La dottrina romanistica, fondandosi su solide attestazioni del Digesto, ha
sempre negato l'esistenza in diritto romano del diritto di naufragio, in base
al quale i relitti divenivano di proprietà di chi se ne impadroniva; e ha
sostenuto che i resti del naufragio (e pure le cose lanciate in mare durante
una tempesta per alleggerire la nave) continuassero ad appartenere, ai
legittimi proprietari. (1)
Afferma, esplicitamente, Giavoleno in D. 41, 2, 21,1 e 2:
Quod
ex naufragio expulsum est, usucapì non potest, quoniam non est in
derelitto, sed in deperdito. Idem iuris esse existimo in his rebus, quae iactae
sunti quoniam non potest videri id pro derelitto habitum, quod salutis
causa interim dimissum est.
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L'antichissima usanza
mediterranea dell'attribuzione dei resti dei naufragi a chi se ne
impadroniva(2)sarebbe stata nettamente
superata dagli orientamenti della giurisnrudenza ed anzi decisamente
avversata da parte del governo romano .(3)
Il Rougé, pur tenendo
presenti le fonti sopra citate, afferma, tuttavia, in un'ampia indagine
sull'organizzazione del commercio marittimo nel Mediterraneo sotto l'impero
romano , (4)l'esistenza di una molteplicità
di consuetudini marittime contrastanti in età imperiale; e ritiene in
particolare che l'esempio più significativo di un conflitto di consuetudini
sia costituito dal regime dei relitti. In materia, secondo il Rougé,
coesistevano sotto l'impero romano tre diverse usanze: l'attribuzione del
relitto a colui che se ne impadroniva; il sequestro e la vendita da parte di
funzionari statali in base ad una prassi già adottata in età ellenistica; la
restituzione al legittimo proprietario.
Pur non escludendo in genere, l'ipotesi della pluralità di consuetudini
marittime vigenti nell'impero romano, noi non siamo persuasi del supposto
diritto del fisco romano in alcune regioni dell'impero di sequestrare e
vendere all'incanto i resti dei naufragi.
Conviene, quindi, passare in rassegna attentamente le fonti addotte dal Rougé
a sostegno della presunta pratica del fisco romano di sequestrare e vendere i
relitti.
Viene in considerazione, in primo luogo, C. I. 11, 6, 1 (Ant.):
Si
quando naufragio navis expulsa fuerit ad litus vel si quando reliquam
terram attigerit ,(5)
ad dominos pertineat: fiscus meus sese non interponat. Quod enim ius habet
fiscus in aliena calamitate ut de re tam luttuosa compendium sectetur?
|
Trascurando i sospetti
che la critica interpolazionista ha appuntato su questa disposizione ,
(6) il nostro A.
ritiene che proprio il divieto ivi contemplato attesti l'esistenza della
pratica in questione in alcune zone particolari dell'impero.
Analogo peso attribuisce il Rougé al senatoconsulto ricordato in D. 47, 9, 7
e contenente un divieto d'impadronirsi dei relitti indirizzato, oltre che ai
privati ed ai soldati, anche ai liberti ed agli schiavi del principe (...Sed
nec intervenire naufragiis colligendis aut militem aut privatum aut libertum
servumque principis, placere sibi ait senatus).
In D. 39, 4, 16, 8 (Marciano, l. sing. de delat.)(7) , si legge:
Si propter
necessitatem adversae tempestatis expositum onus fuerit, non debere hoc
commisso vindicari divi fratres rescripserunt.
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In questo caso, il Rougé ritiene che la proibizione
imperiale di confiscare e vendere all'incanto le merci gettate in mare per alleggerire
la nave durante una tempesta non escluderebbe che "per gli altri relitti
la prassi della confisca e della vendita restasse legittima". Siffatta
prassi sarebbe confermata, del resto, da una dichiarazione del retore
Fortunaziano: naufragia ad publicanos pertineant .(8)
Ma il testo fondamentale per la tesi del Rougé è il noto
frammento D. 14, 2, 9:
La confisca effettuata dai
publicani delle Cicladi della nave di Eudaimone, naufragata lungo le coste
della isola d'Icaria nei pressi di Rodi, si spiegherebbe, secondo il nostro A.,
supponendo la persistenza di un antico diritto dell'amministrazione fiscale
sui relitti. Nella sfera d'applicazione della lex Rhodia, orientata, invece,
a favorire la navigazione commerciale ed a salvaguardare gli imprenditori
privati dai gravissimi rischi ad essa connessi, tale confisca sarebbe apparsa
illegittima. In tal senso si sarebbe pronunciato anche l'imperatore in
seguito alla supplica di Eudaimone, ammettendo l'applicabilità della lex
Rhodia.
Numerosi e complessi sono i problemi suscitati da D. 14, 2, 9. Sono discusse
la genuinità del testo e l'attribuzione a Volusio Meciano. Si mette in
dubbio, addirittura, l'esistenza di un'opera di Meciano sulla legge rodia e
si è incerti sull'identificazione dell'imperatore Antonino (Antonino Pio o
Marco Aurelio) nominato nel frammento. Hanno, soprattutto, destato
perplessità l'inclusione del passo nel titolo del Digesto de lege Rhodia de
iactu e la menzione della legge rodia: la fattispecie considerata in D. 14,
2, 9, infatti, non ha alcuna relazione con il caso del iactus, come sarebbe
logico attendersi da un frammento inserito in questo titolo e che richiama la
disposizione rodia, tradizionalmente riferita al getto delle merci.
Questa constatazione ha conferito notevole vigore alle argomentazioni di
coloro che hanno cercato di negare la sostanziale genuinità del frammento. Il
Kreller, invece, convinto per altro verso dell'autenticità di D. 14, 2, 9, si
è sforzato di cogliere il nesso tra la fattispecie ivi prevista ed il iactus
mercium, senza però riuscirvi convincentemente .(9)
In effetti, D. 14, 2, 9 può essere considerato sostanzialmente genuino (10) , in quanto la constatata
assenza della menzione del iactus non è così sorprendente come potrebbe
sembrare a prima vista. Si discute, infatti, in dottrina dell'effettivo
contenuto della lex Rhodia e v'è, addirittura, chi è giunto a dubitare
che sia esistita una norma di diritto proveniente da Rodi in materia di iactus
(11).
Ci pare possibile, allora, supporre che nella lex Rhodia fosse contenuta una
disposizione non riguardante il problema del getto delle merci, ma
strettamente connessa con la fattispecie di D. 14, 2, 9. Questa ipotesi è,
come vedremo, suffragata da alcuni indizi che rivelano che il caso previsto
in D. 14, 2, 9 era disciplinato in modo particolare presso i rodii.
Ma prima di esaminare la fattispecie di D. 14, 2, 9, conviene esporre le
perplessità suscitate in noi dall'interpretazione del Rougé, secondo cui la
confisca dei publicani si spiegherebbe soltanto supponendo in età
imperiale la persistenza, limitata ad alcune regioni, di un antico diritto
dell'amministrazione fiscale sui relitti, contrastante, nel caso specifico,
con una particolare usanza locale (lex Rhodia).
In primo luogo, se fosse veramente esistito un diritto del fisco sui relitti,
esso avrebbe certamente lasciato cospicue tracce nelle fonti (si pensi a ciò
che è accaduto per il diritto del fisco sui bona caduca, vacantia,
e damnatorum). I testi citati dal Rougé sono insufficienti a provare
l'esistenza di quel diritto; e sono suscettibili di diversa spiegazione.
Sappiamo, inoltre, che la giurisprudenza classica (12) , perseguendo un indirizzo
probabilmente già tracciato dalla giurisprudenza repubblicana, si era opposta
all'antico principio in base al quale i relitti divenivano di proprietà di
chi se ne impadroniva, ed aveva affermato chiaramente la persistenza del
diritto del proprietario, escludendo decisamente il profilarsi di un'ipotesi
di derelictio. Anzi, così ben radicato era in età classica il principio che
le cose lanciate in mare per alleggerire la nave ed i relitti restassero
dell'antico padrone, che Ulpiano non esitava a considerare la direptio ex
naufragio un vero e proprio furto (D. 47, 9, 3 pr.).
Appare, dunque, difficile in linea teorica sostenere che in alcune regioni,
in contrasto con principi da tempo affermati in diritto romano, il fisco
vantasse un diritto di proprietà sui relitti, che sarebbe stato, oltretutto,
dannoso all'attività commerciale e superato persino da antiche usanze locali
(lex Rhodia)(13) . Deve essere ricercata,
allora, una diversa spiegazione della confisca operata dai publicani delle
Cicladi in D. 14, 2, 9. A nostro avviso, la più semplice e plausibile è la
seguente: i publicani esigono il pagamento del portorium, cioè del dazio
doganale, sulle merci giunte lungo le coste dell'isola d'Icaria, che rientra
nella circoscrizione nella quale essi sono preposti a riscuotere la
Quadragesima Asiae(14). Eudaimone nega che sia dovuto
il portorium sui beni naufragati adducendo che questi sono giunti sull'isola
contro la sua volontà, spinti dalla tempesta, e che non si può aggiungere al
danno del naufragio l'onere del pagamento del dazio doganale. I publicani,
per tutta risposta, confiscano i resti del naufragio e minacciano di venderli
all'incanto. Eudaimone allora rivolge una supplica all'imperatore, sostenendo
la applicabilità di una antica disposizione rodia che prescriveva l'esenzione
doganale per le merci giunte in un porto, spinte dalla tempesta o per
sfuggirvi. La decisione imperiale è favorevole ad Eudaimone.
Anche le altre fonti riportate dal Rougé sono, come si accennò, suscettibili
di un'interpretazione che esclude l'esistenza in alcune regioni particolari
di un diritto della amministrazione fiscale sui relitti.
Riesaminando il frammento di Marciano precedentemente citato (D. 39, 4, 16,
8) , (15) ) non si comprende per qual
ragione il Rougé supponga che i relitti vengano assoggettati ad un
trattamento (e, cioè, la confisca) diverso da quello riservato alle merci
gettate in mare per alleggerire la nave durante una tempesta, tanto più che
Giavoleno, ad esempio, nel passo del Digesto (41, 2, 21, 1 e 2) sopra
menzionato (16) , non distingue affatto il
regime dei resti del naufragio da quello delle merci lanciate in mare per
alleggerire la nave. Il passo di Marciano, tratto dal liber singularis de
delatoribus e compreso nel titolo de publicanis et vectigalibus et commissis
del Digesto, contiene (paragr. 7) un lungo elenco di merci assoggettate al
portorium. Nulla ci vieta di supporre che nel paragrafo successivo (paragr.
8), il giurista affermasse che le merci lanciate in mare per alleggerire la
nave durante un tempesta e giunte sulla costa erano esentate dal pagamento
del portorium, allo stesso modo delle merci naufragate, secondo il
trattamento attestato in D. 14, 2, 9.
Anche la dichiarazione dell'imperatore in C.I. 11, 6, 1 (...fiscus meus sese
non interponat. Quod enim ius habet fiscus in aliena calamitate ut de re tam
luttuosa compendium sectetur?) ben si adatta al caso previsto in D. 14, 2, 9
ed è possibile supporre che i diritti vantati dal fisco consistano nella
normale pretesa del pagamento dei dazi doganali per i beni naufragati.
Vero è che, secondo questa interpretazione, in C.I. 11, 6, 1 vi sarebbe un
brusco ed ingiustificato mutamento di argomento tra la prima parte della
costituzione (Si quando... ad dominos pertineat), ove si discute della
persistenza del diritto di proprietà del dominus di una nave naufragata, e la
seconda parte (fiscus meus... compendium sectetur?), nella quale si esentano
dal pagamento del dazio i resti del naufragio. Ma in proposito getta luce
un'ammissione dello stesso Rougé, incline a considerare C. I. 11, 6, 1 un sunto
tratto dai compilatori da un originale più ampio. Anche la dottrina
romanistica ha sospettato, come abbiamo già accennato (17) , i più ampi rimaneggiamenti
del testo in questione. I compilatori potrebbero essere, dunque, i
responsabili del brusco mutamento dell'argomento e della mancata menzione
chiarificatrice dei portoria. Il guadagno ricercato dal fisco, a cui allude
l'imperatore, sarebbe derivato nella disposizione originaria dalla naturale
pretesa del pagamento dei dazi doganali dovuti.
Delimitate così le ingerenze lecite dei funzionari statali sui beni
naufragati, le dichiarazioni delle altre due fonti, citate dal Rougé a
sostegno della sua ipotesi (D. 47, 9, 7 e Fortunaziano, Ars ret. 1, 13),
restando isolate, appaiono di scarso rilievo. Né, infatti, il generico
divieto affermato in D. 47, 9, 7 per i privati, i soldati, i liberti e gli
schiavi del principe conforta adeguatamente l'ipotesi dell'esistenza di un
diritto del fisco sui relitti; né ci si può basare sulla dichiarazione di un
retore per sostenere il riconoscimento della pratica in questione da parte
dello stato romano.
Priva, così, di ogni sostegno testuale, l'affermazione del Rougé che in
alcune regioni dell'impero romano persistesse l'antica usanza
dell'attribuzione dei relitti al fisco appare infondata. Tutto conferma,
invece, che i beni naufragati restavano, sotto l'impero di Roma, ai legittimi
proprietari.
Siamo indotti, ora, ad alcune riflessioni sulla lex Rhodia. Fondandoci su D.
14, 2, 9, abbiamo supposto l'esistenza di una disposizione rodia che
prescriverebbe l'esenzione doganale per le merci giunte in un porto spinte
dalla tempesta. Ulteriori indizi confermano questa ipotesi.
Cicerone, ricalcando con ogni probabilità una fonte retorica rodia, afferma (18) :
Necessitudo
autem infertur, cum "vi quadam" reus id, quod fecerit, fecisse
defenditur, hoc modo: lex est apud Rhodios, ut, si qua rostrata in portu
navis deprehensa sit, publicetur. Cum magna in alto tempestas esset, vis
ventorum invitis nautis Rhodiorum portum navem coegit. Quaestor navem
populi vocat; navis dominus negat oportere publicari. Intentio est:
"Rostrata navis in portu deprehensa est". Depulsio concessio.
Ratio "Vi et necessario sumus in portum coacti". Infirmatio est:
"Navem ex lege tamen populi esse oportet". Iudicatio est:
"Cum rostratam navem in portu deprehensam lex publicarit cumque haec
navis invitis nautis vi tempestatis in portum coniecta sit, oporteatne eam
publicari?".
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Colpisce, soprattutto, la nostra
attenzione il fatto che, nell'unica notizia abbastanza sicura che abbiamo su
di una disposizione marittima rodia il cui contenuto, per altro, esula dalla
nostra questione si prospetti il caso di un tempesta che costringe i
naviganti all'ingresso forzato nel porto di Rodi. Nel testo di Cicerone
sembra quasi esservi un'eco della disposizione rodia, che esentava dal
pagamento dei dazi doganali le navi sospinte in porto dalla tempesta,
ipotizzata per altra via (D. 14, 2, 9).
Richiamiamo, adesso, a sostegno della nostra ipotesi, una epigrafe il cui
testo fu trovato inciso in più colonne su di un muro nei pressi dell'antico
porto di Cauno (19) . Ivi si esentano dal dazio le
mercanzie in transito e quelle invendute e riesportate entro un certo
termine. Precise disposizioni riguardano le dichiarazioni, il controllo
doganale e le confische. Si esentano, infine, da ogni tassazione le navi
spinte dalla tempesta nel porto di Cauno o ivi facenti scalo per riparare le
avarie o per svernarvi. Pur essendo quelle percepite nel I sec. d.C. da Cauno
divenuta civitas libera tasse municipali, è possibile supporre che la
clausola in questione rifletta una più antica usanza doganale, già in vigore
al tempo in cui Cauno era sottoposta a Rodi e riscuoteva i portoria in base
alle disposizioni rodie. Il porto di Cauno, infatti, era stato per i rodii
fonte di alti proventi doganali.
Tutta la storia della comunità rodia nell'età ellenistica è intessuta di
episodi che rivelano l'importanza dei dazi doganali e l'assoluta necessità
per i rodii di fissare una moderata ed equa regolamentazione doganale.
Intorno al 220 a.C. Rodi, spinta dai mercanti dell'Egeo, mosse guerra a
Bisanzio che esigeva il pagamento di elevati dazi per il passaggio degli
stretti (20) .
Gli altissimi proventi che Rodi ricavava prima del 170 a.C. dalle sue dogane
ammontavano ad un milione di dracme annue (21) e l'ambasceria dei rodii al
senato romano lamentava, appunto, come la più grave disgrazia subìta dallo
stato rodio, l'istituzione del porto franco di Delo che aveva ridotto le
rendite portuali rodie a circa centocinquantamila dracme. Cauno, sottoposta
ai Tolomei, era stata acquistata dai rodii e procurava loro elevati introiti
daziari. Le parole di Cicerone nel De inv. (22) : Nam si Rhodiis turpe non est,
portorium locare... dimostrano, ove vi fosse ancora bisogno, l'importanza per
i rodii dei dazi doganali.
È legittimo, allora, supporre l'esistenza di una legislazione rodia sui
portoria, nella quale si prevedeva una esenzione doganale per le merci spinte
in un porto dalla tempesta.
Non v'è traccia di un analogo principio nelle tariffe doganali delle altre
comunità greche dell'età ellenistica (23) e ciò potrebbe, forse, indicare che questa usanza
più umana e favorevole ai naviganti, propria dei rodii, non fosse
universalmente accolta.
Neppure nelle tariffe doganali dell'impero romano, né negli scritti giuridici
concernenti questioni doganali, si rinviene alcunchè di simile, ad eccezione
del frammento di Marciano che allude ad un rescritto dei divi fratres (D. 39,
4, 16, 8), del passo di Meciano che riferisce un rescritto di Antonino Pio
(D. 14, 2, 9) e della costituzione di Antonino Caracalla (C. I. 11, 6, 1),
che probabilmente era pure un rescritto. Si può allora supporre che anche
sotto l'impero romano non fosse comunemente riconosciuto il principio rodio
dell'esenzione doganale dei relitti e delle navi rifugiatesi in porto per
sfuggire alla tempesta e ciò fosse causa di numerose controversie, risolte
dagli imperatori con una serie di rescritti, tutti tendenti ad accogliere la
più favorevole disposizione rodia.
Le considerazioni sopra esposte ci permettono, infine, di formulare una
congettura sulle origini della c.d. lex Rhodia. È noto che i problemi
sollevati dalla lex Rhodia si presentano complessi: fu la lex Rhodia un
unitario codice di commercio" elaborato in età ellenistica e recepito
dai romani; o, piuttosto, una disposizione particolare di origine greca che
riguardava soltanto il principio della contribuzione in caso di avaria? Il
regime del getto delle merci elaborato dalla giurisprudenza romana fu
influenzato dalle disposizioni in materia contenute nella lex Rhodia? E, se
ciò avvenne, in che misura?
La fondamentale indagine del Kreller (24) i cui risultati sono oggi generalmente accettati
ha avviatoa soluzione parte degli accennati quesiti. Prendendo spunto dal
carattere delle scarse fonti disponibili (25) , lo studioso tedesco ha visto
nella lex Rhodia un complesso di usanze marittime, praticate dai rodii, che
sarebbero state ben note a tutti i marinai del bacino orientale del
Mediterraneo, e che, tuttavia, non si sarebbero mai presentate come un
diritto greco comune, effettivamente unificato.
E' merito, poi, del De Martino (26) l'aver sottolineato la
sostanziale originalità delle elaborazioni giurisprudenziali romane in
rapporto ai principali istituti del diritto marittimo. Anche l'Osuchowski,
come abbiamo già accennato (27) , ritiene che non v'è prova
dell'esistenza di una norma di diritto proveniente da Rodi che regolasse il
problema del iactus mercium e riafferma, pertanto, che i giuristi classici
risolsero la questione del iactus al di fuori di ogni influenza straniera. Il
De Robertis (28)considera la lex Rhodia come una
consuetudine locale, accolta, forse, nell'editto provinciale, e vigente, come
diritto particolare, in un settore orientale del bacino del Mediterraneo. Da
ultimo, il Rougé (29) ,
pur constatando la mancanza di prove sicure di una "codificazione"
rodia, riconosce che la particolare posizione di egemonia nei traffici
marittimi, conseguita dallo stato rodio sul finire del III e nel corso del II
sec. a.C. (30), giustifica almeno l'ipotesi
dell'esistenza di un complesso unitario di disposizioni assai evolute e
favorevoli ai traffici marittimi, di cui i rodii, basandosi sulla potenza
della loro flotta da guerra, avrebbero diffuso l'applicazione.
Si ammette, in conclusione, che, avendo la lex Rhodia assunto, nel corso
dell'età classica, il senso generico di un complesso di principi concernenti
il diritto marittimo(31) , ad essa ci si riferì
soprattutto in ordine a problemi giuridici derivanti dal iactus mercium.
Insoluta resta, in sostanza, la questione se alle origini della c. d. lex
Rhodia vi sia stata una precisa disposizione.
L'indagine in precedenza condotta, volta a sottolineare la vitale importanza
per i rodii dei dazi doganali e l'esistenza di tariffe doganali presso altre
comunità greche, ci invita a supporre che soprattutto nel porto di Rodi
esistesse un regolamento doganale scritto, particolarmente adatto a favorire
i traffici commerciali. Se in D. 14, 2, 9 un caso previsto probabilmente da
questo regolamento è riferito alla lex Rhodia, si può, forse, supporre se
l'ipotesi non è troppo arrischiata che alle origini della lex Rhodia vi sia
stata una vera e propria legge doganale applicata nel porto di Rodi, che
stabiliva le formalità per l'ingresso in porto (si spiegherebbe così il
principio ricordato da Cic., De inv. 2, 32, 98), e fissava l'ammontare dei
dazi, i termini e le condizioni per l'imbarco e lo sbarco delle mercanzie e
le possibili esenzioni.
Vero è che la lex Rhodia fu particolarmente richiamata dalla giurisprudenza
romana in rapporto alla soluzione dei problemi giuridici sorgenti dal iactus
mercium e non per questioni doganali. Ma v'è pure chi dubita dell'autenticità
di quel riferimento (32) .
D'altra parte, la presenza
nella legge doganale applicata nel porto di Rodi del principio della
contribuzione in caso di avaria potrebbe essere plausibilmente spiegata. Come
si regolavano gli obblighi e le modalità di ripartizione degli oneri fiscali
tra coloro che caricavano merci diverse su di una nave, giunta a Rodi ed
assoggettata al dazio, così nello stesso regolamento doganale si sarebbero
potute prevedere le modalità di ripartizione dei danni subiti dai mercanti
che trasportavano merci su di una nave, rifugiatasi in avaria nel porto di
Rodi, dove poteva fruire dell'esenzione dai dazi.
L'antico principio mediterraneo della ripartizione dei danni in caso di
avaria sembra che sia stato diverso da quello praticato dai rodii. Dauvillier
(33) , fondandosi sulle prescrizioni
del Talmud, ha sostenuto che nell'antico diritto fenicio la spartizione dei
danni in caso di getto delle merci fosse effettuata in base al peso delle
merci lanciate in mare e non in proporzione al valore. I rodii, dunque, potrebbero
aver introdotto per primi il principio della spartizione delle perdite in
base al valore delle merci abbandonate in mare. L'accoglimento di questo
principio da parte della giurisprudenza romana giustificherebbe, allora, il
richiamo alla disposizione rodia, anche "se il particolare tecnicismo
romano, pur traducendo in principi romani esigenze, le quali dovevano essere
state riconosciute nei grandi traffici marittimi", sembra che
"abbia sistemato l'istituto in modo tale da farlo apparire come una tipica
costruzione romana"(34).
L'importanza della regola del iactus, prevista nella legge doganale di Rodi,
potrebbe aver attratto la giurisprudenza romana assai più delle altre disposizioni
sui dazi ivi contemplate, ed aver così indotto a tramandare il ricordo della
lex Rhodia soltanto in connessione al problema del getto delle merci.
Avendo acquistato la lex Rhodia per gli antichi il significato di complesso
di disposizioni concernenti il commercio marittimo ed il getto delle merci,
cadeva del tutto in oblio l'originario regolamento dei dazi del porto di Rodi
(35). È possibile, allora, che la
compilazione postclassica di usanze marittime particolarmente riguardanti
l'avaria la quale si suppone alla base del titolo del Digesto de lege Rhodia
de iactu (14, 2) e del paragrafo delle Pauli Sententiae ad legem Rhodiam (2,
7) sia stata denominata lex Rhodia, allo stesso modo della compilazione
bizantina redatta al tempo della dinastia iconoclasta(36) , che pure non accennava ad
alcuna questione doganale.
Note:
1 Cfr.,
ad es., D. 14, 2, 2, 8 (Paolo); 41, 1, 9, 8 (Gaio); 14, 2, 8 e 41, 7, 7
(Giuliano); 41, 2, 21, 1 e 2 (Giavoleno); 47, 2, 43, 11(Ulpiano); I. 2, 1,
46. Sul naufragio in diritto romano cfr. ANDRICH, Dig. It., XV, 2, p. 1303
ss., v. "naufragio"; SCIALOIA, Nuovo Dig. It., VIII, p. 865 ss., v.
"naufragio". Alcuni passi contenuti in D. 47, 9 (De incendio,
ruina, naufragio rate nave expugnata) mirano ad assicurare la tutela dei diritti
del legittimo proprietario della nave naufragata. Sulla presenza della
rubrica corrispondente a D. 47, 9 nell'editto pretorio, cfr. Lenel, Edictum
perpetuum, Leipzig, 1927, p. 391 ss.
2 Vedi Rougé, Le droit de naufrage et ses limitations en
Méditerranée avant l'établissement de la domination de Rome, in Mélanges
Piganiol, III (Paris, 1966), pp. 1467 ss.
3 La persistenza in alcune regioni
dell'impero di una pratica criminosa, volta a far naufragare le navi per
impadronirsene, è attestata in D. 47, 9, 10 (Ne piscatores nocte lumine
ostenso fallant navigantes, quasi in portum aliquem delaturi, eoque modo in
periculum naves et qui in eis sunt deducant sibique execrandam praedam
parent, praesidis provinciae religiosa constantia efficiant), ove è
severamente repressa. L'intero titolo D. 47, 9 prova la sollecitudine verso
una efficace tutela contro la vis esercitata nei confronti dei nautae. Cfr.,
inoltre, D. 48, 7, 1, 1 e 2.
4 Rougé,
Recherches sur l'organisation du commerce marittime en Méditerranée sous l'empire
romain, Paris, 1966, p. 339 ss. ; 398 s.
5 Si è proposta una correzione:
reliqua terram attigerint (De Saumaise).
6 Solazzi, Su C. l., XI, 6
"de naufragiis", ora in Scritti, IV, (Napoli, 1963), p. 165 ss.
7 Sulla lista di merci assoggettate
al vectigal, contenuta nel frammento di Marciano, cfr. Reggi, "Species
pertinentes ad vectigal" nel " liber singularis de
delatoribus" di Marciano. D. 39, 4, 16, 7, Studi Parmensi, 15 (1974),
pp. 75 ss.
8 Fortunaziano, Ars. ret., 1, 13:
Quae est simplex definitio? Cum unam rem simpliciter definimus ut: naufragia
ad publicanos pertineant. Cuiusdam naufragae corpus cum ornamentis ad litus
expulsum harena obrutum est, id publicani eruerunt; rei suht sepulchri
violati. Hic enim simpliciter quaeritur, quid sit sepulchrum
violare?
9 Lo stesso
Kreller (Lex Rhodia, Zeitschr. f. das gesamte Handelrecht u. Konkursrecht,
85, 1921, p. 358) finisce per concludere che "...wir wohl auf eine
Wiederherstellung des ursprüngliche Sinnes verzicht müssen".
10 Sulla dibattuta questione della
sostanziale genuinità di questo frammento cfr. la letteratura cit. da de
Robertis (Lex Rhodia. Critica ed anticritica su D. 14, 2, 9, St. Arangio
Ruiz, III, Napoli, s. d., pp. 155 ss.), che, per ultimo, ne difende
l'autenticità. All'opinione del De Robertis aderisce il Rougé (op. cit., pp.
409 ss.).
11 Osuchowski, Appunti sul problema
del iactus in diritto romano, Iura, 1950, p. 293. Di particolare rilievo è per
Osuchowski il confronto del Digesto (14, 2) con il titolo ed il primo
paragrafo delle Pauli sententiae (2, 7). Nessun riferimento al iactus si
desume dalla prima espressa menzione della lex Rhodia in Tertulliano
(Adversus Marcionem, 3, 6, 3: Scilicet nauclero illi (Marcione) non quidem
Rhodia lex, sed Pontica caverat errare Iudaeos in Christum suum non
licere...).
12 Cfr. supra, nt. 1.
13 Il Rougé (op. cit., p. 411)
ritiene, appunto, che la lex Rhodia neghi il diritto dell'amministrazione
fiscale sui relitti e che Eudaimone la invochi in D. 14, 2, 9 contro le
pretese dei publicani. Al contrario, De Robertis (op. cit., p. 172, nt. 76)
sostiene che Eudaimone ne contesti nella specie l'applicabilità, postulata
dai publicani. Tenendo conto del fatto che il disconoscimento del diritto del
fisco sui relitti è un principio più evoluto e favorevole alla prassi
commerciale, sembrerebbe più plausibile l'ipotesi del Rougé. I rodii,
infatti, furono custodi intorno al III sec. a.C. (cfr. Rovstovzeff, Storia
econom. e soc. del mondo ellenistico, I, Firenze, 1966, p. 237) della
tranquillità e liberalizzazione degli scambi marittimi, a causa dei loro
forti interessi commerciali. Cfr., ad es., Strabone, 14, 2, 5; Polibio 4. 47.
14 Appare
finora isolata l'affermazione del De Laet (Portorium, Brugge, 1949, p. 295):
"Le seul renseignement que nous possédons sur le "portorium en
Achaie nous est fourni par un texte de Volusius Maecianus qui nous apprend
que sous Antonin le Pieux il y avait des bureaux douaniers dans les Cyclades
et que cet impót était affermé (D. 14, 2, 9)".
15 Cfr. supra,
p. 72.
16 Cfr. supra,
p. 70.
17 Cf r.
supra, p. 71. nt. 6.
18 Cic., De
inv. 2, 32, 98.
19 Per ragioni tipografiche si
rinvia al testo greco dell'epigrafe riportato in Bean, Notes and inscriptions
from Caunus, II, Journ. of Hell. Studies, 74 (1954), p. 97 ss., n°. 38.
20 Polibio, 4, 37 ss.; 4, 47.
Rovstovzeff, op. cit., II, p. 84.
21 Polibio, 31, 7.
22 Cic., De inv., 1, 30, 47.
23 Cfr., ad es., la tariffa
doganale di Ciparisso in Dareste, Recuil des inscriptions iuridiques
grecques, II, Roma, 1965, p. 340 ss. Sui dazi doganali percepiti
dalle poleis greche dell'età ellenistica cfr. De Laet, op. cit., p. 47, nt. 1
e Andreades, Les droits de douane prélevés par les Lagides sur le commerce
extérieur, Mél. Glotz,
I, 1932, p. 7 ss. In effetti, sappiamo troppo poco sul regime e le esenzioni
doganali nel mondo antico per essere indotti a trarre da un argomento e
silentio conseguenze troppo cogenti.
24 Kreller, op. cit., p. 257 367.
25 Fonti in Kreller, op. cit.; ivi
anche la letteratura precedente al 1921.
26 De Martino, Sul foenus nauticum,
Riv. dir. della navig., 1935, p. 21 ss.; Note di dir. rom. marittimo. Lex
Rhodia, 1, Riv. dir. della navig., 1937, p. 335 ss.; II e III, Riv. dir.
della navig., 1938, pp. 3 ss. e pp. 180 ss.
27 Cfr. supra,
nt. 12.
28 De
Robertis, op. cit., pp. 155 ss.
29 Cfr. Rougé,
op. cit., pp. 408 e passim.
30 Cfr. anche
Rovstovzeff, Rodi, Delo ed il commercio ellenistico, CAH, VIII, p. 619 ss.;
Storia economica e sociale del mondo ellenistico, II, Firenze, 1973, p. 88
ss.; Hiller von gaertringen, PWRE, suppl. V, 731 ss., v. "Rhodos";
Ziebarth, Zur Handelsgesch. der Insel Rhodos, Mél. Glotz, II, Paris, 1932,
pp. 58 ss.
31 Depone in tal senso la presenza
di frammenti concernenti questioni varie di diritto marittimo nel tit. de
lege Rhodia de iactu del Digesto (cfr. Rougé, op. cit., p. 407) e la fama
della lex Rhodia nel già citato (supra, nt. 12) passo di Tertulliano
(Adversus Marcionem, 3, 6, 3).
32 Cfr. supra, pp. 74 e 83.
33 Dauvillier,
Le droit maritime phénicien, RIDA, 1959, pp. 53 ss.
34 De Martino, op. cit., I, pp.
337.
35 Isidoro di siviglia, Orig., 5,
17: De legibus Rhodiis. Rhodiae leges navalium conmerciorum sunt, ab insula
Rhodo cognominatae, in qua antiquitus mercatorum usus fuit. Cfr. anche Bas.
53, 1, 1 e Costantino Armenopulo, Mon. leg., 2, 11, 1.
36 Sull'ipotesi dell'esistenza di
una compilazione postclassica di cui si servirono i compilatori del Digesto
cfr. De Martino, op. cit., II, pp. 34 ss. Sul Nómos Rodíon Nauticós, cfr.
Ashburner, The Rhodian sea law, Oxford, 1909; Dareste, La lex Rhodia, RHD, 29
(1905), pp. 429 ss.; Marvulli, Nómos Rodíon Nauticós, Arch. Stor. Pugliese,
Bari, 16 (1963), pp. 42 ss.
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