si riferisse ad accordi, come quello della coabitazione, ma esclusivamente a prescrizioni legali, che
escludevano la paramoné.
[32] Platone, Leggi
XI, 915 a: ¢gtw d ka tÕn
¢peleÚqeron, £n tij m¾ qerapeÚV toÝj ¢peleuqerèsantaj À m¾ kanîj· qerape
a d
foit©n trj toà mhnÕj tÕn ¢peleuqerwqnta prÕj t¾n toà ¢peleuqerèsantoj st
an,
paggellÒmenon Óti cr¾ dr©n tîn dika
wn ka ¤ma dunatîn, ka per g£mou poien
Ótiper ¨n sundokÍ tù genomnJ despÒtV. plouten d toà ¢peleuqerèsantoj m¾
xenai m©llon· tÕ d plon gignsqw toà despÒtou. Sulla mancanza della paramoné in Platone v. Waldstein,
Operae, cit., pp.102 - 105, che propone alcune spiegazioni.
[33] Gernet, op. cit., pp. 169 ss., seguito da
Biezunska-Malowist, Les affranchis,
cit., p. 441 e da altri. Una nuova epigrafe gortinia relativa ad un decreto del
II sec. a.C. sembra disciplinare la condizione dei liberti, che nel V sec. a.C.
erano insediati in un quartiere cittadino determinato (Magnelli, Una nuova epigrafe gortinia in materia di
manomissione, Dike, 1, 1998, pp. 97 e 112). Cfr. anche Helly, Lois sur les affranchissements dans les
inscriptions thessaliennes, Phoenix, 30, 1976, pp. 153 156; Willetts, Freedmen at Gortyna, CQ, 47, 1954, pp.
216 219.
[34] Segrè, Inscr.
Cal., pp. 175 ss., seguito da
Samuel, op. cit., 1965, pp. 291 ss.
[35] Demostene, Or.
Philippica I, 36. Altri testi in Gernet, op. cit. , p. 169 nt. 4.
[36] Nonostante leccezione costituita dallInscr. Cal. n. 176, giustificata in base
al mancato profitto del patrono (Samuel, op.
cit., p. 292).
[37] Calderini, La
manomissione e la condizione dei liberti in Grecia, Roma, 1965, p. 283 nt.
2 ne desume quindi che a Calymna non
fosse data facoltà al liberto di
liberarsi dalla paramona. Per ultimo Babakos, ZSS, 81, 1964, pp. 37 ss., non seguito però
da Kränzlein (TRG, 35, 1967, pp. 313 e s.) e Waldstein, op. cit., p 146 nt. 10, che rileva lobbligo delle operae per i liberti municipali nella
legge spagnola di Irni del I sec. d.C.
[38] Sembra che Samuel (op. cit., pp. 226 ss.), nel tentativo di reagire a chi poneva i
soggetti a paramoné in una condizione
di semi-libertà, sia stato indotto a considerare gli affrancati esentati da
ogni dovere di patronato.
[39] Cfr. Albanese, Le
persone, cit., p. 74 nt. 258.
[40] Sturm, Droit
suppletif en cas déviction de la regle
normalement applicable, comunicazione presentata al Cairo nel dicembre 1983
alla XXXVII Sessione Internazionale della SIDA; cfr. il sunto nel rendiconto di
Vigneron, in Labeo, 30, 1984, p. 121.
[41] Gli ¢stiko nÒmoi, le leggi civiche, se fossero
state riferite ai romani avrebbero recato in Egitto, a differenza delle
alessandrine, unesplicita indicazione. Così Montevecchi, Aigyptios- Hellen,
cit., p. 353 nt. 27. Diversamente Modrzejewski, La loi des Égyptiens, cit., p. 388 nt. 20.
[42] C. VII,
20, 2 (a. 294); D. 40, 16, 1 (Gaio, II ad edictum praetoris urbani). Cfr. anche C. VII, 14, 8 (293); D.
40, 12, 37 (Callistrato, II quaestionum).
Albanese,
Le persone, cit., p. 28; p. 63 nt.
224; Wlassak, Der Gerichtsmagistrat im
gesetzlichen Spruchverfahren, ZSS, 28, 1907, p. 93 nt. 2; Taubenschlag, Das röm. Privatrecht zur Zeit Diokletians, Bull. de lAccadémie Polonaise des
Sciences et des Lettres, 1919-1920, Cracovie, 1923, p. 151 (= Opera Minora, Warszawa, 1959, p. 15 e s.);
Bartoek, De lingenuité en droit romain,
Czasopismo Prawno Historycne, 3, 1959, pp. 12 ss.; Litewski, La retractatio de la sentence établissant lingenuitas, RIDA, 23, 1976, pp. 181 e
s.
[43] D. 1, 5, 27 (Ulpiano, V opinionum): Eum, qui se
libertinum esse fatetur, nec adoptando patronus ingenuum facere potuit.
[44] D. 38, 2, 1 pr.:
cum ex servitute ad civitatem romanam perducuntur.
[45] Masi Doria, Civitas,
operae, obsequium. Tre studi sulla condizione dei liberti, I, Civitas libertasque (= Zum Bürgrrecht der Freigelassenen,
Festschrift Waldstein, Stuttgart, 1997, pp. 231ss.), Napoli, 1993, pp.1
ss.
[46] Syll.3 543 = ILS 8763.
[47] D. 38, 1, 42 (Papiniano, IX responsorum):
iuri publico
derogare non potuit, qui fideicommissariam libertatem dedit. Sulla
posizione del manumissore ex causa
fideicommissi v. Albanese, Le
persone, cit., p. 64 nt. 226.
[48] C. VI, 4, 3 (529); cfr. VI, 4, 4, 1 (531);
Albanese, Le persone, cit., p. 99 nt.
387.
[49] Biezunska-Malowist, op. cit., p. 442.
[50] La Pira, op.
cit., p. 150. Analogamente Samuel (op.
cit., p. 295) connette
laffrancamento in Grecia al concetto di proprietà. Libertà tuttavia non
esclude doveri.
[51] C. VI, 4, 3 (529); Bas. 49, 1, 28 [= C.VI, 4, 4
(531)]; Nov. 78, 2 (539). La Pira, op. cit.,
pp. 145 ss.; Harada, Der Verzicht auf den
Patronat und das Gesetz Justinians in C. 6, 4, 3, ZSS, 58, 1938, pp. 136;
Masi Doria, Bona libertorum. Regimi
giuridici e realtà sociali,
Napoli, 1996, p. 391 nt. 372.
[52] C. VII, 20, 2 (a. 294); C. VII, 14, 8 (293).
[53] D. 40, 12, 37 (Callistrato, II quaestionum); Albanese, op. cit., p. 28 nt.48; p. 99 nt. 387.
[54] C. VII, 16, 30: Solo obsequii non praestiti velamento data libertas rescindi non
potest. Così in Mitteis, Reichsrecht u.
Volksrechte in den östlichen Provinzen des römischen Kaiserreichs, Leipzig,
1891, p. 392; Partsch, ZSS, 28, 1907, pp. 428 ss. (praecipue, p. 434); Taubenschlag, Das röm. Privatrecht zur Zeit Diokletians, cit., p. 227 (= Opera Minora, I, cit., p. 110).
Cfr. anche Robleda, Il diritto degli
schiavi, Roma, 1976, p. 49.
[55] In C. VI, 3, 12 (293) (Qui manumittuntur, liberum ubi voluerint commorandi arbitrium habent
nec a patronorum filiis, quibus solam reverentiam debent, ad serviendi
necessitatem redigi possunt, nisi ingrati probentur, cum neque cum patrono
habitare libertos iura compellunt) si è ritenuto interpolato linciso nisi ingrati probentur e si è affermato
che Diocleziano non avrebbe innovato in tema di revocatio in servitutem estendendone ai figli del patrono
lesercizio contro il liberto ingrato. La novità, dovuta ad influenze
greco-orientali sarebbe stata piuttosto di Costantino e limitata al solo
patrono. Onorio invece avrebbe esteso la revoca agli eredi. Sul punto cfr.
Amelotti, Per linterpretazione della
legislazione privatistica di Diocleziano, Milano, 1960, p. 115 e s. e la
lett. ivi cit.
[56] I casi della libertà del testatore e della
costruzione su terreno altrui, sui quali Modrzejewski, op. cit., pp. 389 ss. e 394 ss., richiama lattenzione, danno luogo
ad una soluzione nel primo caso non accolta dai Romani, nel secondo senza
contrasto tra diritto romano e diritti locali.