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LUOGHI DEL DIRITTO, LUOGHI DEL POTERE

Testo di un intervento effettuato il 26 maggio 2005 nel corso del Seminario interdisciplinare

Principia Iuris

nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, in corso di pubblicazione sulla rivista

Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo (AUPA), 50, 2005 (pubbl. 2006), pp. 247-268

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 Il Palazzo, il Tribunale, il Carcere, il Tempio, ma anche i luoghi del Consiglio, dell’Assemblea, del Mercato, per ricordare i più evidenti, furono i luoghi del diritto e del potere nei quali fin dall’inizio i principia iuris furono determinati. Ulteriormente semplificando: l’Acropoli e l’Agorà sono i due poli che, almeno nell’assetto urbanistico occidentale furono utilizzati per più di quattromila anni.

Prima la situazione era certamente diversa. Ad esempio, a Çatal Hüyük, una proto-città anatolica di 7000 anni fa, non v’erano acropoli, né mura, né strade o piazze[1], ma alle abitazioni si accedeva da una terrazza superiore ampia quanto l’intera città, attraverso pozzi che sprofondavano in corti interne. Strutture urbane del genere si ritiene richiamino assetti istituzionali e sociali antichissimi di tipo egualitario e comunitario.

La comparsa nella Creta minoica, sul finire del III millennio a.C., di uno spazio centrale pubblico e successivamente di un palazzo è stata invece interpretata come un sintomo di una profonda trasformazione del potere politico, da una forma di governo a partecipazione diffusa ad un’altra basata su un potere centrale[2]. All’inizio sembra che  le città minoiche abbiano conosciuto  un sistema politico diverso da quello palaziale. “Le loro rovine ne hanno conservato inequivocabilmente l’impronta: una grande piazza pubblica situata al centro della prima rete urbana” ha indotto a chiedersi se, “sul cammino della storia, la democrazia, creatura tra le più fragili dello spirito umano, non abbia compiuto tentativi e subìto insuccessi che noi ignoriamo”[3]. Come la scrittura dei distruttori dei palazzi minoici, i micenei, ha anticipato in caratteri sillabici il greco alfabetico, così la democrazia delle poleis potrebbe non essere altro che il ricordo di situazioni storiche ben più antiche, anche se è certamente improprio, per un’età protostorica, utilizzare il termine democrazia.

Ancora prima, in alcuni centri del Vicino Oriente sottoposti ad una regalità divina, per una precoce rivoluzione urbana erano già apparse inaccessibili cittadelle ed erte muraglie, ritenute necessarie, più che per scopi di difesa, per impedire ai pacifici agricoltori inurbati di fuggire lontano da un potere guerriero arroccatosi insieme con funzionari e sacerdoti sull’acropoli, in palazzi e santuari ai quali erano annessi magazzini per derrate da redistribuire[4]. Si tratta di una regalità dispotica propria dell’Oriente, che dimorava in migliaia di metri quadrati di palazzo come a Cnosso, ben diversa da quella d’Occidente, insediata, come nel caso dei primi re di Roma, in una arcaica casa aristocratica della seconda metà dell’VIII sec. a.C., di poco superiore ai cento metri quadrati; di recente sembra che la più antica regia sia stata rintracciata da Andrea Carandini tra il Palatino ed il Foro, all’interno del recinto sacro nei pressi della casa delle Vestali e del santuario primitivo di Vesta[5]. Solo il re della fondazione infatti avrebbe potuto vivere nell’area sacra ove fu acceso per la prima volta il fuoco, che le Vestali dovevano custodire. Quando, con il passaggio dalla monarchia latino-sabina alla monarchia etrusca, i Tarquini dominarono Roma costruendo una nuova domus regia all’esterno del recinto di Vesta, nel luogo originario rimase il rex sacrorum, sacerdozio di nuova creazione che conservava le attribuzioni sacerdotali dell’antico monarca latino-sabino[6].

 

Acropoli come caput, come luogo elevato della mente coordinatrice, che a Roma, a differenza dei più antichi centri d’Oriente, ha finito per rintracciarsi nell’Agorà, nel  Foro appunto. Acropoli come mente, poiché semplificando uno solo è in realtà il luogo del diritto, il luogo del potere: la mente che concepisce sia Acropoli, che Agorà; tanto le strutture del diritto, che del potere. La mente che considera i principia iuris, tanto come inizio, come passaggio dal non-essere all’essere, quanto come rivelazione di elementi fondamentali.

Focalizzeremo dunque un luogo preciso: quello della sorgente del diritto, immagine metaforica delle fonti di produzione normativa[7].

 

Si è sostenuto che la metafora delle ‘fonti del diritto’ tragga origine dal punto di vista dogmatico dal pensiero giuridico europeo che si sviluppa dal 1600 sino alla fine del 1800, anche se dal punto di vista filologico appare nel linguaggio degli scrittori latini  come fontes iuris o legum[8]. In realtà è possibile ritenere che essa sia di gran lunga più antica.

E’ a tutti noto che con l’espressione fonti del diritto oggi ci si riferisca tanto a fonti di cognizione (da definire nella maniera più ampia come ogni elemento idoneo a far conoscere un determinato diritto), quanto a fonti di produzione, cioè agli organi o agli  atti in grado di creare, modificare o estinguere le norme di un ordinamento giuridico. Si distinguono dunque le fonti di produzione in senso materiale (cioè gli organi, ad esempio il senato, il popolo…), dalle fonti di produzione in senso formale (cioè gli atti, risultato di tale attività; ad esempio i senatoconsulti, le leggi…).

In una prospettiva storica e più tecnica oggi si parla di evoluzione dalle fonti–fatto alle fonti–atto. Il diritto romano si evolve verso atti normativi astratti partendo da un diritto fattuale e concreto basato sull’attività umana (actio) e sul valore degli individui, dei singoli individui al punto che nella praescriptio dei senatoconsulti, più dell’indicazione del raggiungimento del numero complessivo dei votanti necessario per l’approvazione, contava anche la  specifica menzione del nome di ogni singolo partecipante (…qui scribundo adfuerunt). Così veniva indicato che un SC era approvato per singulorum sententias exquisitas (per appello nominale), pur essendo sempre votato per discessionem (per separazione dell’assemblea in due parti)[9]. Sembra quasi che un atto normativo approvato da determinati individui valga più di un atto deliberato da altri uomini. Poiché appunto erano gli uomini che ancora contavano, più dell’astratto procedimento deliberativo che ha finito per equiparare, nel prodotto realizzato, l’attività dei singoli individui.

In tali condizioni potremmo dire che le fonti di produzione in senso materiale precedono quelle in senso formale, nel senso che i soggetti fisici o i gruppi collettivamente intesi, che con la loro attività producono le norme giuridiche finiscono poi per renderle staccate ed indipendenti dagli organi che le hanno prodotte; esse cioè assumono una forma autonoma, ‘concreta’ ed ‘obbiettiva’[10]. Alcuni studiosi hanno quindi preferito parlare, piuttosto che di fonti di produzione del diritto, di fatti normativi e di fatti di produzione normativa, che consentirebbero di distinguere e separare il momento della produzione, sia dai motivi determinanti, che dal risultato[11]. In tal modo il termine fonte resterebbe riservato alle sole fonti di cognizione del diritto.

Ma la metafora delle fonti di produzione del diritto è antichissima ed è stata concepita nel Vicino Oriente oltre quattromila anni fa. Ingloba numerosi concetti, che possono essere diversamente valutati da coloro che la utilizzarono nelle varie epoche, sino ai nostri giorni: l’idea di sorgente può implicare tanto la novità di un flusso giuridico che viene per la prima volta prodotto, quanto la manifestazione di una realtà giuridica immutabile, che esiste da sempre, ma che è rimasta ignota all’uomo fino al momento della scaturigine. Concezione quest’ultima lontana dal sentire moderno, che invece collega la fonte al divenire ed al nuovo, piuttosto che al rivelarsi di una realtà immutabile. A ben guardare però l’acqua, nel cuore del monte, esiste da sempre.

L’idea dell’acqua poi si collegava ad una freschezza, ad un lenimento, ad una vitalità e capacità di vivificare che la moderna produzione del diritto talvolta stenta ad aver presente. L’acqua spegne le fiamme e seda i contrasti. Ancora nella metà del Cinquecento l’immagine della Salamandra era scelta come “impresa d’anima” da Francesco I per la credenza che l’animale, freddo più del ghiaccio ed in grado di attraversare indenne le fiamme, potesse essere assunto come simbolo di un re che era chiamato a spegnere i contrasti tra gli uomini, capace di trasformare, come si sarebbe detto in antico, il disordine in ordine, il caos in cosmos. Anche Luigi XIV, il “Re-Sole” adottò il simbolo della Fenice, il mitico uccello che rinasceva dal fuoco integro, in tutto il suo splendore[12].

 

Si è sostenuto che in diritto romano “l’idea di un rapporto di causalità genetica fra il diritto come prodotto e le sue fonti come fattori di produzione affiora soltanto in un testo giurisprudenziale (D. 1, 1, 7 pr.) dell’età dei Severi che è caratterizzata dal tendenziale, ma non certo univoco superamento del risalente pluralismo dei iura populi romani[13]. La vicenda testuale è stata così ricostruita: all’inizio dell’età imperiale il termine fons veniva utilizzato come fonte di cognizione, in quanto “testo” che conteneva l’intero diritto romano, da cui scaturiva una conoscenza alla quale si poteva  attingere; infatti in Livio la Lex Duodecim Tabularum è qualificata come fons omnis publici privatique iuris. Poco prima, in Cicerone, la metafora della fonte era stata utilizzata in senso filosofico per indicare il fondamento, la ragion d’essere del diritto[14] e poco dopo, in Pomponio, nel II sec. d.C. la legge delle Dodici Tavole non fu ritenuta causa genetica del ius civile, ma inizio di uno sviluppo storico che avrebbe portato alla graduale configurazione, tramite l’interpretazione giurisprudenziale, di una parte del diritto: il ius civile. Le viae iuris costituendi rappresentavano dunque delle “forme storiche” attraverso le quali, per Pomponio, si era manifestato e realizzato il fenomeno della creazione del diritto. Esse non possono essere considerate fonti di produzione del diritto in senso moderno, non ancora coinvolgendo una causalità genetica tra fattori e prodotto, ma solo un rapporto tra “parti” ed “insieme” dell’ordine giuridico. A conferma di ciò, sempre nel II sec. d.C., in Gaio erano ancora articolazioni storiche della trasformazione del diritto, del processus iuris. Ma già in Papiniano, affermandosi che: “Ius autem civile est, quod ex legibus, plebis scitis, senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit”, non solo si distingueva tra ius da una parte e leges, plebiscita, … dall’altra, ma per la  prima volta appariva distintamente instaurato un rapporto di causalità genetica che preludeva in sostanza alla metafora di ‘fonti del diritto’[15]

Quel concetto tuttavia sembra essere ben più antico e tale antichità in apparente contrasto con i dati testuali sopra evidenziati nelle fonti romane, che fanno risalire la genesi della metafora delle fonti di produzione del diritto intorno al III sec. d.C.

 Nel Museo del Louvre è conservata la statua di Gudea, sovrano di Lagash ed uno dei più antichi legislatori, vissuto ben quattrocento anni prima di Hammurabi, recante un’iscrizione dalla quale si deduce che essa fu realizzata come dono votivo per il tempio della dea Geshtinanna, la dea “dell’acqua vivificante”[16]. L’autore di uno dei più antichi codici poggia sul suo cuore un vaso dal quale fluisce un’acqua vivificante e lenitrice, che giova al popolo, come le prescrizioni di Gudea.

L’immagine sembra essere significativa ma è stata sospettata di contraffazione in quanto, a differenza di altre statue, scoperte durante scavi, non appare di diorite, ma di tenera calcite; inoltre perché acquistata sul mercato antiquario e ancora perché mostra il sovrano con un vaso zampillante, oggetto che nel resto dell’arte mesopotamica compare solo nelle mani degli dei.

E’ stato osservato però che, per quanto la statua evidenzi notevoli differenze stilistiche rispetto ad altre provenienti da scavo, l’iscrizione sumerica sembra genuina e comunque molto difficile da contraffare. Inoltre Gudea rimise a nuovo i templi di Girsu, ove sono state ritrovate mediante scavi ben undici altre statue che lo raffigurano. In una delle immagini di Gudea ritrovate in seguito a scavo il sovrano tiene in grembo proprio la pianta dell’edificio templare in costruzione in onore della dea “dell’acqua vivificante”.

 E’ allora possibile che nel tempio di Geshtinanna il sovrano legislatore venisse precocemente raffigurato come dispensatore di linfa vitale, oltre che di precetti per il suo popolo, mediatore tra l’uomo e la divinità: tutte idee - certamente ben lontane dai pensieri di un falsario - addirittura sottese dalla teoria greca della sovranità e richiamate nella concezione, lontana nel tempo, bizantina e medievale del nÒmoj ?myucoj, del sovrano come lex animata, che governa il mondo per autorità divina, immagine vivente di Cristo, vivificante la terra con la sua linfa e la sua dottrina[17].

All’ingresso della scuola di diritto di Bisanzio, al tempo di Giustiniano, era iscritta sulla lunetta sovrastante la porta la seguente frase:

 

Cîroj ?gë qesmo?sin ¢neim?noj· ?nq£de phg¾

¥fqonoj AÙson?wn ?kk?cutai nom?mwn,

¿ p©sin t?tatai mn ¢e?naoj, ºiq?oij d

?nq£d' ¢geirom?noij p£nta d?dwsi ·Òon[18].

 

L’iscrizione probabilmente faceva da didascalia ad una scena rappresentante allegoricamente la fonte suddetta insieme con l’imperatore ed assimilabile ad altre opere musive tardo romane, riscontrabili a Ravenna ed altrove, raffiguranti il Paradiso con i suoi fiumi, che dissetano le pecorelle ai piedi di Cristo, Buon Pastore. Con tale immagine si voleva evidentemente indicare che, come i precetti divini vivificavano la Chiesa, così il diritto, promanante ormai da un imperatore Christomimétes, finiva per costituire l’unica fonte di vita dell’Impero e della sua organizzazione burocratica, che nella scuola aveva trovato la sua formazione di base[19].

Ancora a Palermo, ad esempio, in alcuni monumenti di età normanna, si riscontra un riflesso di tale ideologia: un mosaico della chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio rappresenta l’incoronazione di Ruggero II da parte di Cristo. Sembra che la regalità normanna, come già la bizantina, aspirasse ad una legittimazione divina che ponesse il sovrano su un piano trascendente. «Imitatore del Cristo» in terra, il volto di Ruggero è identico a quello di Cristo. Egli impugna il rotolo della Legge che Ruggero provvederà poi a incarnare e a trasmettere agli uomini[20].

 La metafora delle fonti del diritto, che ancor oggi viene utilizzata, ha dunque origini molto antiche e ramificate, come lo stesso tema del Buon Pastore, ed affonda certamente le proprie radici in concezioni mediorientali, greche ed ellenistiche della sovranità, che si sono mantenute vive nel tempo ed hanno considerato il Re, legislatore e pastore del suo popolo, dispensatore di linfa vivificatrice per la comunità.

Occorre quindi spiegare come mai nel mondo romano solo nel III sec. d.C., con Papiniano, sembra iniziare “…il metaforeggiante fluire del ius dalle sue fonti”.

La risposta è probabile che si trovi nella contrapposizione tra una “concezione strumentalistica del diritto”, tipica dell’età arcaica e repubblicana romana, ed una “concezione esemplare del diritto”, alla quale siamo oggi assuefatti[21].

Secondo la concezione strumentalistica, il diritto appariva come uno strumento del quale servirsi (hoc iure utimur…), poiché ius equivaleva a rito, a schema rituale da utilizzare per conseguire caso per caso un determinato risultato. In età arcaica, passato e presente sembravano coesistere in una ciclicità immutabile del tempo. Da qui la ripetizione del tipico, il formalismo ed il rifiuto di ogni innovazione. Vi era un diritto concreto e fattuale basato sulle azioni e sulle pronunce rituali (leges) che poteva essere applicato momento per momento, ma che non avrebbe potuto essere innovato. Così la religione romana  non era una religione rivelata, data da un dio a partire da un determinato momento, ma era praticata costantemente attraverso azioni rituali. In tale situazione, il diritto non poteva essere prodotto, ma solo utilizzato, attraverso una conoscenza rituale da conseguire di volta in volta, con l’aiuto di sacerdoti pontefici, mediatori del ius. Non esisteva una concezione astratta del diritto, che avrebbe implicato la possibilità di una produzione e di una costante innovazione, una concezione esemplare, in definitiva, alla quale essere soggetti, come avverrà nel radicarsi di una normatività che finirà per esser tipica dall’età di Papiniano in poi, allorquando i cittadini diverranno sudditi di un dominus e dunque soggetti alla legge.

In Oriente invece da millenni sudditi e sovrani legislatori ponevano codici casistici di equivalenze, che non solo autoglorificavano l’autore, ma soddisfacevano la coscienza del dovere regale di garantire l’equità[22]. In tal modo anche qui un diritto casistico e concreto poteva fluire, non come novità, ma come rivelazione agli uomini di equivalenze immutabili, che tuttavia vivificavano il popolo[23].

Nel mondo greco, tra thesmoi e nomoi, la situazione appariva più complessa. Demetra, thesmoforos, con il dono delle regole della coltivazione della terra, aveva suggerito all’uomo una vita giuridicamente ordinata,  basata sulle leggi di natura (thesmoi), che, in quanto immutabili, apparivano sovradivine. Apollo invece, insieme alle ninfe, al canto ed alle sorgenti, era legislatore in aspetto diverso, giacché manifestava la volontà di Zeus attraverso i nomoi che rappresentavano l’ordine cosmico, ordine che aveva un riflesso nella razionalità dell’individuo. In quanto dio della misura e dell’armonia, egli esprimeva un valore insopprimibile nel diritto: l’equità della legge, l’eunomia[24].  “L’ordine dell’universo e dell’intelletto, la legge della natura, il senso del giusto si manifestavano dunque in forme religiose, ma erano, al tempo stesso, frutto di una visione razionale del diritto”[25]. Essa poteva essere ispirata dal dio ad un nomotheta, lex incarnata, latore e voce di una legge, prima orale e poi scritta, sí che il magistrato poteva essere definito come legge parlante; la legge poi, in riferimento alla polemica della supremazia dell’oralità sulla scrittura, dell’uomo sul  documento scritto, poteva essere definita il “magistrato muto”[26]. In un noto passo di Demostene, citato da Marciano nel Digesto, si rileva che la legge è un dono di Dio, da manifestare a tutti per iscritto[27]. E in breve, Deo Auctore, essa fu codificata.

Dal Decalogo di Mosè, che con la sua verga fece scaturire l’acqua nel deserto, si palesava una legge rivelata e immutabile nel solco di tradizioni orientali, ma soprattutto greche, che erano destinate ad influenzare profondamente il pensiero occidentale. Qualche storico data la narrazione dell’Esodo (19-34) tra il VII ed il VI sec. a.C,[28] ma fu in realtà con Alessandro, il fondatore di una nuova concezione della regalità, che il sovrano legislatore, da rivelatore di norme immutabili, divenne palese produttore di novità.

La fine del IV sec. a.C. in Grecia e a Roma fu un’epoca di profondi mutamenti. Sembra che da quel momento in poi i secoli del passato comincino a contare meno, di più gli anni del presente. Ben presto nel mondo romano Appio Claudio potrà dichiarare di essere egli stesso artefice della propria fortuna, come il condottiero Alessandro si era proclamato arbitro del proprio destino, spingendosi al di là del mondo conosciuto in territori ignoti e divenendo un legislatore, chiamato dal dio a modificare il cosmos, a produrre  apertamente novità[29].

Caduto l’antico formalismo, a Roma i cives vogliono fare il loro ingresso nella storia come individui, e non più soltanto come componenti di un gruppo gentilizio o familiare[30], attraverso la ripetizione del tipico ed il ricordo degli antenati. Sarà ora possibile palesare apertamente l’innovazione e dunque arrivare a concepire al tempo stesso una causa genetica del diritto.

In tale contesto, occorre giustificare l’antica tradizione romana di sovrani legislatori, come Romolo o Numa Pompilio.

Un’esegesi più aderente alle concezioni arcaiche del noto testo di Livio (I, 8, 1)[31] su Romolo e la fondazione può forse indurre a ritenere Roma fondata in un momento preciso, astronomicamente determinato[32], attraverso l’effettiva pronuncia di leges arcaiche, formule ed azioni rituali le quali nel rito dell’aratio - cerimonia sacra determinata da segni astrali - costituivano la nascita della città. Essa non avrebbe appunto potuto fondarsi in altro modo, che solo attraverso tali pronunce rituali. Non dunque attraverso l’innovazione, ma la dichiarazione.

Anche Numa venne rappresentato come un sovrano fondatore e legislatore, ispirato da Egeria, la dea delle fonti, come il lucumone di Chiusi, Arrunte, indotto dalla ninfa Vegoia ad emanare le leggi intangibili sulla proprietà[33]. E’ noto che la figura di Numa, collegata anacronisticamente a Pitagora, fu oggetto alla fine del IV ed ancora agli inizi del II sec. a.C. - in occasione del ritrovamento dei libri di Numa nel 181 a.C. - di una ampia utilizzazione politica[34], che può avere rivisitato sotto l’influsso dell’esperienza greca gli antichi ricordi e testimonianze. Le teorie sulla regalità di Archita, Diotogene, Ecfanto e Isocrate sono state ritenute evidenti nel Numa di Plutarco ed è stata notata la differenza tra un Numa dei mores e della religio - ispirato ai valori di pax, iustitia e fides -  ed un Numa dei politeumata, latore di una concordia pitagoricamente ed ellenicamente intesa come homonoia[35]: un sentimento cioè di accordo e benevolenza tra i cittadini, consentito sia dalla subordinazione di tutti ad una legge impersonale o ad un sovrano determinato,  sia dall’ausilio di persone di differente condizione sociale, determinante una concordia in grado di trasformare il caos in cosmos.

In altri termini, lo spirito di conservatorismo di Fides, che consisteva nel mantenere l’integrità di una tradizione, dei contratti, degli accordi, doveva apparire profondamente diverso da quello di Concordia, alla quale si richiamavano per sedare i contrasti tra le classi tanto Appio alla fine del IV sec., che i Gracchi nel II sec. a.C. Quel che è  certo è che, in base alla concezione arcaica romana, Numa non avrebbe potuto essere considerato un legislatore che innovava, ma la sua produzione del diritto ed il collegamento con la dea delle fonti Egeria dovevano piuttosto suggerire una conservazione dell’integrità di una tradizione, un chiarimento ed una rivelazione di pratiche immutabili, che forse avrebbero potuto esser conseguite tramite l’idromanzia, attraverso cioè le attività di divinazione basate sull’acqua. Un altare di Fonte si trovava presso la tomba di Numa al Gianicolo, colle di Giano, dio del passaggio, del disvelamento, che con Giuturna, dea delle acque sorgive, “vivificanti”, condivideva la facoltà di fare sgorgare le acque. Ma come passato e futuro coesistevano in Giano, così le acque non passavano nella fonte dal non-essere all’essere, chiaramente preesistendo nelle viscere della montagna. E gli antichi tali peculiarità naturali le conoscevano bene![36]  

 A Roma, nel comizio, centro arcaico del potere e del diritto, esistevano numerosi pozzi che indicavano l’orientamento più antico dello spazio consacrato dal niger lapis. Nel foro romano, nei pressi di un’ara, era collocata, all’inizio dell’età imperiale, una stele arcaica con un’iscrizione che i romani dell’età repubblicana, incapaci di decifrarla, consideravano greca. Era invece un’epigrafe latina e menzionava alla fine del VI sec. a.C. il rex ed il suo calator (banditore), nel sito (licio) dove si riunivano i comitia curiata[37]. Il luogo era dubbiosamente considerato la tomba di Romolo, forse per il gran numero di ossa presenti nell’area per i sacrifici effettuati nei secoli nell’altare antistante per la determinazione del tempo fasto dell’agere. Al momento della fondazione, marcata da ossa d’avvoltoio[38], pochi forse erano in grado di leggere l’epigrafe,  ma tutti  ne intendevano certamente il senso.  Il suo scopo era quello di fissare  una  prescrizione sacrale dinanzi ad un’ara sacrificale collegata all’attività del comizio. Secondo R. Santoro, l’iscrizione  avrebbe marcato il luogo in cui  al  tempo  del  re  Servio  Tullio - come indicano i frammenti ceramici - in seguito  ad un sacrificio ed all’apertura del periodo favorevole per il compimento  dell’attività  giuridica, si sarebbe svolta l’originaria attività dell’agere, attività riferibile quindi ad un momento in cui pratiche negoziali,  elettorali,  legislative  e giudiziarie  non erano ancora distinte,  ma tutte si risolvevano in pronunzie solenni (leges) effettuate in comizio, in seguito ad un rito, dal re e dagli altri appartenenti alla comunità arcaica[39]. Si può forse dire che in questo luogo, marcato da numerosi pozzetti che hanno consentito di determinare la forma quadrangolare, la cultura giuridica occidentale abbia iniziato a distinguere privato da pubblico, a differenziare le competenze elettorali da quelle legislative  e giudiziarie delle assemblee popolari.

Un cippo funerario di Chiusi ora nel Museo di Palermo, mostra un re, forse Porsenna, assiso in tribunal con scriba ed augure, per l’assegnazione di premi in seguito a giochi funebri in onore di un illustre defunto[40]. Roma a quel tempo (la fine del VI sec. a.C.) era etrusca ed in comizio avrebbe potuto compiersi una legis actio con una rappresentazione certamente assimilabile a quella del cippo chiusino, di poco successiva all’età di Servio Tullio.

Con l’ampliamento delle mura serviane il luogo di convocazione del popolo fu incluso nel pomerio, ma il sito della riunione restò fisso nell’area consacrata dell’antico comizio. Il comizio era infatti un templum con i pozzetti lustrali, nonostante si manifesti qualche incertezza in proposito da parte degli studiosi[41]. Ciò determinava che la nuova assemblea centuriata degli armati, dopo la convocazione, per costituirsi in un comizio ora votante, avrebbe dovuto spostarsi in Campo Marzio, poiché le armi - come è noto - non potevano esser portate all’interno del pomerio[42]. Per i disarmati comizi tributi della fine del IV sec. invece, al tempo del censore Appio Claudio, il problema non si sarebbe posto, anche se l’angusto spazio arcaico, all’incirca di quaranta metri per lato, era ormai divenuto palesemente insufficiente. Tuttavia per le ragioni sacrali sopra descritte non avrebbe potuto essere mutato. Resterà infatti lo stesso sino alla fine del II sec. a.C.

Sembra che Appio, censore nel 312 a.C., sia stato fautore di radicali riforme, che riguardarono il comizio proprio in un momento in cui la dissoluzione delle vecchie strutture agrarie e il diffondersi di un’economia di scambio basata sulla moneta avevano evidenziato l’inadeguatezza del quadro arcaico istituzionale ed avevano aggravato l’antico problema dell’imprigionamento per debiti (nexum). Nel corso delle guerre sannitiche, allo scopo di rinvigorire l’esercito, sembra che Appio abbia effettuato la leva per tribù introducendo la nuova struttura militare dei manipoli. Ciò finiva per mobilitare i più poveri per i quali veniva creato uno stipendium regolarmente finanziato da un tributum, un’imposta prelevata per tribù (tributum dictum a tribubus)[43] in seguito all’apparizione della prima moneta regolare di bronzo.  La moneta greca d’argento, da tempo utilizzata a Roma - forse dal 350 a.C. - venne infatti ora soppiantata da una moneta romana, prima fusa e poi coniata, che implicò il graduale passaggio da un’economia fondiaria ad una economia monetaria. Così  il computo del censo per le varie classi, necessario per l’esercizio del “mestiere di cittadino”, per il godimento cioè dei diritti politici - per utilizzare una colorita espressione di Claude Nicolet[44] – pare venisse calcolato non più sul valore fondiario, ma sul patrimonio stimato in denaro. E’ evidente il rilievo così attribuito da Appio ai nuovi ceti mercantili emergenti. Inquadrò i poveri, distribuendoli in tutte le  tribù territoriali, alterando in modo rivoluzionario il meccanismo di formazione della volontà popolare. La reazione non si fece attendere e nel 304 (anno di pubblicazione del formulario delle azioni che teneva conto del rotacismo, del calendario ad opera del liberto di Appio, Gneo Flavio, divenuto edile curule in conseguenza della riforma, grazie all’appoggio della forensis factio), Q. Fabio Rulliano trasferì gli humillimi nelle quattro tribù urbane, vanificando la portata sovversiva dell’innovazione[45].

In tale momento l’area del comizio appare soggetta a radicali trasformazioni che denotano il travaglio al quale furono sottoposte le concezioni di base del pensiero giuridico romano e la razionalizzazione delle strutture interne dello Stato[46]. La modifica della forma quadrangolare del comizio in circolare, la realizzazione nel 304 dell’edicola della Concordia da parte di Gneo Flavio, l’erezione (bello samniti), delle statue di Pitagora, di Alcibiade[47], del podio della Graecostasis per gli ambasciatori greci, della statua di Marsia e della colonna Maenia  (che ricordavano la liberazione dal nexum), la collocazione della Tabula Valeria con la pugna equestris di Agatocle nell’Athenaion di Siracusa, dei gemelli posti dagli Ogulnii sotto la Lupa nel momento in cui si ammettevano i plebei al pontificato con la lex Ogulnia del 300, sono tutti eventi che rinviano chiaramente a mutamenti profondi e ad un particolare contesto culturale: quello delle città pitagoriche della Magna Grecia e della Sicilia.

I fratelli Ogulnii - forse gemelli legati al serpente di Esculapio – collocando, con i ricavi delle multe imposte agli usurai, l’immagine dei gemelli Romolo e Remo sotto la Lupa nei pressi della ficus Navia, alludevano alla piena uguaglianza ormai raggiunta tra patrizi e plebei con l’accesso persino al pontificato ed all’augurato. Eguale fonte di finanziamento aveva avuto l’edicola di Gn. Flavio che voleva commemorare la conciliazione del populus. Come gli edili Ogulnii avevano contribuito a superare una delle più importanti pretese dei patrizi[48], così Flavio aveva divulgato una delle prerogative più gelosamente custodite fino ad allora dai pontefici. Il Marsia del Comizio con il braccio alzato ed i ceppi (compedes), dedicato da C. Marcio Censorino,  primo augure plebeo nel 300 in seguito alla Ogulnia, sfidava con la minaccia della manus iniectio introdotta dalla lex Marcia gli usurai che sotto la colonna Maenia vantavano i loro ingiusti crediti davanti al tribunal praetoris urbani, in violazione della lex Genucia del 342 a.C.[49] Nel 326 la lex Poetelia aveva inoltre abolito il nexum per i debiti. Marcio Censorino collegava i Marci al mitico re Marsia e a Numa Marcio primo pontefice massimo. E’ probabile che in questo momento la tradizione su Numa sia stata oggetto di una reinterpretazione.

Se da un canto la concreta mentalità arcaica ancora richiedeva, nei luoghi del diritto e del potere, la visualizzazione di immagini in grado di suscitare intense emozioni, al punto che si è sostenuta l’esistenza di un “potere delle immagini”[50], l’adozione della forma circolare per uno spazio destinato alle riunioni del popolo assumeva in Roma, come altrove, un preciso significato politico, ideologico e simbolico[51], che conferiva in particolare all’area centrale della città la capacità di riflettere i principali valori dibattuti ed adottati. Pare che in Sicilia, come ad Atene a partire dalla fine del IV sec., l’utilizzazione di teatri con funzione di ecclesiasteria sia stata la conseguenza della diffusione della democrazia, o quanto meno dell’accentuazione del carattere democratico della vita politica. Le dottrine politiche pitagoriche del IV sec. avevano cercato di conciliare gli interessi di un’aristocrazia, composta di grandi proprietari fondiari, con le rivendicazioni democratiche di un popolo di artigiani e commercianti, dando origine al concetto di “democrazia moderata”; nelle città pitagoriche, come Agrigento, la forma circolare degli “ecclesiasteria” traduceva la volontà di conferire un maggiore valore al dibattito politico, adottando un simbolo con forte dimensione ideologica che rappresentava la comunità dei cittadini. L’utopia è evidente: i cittadini più ricchi avrebbero dovuto aiutare i più poveri in un clima di concordia che si uniformava alla scansione armonica dell’Universo. La forma circolare assunta ora dal Comizio romano, nel contesto del complesso delle riforme di Appio Claudio - dai comizi tributi al calendario, dal nuovo valore della Concordia alla pubblicazione del formulario delle azioni - conferiva a tale spazio una dimensione cosmica, centro simbolico della città associato al mundus  -cosmos, appunto - e specchio delle sue istituzioni, in armonia con le leggi geometriche dell’Universo. Per i Pitagorici il cerchio costituiva una figura geometrica perfetta, poiché era la rappresentazione piana, a due dimensioni, del volume della sfera, immagine della terra e del cosmo, a tre dimensioni, ed il confronto della concordia civica con l’armonia dell’Universo sembrava rientrare in un sistema di teoria politica, che rappresentava l’organizzazione di una Città come una imitazione della costituzione dell’Universo. La riorganizzazione del Comizio e l’adozione della forma circolare verso la fine del IV sec. costituivano dunque la traduzione monumentale dei significativi cambiamenti istituzionali ed ideologici propugnati da Appio e da altri, che tentavano di conformarsi ai principi pitagorici di organizzazione dell’Universo.

Cerchio (cosmos) e quadrato (templum), come nell’ottagono che, fondendo quadrato e cerchio, fu utilizzato da Nerone nella Domus Aurea e da altri imperatori romani[52], inoltre da Giustiniano, dagli Arabi, da Carlo Magno ad Aquisgrana, da Federico II a Castel del Monte[53], per segnalare la capacità imperiale di dominare il mondo trasformando per autorità divina il caos in cosmos.

Dal quadro delineato si evince la riorganizzazione dello spazio, che si accompagnava alla riorganizzazione del tempo con la pubblicazione del calendario da parte di Gneo Flavio. Sembra infatti che dal calendario lunare di Numa si passi ora ad un calendario solare (cerchio – rivoluzione del sole; quadrato – terra nella concezione antica), che venne pubblicato nel Comizio con l’indicazione dei giorni fasti e nefasti, relativi alla nuova determinazione dell’attività comiziale ed all’azione[54]. Il Comizio stesso funzionava come un gigantesco orologio solare, marcato da punti di riferimento collegati a mire costituite dai recenti monumenti, tutti eretti nel periodo delle riforme di Appio[55]. Regolando la vita economica e giuridica della città, nel punto di convergenza della forensis factio di Gneo Flavio ed Appio Claudio, non solo si tenevano i comizi della popolazione, ora divisa per tribù, nel foro, in prossimità del mercato e del macello, ove affluivano i contadini al momento delle nundinae, ma in quel luogo si trovava anche il tribunale del pretore e là, senza dubbio, dovevano essere esposte le legis actiones ed i fasti; le legazioni straniere venivano accolte presso l’edicola dedicata alla Concordia di tutti, la dea Homonoia greca che si uniformava nell’interpretatio romana alla regola della isonomia, rispettata dal buon legislatore e suscettibile di trasformare il disordine in ordine[56].

Lo spazio del solo comizio era divenuto ormai palesemente insufficiente. Il problema fu risolto mantenendo il luogo consacrato di convocazione presso il niger lapis, ma riunendo il popolo nel Foro e chiamando per il voto la singola tribù (uno vocatu) nel Comizio. Il magistrato, che dava dunque le spalle al popolo durante la votazione - forse dall’età di Caio Gracco, e non dal 145 a.C. come è stato sostenuto - ruotò verso il Foro, consentendo ormai il voto direttamente nel mercato[57]. Altro forte segnale graccano dell’abbandono di una mentalità rituale e dell’apertura verso la democrazia, col volgere le spalle al Senato e alla Curia.

Secondo Humm, lo studioso che ha ispirato, insieme con Coarelli, con la Storchi Marino, con Loreto ed altri, gran parte delle precedenti riflessioni, “la riforma del calendario appare inseparabile dalla riforma delle tribù di Appio Claudio, il cui risultato portò a una completa riorganizzazione dello spazio e del tempo della città” e probabilmente anche alla visione di un Numa pitagorico, presto legislatore ed innovatore. Se il complesso del Comizio costituì poi il modello per la costruzione del foro delle colonie che Roma fondava, esso rappresentò non solo il centro della città, ma anche il luogo, in una prospettiva cosmica della nuova organizzazione dello spazio e del tempo civico, dello sforzo di razionalizzazione del pensiero giuridico, che era destinato a divenire immagine dell’ordine amministrativo e burocratico dell’impero; di un impero con un centro e dei satellites.

Se pure oggi la forma delle moderne assemblee deliberanti appare sovente un cerchio iscritto in un quadrato, tuttavia l’antica utopia pitagorica di colmare geometricamente le differenze sociali, riflettendo una concordia civica e cosmica, certamente non si è ancora realizzata.

 

                                                           Gianfranco Purpura


 

[1] J. Mellaart, Çatal Hüyük. Une des premières cité du monde, 1971.

[2] S. Damiani Indelicato, La Piazza pubblica ed il Palazzo nella Creta minoica, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, XII, 2, 1982, pp. 445- 467; H. Van Effenterre, Le Palais de Mallia et la Cité minoenne; I-II, Roma, 1980, I, p. 193; E. Fiandra, Cultura e scambi commerciali nella civiltà minoica, Le Letture delle Scienze, Milano, 1983, pp. 22-35.

[3] S. Damiani Indelicato, op. cit. p. 467.

[4] L. Mumford, La città nella storia, I, Milano, 1990, pp. 59 ss.

[5] A. Carandini,  Ab Urbe condita. Ragioni di un mito, Archeologia Viva, 111, maggio/giugno 2005, pp. 20-27.

[6] A. Carandini, La nascita di Roma, Torino, 1997, pp. 511 e s.

[7]  L. Mossini, Fonti del diritto. Contributo alla storia di una metafora giuridica, Studi senesi, 74, 1, 1962, pp. 139-196.

[8] P. Cerami, Potere e ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, Torino, 1996, p. 50 nt. 83, che indica come testi in appoggio Cicerone, De legibus 1, 5, 16; 1, 6, 20 e Livio 3, 34, 6.

[9] G. Purpura, Diritto, papiri e scrittura, Torino, 1999, p. 83.

[10] C. Cosentini, Lezioni di Esegesi delle fonti del diritto romano, Catania, 1978, pp. 31 e s.

[11] R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino, 1967.

[12] Kantorowicz, I due corpi del Re.  L’idea della regalità nella teologia politica medievale, Torino, 1989, pp. 331 ss.; 354 ss.; 385 e s.

[13] P. Cerami, l.c.

[14] L. Mossini, Fonti del diritto. Contributo alla storia di una metafora giuridica, Studi senesi, 74, 1, 1962, pp. 139-196.

[15] G. Aricò Anselmo (Partes iuris, AUPA, 39, 1987, p. 109) ha scritto in modo suggestivo: “Distintamente si ode già in quel venire ex il metaforeggiante fluire del ius dalle sue fonti”.

[16] L’immagine è riprodotta in G. Jean, La scrittura, memoria degli uomini, Trieste, 1992, p. 18.

[17] Nel film “Lawrence d’Arabia” un capo beduino, sfidato da Lawrence a convincere il suo popolo ad attraversare l’infernale deserto di Aqaba, risponde: “Io sono un fiume per il mio popolo”. Se un moderno sceneggiatore di un film può inconsapevolmente far pronunciare una frase corrente nel mondo arabo che rievoca un’antichissima metafora, non sembra credibile invece che un falsario, con tutto il rispetto per tale diabolica specializzazione, possa spingersi al punto di anticipare esiti tanto particolari della ricerca storico – giuridica, sottesi dalla statua di uno dei più antichi legislatori.

[18] Anthol. Gr. IX, 660. H. J. Scheltema, L’enseignement de droit des antécesseurs, Leiden , 1970, p. 3 così traduce il testo: “Sono un luogo consacrato alle leggi. Da qui scaturisce una fonte ricca di diritto romano che scorre eternamente per tutti e che offre tutto  il suo flusso alla gioventù qui raccolta”.

[19] P. Cerami, A. Corbino, A. Metro, G. Purpura, Ordinamento costituzionale e produzione del diritto in Roma antica, Napoli, 2001, pp. 339 e s.

[20] È possibile dunque che la c.d. “cuffia” di Costanza, rinvenuta in un sarcofago della Cattedrale di Palermo, sia proprio il kamelàukion, la corona bizantina del cosmocratore (Rodo Santoro, Palermo. La corona perduta, Palermo, 1991, pp. 205 ss.). Simbolo deposto da Federico II nella tomba della giovane moglie, Costanza d’Aragona, nel 1222, quando il sogno normanno della realizzazione di un impero mediterraneo in sostituzione del bizantino appariva ormai definitivamente svanito (A. Lipinsky, Sicaniae Regni Corona”. Il “kamelaukion” detto “Cuffia di Costanza” nel tesoro del Duomo di Palermo, Biblioteca Storica e Letteraria, II, Palermo, 1975, pp. 347- 370). Così nella Zisa di Palermo, solatium di Guglielmo II, può forse ancora cogliersi l’eco del fluire del diritto e del potere all’interno del salsabil, ambiente nobile tipico della cultura araba, dove gli ospiti stranieri venivano introdotti alla presenza del sovrano, mentre le donne occhieggiavano dalle feritoie delle sovrastanti muqarnas. Sul fondo della sala, in luogo del trono regale delle aule nordiche, dominava il sadirwan, uno scivolo a forma di trono solcato da chevrons sul quale l’acqua corrente suscitava mormorii e riflessi. Il re sedeva per terra su cuscini lungo le sponde del corso d’acqua che attraversava la sala, in quello che in realtà era un luogo del paradiso coranico, riservato ai morti per la fede. Tutto ciò inevitabilmente suggeriva che come l’acqua fecondava la terra, così la monarchia normanna vivificava il regno con le sue opere e leggi (G. Bellafiore, La Zisa di Palermo, Palermo, 1978, pp. 83 s.).

 

[21] Raimondo Santoro, Sul Ius Papirianum, Mél. A. Magdelain, 1995, pp. 399 ss.; Id., Appio Claudio e la concezione strumentalistica del ius, AUPA, 47, 2002, pp. 295 ss.

[22] J. Bottéro, Le “Code” de Hammurabi, Annali della Scuola Norm. Sup. di Pisa, XII, 2, 1982, pp. 409-444.

[23] J. Bottéro, Au commencement étaient les dieux, Paris, 2004, pp. 123 ss.

[24] C. Gioffredi, Dei legislatori, in “Nuovi  Studi di Diritto Greco e Romano”, SDHI, Roma, 1980, p. 54.   

[25] C. Gioffredi, l.c.

[26] Cic., De legibus III, 1, 2: …vere dici potest magistratum  legem esse loquentem, legem autem mutum magistratum.

[27] D. 1, 3, 2. R. Martini, Diritti greci, Bologna, 2005, p. 10.

[28] R. Lane Fox, Verità e invenzione nella Bibbia, Milano, 1992, pp. 55 ss.

[29] F. H. Pairault-Massa, Iconologia e politica nell’Italia antica, Milano, 1992, p. 178. L’erezione, bello samniti, nel comizio delle statue di Pitagora e di Alcibiade – e non di Alessandro – per rappresentare “il più coraggioso dei Greci” ha fatto molto discutere (cfr. M. Humm, Le comitium du forum romain et la riforme des tribus d’Appius Claudius Caecus, MEFRA, 111, 2, 1999, pp. 660 e s. e A. Storchi Marino, C. Marcio Censorino, il pontificato e la tradizione su Numa, AION, 14, 1992, pp. 130 ss.). Potrebbe spiegarsi a causa della collocazione in comizio di parte di un bottino delle campagne meridionali (F. Coarelli, Il Foro romano. Periodo repubblicano e augusteo, Roma, 1985, p. 121), giustificata dalla politica antitarentino-antisiracusana (A. Storchi Marino, l. c.) o dalla minaccia di un eventuale confronto militare di Alessandro con Roma, venuto meno per l’improvvisa morte del macedone (M. Humm, Le comitium, cit., p. 660 e nt. 81). E’ stato rilevato che Alessandro per i romani era macedone, più che greco. I collegamenti tra Appio Claudio Cieco e la cultura pitagorica tarantina, legata alla cultura filosofica di Archita, sono sottolineati da A. Storchi Marino, op. cit., p. 132.  

[30] F. Lucrezi, Ius imaginum, nova nobilitas, Labeo, 32, 1986, pp. 172 e s.

[31] Livio I, 8, 1: Rebus divinis rite perpetratis vocataque ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus nulla re praeterquam legibus poterat, iura dedit.

[32] Al punto che V. Da Nóbrega, L’originalité d’Ennius et la date de la fondation de Rome d’après les Annales, Mél. Piganiol, II, Paris, 1966, pp. 815-826 si è spinto a proporre che in base ad Ennio (Ann. I, 84: …Interea sol albus recessit in infera noctis) si fosse verificata un’eclisse  solare visibile in inverno dal Palatino sul far del giorno, evento che gli astronomi indicano possibilmente verificatosi lunedì, 10 febbraio  765 a.C.

[33] J. Heurgon, La vita quotidiana degli etruschi, Milano 1967, p. 152.

[34] A. Storchi Marino, op. cit.,  pp. 105 – 147.  

[35] A. Storchi Marino, op. cit., p. 114. 

[36] Per dare un’idea di tale pratica ricordiamo un rinvenimento in Sardegna ove è stato di recente rintracciato un monumento nuragico del XIII/IX sec. a.C. assai insolito, che è stato collegato al culto dell’acqua (cfr. Arch. Viva, XXIV, 111, maggio – giugno 2005, pp. 77-81).  All’interno di un ambiente assai ristretto pochi individui potevano riunirsi, sedendo su di una  panchina circolare, intorno ad un bacino centrale alimentato da zampilli di una sorgente che, scaturendo in prossimità del loro capo, fluivano unificandosi in una vasca al centro. Ovviamente non v’è alcuna prova concreta che si trattasse di un consesso di capi in un’appartata valle del Supramonte, anche se l’ambiente sacro di particolare rifinitura fu poi utilizzato per conservare un tesoro costituito da gran numero di stipi metalliche.

[37] CIL I, 1: quoi hon[…/…] sakros es/ed sord[…/…]a ias/ recei io[…/…]evam / quos re[…/…]m kalato/rem hab[…/…]tod iouxmen/ta kapia do tau[…]/m i ter pe[…/…]m quoi ha/ velod neq(.)u[…/…]iod iovestod loivquiod qo[…]. Nonostante le difficoltà di lettura e di un latino tanto arcaico da indurre Dionigi di Alicarnasso (1, 87, 2; 3, 1, 2; 2, 54, 2) a parlare forse per questa stele di caratteri greci, il significato di alcuni termini è intellegibile (recei = regi; kalatorem = calatorem; quoi = qui; sakros esed = sacer esset; iouxmenta = iumenta; iovestod = iusto) ed  il senso generale dell’epigrafe intuibile (minaccia della sanzione di sacertà per il violatore del cippo o del luogo e forse  di una sanzione diversa per chi lo insozzi). Seguivano disposizioni relative alle modalità di un sacrificio, che avevano per destinatario il re, “del quale si dice che deve avere un calator, che avrà proceduto alla convocazione dell’assemblea in vista dell’esecuzione del sacrificio. Riguardo a questo sono indicati gli animali da sacrificare (una coppia aggiogata di tori: iouxmenta duo taura e forse un giovane agnello). Tutto questo in vista del risultato dell’atto compiuto ritualmente, che è un comitiare, ossia un riunire i quirites mediante un’assemblea (licio), che è qualificata giusta (iusto) proprio per il compimento delle formalità rituali”. R. Santoro, Il tempo ed il luogo dell’actio, cit., pp. 25 e s. (estratto).

[38] La Grande Roma dei Tarquinii, catalogo della Mostra a cura di M. Cristofani, Roma, 12 giugno- 30 settembre 1990, Roma, 1990, p. 58, scheda n. 38 (a cura di J. De Grossi Mazzorin e di G. M. De Rossi). I resti ossei - scoperti da G. Boni nel 1899 e riconosciuti, anni dopo, da G. A. Blanc e A. C. Blanc (Ossa di avvoltoio nella stipe sacrificale del Niger Lapis nell’area del Comitium al Foro romano, Arch. Class., 10, 41 ss.) - sono stati posti in rapporto con la leggenda della fondazione di Roma e l’avvistamento di dodici avvoltoi da parte di Romolo, in base a Livio I, 7, 1 (…priori Remo augurium venisse fertur, sex voltures; iamque nuntiato augurio cum duplex numerus Romulo se ostendisset, utrumque regem sua multitudo consalutaverat: tempore illi praecepto, at hi numero avium regnum trahebant…).

[39] R. Santoro, Il tempo ed il luogo dell’actio, cit., pp. 300 ss.

[40] G. Colonna, “Scriba cum rege sedens”, Mél. Heurgon, I, Roma, 1976, pp. 187-192.

[41] F. Coarelli, Il comizio dalle origini alla fine della Repubblica, PP, 32, 1977, pp. 166-238; Id., Il Foro romano. Periodo arcaico, Roma, 1992, pp. 140 ss.; J. Vaahtera, On the religious nature of the place of assembly, in Senatus populusque romanus. Studies in roman republican legislation, Helsinki, 1993, Acta Instituti Romani Finlandiae, XIII, pp. 107-116; M. Humm, Le comitium, cit., pp. 634 ss. e la lett. indicata nella nt. 20.

[42] Gellio XV, 27: Centuriata autem comitia intra pomerium fieri nefas esse, quia exercitum extra urbem imperari oporteat, intra urbem imperari ius non sit. Propterea centuriata in campo Martio haberi exercitumque imperari praesidii causa solitum, quoniam populus esset in suffragiis ferendis occupatus.

 

 

[43] Varrone, De ling. Lat. V, 181. Il noto testo prosegue:…quod ea pecunia quae populo imperata erat, tributim a singulis  pro portione census exigebatur.

[44] C. Nicolet, Il mestiere di cittadino nell’antica Roma, Roma, 1980.

[45] M. Humm, Le comitium du forum romain,  cit., pp. 625 ss.

[46] L. Loreto, La censura di Appio Claudio, l’edilità di Gneo Flavio e la razionalizzazione delle strutture interne dello Stato romano, Atene e Roma, 36, 1991, pp. 181-203.

[47] Cfr. supra nt. 29.

[48] F. D’Ippolito, Sulla giurisprudenza mediorepubblicana, Napoli, 1988, pp. 44 ss.

[49] Sui tribunali dei pretori cfr. C. Gioffredi, I tribunali del Foro (in Appendice: Il “Marsia” del Foro), SDHI, 9, 1943, pp. 227- 282; J. –M. David, Le tribunal du préteur: contraintes symboliques et politiques sous la République et le début de l’Empire, Klio, 77, 1995, pp. 383 ss.  

[50] P. Zanker,  Augusto e il potere delle immagini, Torino, 1989; Id., Un’arte per l’impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo antico, Milano, 2002. Sull’importanza delle immagini nell’oratoria cfr. G. Moretti, Mezzi visuali per le passioni retoriche: le scenografie dell’oratoria, in: “Le passioni della retorica” (a cura di G. Petrone), Palermo, 2004, pp. 63-96.  

[51] M. Humm, Le comitium du forum romain,  cit., pp. 657 ss.

[52] Sull’ideologia imperiale cfr. G. Giliberti, Studi sulla massima “Caesar omnia habet, Torino, 1996; Id., Cosmopolis. Politica e diritto nella tradizione cinico-stoica, Pesaro, 2002.

[53] H. Götze, Castel del Monte. Forma e simbologia dell’architettura di Federico II, Milano, 1988, pp. 74 ss.

[54] M. Humm, Spazio e tempo civici : riforma delle tribù e riforma del calendario alla fine del quarto secolo a.C., The Roman Middle Republic. Politics, Religion, and Historiography, c. 400-133 B.C., Roma, 2000, pp. 91-119.

[55] M. Humm, Le comitium du forum romain,  cit., pp. 682 ss.

[56] M. Humm, Le comitium du forum romain,  cit., pp. 690 ss.

[57] La datazione del mutamento è controversa. Cfr. F. Coarelli, Il Foro romano. Periodo arcaico, Roma, 1992, p. 143 e p. 158; L. Ross Taylor, Roman voting assemblies, Ann Arbor, 1966, pp. 23 ss., seguita da  M. Humm, Le comitium du forum romain,  cit., pp. 640 ss., ritiene probabile il 145 a.C. basandosi su Varr., De re rust. I, 2, 9; Cic., De amic. 96 e confutando Plut., C. Grac. V, 4.