Gianfranco Purpura
Gli
oltre sessantacinque editti dei prefetti d'Egitto, a noi pervenuti attraverso i
papiri e qualche rara epigrafe, che si è iniziato a raccogliere[1],
illustrano nei concreti particolari la vita amministrativa dell'Egitto romano
dal 23 settembre del 22 a.C. ‑ data del primo di essi, l'editto di
Pubblio Petronio conservato nel P. Wash.[2],
relativo ad un'amnistia concessa ai coltivatori in occasione del genetliaco
dell'imperatore ‑ agli inizi del IV sec. d.C., ad un momento, non meglio
determinabile, di emissione di un editto di un anonimo governatore, che fissava
il tasso massimo d'interessi[3].
Questi testi costituiscono anche un prezioso punto di partenza per un'indagine
sul linguaggio del prefetto.
Occorre,
però, precisare subito i limiti intrinseci in una documentazione assai
frammentaria, come quella papiracea in lingua greca, ascrivibile ad un
funzionario romano, probabilmente in grado di esprimersi correttamente nelle
due lingue, la latina e la greca[4],
ma che per necessità amministrative si avvaleva prevalentemente della seconda e
di collaboratori locali. Non v'è dubbio che personaggi come Tiberio Giulio
Alessandro, il giurista Volusio Meciano o il prefetto Subaziano Aquila, del
quale ci resta ad esempio un biglietto con l'ordine di rilasciare, per
decorrenza del termine, un condannato a cinque anni di lavori forzati nelle
cave di alabastro, vergato con i saluti allo stratega in greco, di pugno del
prefetto[5],
fossero in grado di esprimersi elegantemente in questa lingua. Appare anzi
plausibile ritenere che la conoscenza del greco fosse indispensabile per aver
affidato il governo dell'Egitto. Dobbiamo tuttavia francamente riconoscere
l'impossibilità, allo stato attuale, di determinare la sicura paternità dei
testi tráditi. Anche se il confronto tra i testi edittali ed il complesso degli
atti amministrativi, in particolare le epistole, ascrivibili ad un determinato
prefetto potrebbe fornire qualche risultato, resta pur sempre incerto il
margine d'intervento, rimesso all'autonomia della cancelleria prefettizia[6].
La
forma dell'editto del magistrato romano e del governatore provinciale fu
originariamente influenzata dalla circostanza che il testo era proposto
oralmente in una contio convocata a tale scopo e successivamente era
destinato ad esser trascritto e pubblicato. Il banditore (nomenclator, kéryx),
collaboratore (apparitor) del magistrato, ripeteva un testo che almeno
formalmente era destinato ad esser pronunciato, dopo aver premesso all'editto
una formula introduttiva nella quale enunciava il nome completo del magistrato,
seguito dal suo titolo di carica o dall'indicazione del potere che consentiva
di emettere il provvedimento, rassicurando così la popolazione in merito alla
legittimità di tale comportamento. La formula introduttiva si completava con il
termine dicit (légei), e non edicit o edixit, anche
se il testo era trascritto molto tempo dopo l'effettiva pronuncia.
L'uso
costante del presente e del verbo dicere in tutti i testi edittali
pervenuti, non solo si connetteva alla convinzione della protratta validità
della disposizione generale per tutta la durata della carica dell'emittente[7]
‑ ed oltre ‑ ma anche all'effettività di una pronuncia orale, che,
in conformità alla sopravvivenza di un'arcaica concezione, continuava a
privilegiare le parole e le azioni, rispetto ai testi scritti ed ai poteri
astratti[8].
Anche se citato a distanza di tempo, il proclama, per essere efficace, non
poteva che essere riferito ad un tempo presente, ad una pronunzia attuale.
Sembra
anzi che la costante regolarità della citazione della praescriptio nei
testi degli editti dei prefetti d'Egitto a noi pervenuti dimostri che essa fu
considerata anche a distanza di tempo parte integrante dell'editto, a
differenza della pratica tolemaica che consentiva di omettere ogni preliminare
o lettera di accompagnamento nelle citazioni, limitandosi ad un generico: basiléōn
prostáxantos.
Le formule introduttive del testo degli editti dei prefetti d'Egitto, a noi pervenute, si discostano in parte dalla prassi romano‑repubblicana sopra descritta, adeguandosi nel I sec. a.C. ‑ I sec. d.C. pressoché costantemente, come è stato notato[9], al formulario: ó deîna légei..., senza l'aggiunta del titolo di carica. Sarà soltanto dal primo ottobre dell'89 d.C., data dell'editto di M. Mettio Rufo, sulla revisione dei registri della bibliothéke tôn egktéseōn, compreso nella celebre petitio Dionisiae del P Oxy. II, 237, che appare il titolo di carica: éparchos Aigýptou, che si ripeterà con costanza sino all'editto di Giuvenio Geniale del 266‑71[10]. Ma già dai primi di settembre del 279[11] al titolo di prefetto d'Egitto si aggiungeranno appellativi onorifici come diasēmótatos e lamprótatos, che si manterranno con costanza sino agli ultimi editti del IV sec., relativi ormai a governatori della Tebaide[12].
Si è
notato che in rapporto alla formula introduttiva degli editti imperiali, di
precoce complessità e comparabile con gli editti prefettizi, "the
praescriptio of the prefectural edìct retained its essential simplicity until
late"[13]. Forse non
solo per (essenzialità della mentalità latina, diversa dall'orientale, ma anche
per lantica preminenza dell'uomo sulla carica, per la necessità di uno stile
sobrio per un personaggio posto in una posizione tanto delicata, dopo le
tormentate vicende della prima prefettura, quella di Cornelio Gallo[14].
Non v'è comunque dubbio che, sotto questo profilo appare fondata la conclusione
di Reinmuth di un'origine puramente romana della praescriptio degli
editti dei prefetti d'Egitto, non influenzata cioè dalla forma dei decreti
tolemaici[15] e ancor più
dallo stile delle dediche ed iscrizioni onorarie dei Lagidi[16].
Il
linguaggio del prefetto nel suo editto sembra essere lontano da quello
utilizzato nelle comunicazioni epistolari, non solo per un diverso formulario
introduttivo delle epistulae: ó deîva tõi deîni chaírein
érrōsthe,
ma soprattutto per il ricorrere nei testi edittali, che gli antichi stessi
riconoscevano d'intrinseca superiorità rispetto alle manifestazioni epistolari
della volontà del prefetto, di una forma precettiva e di uno schema
frequentemente costante. Esemplare appare il celebre caso dell'editto di T.
Giulio Alessandro del 6 luglio del 68[17].
Il
preambolo dell'editto (ll. 3‑10)[18]
ricorda la previdenza amministrativa del prefetto (prónoia), che si
prende cura della città di Alessandria e di tutto il paese, sperando che esso
voglia contribuire con zelo, senza essere gravato da imposte nuove o ingiuste,
all'approvvigionamento in un momento assai delicato, ma di grande felicità, per
l'Impero: quello dell'avvento al trono di Galba. Come nell'editto di Avillio Flacco
del P. Boissier[19], ove si fa
appello alla previdenza amministrativa dell'autorità per introdurre il divieto
di portare le armi in corrispondenza all'esigenza di assicurare una migliore
sicurezza personale, l'intervento edittale si giustifica innanzitutto alla luce
della concezione filantropica del potere, di matrice ellenistica. Chi altri è
il prefetto, se non il rappresentante di quell'evergeta, che con la sua auctoritas
domina 1'oikumenē ? È dunque evidente che l'accenno a richiedenti,
in piccoli gruppi o in folla, gente distinta o coltivatori della chóra,
che lamentandosi dei recenti abusi sotto il regno ormai concluso di Nerone,
sollecitavano e, al tempo stesso, giustificavano l'intervento prefettizio (ll.
5‑7), rientra in uno schema frequentemente ricorrente nello stile
edittale.
Altra
caratteristica degna di nota consiste nel tono precettivo e sovente generale
dell'editto. Il ricorrere di espressioni come keleúō, boúlomai
anuperthétōs (senza indugio), si collegano ad uno stile edittale,
piuttosto che epistolare. Eppure quest'ultima espressione si riscontra in un
testo[20],
che si dichiara come copia di un'epistola di Gaio Turranio, noto prefetto di
età augustea, che mirava con il provvedimento a predisporre e procedere ad una
registrazione del personale dei templi nell'imminenza del censimento per
l'esenzione dall'imposta personale[21].
La
disposizione di Turranio, il cui contenuto si accorda ad un'allusione, a
distanza di più di un secolo[22],
ad un editto di un tal Gaio Tirannio (sic) esentante dalle imposte un
alto ufficiale e sacerdote, è espressamente indicata come copia di una epistola
(l.1). Manca però l'indicazione del destinatario, unitamente all'usuale formula
di saluto. Lo stile è quello inconfondibile di un editto e ciò ha fatto sorgere
il dubbio sulla sua classificazione.
Il
problema è di ampio rilievo in quanto da tempo è stata osservata una certa
incoerenza nei testi di editti e di epistole a noi pervenuti[23];
infatti il termine epistolé, oltre che riferirsi ad una lettera, in
alcuni casi sembra indicare con certezza un editto[24].
Ed è invece sicuro che nell'Egitto romano si attribuiva ai due tipi di
disposizione un valore ben diverso[25]:
ad esempio si è osservato che in P. Oxy. XII, 1408, ll. 12 ss. l'ordine di L.
Bebio Iuncino, trasmesso in precedenza con lettera agli epistrateghi, è
confermato in seguito con un editto rivolto alla popolazione.
La
lettera che trasmetteva istruzioni al funzionario aveva il normale aspetto
epistolare ed invece l'editto che conteneva disposizioni per la popolazione,
oltre alla normale praescriptio ed alla data in fine, non prevedeva in
se medesimo mai le istruzioni per la pubblicazione, sovente previste nelle
lettere. Proprio ciò ha suggerito l'ipotesi che l'epistola, che normalmente era
inviata al funzionario con le istruzioni per la pubblicazione di un editto ad
essa annesso[26], potesse
essere inesattamente citata come riferentesi al testo dell'editto medesimo[27].
Tutto
ciò induce a distinguere:
1. Il
testo dell'editto.
2. La
lettera di trasmissione ad un funzionario con l'autorizzazione alla
pubblicazione[28].
3. La
lettera di presentazione di un funzionario dell'epistula prefettizia e
dell'editto.
4. La
menzione del compimento della pubblicazione.
5. L'indicazione della realizzazione della copia.
È
quindi estremamente raro il caso che i papiri ci abbiano conservato un testo
originale, inviato dal prefetto[29].
Secondo Katzoff, il papiro BGU I, 288, alle ll. 1‑11 conterrebbe tuttavia
un testo originale con l'ordine di pubblicazione del 10 marzo 145 d.C., in
greco, di pugno del prefetto L. Valerio Proculo[30].
Sono invece numerosi i papiri che contengono delle copie dei testi affissi o
ulteriormente divulgati. È dunque possibile che nell'estrazione della copia ci
si riferisse all'epistula di accompagnamento, che, tra l'altro,
ulteriormente rassicurava la popolazione della legittimità del comportamento
del funzionario divulgatore del testo e della sua autenticità[31].
Lo
studio del linguaggio del prefetto in base agli editti è appena agli inizi.
Validissimo supporto alla ricerca è adesso offerto dalla tecnologia
informatica, che consente di confrontare in tempi brevi i più diversi testi
attribuiti ad un determinato personaggio. Non v'è, a mio avviso, dubbio che, se
si continuerà a perseguire questa linea d'indagine, i risultati non potranno
mancare.
Gianfranco Purpura
Dipartimento di Storia del Diritto
Università di
Palermo
[1] PURPURA, Gli editti dei prefetti d'Egitto. I sec.
a.C. ‑ I sec. d.C., «AUPA» 8 (1992), pp. 487‑671.
[2] BAGNALL, «YCS» 28 (1995), p. 86.
[3] P.L. Bat. XIII, 9.
[4] HARRIS, Lettura ed istruzione nel mondo antico,
Bari 1991, pp. 279 e s.
[5] SB I, 4639.
[6] Occorre inoltre considerare che non disponiamo di
termini di confronto costituiti da scritti del prefetto, sicuramente
indipendenti dall'attività della cancelleria.
[7] WILCKEN, Zu den Edikten, «ZSS» 42 (1921), pp. 139‑144; REINMUTH, The Prefectural edict. 1‑ The Praescriptio, «Aegyptus» (1938), pp. 3‑28.
[8] SANTORO, Potere e azione nel diritto romano,
«AUPA» 30 (1967), pp. 120 ss.
[9] REINMUTH, op. cit., p. 24 nt. 1 e s.
[10] P. Oxy. XX, 2266, ll. 3‑4.
[11] P. Oxy. LI, 3613, ll. 1‑2.
[12] P. Oxy. IX, 1186 v, e P. L. Bat. XIII, 9.
[13] REINMUTH, op.cit., p. 25.
[14] Tracce di uno stile poco sobrio sono state
rilevate nella famosa iscrizione di Cornelio Gallo, primo prefetto d'Egitto
(OGIS, 654).
[15] REINMUTH, op.cit., p. 26.
[16] Ad es.: OGIS, 54.
[17] CHALON, Lédit de T. Iulius Alexander, «Bibl. Helv. Rom.» V, Olten ‑ Lausanne 1964.
[18] OGIS, II, 669.
[19] l.6: Pãsan prónoian poioúmenon...
[20] BGU IV, 1199, col. III.
[21] ll. 7‑9.
[22] P. Oxy. XII, 1434 del 107‑8 d.C.
[23] KATZOFF, Sources of law in Roman Egypt. The cole of the prefect, «ANRW» II, 13 (1980), p. 810 nt. 7.
[24] Alcuni casi sono menzionati da KATZOFF, Prefectural edicts and letters, «ZPE» 48, (1982), p. 215: oltre a BGU IV, 1199, si tratta di P. Oxy. II, 237, col. SV, 37 (editto o epistola di Sulpicio Simile) e di P. Fay. 24 (editto o epistola di Sempronio Liberale).
[25] KATZOFF, Prefectural edicts, cit., p. 209.
[26] Questa epistola è conservata nel caso dell'editto di Flacco, di Cn. Vergilio Capitone, di L. Lusio Geta del 29 marzo del 54 d.C., di L. Giulio Vestino, di L. Munazio Felice, di Subaziano Aquila del 206 in tema di percezione delle imposte, di L. Bebio Aurelio Iuncino del 211‑3. Cf. KATZOFF, Prefectural edicts, cit., p. 210. Anche l'editto di M. Sempronio Liberale del 159‑160 d.C. (P. Ryl. 271, v.) sembra esser stato incluso in una lettera.
[27] KATZOFF, Prefectural edicts, cit., pp. 209‑217. REINMUTH, The prefectural edict. I The praescriptio, cit., p. 21, attribuisce al governo romano il mutamento della prassi ellenistica, che prevedeva l'invio di una lettera che conteneva un editto del sovrano. La pratica successiva faceva ricorso ad una autonoma lettera alla quale era allegato un indipendente editto.
[28] Nel caso dell'editto di L. Munazio Felice il prefetto
aveva inviato il testo all'epistratega, che a sua volta aveva trasmesso agli
strateghi l'editto con una sua lettera di accompagnamento, che ci è pervenuta
nelle ll. 7‑14 del P. Iand. VII, 140.
[29] REINMUTH, op. cit., p. 4.
[30] KATZOFF, Prefectural edicts, cit., p. 213.
[31] REINMUTH, op. cit., p. 23.