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Le dichiarazioni di nascita

nell’Egitto romano

di Gianfranco Purpura

in: IX Convegno Internazionale di Egittologia e Papirologia, Palermo 10 – 13 novembre 2004


Secondo un’opinione comunemente diffusa, una riforma di Ottaviano Augusto - quella relativa alla presunta obbligatorietà delle dichiarazioni di nascita dei figli legittimi dei cittadini romani – sarebbe stata destinata a perpetuarsi sino ai nostri giorni, essendo stata estesa da Marco Aurelio, intorno al 174/176 d.C., anche  alla filiazione illegittima.

Il primo dei principi, indotto dal desiderio di salvaguardare e garantire lo statuto delle persone libere e dei figli legittimi, avrebbe creato quello che poi, per noi, sarebbe divenuto lo stato civile, ordinando a tutti i cittadini di denunziare tramite professio, pubblicata in albo, solo i legittimi. Vietando invece la professio per gli illegittimi, li avrebbe discriminati in ottemperanza ad una diversa valutazione sociale di questi ultimi. Tuttavia avrebbe poi ammesso che tramite una testatio, di solito per iniziativa materna, anche gli illegittimi avrebbero potuto infine essere dichiarati, per assicurare comunque ai neonati la certezza nel tempo del proprio status.

Ad introdurre la riforma, nonostante il silenzio in proposito delle fonti letterarie o giuridiche (anomalo soprattutto quello di Svetonio), sarebbero state proprio le leggi augustee Aelia Sentia e Papia Poppaea del 4 e 9 d.C., come sembrano attestare le tavolette cerate di nascita, giunte sino a noi:

 

Tab. Cairo 29812 del 62 d.C. (= CPL 148 = FIRA III, 2):

 

L. Iulius Vestinus praefectus Aegypti nomina eorum qui e lege Papia Poppaea et Aelia Sentia liberos …natos sibi professi sunt proposuit…

 

Tale riforma augustea, basata sulla netta demarcazione tra professio esclusivamente riservata ai legittimi e testatio per gli illegittimi, è stata recentemente messa in dubbio[1] e si è giunti a rilevare tra l’altro che le dichiarazioni dei figli legittimi (professiones) erano sempre presentate attraverso testationes, documenti cioè redatti nella forma oggettiva tipica del mondo romano, e che le testationes degli illegittimi potevano esser pur dette professiones, dichiarazioni appunto, come avviene quando una

Mulier gravida repudiata, filium enixa, absente marito ut spurium in actis professa est… (D. 22, 3, 29, 1: Scevola, l. IX Digestorum).

 

Ma su tale testo ritorneremo ed anche sul fatto che Ottaviano non vietò, come comunemente si è creduto, la professio degli illegittimi.

Sono state quindi di recente chiarite le motivazioni delle leggi Papia Poppaea ed Aelia Sentia, che esulavano dal proposito di determinare lo stato civile dei legittimi, ed è mutata l’intera ricostruzione documentale del regime delle dichiarazioni di nascita. Sono state precisate le procedure impiegate per dichiarare i figli dai cittadini delle poleis greche e dagli indigeni peregrini nelle province dell’impero[2], pratiche talvolta preesistenti alla stessa riforma augustea ed in Oriente denominate aparchái, “offerte preliminari” originariamente connesse al dono delle primizie e successivamente passate ad indicare “contributi d’ingresso” versati per accedere ad una nuova condizione[3]. Inoltre, anche l’estensione agli illegittimi dell’obbligo della dichiarazione al tempo di Marco Aurelio risulta adesso precisata da Sanchez-Moreno[4], evitando di confondere, come è avvenuto sinora, le dichiarazioni dei militari con quelle degli illegittimi. Moderni pregiudizi collegati ad una discriminazione tra filiazione legittima ed illegittima non sembra che affligessero i romani, che invece distinguevano tra filiazione dei militari e filiazione illegittima.

Da tutto ciò si è ricavata la convinzione che potesse esistere nel Tabularium in Campidoglio un unico registro centrale, un kalendarium  dei cittadini romani[5], tenuto aggiornato anche con l’album propositum dei legittimi, periodicamente trasmesso dalla periferia al centro dell’impero. Sembra infatti che in seguito alla lex Plautia Papiria de civitate dell’89 a.C. le diverse liste locali di concessione della cittadinanza siano state fuse in un unico registro dei cives e che il risultato sia stato trascritto in una lista deposta negli archivi ufficiali[6]. La Tabula Banasitana dimostra che ancora nella seconda metà del II sec. d.C. veniva effettuato un aggiornamento periodico a Roma della suddetta lista ufficiale[7].

Se agli inizi del ‘900 gli atti di dichiarazione di nascita di epoca romana rinvenuti in Egitto erano appena una diecina[8], già alla metà del secolo era possibile prendere in considerazione sedici dichiarazioni di cittadini romani[9], il cui rinvenimento ha offerto la possibilità di affrontare un tema[10]  che, senza il contributo papirologico, si sarebbe fondato solo in vaghe notizie delle fonti letterarie ed in testi, non meno incerti, della Compilazione[11].

Oggi il numero delle dichiarazioni di nascita dei cittadini romani è aumentato di poco, attestandosi a diciannove (quello delle dichiarazioni dei greco egizi raggiunge la ventina[12]), ma le incertezze non sono diminuite. Eppure il tema delle dichiarazioni di nascita, ritenute in dottrina diverse per finalità tra i cittadini romani ed i greco egizi – le une miranti a fruire dei vantaggi concessi dalle leggi Iulia et Papia ed Aelia Sentia,  facilitando la prova dell’età, del numero dei discendenti e di riflesso l’accertamento dello status personarum, le altre, quelle dei greco egizi, connesse al censimento domiciliare ogni quattordici anni, per valutare in definitiva l’entità delle imposte personali da corrispondere e consentire la registrazione dei figli nello status privilegiato dei genitori[13] – presenta implicazioni giuridiche che la particolare prospettiva delle fonti, volta a dar scarso risalto alla prassi documentale, inconsapevolmente trascura. Di conseguenza vi è incertezza non solo sulle modalità di tenuta dei registri di cittadinanza e di conservazione degli elenchi di filiazione legittima dopo l’esposizione in pubblico, ma anche sull’esistenza di registri di filiazione illegittima o dei militari peregrini, da alcuni ritenuta plausibile[14].

Si è sostenuto che l’obbligatorietà di effettuare le dichiarazioni  fosse per i greco egizi ristretta solo ai nati entro un certo numero di anni dopo il censimento, mancando proprio le dichiarazioni dell’anno del censimento e dei due anni precedenti[15], ma adesso è stata resa nota una dichiarazione di nascita del 117/118 d.C. (CPR XV 24), resa proprio alla vigilia di un censimento generale della popolazione, che denota una continuità dell’obbligo. Frequentemente i greco egizi venivano denunciati anche con un ritardo di quasi tre anni, al momento del compimento della kat joijkivan ajpografhv.

Se ciò rispecchia la relativa indifferenza degli antichi per l’esatta determinazione dell’età dell’individuo (collegandosi ad una concezione del tempo e del fluire della vita dell’uomo diversa da quella dei moderni), impone cautela nell’attribuire all’antica dichiarazione di nascita ed alla stesura di un documento il valore che oggi assegniamo: almeno all’origine, tanto per i greco egizi, che per i romani, sembra che venisse perseguita la prospettiva di un vantaggio economico. E’ stato infatti rilevato che per le dichiarazioni dei greco egizi l’espressione “denunce di nascita” appare inappropriata in quanto “la notifica della nuova nascita non aveva precipuamente lo scopo di tenere aggiornate le liste anagrafiche, ma piuttosto di consentire la registrazione dei figli nello status privilegiato dei genitori”[16]. Ad indurre all’atto era, a mio avviso, soprattutto il vantaggio economico del dichiarante e non l’interesse statale alla registrazione di tutti i cittadini.

Se per i romani ciò non è apparso subito evidente, lo si deve al fatto che si è ritenuto che a partire dalle leggi Sentia e Poppaea fosse stato imposto per i figli dei cittadini un diverso regime tra legittimi ed illegittimi e si è valutata tale prescrizione di Ottaviano come connessa con la nascita dello stato civile. Nel 1927, in una tavoletta del Museo del Cairo del 62 d.C.[17] si leggeva che era stata la legislazione Papia Poppaea ed Aelia Sentia ad imporre l’affissione in pubblico dei nomi dei neonati che erano stati professi e poco dopo, nel 1928,  nel P. Mich. III, 169 del 145 d.C.[18] si riscontrava la prima testimonianza diretta che le leggi Sentia e Poppaea escludevano la professio in albo degli illegittimi[19]. Quindi dall’esegesi combinata delle due tavolette egiziane si è desunta arbitrariamente l’esistenza di una netta demarcazione tra legittimi ed illegittimi e sostenuto l’obbligatorietà per i legittimi della  denuncia da parte del padre all’autorità mediante professio[20], circostanza in effetti non chiarita nelle tabulae ceratae.

Il termine di trenta giorni dalla nascita e dall’imposizione del nome per effettuare la dichiarazione sarebbe stato, attenendosi alle testimonianze documentali disponibili, costantemente rispettato, almeno sino alla fine del II sec. d.C. La testatio per gli illegittimi invece sarebbe stata effettuata senza limiti di tempo, con una dichiarazione dell’avente potestà, che nell’interesse del nascituro avrebbe potuto realizzare una documentazione di parte. La professio in albo sarebbe stata proibita anche per i figli dei soldati in servizio attivo, in quanto illegittimi, almeno fino a Settimio Severo. Infatti in alcune tavolette pervenuteci si dichiara che: “…atque se testari ex lege Aelia Sentia et Papia Poppaea quae de filis procreandis latae sunt nec potuisse se profiteri propter distrinctionem militiae” (P.Mich. VII, 436 del 138 d.C.). Dunque si redigeva una dichiarazione privata con l’assistenza di sette testimoni (testatio, devlto" marturopoihvsew") che comprovava la filiazione naturale e che, a tempo debito per i figli dei soldati, avrebbe potuto essere utilizzata per il riconoscimento della cittadinanza romana mediante ejpivkrisi".

Per l’opinione dominante quindi, “per i legittimi avrebbe potuto parlarsi di professio e di testatio; di quest’ultima cioè in mancanza della prima o eventualmente sempre dopo, e non mai prima”[21]. Per gli illegittimi la professio avrebbe dovuto essere invece sempre tassativamente esclusa in base alle testimonianze di documenti come il P. Mich. III, 169[22] , ove nel momento del compimento di una testatio di due gemelli illegittimi da parte della madre, tutore auctore, espressamente si dichiarava che era stata proprio la lex Aelia Sentia et Papia Poppaea a vietare la professio in albo  degli spurî. Negativamente, la medesima esclusione si riteneva di poter ricavare da P. Mich. VII, 436 del 138 d.C., che sembrava indicare che a causa del servizio militare non poteva essere effettuata una professio, ma una testatio ex lege Aelia Sentia et Papia Poppaea quae de filis procreandis latae sunt. Si equiparava così in tutto e per tutto la testatio degli illegittimi a quella dei militari, ritenendole entrambe colpite dal divieto legislativo augusteo, determinato da principii di salvaguardia della moralità. Tale tutela tuttavia non discriminava tra filiazione legittima ed illegittima i vantaggi offerti dal ius liberorum. Sembra infatti che i benefici conseguenti al numero dei figli venissero accordati computandone il numero complessivo e non tenendo soltanto conto di quello dei legittimi. Tale equiparazione si giustifica come ricompensa della prolificità delle donne; prolificità che non era in tale prospettiva ovviamente opportuno distinguere tra legittima ed illegittima e dunque i vantaggi non venivano concessi come premio della moralità.

L’apparentemente solida distinzione tra professio e  testatio, basata su di una differenziazione documentale[23], dipendeva, come riconosceva Lanfranchi, dall’inesistenza di professiones di spurî, poiché “dove c’è professio c’è sempre filiazione legittima; là dove c’è testatio (come atto originario), c’è – di regola! – filiazione illegittima”[24]. Eppure, come già rilevava con correttezza Lanfranchi, in tale ricostruzione stupisce “che la denunzia degli illegittimi non sia stata regolata in guisa completamente parallela a quella dei legittimi, con una testatio-atto tipico, riservata a quelli soltanto, attuantesi dinanzi al funzionario pubblico con le analoghe … caratteristiche di procedura”[25].

In effetti, “il profiteri  in relazione agli spurî è contemplato come possibile ed in realtà effettuato” in D. 22, 3, 29, 1[26]. Si è tentato di superare le innegabili difficoltà suscitate dal testo di Scevola, sostenendo che esso si riferisca ad un momento posteriore ad una radicale riforma di Marco Aurelio :

 

                        Historia Augusta, Vita Marci IX, 7-8

 

Liberales causas ita munivit, ut primus iuberet (sc. Marco Aurelio) apud praefectos aerari Saturni unumquemque civium natos liberos profiteri intra tricesimum diem nomine imposito. Per provincias tabulariorum publicorum usum instituit, apud quos idem de originibus fieret, quod Romae apud praefectos aerarii, ut si forte aliquis in provincia natus causam liberalem diceret, testationes inde ferret. Atque hanc totam legem de adsertionibus firmavit, aliasque de mensariis et auctionibus tulit. De statu etiam defunctorum intra quinquennium quaeri iussit.

 

In base a tale riforma, ascrivibile, secondo l’opinione corrente[27], all’incirca agli anni  174/6 d.C., sarebbero state soppresse le originarie professiones e testationes e sarebbe stato stabilito un solo modo di profiteri per tutti, eliminando le restrittive disposizioni delle leggi Sentia e Poppaea. Ciò avrebbe comportato la necessità di indicare nei documenti il tipo di filiazione ed implicato nella prassi il mancato rispetto del termine di trenta giorni per la dichiarazione, prima osservato[28]. Ma se tale situazione sembra essere rispecchiata da dichiarazioni di nascita del III sec. d.C., come il dittico Guéraud del 242, una serie di documenti del regno di Marco Aurelio[29] non sembra registrare alcun mutamento rispetto al passato e dunque, se si tratta di documenti di data incerta, si tende a retrodatarli o a postergare la riforma agli ultimi anni di vita di Marco Aurelio, assegnando così l’imbarazzante testo di Scevola, sopra ricordato, a dopo il 174/6, ad un momento cioè immediatamente successivo all’ipotetico mutamento avvenuto alla fine del suo regno.

Dopo oltre settant’anni dalla sua formulazione, un’ipotesi avanzata da Cuq[30] e respinta da Lanfranchi[31] riceve oggi meritata riabilitazione ad opera di  Sánchez-Moreno il quale osserva innanzitutto che l’esame delle testimonianze papiracee non sembra essere decisivo per dimostrare che  devlto" professivwno" e  devlto" marturopoihvsew" si riferiscano ad atti di diversa natura[32], rispettivamente connessi con filiazione legittima ed illegittima. La distinzione deve piuttosto porsi tra professio in actis per legittimi e spurî, effettuata mediante testatio, e professio in albo utilizzata dai legittimi come prova e solo a costoro riservata dalle leggi  Sentia e Poppaea. In pratica esisteva un solo atto, la professio, formale dichiarazione dei cittadini resa all’autorità, tanto per i legittimi, che per gli illegittimi[33]. Tale denuncia originale, che già Wenger segnalava resa in prima persona e dunque da distinguere dalla copia della tabula albi che la riassumeva in terza persona (descriptum et recognitum o testatio, che dir si voglia), per quanto riguarda il regime anteriore a Marco Aurelio non ci è pervenuta e non sembra che venisse integralmente esposta in albo[34]. Il P.Oxy. VI, 894 del 194/6 d.C., che reca la locuzione professus est, secondo alcuni sembra contenere l’originale della dichiarazione di nascita[35], a differenza dei descripta et recognita che sempre la sottintendono. Si riferisce comunque ad un momento successivo alle modifiche di Marco Aurelio e sembra essere una copia autenticata di una professio che, in seguito alla riforma, veniva rilasciata all’interessato in sostituzione del descriptum et recognitum o testatio, in precedenza realizzato a cura della parte interessata[36]. Da tale momento in effetti si riscontra nella documentazione pervenutaci la scomparsa di descripta et recognita o testationes  e la sussistenza di copie, tutte autenticate di professiones[37].

Prima di Marco Aurelio, per gli illegittimi gli inconvenienti inflitti dal regime augusteo sarebbero stati solo quelli derivanti dal fatto che costoro non avrebbero avuto a loro disposizione alcuna prova della professio in actis, ad eccezione della testatio che essi stessi realizzavano, la quale restava in ambito privato e godeva dunque di limitato valore probatorio. Per motivi di propaganda morale, caratteristici della politica augustea[38], sarebbe stata proibita la pubblicità del presunto album degli spurî ed è probabile che per gli illegittimi, come per i legittimi, la professio non fosse obbligatoria, ma imposta in maniera indiretta attraverso la prospettiva dei vantaggi conseguenti al ius liberorum, senza in pratica escludere gli spurî da ogni controllo ufficiale di registrazione negli acta. “In un mondo come il romano, un sistema di registrazione obbligatoria non sembra realizzabile”[39] e l’ignoranza della propria età appariva normale, come dimostra il frequente arrotondamento nelle epigrafi funerarie degli anni di vita in cinque o dieci[40]. Se a lungo persistette la prassi della registrazione della nascita negli acta privata delle singole famiglie, pratica idonea ad indicare approssimativamente l’età di un individuo, fu solo, a mio avviso, con la registrazione nel Kalendarium dei cittadini, per godere cioè dei vantaggi connessi ad uno status privilegiato, che si potè disporre di una data ufficiale e certa della nascita. Ma la registrazione non veniva effettuata tanto per tenere aggiornate liste anagrafiche della popolazione, quanto per controllare l’attribuzione di vantaggi connessi ad uno status particolare.

In altri termini, le leggi Papia e Sentia si sarebbero limitate a prevedere un regime volontario delle dichiarazioni di nascita e delle relative prove, con il solo scopo di disciplinare l’ammissione dei cittadini ai benefici che esse prevedevano, indipendentemente da una distinzione tra legittimi ed illegittimi. Con il termine professio si alludeva infatti ad ogni dichiarazione di nascita di un cittadino, sia legittimo che spurio; alle due modalità cioè di denuncia, in albo ed in actis. Nel caso dei legittimi la testatio si effettuava ricavandola dalla tabula albi (descriptum et recognitum ex tabula albi), nel caso degli illegittimi invece la testatio si realizzava con la collaborazione di amici-testimoni come prova del fatto della nascita, poiché non sussisteva una tabula, in publico proposita.

L’inesistenza di un descriptum et recognitum di data posteriore a Marco Aurelio  - il riformatore che secondo gli interpreti della Historia Augusta avrebbe unificato il regime della professio - può suggerire che fosse stato fissato un sistema probatorio comune, fondato sull’autenticazione di copie estratte dagli archivi; per quanto le testimonianze relative - certificati cioè con autenticazione - siano finora tutte dell’età dei Severi[41] e non appare agevole stabilire se Marco abbia soppresso il divieto di profiteri in albo per gli illegittimi, mantenendo l’album, o piuttosto abbia reso universale la modalità della professio in actis. L’ultima testatio datata d’illegittimi è del 145 d.C. (P. Mich. III, 169)[42]. 

Le testationes effettuate da militari, membri degli auxilia, prima dell’honesta missio, si differenziavano da quelle degli illegittimi, poiché le dichiarazioni dei soldati di non poter effettuare una professio[43] non scaturivano dall’illegittimità, come si è finora ritenuto, ma dalla mancanza del requisito della cittadinanza. Infatti il comune scioglimento delle sigle c r e a K  che si notano in alcuni documenti[44] - interpretate come civem romanum esse ad Kalendarium - sembra confermare che requisito richiesto per essere registrato nel Kalendarium, non fosse la legittimità, ma la cittadinanza[45].  Infatti nella dichiarazione del figlio di un militare, riferita in P. Mich. VII, 436, si affermava di aver dovuto effettuare una testatio in base alle leggi augustee sopra indicate soltanto propter distrinctionem militiae, senza far alcun riferimento alla condizione di spurio del bambino, come invece accade per gli illegittimi in P. Mich. III, 169. Come chiarisce il Dittico Bell[46] del 127 d.C. il militare effettuava la testatio, non solo a causa del servizio, ma ut possit post honestam missionem suam ad epicrisin suam adprobare filium suum naturalem esse.

Anche nel caso della TH. 5  del 60 d.C. venne realizzata una testatio per la nascita di una figlia legittima, che ha suscitato difficoltà ai sostenitori dell’esclusività della professio per i legittimi, ma si trattava di un padre che in realtà non era cittadino[47].

Dunque la testatio veniva precostituita come prova privata del fatto della nascita per dare successivamente inizio al procedimento della professio, quando fosse stato possibile. Sussistono infatti indizi che indicano che la testatio veniva realizzata in doppia copia (binae tabulae), proprio in quanto un esemplare veniva trattenuto dalla famiglia come duplicato, l’altro normalmente consegnato per l’inserimento della nascita nel registro (professio in actis); quest’ultimo, diversamente da quanto è stato finora supposto, per i legittimi e gli illegittimi, non era altro che un Kalendarium di cittadini, ove i figli dei militari, non cittadini prima dell’honesta missio, non avrebbero potuto essere registrati.

Sánchez-Moreno[48] è stato indotto ad ipotizzare l’esistenza di un terzo registro degli illegittimi, non esibito in pubblico, poiché ha ritenuto  poco verosimile che la prova, in tema di ius liberorum o di età per effettuare la manomissione, restasse esclusivamente riservata in ambito privato[49], senza alcun controllo ufficiale. Tuttavia, a mio avviso, di tale registro degli illegittimi, oltre al kalendarium dei cittadini ed all’Album dei legittimi, non vi era necessità, né per scopi d’ufficio, né di documentazione, essendo sufficiente il mero elenco dei cittadini per risolvere dubbi in tema di ius liberorum o di età per le manomissioni, poiché è certo che comunque una data più o meno sicura di nascita avrebbe dovuto essere indicata nel kalendarium dei cittadini, ove confluivano le dichiarazioni affisse in pubblico dei legittimi, quelle degli illegittimi, oltre alle concessioni di cittadinanza, nelle quali era dichiarata l’età, come appare nella Tabula Banasitana. 

Allora, il dubbio che con la riforma di Marco Aurelio sia stato soppresso il divieto di profiteri in albo per gli illegittimi o piuttosto resa universale la sola professio in actis, può forse risolversi rendendosi conto che in fondo (non esistendo un terzo registro, quello degli illegittimi) si tratta di stabilire se la dichiarazione di nascita di un cittadino romano, sia legittimo che illegittimo, registrata nel Kalendarium della cittadinanza e dopo Marco Aurelio autenticata dalla autorità, fosse destinata o meno ad essere resa nota in pubblico con una specifica comunicazione. E’ assai probabile, a questo punto, che lo fosse e che quindi Marco, disponendo il periodico aggiornamento in pubblico del kalendarium di tutti i cittadini insieme al rilascio di copie autenticate abbia semplicemente consentito quanto era stato parzialmente vietato da Ottaviano per motivi di propaganda morale.   

All’imperatore Marco Aurelio, più che ad Ottaviano, sembra dunque di poter attribuire l’origine dello stato civile. 

  Gianfranco Purpura

    Dipartimento di Storia del Diritto

     Università di Palermo

 



[1] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones y los registros de nacimientos en Derecho Romano, con especial atención a las fuentes papirológicas, Madrid (2001).

[2] G. Geraci, Le dichiarazioni di nascita e di morte a Roma e nelle province, MEFRA 113 (2001/2002), pp. 675-711.

[3] Cfr. ad es. il Gnomon dell’Idios Logos §. 47.

[4] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones y los registros de nacimientos, pp. 81 ss.

[5] G. Purpura, Rec. dell’opera di Carlos Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones y los registros de nacimientos, [in corso di pubblicazione sulla rivista IVRA, Rivista Internazionale di Diritto Romano e Antico, 52 (2001)] = IURA  – Portale di diritto romano (http://www.unipa.it/dipstdir/portale/)

[6] Moreau, La mémoire fragile: falsification et destruction des documents publics au Ier S. av. J.-C., La mémoire perdue, Publications de la Sorbonne, Paris, 1994, p.  138.

[7] G. Purpura, Diritto, papiri e scrittura, Torino, 1999, p. 91 nt. 180.

[8] Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance, in Mélanges Fournier (Paris 1929), p. 122 nt. 2 ricorda che si trovano raccolti in due articoli di Cagnat, Extraits de naissance égyptiens, in  Journal des Savants (JS) (1927), p. 193; Id., Deux nouveaux certificats de naissance égyptiens, in JS (1929), pp. 74 ss. (non vidi).

[9] L’elenco, fornito da O. Montevecchi, Ricerche di sociologia nei documenti dell’Egitto greco-romano, VI. Denunce di nascita di greco egizi, in Aegyptus, 27 (1947), pp. 3-4, deve essere integrato con l’ aggiornamento in Id., La Papirologia, Milano (1988), p. 180 ed il supplemento in Addenda, p. 565.    

[10] Kelsey, A Waxed table of the year 128 AD, in TAPA 54 (1923), pp. 187 ss.; Sanders, The birth certificate of a roman citizen, in Class. Phil. 22 (1927), pp. 409 ss.; Guéraud, Tablette 29807 et tablette 29812, in BIFAO 27 (1927), pp. 118 ss.; Cagnat, Extraits de naissance égyptiens cit., p. 193; Sanders, A birth certificate of the year 145 AD, in AJA 32 (1928), pp. 309 ss.; Id., The Kalendarium again, in Class. Phil. 23 (1928), pp. 250 ss;  Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance cit., pp, 119 ss.; Cagnat, Deux nouveaux certificats de naissance égyptiens cit., pp. 74 ss.; Weiss, Zur Rechtsstellung der unehelichen Kinder in der Kaiserheit, in ZSS 49 (1929), pp. 260 ss.; Sanders, Two fragmentary birth certificates from the Michigan Collection, in MAAR IX (1931), pp.  62 ss.;  Scheltema, Professio liberorum natorum, in TR XIV (1936), p. 93; Sanders, Papyri in the University of Michigan, III (Ann Arbor 1936); Id., A birth-certificate of 138 AD, in Aegyptus 17 (1937), pp. 223 ss.; Bell, A registration of birth, in JRS 27 (1937), pp. 30 ss.; Guéraud, À propos des certificats de naissance du Musée du Caire, in Ét. Pap. IV (1938), pp. 25 ss.;  Id., Une déclaration de naissance du 17 Mars 242 après J.C., in Ét. Pap. VI (1940), pp. 21 ss.;   Pescani, Osservazioni su alcune sigle ricorrenti nelle professiones liberorum, in Aegyptus (1941), pp. 129 ss.; Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita nel diritto romano (Faenza, 1942) (II ed., Bologna, 1951); Schulz, Roman register of birth and birth certificates, in JRS 32-33 (1942), pp. 78 ss. [= in BIDR 55-56 (1951), pp. 170 ss.]; Id., Premesse terminologiche a ricerche sulle azioni di stato nella filiazione in diritto romano, in St. Univ. Cagliari (29, 1946), pp. 1 ss.; Montevecchi, Denunce di nascita di greco egizi, in Aegyptus 27 (1947), pp. 3 ss.; Sanders, Dunlap, Papyri in the University of Michigan, VII (Ann Arbor, 1947); Weiss, Professio und testatio nach der Lex Aelia Sentia und der Lex Papia Poppaea, in BIDR, X-XI (1948), pp. 316 ss.; Montevecchi, Ricerche di sociologia nei documenti dell’Egitto greco-romano, in Aegyptus, 28 (1948), pp. 129 ss.; Lévy, Les actes d’état civil des romains, in RH (30 1952), pp. 449 ss.; Crawford,  Catalogue of the greek and latin papyri tablets and ostraka in the Library of Mr. G.A. Michaelides (Aberdeen, 1955); Lanfranchi, Ricerche sulle azioni di stato, nella filiazione, II (Bologna, 1964); Lévy, Nouvelles observations sur les professiones liberorum, in Études Macqueron (Aix-en-Provence, 1970); Lanfranchi, Prime considerazioni sull’impugnativa di paternità in diritto romano, in Studi Volterra, IV (Milano, 1971), pp. 105 ss.; Nelson, Status declarations in roman Egypt (Amsterdam, 1979); Terreni, P. Mich. III, 169: il mistero di Sempronia Gemella, in SDHI (62, 1996), pp. 573 ss.; G. Geraci, Le dichiarazioni di nascita e di morte a Roma e nelle province, MEFRA 113 (2001/2002), pp. 675-711.   

[11] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones cit., p. 22.

[12] Le dichiarazioni di nascita o notifiche di un bambino, di più recente rinvenimento (O. Montevecchi, Addenda, p. 565), sono quasi tutte posteriori alla concessione della cittadinanza del 212 d.C. 

[13] O. Montevecchi, La Papirologia cit., pp. 177 ss.;  G. Geraci, Le dichiarazioni di nascita, cit.,  pp. 702 ss.

[14] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones cit., p. 68.

[15] O. Montevecchi, La Papirologia cit., pp. 179 e s.; Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita cit., p. 91 nt. 208 riassume le opinioni precedenti.

[16] G. Geraci, Le dichiarazioni di nascita, cit.,  pp. 702 ss.

[17] T. Cairo 29812 = CPL 148 = FIRA III, 2.

[18] Inv. 4529 = CPL 162 = FIRA III, 4.

[19] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones cit., p. 142.

[20] Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance cit., p. 130 indica trentotto giorni dalla nascita per le femmine, trentanove per i maschi.

[21] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita cit., p. 79 nt. 240 e pp. 89 e s.

[22] O la Tab. Cairo 29812 del 62 d.C. (= CPL 148 = FIRA III, 2).

[23] Viene comunemente addotta come prova la testimonianza offerta da P.Oxy. XII, 1451 del 175 d.C., nella quale una certa Trunnia in una dichiarazione di ejpivkrisi", per godere dei vantaggi offerti dal ius liberorum, sembra contrapporre il devlto" marturopoihvsew" dei figli illegittimi al devlto" professivwno", relativo alla sua filiazione legittima. Altro indizio di una distinzione si è intravisto in BGU IV, 1032 del 173 d.C.

[24] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita cit., p. 79.

[25] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico cit., p. 82.

[26] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico cit., p. 95.

[27] G. Geraci, Le dichiarazioni di nascita, cit.,  p. 680 per ultimo indica la data del 164/169 d.C., ma al riguardo cfr. le osservazioni di C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones cit., p.  .

[28] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico cit., p. 93.

[29] BGU VII, 1694 del 163; BGU IV, 1032 del 173 e P.Oxy. XII, 1451, che si riferisce ad una dichiarazione forse del 175.

[30] Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance cit., pp. 123 ss.

[31] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico cit., p. 95 nt. 286.

[32] Come  P.Oxy. VIII, 1114;  P.Oxy. XII, 1451;  BGU IV, 1032  e  SB V, 5217;  C. Sánchez-Moreno

Ellart, Professio liberorum cit., p. 166.

[33] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., p. 168.

[34] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., p. 62 e nt. 181.

[35] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico cit.,  p. 61

[36] Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., p. 158

[37] P.Oxy. VI, 894 del 194/6 d.C.; P.Oxy. XXXI, 2565 del 224 d.C.; Dittico Guéraud (SB 9200) del 242 d.C. In realtà, solo nel Dittico Guéraud appare l’indicazione recognovi del funzionario, ma la locuzione professus est - adesso presente nei certificati - e la subscriptio greca denotano il mutamento convincentemente posto in risalto da  Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., pp. 92 ss.

[38] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., p. 170.

[39] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., p. 77 e nt. 271.

[40] Duncan Jones, Age-rounding, illiteracy and social differentiation in the roman empire, in Chiron, VII (1997), pp. 333 ss.

[41] Cfr. supra i documenti cit. nella nt. 24.

[42] Essendo il P. Michaelidae 61 (= CPL 164), forse posteriore e riferibile ad un illegittimo, purtroppo non databile. 

[43] Come quella che si riscontra in P. Mich. VII, 436 (Inv. 3994).

[44] P. Mich. III, 167 (Inv. 2737) del 103 d.C.; P. Mich. III, 166 del 128 d.C.; BGU VII, 1692 del 144 d.C.; P. Mich. III, 168 del 144/5 d.C.; T. Oxford  Libr. Ms. Lat Class. e 16 P (=CPL 155) del 147 d.C.; P. Mus. Cairo Inv. 29807 (= CPL 156) del 148; BGU VII, 1694 (= CPL 157) del 163 d.C.

[45] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., pp. 71 ed 81 ss.

[46] P. Diog I = CPL 159.

[47] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita cit., pp. 88 e s.; C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., p. 82 e pp. 114-6.

[48] Che in P. Mich. III, 169 potrebbero essere, secondo l’A. (C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum cit., pp. 82), l’uso del latino, il fatto che la dichiarazione era effettuata ad Alessandria, l’assistenza del tutore, la probabile duplicità di copia. Nessuna di tali circostanze appare realmente significativa. 

[49] Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance cit., pp. 130 ss.