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Recensione dell’opera di Carlos Sánchez-Moreno Ellart,

Professio liberorum. Las declaraciones y los registros de nacimientos en Derecho Romano, con especial atención a las fuentes papirológicas, ed. Dykinson, Madrid (2001), pp. 1-191

[in corso di pubblicazione sulla rivista IVRA, Rivista Internazionale di Diritto Romano e Antico, 52 (2001)]

Un fondo oro del III/IV sec. d.C., montato nella croce di Desiderio (IX sec. d.C.), raffigura una madre con i due figli, forse alessandrini. Alla foglia d'oro è sovrapposta una foglia d'argento per realizzare le vesti ed i monili, creando un contrasto coloristico che conferisce al tondo vitreo le caratteristiche di un dipinto

Se agli inizi del ‘900 gli atti di dichiarazione di nascita di epoca romana rinvenuti in Egitto erano appena una diecina[1], alla metà del secolo erano già aumentati di numero ed era possibile distinguere sedici dichiarazioni di cittadini romani[2], il cui rinvenimento ha offerto alla dottrina[3] la possibilità di affrontare con maggiore sicurezza un tema che, senza il contributo papirologico, trova sostegno solo in imprecise notizie delle fonti letterarie ed in testi, non meno incerti, della Compilazione[4]. Eppure il tema delle dichiarazioni di nascita, diverse per finalità tra i cittadini romani ed i greco-egizi – le une miranti a fruire dei vantaggi concessi dalle leggi Iulia et Papia ed Aelia Sentia, facilitando la prova dell’età, del numero dei figli e di riflesso l’accertamento dello status personarum, le altre connesse al censimento domiciliare ogni quattordici anni, per valutare in definitiva l’entità delle imposte personali da corrispondere[5] – è di grande interesse e con numerose implicazioni giuridiche che la particolare prospettiva delle fonti, volta a dar scarso risalto alla prassi documentale, inconsapevolmente trascura. Di conseguenza, non solo siamo incerti dell’esistenza e delle modalità di tenuta di registri di cittadinanza, di nascita ed anche, per alcuni studiosi tra i quali l’A., di filiazione illegittima o dei militari peregrini[6], ma persino dell’esistenza di un vero e proprio obbligo per tutti i cittadini romani, almeno dalle leggi augustee in poi, di dichiarare tassativamente la nascita dei propri figli.

Dopo più di un altro mezzo secolo, il numero delle dichiarazioni di nascita dei cittadini romani è aumentato di poco, attestandosi a diciannove e raggiungendo quasi quello delle dichiarazioni note, all’incirca venti, dei cittadini greco-egizi[7].

L’obbligatorietà di effettuare solo queste ultime, anche se la questione è dibattuta, sembra che fosse ristretta solo ai nati entro un certo numero di anni dopo il censimento, poiché mancano proprio le dichiarazioni dei greco-egizi dell’anno del censimento e dei due anni precedenti[8]. Costoro sarebbero stati quindi denunciati anche con un ritardo di quasi tre anni, al momento del compimento della kat joijkivan ajpografhv.

Se ciò rispecchia bene la relativa indifferenza degli antichi per l’esatta determinazione dell’età dell’individuo - collegandosi ad una concezione del tempo e del fluire della vita dell’uomo assai diversa da quella dei moderni - impone anche cautela nell’attribuire all’antica dichiarazione di nascita ed alla stesura di un documento il valore che oggi noi diamo loro. 

Uno degli aspetti più interessanti dell’opera di C. Sánchez-Moreno sulla professio liberorum consiste probabilmente nel liberare l’opinione consolidata sulle dichiarazioni di nascita nel diritto romano da valenze improprie, come l’obbligatorietà della dichiarazione dei figli legittimi e la netta discriminazione fin dall’età augustea tra filiazione legittima ed illegittima, riservando la professio agli uni, la mera testatio agli altri. Se lo studio fosse stato esteso anche alle dichiarazioni dei greco-egizi, non limitandosi ad esaminare soltanto le denunce dei romani, non solo sarebbe stato più completo, ma il vantaggio sarebbe stato reciproco per entrambi i tipi di dichiarazione, tanto più che sono state prese in considerazione, né potevano non esserlo, le dichiarazioni dei figli dei soldati arruolati negli auxilia, che sovente cittadini non erano, testationes cioè effettuate in previsione della futura concessione del beneficio della cittadinanza al momento dell’ejpivkrisi". Anche sotto tale profilo il contributo dell’A. è innovativo, poiché distingue nettamente le testationes degli illegittimi da quelle dei militari, in precedenza assimilate. Procedendo con ordine, esporremo prima la tesi tradizionale, quindi le novità proposte.

 

In base all’opinione finora prevalente, si è ritenuto che a partire dalle leggi Aelia Sentia e Papia Poppea fosse stato imposto per i figli dei cittadini romani un diverso regime tra le dichiarazioni dei figli legittimi e quelle degli illegittimi. Nel 1927, nella tavoletta del Museo del Cairo 29812 del 62 d.C. (= CPL 148 = FIRA III, 2), si leggeva che era stata la legislazione Papia Poppea ed Aelia Sentia ad imporre l’affissione in pubblico (propositio) dei nomi dei neonati che erano stati professi e poco dopo, nel 1928,  nel P. Mich. III, 169 (Inv. 4529) del 145 d.C. (= CPL 162 = FIRA III, 4), si riscontrava: “…quia lex Aelia Sentia et Papia Poppaea spurios spuriasve in albo profiteri vetat…”; prima testimonianza diretta che tali leggi escludevano la professio in albo degli illegittimi[9]. Quindi si è sostenuto che i figli legittimi dovessero essere obbligatoriamente denunciati dal padre all’autorità entro trenta giorni dall’imposizione del nome mediante professio[10], che seguiva un formulario tipico e veniva registrata ed esposta in pubblico, in albo; che poi veniva probabilmente archiviato. Al padre si consegnava, su sua richiesta, un certificato, normalmente su tavolette cerate, quello che è a noi di solito giunto o egli stesso avrebbe potuto far realizzare un descriptum et recognitum ex tabula albi professionum. Il termine di trenta giorni dalla nascita e dall’imposizione del nome per effettuare la dichiarazione sarebbe stato, attenendosi alle testimonianze documentali, costantemente rispettato, almeno fino alla fine del II sec. d.C. La testatio per gli illegittimi invece sarebbe stata effettuata senza limiti di tempo, con una dichiarazione dall’avente potestà, che nell’interesse del nascituro avrebbe potuto realizzare una documentazione di parte. La professio in albo sarebbe stata proibita anche per i figli dei soldati in servizio attivo, in quanto illegittimi, almeno fino a Settimio Severo. Infatti in alcune tavolette pervenuteci si dichiara che: “…atque se testari ex lege Aelia Sentia et Papia Poppaeae quae de filis procreandis latae sunt nec potuisse se profiteri propter districtionem militiae” [P.Mich. VII, 436 (Inv. 3994) del 138 d.C. = CPL 161]. Dunque si redigeva una dichiarazione privata con l’assistenza di sette testimoni (testatio, devlto" marturopoihvsew") che comprovava la filiazione naturale e che, a tempo debito per i figli dei soldati, avrebbe potuto essere utilizzata per il riconoscimento della cittadinanza romana mediante ejpivkrisi".

Per l’opinione dominante quindi, “per i legittimi avrebbe potuto parlarsi di professio e di testatio; di quest’ultima cioè in mancanza della prima o eventualmente sempre dopo, e non mai prima”[11]. Per gli illegittimi la professio avrebbe dovuto essere invece sempre tassativamente esclusa in base alle testimonianze di documenti come la

 

Tab. Cairo 29812 del 62 d.C. (= CPL 148 = FIRA III, 2):

 

L. Iulius Vestinus praefectus Aegypti nomina eorum qui e lege Papia Poppaea et Aelia Sentia liberos apud …natos sibi professi sunt…,

 

e di P. Mich. III, 169 (Inv. 4529) del 145 d.C. (= CPL 162 = FIRA III, 4), ove nel momento del compimento di una testatio di due gemelli illegittimi da parte della madre, tutore auctore, espressamente si dichiarava che era stata proprio la lex Aelia Sentia et Papia Poppaea a vietare la professio in albo  degli spurî. Negativamente, la medesima esclusione si riteneva di poter ricavare da P. Mich. VII, 436 (Inv. 3994) del 138 d.C., che sembrava indicare che a causa del servizio militare non poteva essere effettuata una professio, ma una testatio ex lege Aelia Sentia et Papia Poppaeae quae de filis procreandis latae sunt. Si equiparava così in tutto e per tutto la testatio degli illegittimi a quella dei militari, ritenendole entrambe colpite dal divieto legislativo augusteo, determinato da principii di salvaguardia della moralità, che tuttavia non giungevano a discriminare tra filiazione legittima ed illegittima i vantaggi offerti dal ius liberorum. Sembra infatti che i benefici conseguenti al numero dei figli venissero accordati computandone il numero complessivo e non soltanto tenendo conto di quello dei legittimi. Tale equiparazione si giustifica come ricompensa della prolificità delle donne; prolificità che non era opportuno distinguere tra legittima ed illegittima e dunque i vantaggi non venivano concessi come premio della moralità[12].

tale apparentemente solida ricostruzione, basata su di una netta distinzione in documenti come BGU IV, 1032 del 173 d.C. o nel summenzionato P.Oxy. XII, 1451 del 175 d.C. tra devlto" professivwno" e devlto" marturopoihvsew", dipendeva, come riconosceva Lanfranchi, dall’inesistenza di professiones di spurî, poiché “dove c’è professio c’è sempre filiazione legittima; là dove c’è testatio (come atto originario), c’è – di regola! – filiazione illegittima”[13]. Eppure qualche attestazione di professiones di spurî, come vedremo, sussiste e, come rilevava già con correttezza Lanfranchi, in tale ricostruzione stupisce “che la denunzia degli illegittimi non sia stata regolata in guisa completamente parallela a quella dei legittimi, con una testatio-atto tipico, riservata a quelli soltanto, attuantesi dinanzi al funzionario pubblico con le analoghe – mutatis mutandis – caratteristiche di procedura”[14].

In effetti in D. 22, 3, 29, 1 “il profiteri  in relazione agli spurî è contemplato come possibile ed in realtà effettuato”[15]:

 

Scevola, l. IX Digestorum: Mulier gravida repudiata, filium enixa, absente marito ut spurium in actis professa est…

 

Le innegabili difficoltà per l’opinione dominante suscitate dal testo sono state superate sostenendo che esso si riferisca ad un momento posteriore ad una radicale riforma di Marco Aurelio, della quale tratta un brano di Giulio Capitolino nella

Historia Augusta, Vita Marci IX, 7-8:

 

Liberales causas ita munivit, ut primus iuberet (sc. Marco Aurelio) apud praefectos aerari Saturni unumquemque civium natos liberos profiteri intra tricesimum diem nomine imposito. Per provincias tabulariorum publicorum usum instituit, apud quos idem de originibus fieret, quod Romae apud praefectos aerarii, ut si forte aliquis in provincia natus causam liberalem diceret, testationes inde ferret. Atque hanc totam legem de adsertionibus firmavit, aliasque de mensariis et auctionibus tulit. De statu etiam defunctorum intra quinquennium quaeri iussit.

 

In base a tale riforma, ascrivibile, secondo l’opinione corrente, all’incirca agli anni  174/6 d.C., sarebbero state soppresse le originarie professiones e testationes e sarebbe stato stabilito un solo modo di profiteri per tutti, eliminando le restrittive disposizioni delle leggi Sentia e Poppaea. Ciò avrebbe comportato la necessità di indicare nei documenti il tipo di filiazione, legittima o illegittima - indicazione in precedenza superflua, e quindi non chiarita - ed implicato nella prassi il mancato rispetto del rigido termine di trenta giorni per la dichiarazione, prima nei documenti sempre rispettato[16]. Se tale situazione sembra essere rispecchiata da dichiarazioni di nascita del III sec. d.C., come il dittico Guéraud del 242 (SB 9200 = FIRA III, 1 = CPL 163 =AE 1948, 121), una serie di documenti del regno di Marco Aurelio (BGU VII, 1694 del 163; BGU IV, 1032 del 173 e P.Oxy. XII, 1451, che si riferisce ad una dichiarazione forse del 175), non sembra registrare alcun mutamento rispetto al passato e dunque, se si tratta di documenti di data incerta,  si tende a retrodatarli o a postergare la riforma agli ultimi anni di vita di Marco Aurelio, assegnando così l’imbarazzante testo di Scevola, sopra ricordato, ad un momento immediatamente successivo all’ipotetico mutamento avvenuto alla fine del suo regno.

Dopo oltre settant’anni dalla sua formulazione, un’ipotesi avanzata da Cuq[17] e respinta da Lanfranchi[18] adesso riceve meritata riabilitazione ad opera di  Sánchez-Moreno il quale osserva innanzitutto che l’esame di testimonianze come P.Oxy. VIII, 1114; P.Oxy. XII, 1451; BGU IV, 1032 e SB V, 5217 non sembra essere decisivo per dimostrare che  devlto" professivwno" e  devlto" marturopoihvsew" si riferiscano ad atti di diversa natura[19], rispettivamente connessi con filiazione legittima ed illegittima. La distinzione deve piuttosto porsi tra professio in actis per legittimi e spurî, effettuata mediante testatio, e professio in albo utilizzata dai legittimi come prova e solo a costoro riservata dalle leggi  Sentia e Poppaea. In pratica esisteva un solo atto, la professio, formale dichiarazione dei cittadini resa all’autorità, tanto per i legittimi che per gli illegittimi[20]. Tale denuncia originale, che già Wenger segnalava resa in prima persona e dunque da distinguere dalla copia della tabula albi che la riassumeva in terza persona (descriptum et recognitum o testatio, che dir si voglia), per quanto riguarda il regime anteriore a Marco Aurelio non ci è pervenuta e non sembra che venisse integralmente esposta in albo[21]. Il P.Oxy. VI, 894 del 194/6 d.C., che reca la locuzione professus est, a differenza dei descripta et recognita che sempre la sottintendono, secondo alcuni sembra contenere l’originale della dichiarazione di nascita[22]; si riferisce comunque ad un momento successivo alle modifiche di Marco Aurelio e, per l’A., sembra essere una copia autenticata di una professio che, in seguito alla riforma, veniva rilasciata all’interessato in sostituzione del descriptum et recognitum o testatio, in precedenza realizzato a cura della parte interessata[23]. Da tale momento in effetti si riscontra nella documentazione pervenutaci la scomparsa di descripta et recognita o testationes  e la sussistenza di copie, tutte autenticate di professiones[24].

Prima di Marco Aurelio, per gli illegittimi gli inconvenienti inflitti dal regime augusteo sarebbero stati solo quelli derivanti dal fatto che costoro non avrebbero avuto a loro disposizione alcuna prova della professio in actis, ad eccezione della testatio che essi stessi realizzavano, la quale restava in ambito privato e godeva dunque di limitato valore probatorio. Per motivi di propaganda morale, caratteristici della politica augustea, secondo l’A.[25], sarebbe stata proibita la pubblicità del presunto album degli spurî ed è probabile che per gli illegittimi, come per i legittimi, la professio non fosse obbligatoria, ma imposta in maniera indiretta attraverso la prospettiva dei vantaggi conseguenti al ius liberorum, senza in pratica escludere gli spurî da ogni controllo ufficiale di registrazione negli acta. “In un mondo come il romano, un sistema di registrazione obbligatoria non sembra realizzabile”[26] e l’ignoranza della propria età appariva normale, come dimostra il frequente arrotondamento degli anni di vita nelle epigrafi funerarie in cinque o dieci[27].

In altri termini, le leggi Iulia et Papia ed Aelia Sentia si sarebbero limitate a prevedere un regime volontario delle dichiarazioni di nascita e delle relative prove, con il solo scopo di disciplinare l’ammissione dei cittadini ai benefici che esse prevedevano, indipendentemente da una distinzione tra filiazione legittima ed illegittima. Con il termine professio si alludeva infatti ad ogni dichiarazione di nascita di un cittadino, sia legittimo che spurio; alle due modalità cioè di denuncia, in albo ed in actis. Nel caso dei legittimi la testatio si effettuava ricavandola dalla tabula albi (descriptum et recognitum ex tabula albi), nel caso degli illegittimi invece la testatio si realizzava con la collaborazione di amici - testimoni come prova del fatto della nascita, poiché non sussisteva una tabula, in publico proposita. L’inesistenza di un descriptum et recognitum di data posteriore a Marco Aurelio  - il riformatore che secondo gli interpreti della Historia Augusta avrebbe unificato il regime della professio - può suggerire che fosse in realtà fissato un sistema probatorio comune, fondato sull’autenticazione di copie estratte dagli archivi; per quanto le testimonianze relative - certificati cioè con autenticazione - sono finora tutte dell’età dei Severi[28] e non appare all’A. agevole stabilire se Marco abbia soppresso il divieto di profiteri in albo per gli illegittimi, mantenendo l’album, o piuttosto abbia reso universale la modalità della professio in actis. L’ultima testatio datata d’illegittimi è del 145 d.C. (P. Mich. III, 169), essendo il P. Michaelidae 61 (= CPL 164), forse posteriore e riferibile ad un illegittimo, purtroppo non databile. 

Le testationes effettuate da militari, membri degli auxilia, prima dell’honesta missio, si differenziano secondo l’A. da quelle degli illegittimi, poiché le dichiarazioni di non poter effettuare una professio, come quella che si riscontra in P. Mich. VII, 436 (Inv. 3994) non scaturivano dall’illegittimità, come si è finora ritenuto, ma dalla mancanza del requisito della cittadinanza. Infatti il comune scioglimento delle sigle c r e a K che si notano in alcuni documenti[29] - interpretate come civem romanum esse ad Kalendarium - sembra confermare che requisito richiesto per essere registrato nel Kalendarium, non fosse la legittimità, ma secondo l’A. la cittadinanza[30].  Pertanto non solo era vietata la professio in actis dei figli dei militari non cittadini, ma anche in albo. Infatti nella dichiarazione del figlio di un militare, riferita in P. Mich. VII, 436 (Inv. 3994) del 138 d.C., si affermava di aver dovuto effettuare una testatio in base alle leggi augustee sopra indicate soltanto propter districtionem militiae, senza far alcun riferimento alla condizione di spurio del bambino, come invece accade per i gemelli illegittimi dichiarati dalla madre in P. Mich. III, 169 (Inv. 4529), ricordando invece esplicitamente il divieto legislativo augusteo che …spurios spuriasve in albo profiteri. Come chiarisce il P. Diog I = Dittico Bell (= CPL 159) del 127 d.C. il militare effettuava la testatio, non solo a causa del servizio, ma ut possit post honestam missionem suam ad epicrisin suam adprobare filium suum naturalem esse.

Anche nel caso della T.H. 5 del 60 d.C. venne realizzata una testatio per la nascita di una figlia legittima - che ha suscitato difficoltà ai sostenitori dell’esclusività della professio per la filiazione legittima - da un padre che in realtà non era cittadino[31].

Dunque la testatio veniva precostituita come prova privata del fatto della nascita per dare successivamente inizio al procedimento della professio, quando fosse stato possibile. Sussistono infatti indizi che indicano che la testatio veniva realizzata in doppia copia (binae tabulae), proprio in quanto un esemplare veniva trattenuto dalla famiglia come duplicato, l’altro normalmente consegnato per l’inserimento della nascita nel registro (professio in actis); quest’ultimo,  per i legittimi e gli illegittimi, non era altro che un Kalendarium di cittadini, ove i figli dei militari, membri degli auxilia prima dell’honesta missio, essendo non cittadini, non avrebbero potuto essere registrati. I legittimi sarebbero stati quindi accolti nell’albo (professio in albo), che per le leggi augustee era riservato esclusivamente alla filiazione legittima e che sarebbe stato affisso in pubblico; da esso sarebbe stato possibile estrarre un descriptum et recognitum ex tabula albi professionum.

Secondo l’A., è poco verosimile che la prova, in tema di ius liberorum o di età per effettuare la manomissione, restasse esclusivamente riservata in ambito privato, senza alcun tipo di controllo ufficiale, come aveva ritenuto Cuq[32]; e dunque, anche se sussistono labili indizi[33], egli è indotto ad ipotizzare l’esistenza di un registro degli illegittimi, comunque non esibito in pubblico.

A nostro parere, tuttavia, di tale terzo registro, oltre al kalendarium dei cittadini ed all’album dei legittimi (quest’ultimo propositum), non vi è alcuna necessità, essendo evidentemente sufficiente, attenendosi alla ricostruzione dell’A., il mero elenco dei cittadini per risolvere eventuali dubbi in tema di ius liberorum o di età per effettuare la manomissione, poiché è certo che nel kalendarium dei cittadini avrebbe dovuto essere comunque indicata una data sicura della nascita. Allora il dubbio se con la riforma di Marco Aurelio fosse stato soppresso il divieto di profiteri in albo per gli illegittimi, o piuttosto resa universale la professio in actis, può forse risolversi rendendosi conto che in fondo si tratta di stabilire (non esistendo un registro degli illegittimi) se la dichiarazione di nascita di un cittadino romano, legittimo o illegittimo che dir si voglia, registrata come in precedenza nel Kalendarium della cittadinanza ed ora – forse dopo Marco - autenticata dalla autorità, fosse destinata o meno ad essere resa nota in pubblico con una specifica registrazione delle nascite. A questo punto è assai probabile che lo fosse e che quindi Marco Aurelio abbia semplicemente consentito la professio in albo degli illegittimi.   

Resta dunque assai significativa la tesi dell’A., che appare convincente e ben fondata. Se fosse stata evitata nell’opera qualche ripetizione o tavolta un’eccessiva esemplificazione e soprattutto fossero stati corretti i numerosi errori di stampa, che una parziale errata corrige finisce in realtà per aggravare, la lettura sarebbe stata certo più scorrevole. Come riconosce García Garrido nella sua presentazione, il volume appare “testo obbligato di studio per le successive investigazioni in una materia che resta sempre aperta a nuove scoperte e all’apporto di nuovi documenti[34], ma anche a nostro avviso costituisce un risultato notevole, non solo nell’ambito della documentazione romana della nascita, ma anche per ulteriori indagini nell’oscuro settore della tenuta dei pubblici registri, necessari per il governo di un impero, che adesso non si ritiene più - secondo una superata visione “primitivista” dell’amministrazione romana - retto senza né mezzi, né personale, in virtù di un’antica saggezza patriarcale, facendo un uso assai limitato di documenti[35].

Le indagini in tale settore, certamente non agevoli, si dimostrano comunque sempre ricche di fruttuosi sviluppi.

 

  Gianfranco Purpura

                                                        Dipartimento di Storia del Diritto

                                                                 Università di Palermo


[1] Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance, Mélanges Fournier, Paris, 1929, p. 122 nt. 2 ricorda che si trovano raccolti in due articoli di Cagnat, Extraits de naissance égyptiens,  Journal des Savants (JS), 1927, p. 193; Id., Deux nouveaux certificats de naissance égyptiens, JS,  1929, pp. 74 ss. (non vidi).

[2] L’elenco, fornito da O. Montevecchi, Ricerche di sociologia nei documenti dell’Egitto greco-romano, VI. Denunce di nascita di greco-egizi, Aegyptus, 27 (1947), pp. 3-4, deve essere integrato con l’ aggiornamento in Id., La Papirologia, Milano (1988), p. 180 ed il supplemento in Addenda, p. 565.    

[3] Kelsey, A Waxed table of the year 128 AD, TAPA 54 (1923), pp. 187 ss.; Sanders, The birth certificate of a roman citizen, Class. Phil., 22, 1927, pp. 409 ss.; Guéraud, Tablette 29807 et tablette 29812, BIFAO, 27, 1927, pp. 118 ss.; Cagnat, Extraits de naissance égyptiens, cit., p. 193; Sanders, A birth certificate of the year 145 AD, AJA, 32, 1928, pp. 309 ss.; Id., The Kalendarium again, Class. Phil., 23, 1928, pp. 250 ss;  Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance, cit., pp, 119 ss.; Cagnat, Deux nouveaux certificats de naissance égyptiens, cit., pp. 74 ss.; Weiss, Zur Rechtsstellung der unehelichen Kinder in der Kaiserheit, ZSS, 49, 1929, pp. 260 ss.; Sanders, Two fragmentary birth certificates from the Michigan Collection, MAAR, IX, 1931, pp.  62 ss.;  Scheltema, Professio liberorum natorum, TR, XIV (1936), p. 93; Sanders, Papyri in the University of Michigan, III, Ann Arbor, 1936; Id., A birth-certificate of 138 AD, Aegyptus, 17 (1937), pp. 223 ss.; Bell, A registration of birth, JRS, 27 (1937), pp. 30 ss.; Guéraud, À propos des certificats de naissance du Musée du Caire, Ét. Pap., IV (1938), pp. 25 ss.;  Id., Une déclaration de naissance du 17 Mars 242 après J.C., Ét. Pap., VI (1940), pp. 21 ss.;   Pescani, Osservazioni su alcune sigle ricorrenti nelle professiones liberorum, Aegyptus (1941), pp. 129 ss.; Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita nel diritto romano, Faenza, 1942 (II ed., Bologna, 1951); Schulz, Roman register of birth and birth certificates, JRS, 32-33 (1942), pp. 78 ss. [= BIDR, 55-56 (1951), pp. 170 ss.]; Id., Premesse terminologiche a ricerche sulle azioni di stato nella filiazione in diritto romano, St. Univ. Cagliari, 29, 1946, pp. 1 ss.; Montevecchi, Denunce di nascita di greco-egizi, Aegyptus, 27 (1947), pp. 3 ss.; Sanders, Dunlap, Papyri in the University of Michigan, VII, Ann Arbor, 1947; Weiss, Professio und testatio nach der Lex Aelia Sentia und der Lex Papia Poppaea, BIDR, X-XI, 1948, pp. 316 ss.; Montevecchi, Ricerche di sociologia nei documenti dell’Egitto greco-romano, Aegyptus, 28 (1948), pp. 129 ss.; Lévy, Les actes d’état civil des romains, RH, 30, 1952, pp. 449 ss.; Crawford,  Catalogue of the greek and latin papyri tablets and ostraka in the Library of Mr. G.A. Michaelides, Aberdeen, 1955; Lanfranchi, Ricerche sulle azioni di stato, nella filiazione, II, Bologna, 1964; Lévy, Nouvelles observations sur les professiones liberorum, Études Macqueron, Aix-en-Provence, 1970; Lanfranchi, Prime considerazioni sull’impugnativa di paternità in diritto romano, Studi Volterra, IV, Milano, 1971, pp. 105 ss.; Nelson, Status declarations in roman Egypt, Amsterdam, 1979; Terreni, P. Mich. III, 169: il mistero di Sempronia Gemella, SDHI, 62, 1996, pp. 573 ss.;    

[4] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones y los registros de nacimientos en Derecho Romano, con especial atención a las fuentes papirológicas, Madrid (2001), p. 22.

[5] O. Montevecchi, La Papirologia, cit., pp. 177 ss.

[6] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 68.

[7] Le dichiarazioni di nascita o notifiche di un bambino, di più recente rinvenimento (O. Montevecchi, Addenda, p. 565), sono quasi tutte posteriori alla concessione della cittadinanza del 212 d.C. 

[8] O. Montevecchi, La Papirologia, cit., pp. 179 e s.; Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita, cit., p. 91 nt. 208 riassume le opinioni precedenti.

[9] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 142.

[10] Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance, Mél. Fournier, Paris, 1929, p. 130 indica trentotto giorni dalla nascita per le femmine, trentanove per i maschi.

[11] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita, cit., p. 79 nt. 240 e pp. 89 e s.

[12] Viene comunemente addotta come prova la testimonianza offerta da P.Oxy. XII, 1451 del 175 d.C., nella quale una certa Trunnia in una dichiarazione di ejpivkrisi", per godere dei vantaggi offerti dal ius liberorum, sembra contrapporre il devlto" marturopoihvsew" dei figli illegittimi al devlto" professivwno", relativo alla sua filiazione legittima.

[13] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita, cit., p. 79.

[14] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico, cit., p. 82.

[15] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico, cit., p. 95.

[16] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico, cit., p. 93.

[17] Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance, cit., pp. 123 ss.

[18] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico, cit., p. 95 nt. 286.

[19] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 166.

[20] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 168.

[21] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 62 e nt. 181.

[22] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico, cit.,  p. 61

[23] Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 158

[24] P.Oxy. VI, 894 del 194/6 d.C.; P.Oxy. XXXI, 2565 del 224 d.C.; Dittico Guéraud (SB 9200) del 242 d.C. In realtà, solo nel Dittico Guéraud appare l’indicazione recognovi del funzionario, ma la locuzione professus est - adesso presente nei certificati - e la subscriptio greca denotano il mutamento convincentemente posto in risalto da  Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., pp. 92 ss.

[25] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 170.

[26] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 77 e nt. 271.

[27] Duncan Jones, Age-rounding, illiteracy and social differentiation in the roman empire, Chiron, VII, 1997, pp. 333 ss.

[28] Cfr. supra i documenti cit. nella nt. 24.

[29] P. Mich. III, 167 (Inv. 2737) del 103 d.C.; P. Mich. III, 166 del 128 d.C.; BGU VII, 1692 del 144 d.C.; P. Mich. III, 168 del 144/5 d.C.; T. Oxford  Libr. Ms. Lat Class. e 16 P (=CPL 155) del 147 d.C.; P. Mus. Cairo Inv. 29807 (= CPL 156) del 148; BGU VII, 1694 (= CPL 157) del 163 d.C.

[30] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., pp. 71ed 81 ss.

[31] Lanfranchi, Ricerche sul valore giuridico delle dichiarazioni di nascita, cit., pp. 88 e s.; C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 82 e pp. 114-6.

[32] Cuq, Les lois d’Auguste sur les déclarations de naissance, cit., pp. 130 ss.

[33] Che in P. Mich. III, 169 potrebbero essere, secondo l’A. (C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., pp. 82), l’uso del latino, il fatto che la dichiarazione era effettuata ad Alessandria, l’assistenza del tutore, la probabile duplicità di copia. Nessuna di tali circostanze appare realmente significativa. 

[34] C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum, cit., p. 20.

[35] Nicolet, A la recherce des archives oubliées: une contribution à l’histoire de la bureaucratie romaine, La mémoire perdue, Publications de la Sorbonne, Paris, 1994, pp. pp. X-XI.


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