GIANFRANCO PURPURA
RELITTI
DI NAVI E DIRITTI DEL FISCO.
UNA
CONGETTURA SULLA LEX RHODIA
in:
Annali del Seminario Giuridico dellUniversità di Palermo (AUPA), XXXVI, 1976,
pp. 69 87
SOMMARIO: Esclusa la
possibilità del riconoscimento da parte dello stato romano di un diritto del
fisco sui relitti, si propone un'interpretazione ‑ diversa dalla
tradizionale ‑ del noto testo sulla lex Rhodia (D. 14, 2, 9). È probabile
che presso i rodii sia esistita un'antica disposizione riguardante l'esenzione
doganale delle merci naufragate. Dopo aver sottolineato l'importanza per la
comunità rodia dei dazi doganali, si avanza l'ipotesi che alla base della c. d.
lex Rhodia vi sia stata una vera e propria legge doganale, in vigore a Rodi in
età ellenistica. È possibile che con quella legge si siano affermati nuovi
principi, atti ad agevolare la liberalizzazione degli scambi e l'incremento dei
traffici marittimi.
La
dottrina romanistica, fondandosi su solide attestazioni del Digesto, ha sempre
negato l'esistenza in diritto romano del diritto di naufragio, in base al quale
i relitti divenivano di proprietà di chi se ne impadroniva; e ha sostenuto che
i resti del naufragio (e pure le cose lanciate in mare durante una tempesta per
alleggerire la nave) continuassero ad appartenere, ai legittimi proprietari[1].
Afferma, esplicitamente, Giavoleno in D. 41, 2, 21,1 e 2:
Quod ex
naufragio expulsum est, usucapì non potest, quoniam non est in derelitto, sed
in deperdito. Idem iuris esse existimo in his rebus, quae iactae sunti quoniam
non potest videri id pro derelitto habitum, quod salutis causa interim dimissum
est.
Il
Rougé, pur tenendo presenti le fonti sopra citate, afferma, tuttavia, in
un'ampia indagine sull'organizzazione del commercio marittimo nel Mediterraneo
sotto l'impero romano[4],
l'esistenza di una molteplicità di consuetudini marittime contrastanti in età
imperiale; e ritiene in particolare che l'esempio più significativo di un
conflitto di consuetudini sia costituito dal regime dei relitti. In materia,
secondo il Rougé, coesistevano sotto l'impero romano tre diverse usanze:
l'attribuzione del relitto a colui che se ne impadroniva; il sequestro e la
vendita da parte di funzionari statali in base ad una prassi già adottata in
età ellenistica; la restituzione al legittimo proprietario.
Pur non
escludendo in genere, l'ipotesi della pluralità di consuetudini marittime
vigenti nell'impero romano, noi non siamo persuasi del supposto diritto del
fisco romano in alcune regioni dell'impero di sequestrare e vendere all'incanto
i resti dei naufragi.
Conviene, quindi, passare in rassegna attentamente le fonti addotte dal Rougé a sostegno della presunta pratica del fisco romano di sequestrare e vendere i relitti.
Viene
in considerazione, in primo luogo, C. I. 11, 6, 1 (Ant.):
Si quando naufragio navis expulsa fuerit ad litus vel si quando reliquam terram attigerit[5], ad dominos pertineat: fiscus meus sese non interponat. Quod enim ius habet fiscus in aliena calamitate ut de re tam luttuosa compendium sectetur?
Trascurando
i sospetti che la critica interpolazionista ha appuntato su questa disposizione[6],
il nostro A. ritiene che proprio il divieto ivi contemplato attesti l'esistenza
della pratica in questione in alcune zone particolari dell'impero.
Analogo
peso attribuisce il Rougé al senatoconsulto ricordato in D. 47, 9, 7 e
contenente un divieto d'impadronirsi dei relitti indirizzato, oltre che ai
privati ed ai soldati, anche ai liberti ed agli schiavi del principe (...Sed
nec intervenire naufragiis colligendis aut militem aut privatum aut libertum
servumque principis, placere sibi ait senatus).
In D.
39, 4, 16, 8 (Marciano, l. sing. de delat.)[7],
si legge:
Si
propter necessitatem adversae tempestatis expositum onus fuerit, non debere hoc
commisso vindicari divi fratres rescripserunt.
In
questo caso, il Rougé ritiene che la proibizione imperiale di confiscare e
vendere all'incanto le merci gettate in mare per alleggerire la nave durante
una tempesta non escluderebbe che per gli altri relitti la prassi della
confisca e della vendita restasse legittima. Siffatta prassi sarebbe
confermata, del resto, da una dichiarazione del retore Fortunaziano: naufragia
ad publicanos pertineant[8].
Ma il
testo fondamentale per la tesi del Rougé è il noto frammento D. 14, 2, 9:
La confisca effettuata dai publicani delle Cicladi della nave di Eudaimone, naufragata lungo le coste della isola d'Icaria nei pressi di Rodi, si spiegherebbe, secondo il nostro A., supponendo la persistenza di un antico diritto dell'amministrazione fiscale sui relitti. Nella sfera d'applicazione della lex Rhodia, orientata, invece, a favorire la navigazione commerciale ed a salvaguardare gli imprenditori privati dai gravissimi rischi ad essa connessi, tale confisca sarebbe apparsa illegittima. In tal senso si sarebbe pronunciato anche l'imperatore in seguito alla supplica di Eudaimone, ammettendo l'applicabilità della lex Rhodia.
Numerosi
e complessi sono i problemi suscitati da D. 14, 2, 9. Sono discusse la
genuinità del testo e l'attribuzione a Volusio Meciano. Si mette in dubbio,
addirittura, l'esistenza di un'opera di Meciano sulla legge rodia e si è
incerti sull'identificazione dell'imperatore Antonino (Antonino Pio o Marco
Aurelio) nominato nel frammento. Hanno, soprattutto, destato perplessità
l'inclusione del passo nel titolo del Digesto de lege Rhodia de iactu e
la menzione della legge rodia: la fattispecie considerata in D. 14, 2, 9,
infatti, non ha alcuna relazione con il caso del iactus, come sarebbe
logico attendersi da un frammento inserito in questo titolo e che richiama la
disposizione rodia, tradizionalmente riferita al getto delle merci.
Questa
constatazione ha conferito notevole vigore alle argomentazioni di coloro che
hanno cercato di negare la sostanziale genuinità del frammento. Il Kreller,
invece, convinto per altro verso dell'autenticità di D. 14, 2, 9, si è sforzato
di cogliere il nesso tra la fattispecie ivi prevista ed il iactus mercium,
senza però riuscirvi convincentemente[9].
In
effetti, D. 14, 2, 9 può essere considerato sostanzialmente genuino[10],
in quanto la constatata assenza della menzione del iactus non è così
sorprendente come potrebbe sembrare a prima vista. Si discute, infatti, in
dottrina dell'effettivo contenuto della lex Rhodia e v'è, addirittura,
chi è giunto a dubitare che sia esistita una norma di diritto proveniente da
Rodi in materia di iactus[11].
Ci pare
possibile, allora, supporre che nella lex Rhodia fosse contenuta una
disposizione non riguardante il problema del getto delle merci, ma strettamente
connessa con la fattispecie di D. 14, 2, 9. Questa ipotesi è, come vedremo,
suffragata da alcuni indizi che rivelano che il caso previsto in D. 14, 2, 9
era disciplinato in modo particolare presso i rodii.
Ma
prima di esaminare la fattispecie di D. 14, 2, 9, conviene esporre le
perplessità suscitate in noi dall'interpretazione del Rougé, secondo cui la
confisca dei publicani si spiegherebbe soltanto supponendo in età
imperiale la persistenza, limitata ad alcune regioni, di un antico diritto
dell'amministrazione fiscale sui relitti, contrastante, nel caso specifico, con
una particolare usanza locale (lex Rhodia).
In
primo luogo, se fosse veramente esistito un diritto del fisco sui relitti, esso
avrebbe certamente lasciato cospicue tracce nelle fonti (si pensi a ciò che è
accaduto per il diritto del fisco sui bona caduca, vacantia, e damnatorum).
I testi citati dal Rougé sono insufficienti a provare l'esistenza di quel
diritto; e sono suscettibili di diversa spiegazione.
Sappiamo,
inoltre, che la giurisprudenza classica[12],
perseguendo un indirizzo probabilmente già tracciato dalla giurisprudenza
repubblicana, si era opposta all'antico principio in base al quale i relitti
divenivano di proprietà di chi se ne impadroniva, ed aveva affermato
chiaramente la persistenza del diritto del proprietario, escludendo decisamente
il profilarsi di un'ipotesi di derelictio. Anzi, così ben radicato era
in età classica il principio che le cose lanciate in mare per alleggerire la
nave ed i relitti restassero dell'antico padrone, che Ulpiano non esitava a
considerare la direptio ex naufragio un vero e proprio furto (D. 47, 9,
3 pr.).
Appare,
dunque, difficile in linea teorica sostenere che in alcune regioni, in
contrasto con principi da tempo affermati in diritto romano, il fisco vantasse
un diritto di proprietà sui relitti, che sarebbe stato, oltretutto, dannoso
all'attività commerciale e superato persino da antiche usanze locali (lex
Rhodia)[13].
Deve
essere ricercata, allora, una diversa spiegazione della confisca operata dai publicani
delle Cicladi in D. 14, 2, 9. A nostro avviso, la più semplice e plausibile è
la seguente: i publicani esigono il pagamento del portorium, cioè
del dazio doganale, sulle merci giunte lungo le coste dell'isola d'Icaria, che
rientra nella circoscrizione nella quale essi sono preposti a riscuotere la Quadragesima
Asiae[14]. Eudaimone
nega che sia dovuto il portorium sui beni naufragati adducendo che
questi sono giunti sull'isola contro la sua volontà, spinti dalla tempesta, e
che non si può aggiungere al danno del naufragio l'onere del pagamento del
dazio doganale. I publicani, per tutta risposta, confiscano i resti del
naufragio e minacciano di venderli all'incanto. Eudaimone allora rivolge una
supplica all'imperatore, sostenendo la applicabilità di una antica disposizione
rodia che prescriveva l'esenzione doganale per le merci giunte in un porto,
spinte dalla tempesta o per sfuggirvi. La decisione imperiale è favorevole ad
Eudaimone.
Anche
le altre fonti riportate dal Rougé sono, come si accennò, suscettibili di
un'interpretazione che esclude l'esistenza in alcune regioni particolari di un
diritto della amministrazione fiscale sui relitti.
Riesaminando
il frammento di Marciano precedentemente citato (D. 39, 4, 16, 8)[15],
non si comprende per qual ragione il Rougé supponga che i relitti vengano
assoggettati ad un trattamento (e, cioè, la confisca) diverso da quello
riservato alle merci gettate in mare per alleggerire la nave durante una
tempesta, tanto più che Giavoleno, ad esempio, nel passo del Digesto (41, 2,
21, 1 e 2) sopra menzionato[16],
non distingue affatto il regime dei resti del naufragio da quello delle merci
lanciate in mare per alleggerire la nave. Il passo di Marciano, tratto dal liber
singularis de delatoribus e compreso nel titolo de publicanis et
vectigalibus et commissis del Digesto, contiene (paragr. 7) un lungo elenco
di merci assoggettate al portorium. Nulla ci vieta di supporre che nel
paragrafo successivo (paragr. 8), il giurista affermasse che le merci lanciate
in mare per alleggerire la nave durante un tempesta e giunte sulla costa erano
esentate dal pagamento del portorium, allo stesso modo delle merci
naufragate, secondo il trattamento attestato in D. 14, 2, 9.
Anche
la dichiarazione dell'imperatore in C.I. 11, 6, 1 (...fiscus meus sese non
interponat. Quod enim ius habet fiscus in aliena calamitate ut de re tam
luttuosa compendium sectetur?) ben si adatta al caso previsto in D. 14, 2,
9 ed è possibile supporre che i diritti vantati dal fisco consistano nella
normale pretesa del pagamento dei dazi doganali per i beni naufragati.
Vero è
che, secondo questa interpretazione, in C.I. 11, 6, 1 vi sarebbe un brusco ed
ingiustificato mutamento di argomento tra la prima parte della costituzione (Si
quando... ad dominos pertineat), ove si discute della persistenza del
diritto di proprietà del dominus di una nave naufragata, e la seconda
parte (fiscus meus... compendium sectetur?), nella quale si esentano dal
pagamento del dazio i resti del naufragio. Ma in proposito getta luce
un'ammissione dello stesso Rougé, incline a considerare C. I. 11, 6, 1 un sunto
tratto dai compilatori da un originale più ampio. Anche la dottrina romanistica
ha sospettato, come abbiamo già accennato[17],
i più ampi rimaneggiamenti del testo in questione. I compilatori potrebbero
essere, dunque, i responsabili del brusco mutamento dell'argomento e della
mancata menzione chiarificatrice dei portoria. Il guadagno ricercato dal
fisco, a cui allude l'imperatore, sarebbe derivato nella disposizione
originaria dalla naturale pretesa del pagamento dei dazi doganali dovuti.
Delimitate
così le ingerenze lecite dei funzionari statali sui beni naufragati, le
dichiarazioni delle altre due fonti, citate dal Rougé a sostegno della sua
ipotesi (D. 47, 9, 7 e Fortunaziano, Ars ret. 1, 13), restando isolate,
appaiono di scarso rilievo. Né, infatti, il generico divieto affermato in D.
47, 9, 7 per i privati, i soldati, i liberti e gli schiavi del principe
conforta adeguatamente l'ipotesi dell'esistenza di un diritto del fisco sui
relitti; né ci si può basare sulla dichiarazione di un retore per sostenere il
riconoscimento della pratica in questione da parte dello stato romano.
Priva,
così, di ogni sostegno testuale, l'affermazione del Rougé che in alcune regioni
dell'impero romano persistesse l'antica usanza dell'attribuzione dei relitti al
fisco appare infondata. Tutto conferma, invece, che i beni naufragati
restavano, sotto l'impero di Roma, ai legittimi proprietari.
Siamo
indotti, ora, ad alcune riflessioni sulla lex Rhodia. Fondandoci su D.
14, 2, 9, abbiamo supposto l'esistenza di una disposizione rodia che prescriverebbe
l'esenzione doganale per le merci giunte in un porto spinte dalla tempesta.
Ulteriori indizi confermano questa ipotesi.
Cicerone,
ricalcando con ogni probabilità una fonte retorica rodia, afferma[18]:
Necessitudo
autem infertur, cum vi quadam reus id, quod fecerit, fecisse defenditur, hoc
modo: lex est apud Rhodios, ut, si qua rostrata in portu navis deprehensa sit,
publicetur. Cum magna in alto tempestas esset, vis ventorum invitis nautis
Rhodiorum portum navem coegit. Quaestor navem populi vocat;
navis dominus negat oportere publicari. Intentio est: Rostrata navis in portu
deprehensa est. Depulsio concessio. Ratio Vi et necessario sumus in portum
coacti. Infirmatio est: Navem ex lege tamen populi esse oportet. Iudicatio
est: Cum rostratam navem in portu deprehensam lex publicarit cumque haec navis
invitis nautis vi tempestatis in portum coniecta sit, oporteatne eam
publicari?.
Colpisce, soprattutto, la nostra attenzione il fatto che, nell'unica notizia abbastanza sicura che abbiamo su di una disposizione marittima rodia ‑ il cui contenuto, per altro, esula dalla nostra questione ‑ si prospetti il caso di un tempesta che costringe i naviganti all'ingresso forzato nel porto di Rodi. Nel testo di Cicerone sembra quasi esservi un'eco della disposizione rodia, che esentava dal pagamento dei dazi doganali le navi sospinte in porto dalla tempesta, ipotizzata per altra via (D. 14, 2, 9).
Richiamiamo,
adesso, a sostegno della nostra ipotesi, una epigrafe il cui testo fu trovato
inciso in più colonne su di un muro nei pressi dell'antico porto di Cauno[19].
Ivi si esentano dal dazio le mercanzie in transito e quelle invendute e
riesportate entro un certo termine. Precise disposizioni riguardano le
dichiarazioni, il controllo doganale e le confische. Si esentano, infine, da
ogni tassazione le navi spinte dalla tempesta nel porto di Cauno o ivi facenti
scalo per riparare le avarie o per svernarvi. Pur essendo quelle percepite nel
I sec. d.C. da Cauno ‑ divenuta civitas libera ‑ tasse
municipali, è possibile supporre che la clausola in questione rifletta una più
antica usanza doganale, già in vigore al tempo in cui Cauno era sottoposta a
Rodi e riscuoteva i portoria in base alle disposizioni rodie. Il porto
di Cauno, infatti, era stato per i rodii fonte di alti proventi doganali.
Tutta
la storia della comunità rodia nell'età ellenistica è intessuta di episodi che
rivelano l'importanza dei dazi doganali e l'assoluta necessità per i rodii di
fissare una moderata ed equa regolamentazione doganale. Intorno al 220 a.C.
Rodi, spinta dai mercanti dell'Egeo, mosse guerra a Bisanzio che esigeva il
pagamento di elevati dazi per il passaggio degli stretti[20].
Gli altissimi proventi che Rodi ricavava prima del 170 a.C. dalle sue dogane
ammontavano ad un milione di dracme annue[21]
e l'ambasceria dei rodii al senato romano lamentava, appunto, come la più grave
disgrazia subìta dallo stato rodio, l'istituzione del porto franco di Delo che
aveva ridotto le rendite portuali rodie a circa centocinquantamila dracme.
Cauno, sottoposta ai Tolomei, era stata acquistata dai rodii e procurava loro
elevati introiti daziari. Le parole di Cicerone nel De inv.[22]:
Nam si Rhodiis turpe non est, portorium locare... dimostrano, ove vi
fosse ancora bisogno, l'importanza per i rodii dei dazi doganali.
È
legittimo, allora, supporre l'esistenza di una legislazione rodia sui portoria,
nella quale si prevedeva una esenzione doganale per le merci spinte in un porto
dalla tempesta.
Non v'è
traccia di un analogo principio nelle tariffe doganali delle altre comunità
greche dell'età ellenistica[23]
e ciò potrebbe, forse, indicare che questa usanza più umana e favorevole ai
naviganti, propria dei rodii, non fosse universalmente accolta.
Neppure
nelle tariffe doganali dell'impero romano, né negli scritti giuridici concernenti
questioni doganali, si rinviene alcunchè di simile, ad eccezione del frammento
di Marciano che allude ad un rescritto dei divi fratres (D. 39, 4, 16,
8), del passo di Meciano che riferisce un rescritto di Antonino Pio (D. 14, 2,
9) e della costituzione di Antonino Caracalla (C. I. 11, 6, 1), che
probabilmente era pure un rescritto. Si può allora supporre che anche sotto
l'impero romano non fosse comunemente riconosciuto il principio rodio
dell'esenzione doganale dei relitti e delle navi rifugiatesi in porto per
sfuggire alla tempesta e ciò fosse causa di numerose controversie, risolte
dagli imperatori con una serie di rescritti, tutti tendenti ad accogliere la
più favorevole disposizione rodia.
Le
considerazioni sopra esposte ci permettono, infine, di formulare una congettura
sulle origini della c.d. lex Rhodia. È noto che i problemi sollevati
dalla lex Rhodia si presentano complessi: fu la lex Rhodia un
unitario codice di commercio» elaborato in età ellenistica e recepito dai
romani; o, piuttosto, una disposizione particolare di origine greca che
riguardava soltanto il principio della contribuzione in caso di avaria? Il
regime del getto delle merci elaborato dalla giurisprudenza romana fu influenzato
dalle disposizioni in materia contenute nella lex Rhodia? E, se ciò
avvenne, in che misura?
La
fondamentale indagine del Kreller[24]
‑ i cui risultati sono oggi generalmente accettati ‑ ha avviato
a soluzione parte degli
accennati quesiti. Prendendo spunto dal carattere delle scarse fonti
disponibili[25], lo
studioso
tedesco ha visto nella lex Rhodia un complesso di usanze marittime,
praticate dai rodii, che sarebbero state ben note a tutti i marinai del bacino
orientale del Mediterraneo, e che, tuttavia, non si sarebbero mai presentate
come un diritto greco comune, effettivamente unificato.
E merito, poi, del De Martino[26]
l'aver sottolineato la sostanziale originalità delle elaborazioni giurisprudenziali
romane in rapporto ai principali istituti del diritto marittimo. Anche
l'Osuchowski, come abbiamo già accennato[27],
ritiene che non v'è prova dell'esistenza di una norma di diritto proveniente da
Rodi che regolasse il problema del iactus mercium e riafferma, pertanto,
che i giuristi classici risolsero la questione del iactus al di fuori di
ogni influenza straniera. Il De Robertis[28] considera
la lex Rhodia come una consuetudine locale, accolta, forse, nell'editto
provinciale, e vigente, come diritto particolare, in un settore orientale del
bacino del Mediterraneo. Da ultimo, il Rougé[29],
pur constatando la mancanza di prove sicure di una codificazione rodia,
riconosce che la particolare posizione di egemonia nei traffici marittimi,
conseguita dallo stato rodio sul finire del III e nel corso del II sec. a.C.[30],
giustifica almeno l'ipotesi dell'esistenza di un complesso unitario di
disposizioni assai evolute e favorevoli ai traffici marittimi, di cui i rodii,
basandosi sulla potenza della loro flotta da guerra, avrebbero diffuso
l'applicazione.
Si ammette, in conclusione, che, avendo la lex Rhodia assunto, nel
corso dell'età classica, il senso generico di un complesso di principi
concernenti il diritto marittimo[31],
ad essa ci si riferì soprattutto in ordine a problemi giuridici derivanti dal iactus
mercium.
Insoluta resta, in sostanza, la questione se alle origini della c. d. lex
Rhodia vi sia stata una precisa disposizione.
L'indagine in precedenza condotta, volta a sottolineare la vitale
importanza per i rodii dei dazi doganali e l'esistenza di tariffe doganali
presso altre comunità greche, ci invita a supporre che soprattutto nel porto di
Rodi esistesse un regolamento doganale scritto, particolarmente adatto a
favorire i traffici commerciali. Se in D. 14, 2, 9 un caso previsto
probabilmente da questo regolamento è riferito alla lex Rhodia, si può,
forse, supporre ‑ se l'ipotesi non è troppo arrischiata ‑ che alle
origini della lex Rhodia vi sia stata una vera e propria legge doganale
applicata nel porto di Rodi, che stabiliva le formalità per l'ingresso in porto
(si spiegherebbe così il principio ricordato da Cic., De inv. 2, 32,
98), e fissava l'ammontare dei dazi, i termini e le condizioni per l'imbarco e
lo sbarco delle mercanzie e le possibili esenzioni.
Vero è
che la lex Rhodia fu particolarmente richiamata dalla giurisprudenza
romana in rapporto alla soluzione dei problemi giuridici sorgenti dal iactus
mercium e non per questioni doganali. Ma v'è pure chi dubita
dell'autenticità di quel riferimento[32].
D'altra parte, la presenza nella legge doganale applicata nel porto di Rodi del principio della contribuzione in caso di avaria potrebbe essere plausibilmente spiegata. Come si regolavano gli obblighi e le modalità di ripartizione degli oneri fiscali tra coloro che caricavano merci diverse su di una nave, giunta a Rodi ed assoggettata al dazio, così nello stesso regolamento doganale si sarebbero potute prevedere le modalità di ripartizione dei danni subiti dai mercanti che trasportavano merci su di una nave, rifugiatasi in avaria nel porto di Rodi, dove poteva fruire dell'esenzione dai dazi.
L'antico principio mediterraneo della ripartizione dei danni in caso di
avaria sembra che sia stato diverso da quello praticato dai rodii. Dauvillier[33],
fondandosi sulle prescrizioni del Talmud, ha sostenuto che nell'antico diritto
fenicio la spartizione dei danni in caso di getto delle merci fosse effettuata
in base al peso delle merci lanciate in mare e non in proporzione al valore. I
rodii, dunque, potrebbero aver introdotto per primi il principio della
spartizione delle perdite in base al valore delle merci abbandonate in mare. L'accoglimento
di questo principio da parte della giurisprudenza romana giustificherebbe,
allora, il richiamo alla disposizione rodia, anche se il particolare
tecnicismo romano, pur traducendo in principi romani esigenze, le quali
dovevano essere state riconosciute nei grandi traffici marittimi, sembra che
abbia sistemato l'istituto in modo tale da farlo apparire come una tipica
costruzione romana[34].
L'importanza della regola del iactus, prevista nella legge doganale
di Rodi, potrebbe aver attratto la giurisprudenza romana assai più delle altre
disposizioni sui dazi ivi contemplate, ed aver così indotto a tramandare il
ricordo della lex Rhodia soltanto in connessione al problema del getto
delle merci.
Avendo
acquistato la lex Rhodia per gli antichi il significato di complesso di
disposizioni concernenti il commercio marittimo ed il getto delle merci, cadeva
del tutto in oblio l'originario regolamento dei dazi del porto di Rodi[35]. È
possibile, allora, che la compilazione postclassica di usanze marittime particolarmente
riguardanti l'avaria ‑ la quale si suppone alla base del titolo del
Digesto de lege Rhodia de iactu (14, 2) e del paragrafo delle Pauli
Sententiae ad legem Rhodiam (2, 7) ‑ sia stata denominata lex
Rhodia, allo stesso modo della compilazione bizantina redatta al tempo
della dinastia iconoclasta[36],
che pure non accennava ad alcuna questione doganale.
[1] Cfr., ad es., D. 14, 2, 2, 8 (Paolo); 41, 1, 9, 8 (Gaio); 14, 2, 8 e
41, 7, 7 (Giuliano); 41, 2, 21, 1 e 2 (Giavoleno); 47, 2, 43, 11(Ulpiano); I.
2, 1, 46. Sul naufragio in diritto romano cfr. ANDRICH, Dig. It., XV, 2, p.
1303 ss., v. «naufragio»; SCIALOIA, Nuovo Dig. It., VIII, p. 865 ss., v.
«naufragio». Alcuni passi contenuti in D. 47, 9 (De incendio, ruina,
naufragio rate nave expugnata) mirano ad assicurare la tutela dei diritti
del legittimo proprietario della nave naufragata. Sulla
presenza della rubrica corrispondente a D. 47, 9 nelleditto pretorio, cfr.
Lenel, Edictum perpetuum, Leipzig, 1927, p. 391 ss.
[2] Vedi Rougé, Le droit
de naufrage et ses limitations en Méditerranée avant létablissement de la
domination de Rome, in Mélanges
Piganiol, III (Paris, 1966), pp.
1467 ss.
[3] La persistenza in alcune
regioni dellimpero di una pratica criminosa, volta a far naufragare le navi
per impadronirsene, è attestata in D. 47, 9, 10 (Ne piscatores nocte lumine
ostenso fallant navigantes, quasi in portum aliquem delaturi, eoque modo in
periculum naves et qui in eis sunt deducant sibique execrandam praedam parent,
praesidis provinciae religiosa constantia efficiant), ove è severamente
repressa. Lintero titolo D. 47, 9 prova la sollecitudine verso una efficace
tutela contro la vis esercitata nei confronti dei nautae. Cfr.,
inoltre, D. 48, 7, 1, 1 e 2.
[4] Rougé, Recherches sur lorganisation du commerce
marittime en Méditerranée sous
l'empire romain, Paris, 1966, p. 339 ss. ; 398 s.
[5] Si è proposta una correzione: reliqua terram attigerint (De
Saumaise).
[6] Solazzi, Su C. l., XI, 6 «de
naufragiis», ora in Scritti, IV, (Napoli, 1963), p. 165 ss.
[7] Sulla lista di merci
assoggettate al vectigal, contenuta nel frammento di Marciano, cfr.
Reggi, Species pertinentes ad vectigal nel liber singularis de
delatoribus di Marciano. D. 39, 4, 16, 7, Studi Parmensi, 15 (1974), pp.
75 ss.
[8] Fortunaziano, Ars. ret.,
1, 13: Quae est simplex definitio? Cum unam rem simpliciter definimus ut:
naufragia ad publicanos pertineant. Cuiusdam naufragae corpus cum ornamentis ad
litus expulsum harena obrutum est, id publicani eruerunt; rei suht sepulchri
violati. Hic enim simpliciter quaeritur, quid sit sepulchrum violare?
[9] Lo stesso Kreller (Lex
Rhodia, Zeitschr. f. das gesamte Handelrecht u. Konkursrecht, 85, 1921, p.
358) finisce per concludere che «...wir wohl auf eine Wiederherstellung des
ursprüngliche Sinnes verzicht müssen».
[10] Sulla dibattuta questione della
sostanziale genuinità di questo frammento cfr. la letteratura cit. da de robertis (Lex Rhodia. Critica ed
anticritica su D. 14, 2, 9, St. Arangio Ruiz, III, Napoli, s. d., pp. 155
ss.), che, per ultimo, ne difende l'autenticità. All'opinione del De Robertis
aderisce il Rougé (op. cit., pp. 409 ss.).
[11] Osuchowski, Appunti sul
problema del iactus in diritto romano, Iura, 1950, p. 293. Di particolare
rilievo è per Osuchowski il confronto del Digesto (14, 2) con il titolo ed il
primo paragrafo delle Pauli sententiae (2, 7). Nessun riferimento al iactus
si desume dalla prima espressa menzione della lex Rhodia in Tertulliano
(Adversus Marcionem, 3, 6, 3: Scilicet nauclero illi (Marcione) non
quidem Rhodia lex, sed Pontica caverat errare Iudaeos in Christum suum non
licere...).
[12] Cfr. supra, nt. 1.
[13] Il Rougé (op. cit., p.
411) ritiene, appunto, che la lex Rhodia neghi il diritto
dell'amministrazione fiscale sui relitti e che Eudaimone la invochi in D. 14,
2, 9 contro le pretese dei publicani. Al contrario, De Robertis (op.
cit., p. 172, nt. 76) sostiene che Eudaimone ne contesti nella specie
l'applicabilità, postulata dai publicani. Tenendo conto del fatto che il
disconoscimento del diritto del fisco sui relitti è un principio più evoluto e
favorevole alla prassi commerciale, sembrerebbe più plausibile l'ipotesi del
Rougé. I rodii, infatti, furono custodi intorno al III sec. a.C. (cfr.
Rovstovzeff, Storia econom. e soc. del mondo ellenistico, I, Firenze, 1966, p.
237) della tranquillità e liberalizzazione degli scambi marittimi, a causa dei
loro forti interessi commerciali. Cfr., ad es., Strabone, 14, 2, 5; Polibio 4.
47.
[14] Appare finora isolata
l'affermazione del De Laet (Portorium, Brugge, 1949, p. 295): «Le
seul renseignement que nous possédons sur le «portorium en Achaie nous est
fourni par un texte de Volusius Maecianus qui nous apprend que sous Antonin le
Pieux il y avait des bureaux douaniers dans les Cyclades et que cet impót était
affermé (D. 14, 2, 9)».
[15] Cfr. supra, p. 72.
[16] Cfr. supra, p. 70.
[17] Cf r. supra, p. 71. nt.
6.
[18] Cic., De inv. 2,
32, 98.
[19] Per ragioni tipografiche si
rinvia al testo greco dell'epigrafe riportato in Bean, Notes and
inscriptions from Caunus, II, Journ. of Hell. Studies, 74 (1954), p.
97 ss., n°. 38.
[20] Polibio, 4, 37 ss.; 4, 47.
Rovstovzeff, op. cit., II, p. 84.
[21] Polibio, 31, 7.
[22] Cic., De inv., 1,
30, 47.
[23] Cfr., ad es., la tariffa
doganale di Ciparisso in Dareste, Recuil des inscriptions iuridiques
grecques, II, Roma, 1965, p. 340 ss. Sui dazi doganali percepiti dalle poleis
greche dell'età ellenistica cfr. De Laet, op. cit., p. 47, nt. 1
e Andreades, Les droits de douane prélevés par les Lagides sur le commerce
extérieur, Mél. Glotz, I, 1932, p. 7 ss. In effetti,
sappiamo troppo poco sul regime e le esenzioni doganali nel mondo antico per
essere indotti a trarre da un argomento e silentio conseguenze troppo
cogenti.
[24] Kreller, op. cit., p. 257‑367.
[25] Fonti in Kreller, op. cit.;
ivi anche la letteratura precedente al 1921.
[26] De Martino, Sul foenus nauticum, Riv. dir. della navig.,
1935, p. 21 ss.; Note di dir. rom. marittimo. Lex
Rhodia, 1, Riv. dir. della navig., 1937, p. 335 ss.; II
e III, Riv. dir. della navig., 1938, pp. 3 ss. e pp. 180 ss.
[27] Cfr. supra, nt. 12.
[28] De Robertis, op. cit.,
pp. 155 ss.
[29] Cfr. Rougé, op. cit., pp. 408 e passim.
[30] Cfr. anche Rovstovzeff, Rodi, Delo ed il commercio ellenistico,
CAH, VIII, p. 619 ss.; Storia economica e sociale del mondo ellenistico,
II, Firenze, 1973, p. 88 ss.; Hiller von gaertringen, PWRE, suppl. V, 731 ss.,
v. «Rhodos»; Ziebarth, Zur Handelsgesch. der Insel Rhodos, Mél. Glotz, II, Paris, 1932, pp. 58 ss.
[31] Depone in tal senso la presenza
di frammenti concernenti questioni varie di diritto marittimo nel tit. de
lege Rhodia de iactu del Digesto (cfr. Rougé, op. cit., p. 407) e la
fama della lex Rhodia nel già citato (supra, nt. 12) passo di
Tertulliano (Adversus Marcionem, 3, 6, 3).
[32] Cfr. supra, pp. 74 e 83.
[33] Dauvillier, Le droit
maritime phénicien, RIDA, 1959, pp. 53 ss.
[34] De Martino, op. cit., I,
pp. 337.
[35] Isidoro di Siviglia, Orig.,
5, 17: De legibus Rhodiis. Rhodiae leges navalium conmerciorum sunt, ab
insula Rhodo cognominatae, in qua antiquitus mercatorum usus fuit. Cfr.
anche Bas. 53, 1, 1 e Costantino Armenopulo, Mon. leg., 2, 11, 1.
[36] Sull'ipotesi dell'esistenza di
una compilazione postclassica di cui si servirono i compilatori del Digesto
cfr. De Martino, op. cit., II, pp. 34 ss. Sul Nómos Rodíon Nauticós,
cfr. Ashburner, The Rhodian sea law, Oxford, 1909; Dareste, La lex
Rhodia, RHD, 29 (1905), pp. 429 ss.; Marvulli, Nómos Rodíon
Nauticós, Arch. Stor. Pugliese, Bari, 16 (1963), pp. 42 ss.