PER UNA STORIA DELLEPIGRAFIA GIURIDICA:
LUSO DI
TITULI E MANOSCRITTI NEL MEDIOEVO
ED OLTRE *
in: Iuridica Epigraphica et Papyrologica, I Incontro
Internazionale di Epigrafia e Papirologia Giuridica, Reggio Calabria, 12 15
marzo 1999 = AUPA, XLVI, 2000, pp. 229254.
Il ritorno alle fonti, nel momento in cui nelle Facoltà di Giurisprudenza non sembrano trovare più adeguato spazio discipline relative a tale settore (come Esegesi delle fonti del diritto romano o italiano, Papirologia ed Epigrafia giuridica, Filologia giuridica) si impone come imprescindibile recupero delle basi scientifiche delle materie storico-giuridiche: se infatti ci si porrà nella condizione di non poter più verificare i dati di partenza, che validità potrà in futuro avere lo studio del diritto privato o pubblico antico? E come potrà restare agganciata la ricerca e soprattutto lapporto ad essa fornito dalla linfa rinnovatrice dei giovani studiosi alla didattica universitaria, già devastata per le discipline antiche dalla scarsa conoscenza delle lingue classiche? Le impossibili traduzioni di fonti diverse nelle lingue più insolite - persino il cinese - tentate con dispendio di risorse che potrebbero essere meglio impiegate, se si giustificano alla luce dellimpatto emotivo su alcuni studiosi suscitato da questi problemi, non si spiegano a causa della storicità di ogni traduzione o esegesi; della mancanza cioè di qualsiasi oggettività in una lettura soggettiva e relativa, effettuata cioè in un momento storico determinato e influenzata da scelte dalle quali non si può prescindere. Tradurre, se consente una trasmissione di contenuti e di idee, è pur sempre un inevitabile tradimento.
Vorrei subito
offrire un esempio significativo del necessario aggancio alle fonti: quello del
rex sacrificulus o sacrificiulus. In molti manuali ancora si menziona questa oscura
figura arcaica romana basata su di un unico testo:
Varrone, De ling.
Lat. VI, 31:
dictus ab eo quod eo die rex
sacrific[i]ulus dicat ad comitium, ad
quod tempus est nefas, ab eo fas: itaque post id tempus lege actum
saepe.
Santoro[1]
ha da tempo osservato che la pronuncia del re così cadeva nel nefas, che il dicare del testo di Varrone non ha oggetto, in definitiva che la stessa figura del rex sacrificiulus sembra essere
chimerica, basata cioè su di unaplografia riscontrabile nei corrotti
manoscritti di Varrone, che può invece risolversi:
dictus ab eo quod eo die rex < ex > sacrificio ius dicat ad comitium
Alla luce di
una revisione di tutti i codici seriori (tra i quali il più antico, il codice
Laurenziano 51, 5 del 1427) una fantomatica figura, che avrebbe ancora potuto
far discutere privatisti e pubblicisti, si dilegua per dare spazio alle
funzioni del rex e del comizio in età
regia, ad una revisione e valorizzazione del Lapis niger. In seguito ad un sacrificio del rex nel comizio, che determinava lapertura del tempo fasto, si
compivano actiones, che potevano
avere valenza legislativa, elettorale, giudiziaria ed addirittura negoziale.
Appare dunque
giustificato il tentativo di tracciare una breve storia dei rinvenimenti delle
epigrafi giuridiche ponendoli in sintonia con la riscoperta e lo studio dei
manoscritti storici e giuridici greco-romani. Sincronia finora non
particolarmente evidenziata e che a mio avviso permetterà di cogliere meglio
lentità e la qualità delle conoscenze storico-giuridiche del passato.
Nelle culture
arcaiche orali listruzione dei giovani, lapprendimento delle tecniche e la
conoscenza del passato furono affidate alludito ed alla memoria, ai racconti
degli anziani, ai canti ripetitivi,
alle rappresentazioni della vita reale,
piuttosto che a lunghe iscrizioni, che pur appaiono precocemente nella
pratica mediorientale. Le statue degli antenati, da ¢g£lmata, poste sotto gli occhi
della divinità, furono destinate a divenire monumenta
monimenta, che con il loro crudo realismo nel mondo romano finivano per
trasmettere unexemplum, vero e
proprio modello di comportamento pietrificato e riassunto in una raffigurazione
umana, soprattutto del caput di un
individuo posto in una galleria di antenati.
Ancora
nella seconda metà del IV
sec. a.C., rivelando la forte
persistenza delloralità, si avvertiva
la necessità di
precisare che le lettere avevano tanto potere che coloro che le capivano
e le usavano divenivano
esperti non solo di ciò che è
stato fatto nel loro tempo, ma anche su
tutto ciò che è accaduto in qualsiasi tempo[2].
Nonostante la percezione già in antico dellimportanza della scrittura per la
ricostruzione storica, non vè dubbio
che al maggiore storico greco, a Tucidide, non sarebbe mai
venuto in mente
che i documenti scritti
avessero potuto essere impiegati
come le fonti principali, se non esclusive, per la Storia[3]. Ma se il padre della storia[4],
Erodoto, si adeguava ad una spiccata oralità: aveva infatti organizzato
nel V
sec. a.C. letture pubbliche della
sua opera, redatta in forma di brevi ed attraenti racconti per un
auditorio in grado di mantenere
desta lattenzione solo
per un tempo alquanto limitato, già
alla fine del V, al tempo di
Tucidide, lopera storica non veniva più
composta per declamazioni di breve durata, ma appariva ormai affidata allo
scritto, al libro e dunque alla meditazione di lettori contemporanei e futuri[5].
La diffusione
degli archivi nel mondo greco e le peculiari applicazioni delle prime raccolte
documentarie cominciavano a favorire limpiego di documenti[6],
anche al fine di una conoscenza storica[7],
ma luso dei tituli, che per tutta
letà greco-romana continuerà non senza distorsioni a diffondersi, andrà
incontro, come vedremo, ad un regresso ed a radicali strumentalizzazioni
nelletà intermedia, sino ad un recupero nel periodo umanistico.
Non vè dubbio
che per molti storici antichi, non escluso Tucidide, i documenti epigrafici
restavano come unica testimonianza di eventi importanti, al punto da indurre a
confezionare iscrizioni false, come il famoso decreto di Temistocle trovato a
Trezene[8].
Di Ellanico di Mitilene e di Ippia di Elide si ricordano opere del V-IV sec.
a.C., basate in gran parte su
iscrizioni. Erodoto riferiva di antichissime iscrizioni citandone alcune[9]
e Tucidide addirittura riproduce un trattato del 420 che corrisponde senza
varianti particolarmente significative
ad uniscrizione a noi pervenuta[10].
Unaltra iscrizione di Pisistrato il Giovane fatta incidere su un altare di
Apollo, essendo ricordata da Tucidide, è stata ricercata e ritrovata[11].
Ma la lodevole precisione di Tucidide è eccezionale, in quanto normalmente i
testi venivano riferiti parafrasandoli e adattandoli a corroborare le tesi
sostenute. Così accade per gli oratori attici del V e IV sec. ed è noto che
Polibio che riferisce con precisione i trattati tra Roma e Cartagine[12],
criticava Timeo per il fatto che sovente costui trascurasse di indicare con
esattezza gli estremi delle iscrizioni citate, sospettandolo di falsificazioni
o addirittura invenzioni[13].
La descrizione liviana invece di un frammento di un trattato tra Romani e Greci
del 212 a.C., sembra in parziale contraddizione con unepigrafe pervenutaci[14].
La stessa
accusa di falsificazione è rivolta da Plutarco a Diillo di Atene, di avere cioè
alterato a suo piacimento le epigrafi che riteneva utili per le sue storie[15].
Altri autori antichi, come Dionigi di Alicarnasso[16],
Varrone[17],
Plinio il giovane, Svetonio[18],
Gellio[19],
Frontino, Luciano[20],
rivelano sovente le fonti epigrafiche della loro ricostruzione storica. Plinio
il vecchio in particolare riferisce di una iscrizione con i nomi dei popoli
alpini debellati da Augusto che si può confrontare con uniscrizione a noi
pervenuta[21]. Tacito
invece, come è noto, trascura di riferire esattamente le riforme elettorali
della Tabula Hebana, Siarensis ed Illicitana e riferisce con molte
differenze formali il discorso di Claudio della Tavola di Lione[22]. Anche non poche costituzioni imperiali
dei codici teodosiano e giustinianeo sembrano avere avuto come fonti testi
epigrafici[23] e ancora
nel VI sec. d.C. Cosma Indicopleuste nei suoi libri di Cosmografia trascrisse il pervenuto Monumentum Adulitanum, da lui riprodotto in Etiopia col ricordo
delle imprese di Tolomeo III Evergete.[24]
Non è certo questa la sede per soffermarsi sul
complesso problema della nascita della Storia[25],
della genuinità, manipolazione dei dati e luso dei documenti nel mondo
greco-romano[26]. Soltanto
di sfuggita possono essere ricordate notizie relative a primi collezionisti ed
editori di testi di epigrafia giuridica greca: da Filocoro di Atene (320-261
a.C.), autore degli Epigrámmata Attiká,
a Cratero di Macedonia che raccolse in almeno nove libri i decreti ateniesi (Psephismáton Synagogé) facendone oggetto
di un commento storico-giuridico[27],
ma anche ammettendo di aver utilizzato materiali spurii, come un trattato mai
stipulato[28]. Anche
Eliodoro di Atene, Alceta, Aristodemo di Tebe, Menetore e Neottolemo di Pario
della fine del IV sec. a.C., raccolsero e pubblicarono decreti ed iscrizioni
cittadine. Polemone di Ilio addirittura
collezionò nel II sec a. C. così numerosi materiali epigrafici, pubblicandoli
nellopera Sulle iscrizioni delle città,
da meritare il soprannome di stelokópas
(divoratore di epigrafi). E spinto da simile ambizione fu forse Apellicone di
Teo, raccoglitore di antichi decreti ateniesi e ultimo proprietario della
Biblioteca di Aristotele, antiquario
tanto appassionato da non arrestarsi persino
dinnanzi al furto, rischiando così il carcere e la morte[29].
Nel relitto della nave romana naufragata a
Mahdia, che è connesso al sacco sillano
di Atene ed al trasporto via mare verso Roma della famosa Biblioteca, si è
riscontrata la presenza a bordo di alcune stele attiche con iscrizioni e
rilievi votivi del IV sec.
a.C., che, data
la disparità cronologica con il resto
del carico, si è pensato potessero essere state
utilizzate sulla nave come zavorra[30].
Ma si tratterebbe di materiali di zavorra abbastanza insoliti, in quanto di
peso insignificante, non altrettanto
invece in un carico di opere darte
come pezzi dantiquariato destinati a qualche
dotto collezionista[31].
Tuttavia in un accurato riesame
di queste epigrafi si è giustamente osservato
che nessun pezzo appare
particolarmente attraente per un
collezionista e siamo ben lontani dall'epoca in cui monumenti epigrafici
poco spettacolari divennero oggetto di
collezionismo e di commercio[32].
Nessun altro relitto romano infine con un carico di opere darte
ha finora restituito
epigrafi greche e lunica spiegazione per tale inusitata presenza resta
quella che collega queste stele ad Apellicone ed alla parte perduta della
Biblioteca di Aristotele[33].
Anche se il ricorso occasionale ed eccezionale alla documentazione epigrafica costituiva già parte del bagaglio metodologico di storici come Polibio, Dionigi o Svetonio[34], è opportuno soffermare lattenzione sulla nascita dellinteresse epigrafico per la ricostruzione storico-giuridica in età a noi più vicina: letà medioevale.
Nel periodo medioevale, per quanto possa apparire paradossale, nonostante lindubbia abbondanza di epigrafi antiche rispetto alle età successive, linteresse per le iscrizioni greche e latine come fonti storiche fu pressocchè nullo[35]. La più antica raccolta manoscritta di epigrafi a noi nota[36] risale ad un centro di cultura particolare, come il monastero svizzero di Einsiedeln ed al momento peculiare della c. d. rinascita carolingia. Singolare è il caso in un codice di Pompeo Trogo del XI secolo di unepigrafe di Vespasiano per unopera pubblica, completata da uniscrizione funeraria militare[37], come se si trattasse di uniscrizione unica. Se il testo della lex Quinctia de aquaeductibus è riprodotto in un codice cassinese[38] del XII sec. pubblicato da Bücheler nel 1858, ciò accade in quanto inserito nellopera di Frontino.
Il regresso evidente nel ritorno alla diffusa oralità ed al recupero in campo giuridico della prova testimoniale sulla instrumentale, manifestava i suoi effetti: nessuno mai poteva pensare che avvalendosi di unantica iscrizione avrebbe potuto essere mutata o riscritta la Storia, così come poteva invece solidamente essere ricostruita in base allautorità manoscritta dei testi storico letterarii sopravvissuti nelle biblioteche e nei centri scrittorii, che erano assai parzialmente diffusi e conosciuti. Né le successive raccolte latine di Cola di Rienzo, Bracciolini, Níccoli, la collezione greca di Ciriaco di Ancona - non pervenuta, ma a lungo ricordata erano destinate a mutare sostanzialmente tale situazione, anche se indubbiamente preparavano il terreno per un cambiamento radicale.
Anche la diffusione della scrittura in caratteri gotici e la connessa difficoltà di lettura dei caratteri latini, testimoniata dalla confusione nel medioevo delle iscrizioni dellarco di Settimio Severo e dellobelisco del Vaticano ritenuti rispettivamente larco Iulii Caesaris et Senatorum e la tomba di Cesare, sono state considerate valide giustificazioni del disinteresse e dellincomprensione[39]. Testi semplici, seppur letti, venivano fraintesi, come dimostrano le immaginarie vittorie di Agrippa sugli Svevi ed i Sassoni sorte in base alla lettura dellepigrafe del Pantheon, o il caso dei Dioscuri di Montecavallo, considerati due filosofi: Fidia e Prassitele, che avrebbero richiesto statue di marmo per consigli dati a Tiberio, piuttosto che di bronzo, ben conoscendo la prassi romana della fusione del metallo delle statue[40]. Agli inizi del 300 si ritenne daver trovato a Padova lepigrafe funeraria di T. Livio, sino alla dimostrazione nel 600 dellerroneità di lettura[41].
Il glossatore
Odofredo in occasione di un viaggio a Roma intorno al 1236 dichiarava di aver
visto in Laterano due tavole antiche appartenenti addirittura alla lex duodecim tabularum di difficile
lettura[42].
La straordinaria notizia è stata ritenuta incredibile e per giustificarla si è
pensato ad una confusione con la c.d. lex
de imperio Vespasiani[43].
Si è addirittura sostenuto che dimostri lesistenza della seconda tavola
mancante prima del rinvenimento di Cola di Rienzo[44].
Ma la lex de auctoritate Vespasiani è
la più chiara iscrizione latina finora a noi pervenuta. Non presenta scriptio continua, ma interpuzione e
capoversi ben evidenti: dati questi in palese contrasto con le affermazioni di
Odofredo. E poi impensabile che un profondo conoscitore di diritto romano,
come Odofredo, non comprendesse istantaneamente il contenuto e limportanza di
una legge regia. E allora evidente
che ciò che vide Odofredo fu uniscrizione di media o alta età repubblicana di
assai più difficile comprensione. A tale testo, ancora una volta confuso con
quella che fu in realtà la lex de
auctoritate Vespasiani e ricondotto invece alle Dodici Tavole, può forse
riferirsi unaltra notizia, della fine del XII sec. E opinione alquanto diffusa[45]
identificare infatti la tavola bronzea posta in Laterano dinnanzi alla Lupa e
descritta nei Mirabilia di magister
Gregory, dotto inglese che visitò Roma intorno agli ultimi anni del XII e i
primi del XIII sec.[46],
ancora una volta con la c.d. lex de
imperio Vespasiani, come nel caso
di Odofredo, lattenzione del lettore fu attratta dalla forma brachilogica di
non agevole risoluzione, dalla difficoltà del lessico - indizio di arcaismo - e
soprattutto dal tenore precettivo, che è stato raffrontato a mero titolo esemplificativo
al tono del precetto decemvirale: hominem
mortuum in urbe ne sepelito[47].
A prescindere dallimpossibilità del riconoscimento del sopracitato testo, non
vè dubbio che anche in questo caso sia stata infondatamente ricordata la lex
de auctoritate Vespasiani, che non
presenta abbreviazioni, se non
trascurabili, né pone precetti o proibisce alcunchè[48].
Nel XIV sec. con Cola di Rienzo, con la realizzazione di una raccolta di iscrizioni e la scoperta delle tabulae della lex de auctoritate Vespasiani le difficolta interpretative cominciavano ad essere superate[49]. Occorre ricordare che Cola era un pubblico notaio di Roma, appassionato fin da ragazzo di antiche iscrizioni che amorosamente ricercava e copiava. Dichiara lAnonimo romano: tutto lo dì si specolava neglintagli de marmi, li quali giacciono intorno a Roma: non era altri che esso che sapesse leggere gli antichi pitaffi, tutte scritture antiche volgarizzare, queste figure di marmo giustamente interpretare. Si deve dunque a Cola una primissima collezione di epigrafi latine compilata secondo i principi della scienza moderna, ritrovata nellabbazia di S. Nicola lArena di Catania e compilata tra il 1344 ed il 1347. Datata in un primo tempo in base a tre copie manoscritte di Roma, Firenze ed Utrecht al 1417-31, è stata attribuita a Cola in seguito al rinvenimento di Catania, riferibile ad una copia manoscritta più antica, realizzata sotto il pontificato di Urbano VI (1378 - 1389)[50]. La buona cultura di Cola, formatasi nellambiente romano, gli consentiva certamente di leggere e comprendere un testo chiaro come la lex de auctoritate Vespasiani e di utilizzarlo per fini pratici organizzando una pubblica cerimonia, mirante a sollecitare lorgoglio del popolo romano e a conciliare la benevolenza imperiale. Ma anche in precedenza tale testo era stato oggetto di una strumentalizzazione politica: allepoca di Bonifacio VIII la lex de auctoritate era stata utilizzata, con evidente intento simbolico, come mensa daltare per celebrarvi la messa in S. Giovanni in Laterano e per ribadire così la supremazia del sacerdotium sullimperium. Se fosse poi possibile dimostrare, come è lecito sospettare, che nella tabula iniziale fosse stato compreso un riferimento al titolo di Pontifex Maximus attribuito allimperatore, avremmo trovato forse la giustificazione della scomparsa della prima tavola nel tormentato periodo della lotta per le investiture ed unulteriore interpretazione politica medievale distorta dellepigrafe[51].
Per avere una chiara visione di come poteva essere ricostruita la storia sulla base dei non numerosi testi sopravvissuti, non è forse inutile tentare di tracciare un quadro assai sommario della disponibilità nel Medioevo delle opere storiche, per poi accennare alla disponibilità delle opere più specificatamente giuridiche.
Dei centoquarantadue libri dellopera originaria di uno storico latino importante come Livio ce ne sono pervenuti solo trentacinque[52]. Sino al XIII sec. ad esempio nessun manoscritto contenne un testo completo, ma singole deche, la cui tradizione è dunque indipendente per tutti i primi secoli del Medioevo, ma la fortuna di Livio mutò radicalmente nel primo umanesimo e nel Quattrocento per merito soprattutto del Petrarca e dei suoi collaboratori e dunque a partire dal XIV sec. tutti i manoscritti tesero alla completezza. Alletà carolingia o poco dopo, dunque al IX - XI sec., risalgono i più importanti codici della prima deca (dalla fondazione di Roma al 293 a.C.). A sé invece sta il manoscritto Veronensis, scoperto da Angelo Mai nel 1818, di veneranda antichità (IV sec. d. C.). Nel 1527 nel convento di S. Nazaro a Lorsch venne ritrovata la prima metà della quinta deca, i libri 41 45 (sconfitta di Perseo e trionfo di Lucio Emilio Paolo, sino al 167 a. C.), in un codice del V sec., che era rimasto dalla data di fondazione del convento (764) senza nessuna discendenza. In base allindipendenza della tradizione manoscritta delle singole deche si giustifica la perdita completa della seconda deca, comprendente la guerra con Pirro e la prima guerra punica. Sino al Petrarca, che curò nel 1329 ledizione di Livio migliore e più completa fino ad allora realizzata, la fortuna dello storico latino fu relativamente modesta, rispetto a storici come Sallustio e Giustino. Nel 1615 fu ritrovato il libro trentatreesimo ed un frammento del novantunesimo libro (ora anche in un papiro di Ossirinco[53]) con la guerra di Sertorio fu scoperto dal Bruns in un palinsesto vaticano (n. 1772), ma la perdita dei libri dalla conquista romana della Grecia alla morte di Druso nel 9 a.C. o alla morte di Augusto nel 14 d.C. restava e resta incolmabile, nonostante le Periochae (sommari dei 142 libri), la scoperta di excerpta cronologici di alcuni libri nel 1903 ad Ossirinco[54] ed il rinvenimento nel 1988 di un frammento pergamenaceo del V sec. con un brano dellundicesimo libro, perduto, di Livio[55].
La fortuna di Svetonio dopo leclisse dellVIII sec. fu certamente migliore: pare che Eginardo abbia utilizzato lunico esemplare superstite della Vita dei Cesari, quello di Fulda, per comporre la Vita di Carlo Magno. Poco dopo Lupo di Ferrières rimetteva in circolazione il testo che avrebbe goduto di una grande fortuna, accresciuta dallutilizzazione del Petrarca e del Machiavelli per la composizione del De viris illustribus.
Per quanto riguarda Tacito è noto che il Boccaccio nel 1362 trovò e portò via da MonteCassino il codice Mediceo II e che nel 1425 un monaco aveva scoperto ad Hersfeld lAgricola e la Germania, portati a Roma e poi perduti. La prima edizione del 1470 comprendeva gli ultimi sei libri degli Annales e i primi cinque delle Historiae, ma nel 1515 vennero pubblicati i primi cinque libri degli Annali tratti dal codice Laurenziano (Mediceo I), acquistato nel monastero di Corvey nel 1508 per papa Leone X. Importanti furono le recensioni seicentesche che portarono ad una meditata collazione dei manocritti nella prima metà dellOttecento.
Tanto per Cesare, che per Sallustio le prime edizioni della seconda metà del Quattrocento sono alla base di una fortuna che durerà ininterrotta e darà luogo a diverse recensioni nel 500. Leggermente posteriori nel tempo sono invece le edizioni di Cornelio Nepote.
La fortuna dellopera
di Gellio non si è invece mai offuscata, anche se nel Medioevo, essendo stato
fuso in maniera singolare il suo praenomen
col nomen, egli fu ribattezzato per
ignoranza Agellius.
Per quanto riguarda gli storici greci, Erodoto ci è giunto in numerosi manoscritti divisi in due classi: la prima classe ha come esponenti più autorevoli ed antichi i codici Laurenziano[56] del X sec. ed il Romano Angelico[57] del sec. XI, la seconda classe si conserva nel Vaticano Greco[58] del X sec. e in numerosi codici dei secoli XIV XV. Dal confronto di queste due classi e da pochi frammenti papiracei si ricava ledizione moderna e limpressione di una scarsa conoscenza sino al X sec. di un testo, pur attraente in quanto originariamente composto da Lògoi. Lapparire di diverse copie tra il XIV ed il XV sec. indica invece il risveglio di un certo interesse per Le Storie erodotee.
La fortuna di Tucidide, non del tutto obliterata nelletà intermedia, sembra ridestarsi solo dopo lXI secolo, infatti i manoscritti di Tucidide risalgono ad un esemplare in maiuscola del V VI sec., dal quale fu copiato nel IX sec. un codice in minuscola, che ha dato origine a tutti i manoscritti oggi esistenti, divisi in due gruppi: del X ed XI sec. Ma dallarchetipo del V VI sec. venne copiato anche un altro esemplare usato dai copisti dei codici del secondo gruppo per correggere alcuni passi dal sesto libro in poi. Ad una ventina di frammenti papiracei sopravvissuti possono adesso aggiungersi alcuni fogli pergamenacei del X XI sec., provenienti da due antichi esemplari scoperti nel 1959 nellArchivio di Stato di Modena.
Le Storie di Polibio in quaranta libri, che trattavano gli avvenimenti dal 264 al 144 a.C. erano scarsamente diffuse sino al X XI sec. Dellopera solo i primi cinque libri sono sopravvissuti integri nel codice Vaticano greco[59], scritto nel 947 d.C., degli altri possediamo estratti nel Vaticano Urbinate greco[60] dell XI sec. Dei 40 libri di Diodoro, con gli eventi sino alla colonizzazione romana di Tauromenion del 36 a. C., sono pervenuti cinque libri in un codice di Vienna[61] dellXI sec. e del Vaticano[62] del XII, pochi brani del sesto, e la seconda decade (libri XI XX) in molti codici successivi. Frammenti dei libri XXI XXIV furono pubblicati nel 1603 in base ad un codice oggi perduto. Come si vede si tratta di una tradizione assai incompleta dellampia opera originaria, non integrata dalla pubblicazione nel 1908 del Pap. Oxy. V, 842 con il testo delle c.d. Elleniche di anonimo con la narrazione della guerra degli Spartani in Asia e la guerra corinzia (410 395 a.C.). Tale testo è prezioso sia perché per alcune vicende costituisce lunica fonte a noi disponibile, sia perché consente una migliore conoscenza delle fonti di Diodoro. Dimostra infatti che lo storico attraverso Eforo di Cuma (c.a. 405 - 330 a. C.) si era rifatto alla fonte anonima tramandata nel papiro[63].
Della Storia antica di Roma in venti libri di Dionigi dalle origini della città allo scoppio della prima guerra punica, sono giunti i primi dieci libri e una parte dellundicesimo in due codici del X sec. della Vaticana[64]. Anche in questo caso si ha una tradizione assai parziale, posteriore alletà carolingia, come nel caso degli 80 libri di Cassio Dione che si estendevano sino al 229 d.C. Sono pervenuti i libri 36 60, che contenevano gli avvenimenti dal 68 a. C. al 47 d.C., il sunto dellXI sec. di Xifilino ed i due ultimi libri con gravi lacune in un codice Vaticano[65].
Invece sotto il nome di Egesippo ebbe grande fortuna nel medievo Flavio Giuseppe, tramandato attraverso due famiglie di codici: alla prima si assegnano un codice Parigino[66] e un Ambrosiano[67] del X sec ed alla seconda due codici del Vaticano[68] dellXI sec.
Di Strabone, noto per la sua Geografia, è quasi interamente perduta lopera storica, salvo pochissimi frammenti medioevali. Essa era costituita da 47 libri di Commentari storici che continuavano lopera di Polibio con gli eventi dal 144 al 27 a.C. Questa lacuna, grave se si tien conto della chiarezza e precisione di Strabone, ancora una volta sottolinea la parzialità delle conoscenze storiografiche antiche.
Nello specifico ambito
storico-giuridico, le vicende della tradizione dei testi sono ben note ai
romanisti[69]: dalla
riscoperta del Digesto da parte della Scuola di Bologna e le vicende della Litera Bononiensis e della Florentina, alla conoscenza soprattutto
dei primi nove libri del secondo Codice, testimoniata dalle epitomi (Epitome Codicis del VII VIII sec., Aucta, di poco successiva) e glosse (Summa Perusina, Glossa pistoiese, manoscritti del X). I Libri terribiles del Codice (X XII), riguardanti il diritto
criminale, divennero infatti ben
presto inattuali. Il manoscritto più antico è un palinsesto di Verona del VI
VII sec[70]. che
originariamente conteneva il testo completo del Codice, comprese le
costituzioni greche in genere omesse nei manoscritti successivi. Purtroppo
ormai conserva soltanto parti dei libri IV VIII; XI e XII e dunque
manoscritti come il codice Pistoriensis[71]
del X XI sec., con i primi otto libri o il Parisiensis[72] dellXI o il Casinas[73] dellXI
XII sec divengono importanti.
Il primo Codice di Giustiniano, immediatamente e completamente scomparso nella pratica, sopravvive in un breve frammento papiraceo (Pap. Reinach inv. 2219), ma soprattutto nellindice pubblicato nel 1922 (Pap. Oxy. XV, 1814), che consente di conoscere la struttura iniziale dellopera. Non cè dubbio che questa scoperta ha determinato un affinamento moderno delle conoscenze sulla compilazione dei diversi codici ed un approfondimento degli intenti legislativi di Giustiniano.
La fortuna medioevale delle Istituzioni giustinianee è ben nota e testimoniata dalle numerose glosse e manoscritti sopravvissuti (Bamberga, IX X; Torino, IX X; Colonia, X; Casamari, XI; Vaticana, XI; Ashburnam, XI). Nel 1939 nella Biblioteca Comunale di Verona sono stati ritrovati frammenti (libri II, III e IV) di un manoscritto delle Istituzioni risalente al IX sec., inseriti in due corali del XV e XVI sec. E evidente che un testo semplice e di diritto vigente, come in questo caso, godeva di una tradizione migliore delle opere di esclusivo interesse storico.
Il C.Th. sopravviveva in parte nella Lex romana Wisigothorum ed è oggi noto attraverso manoscritti del VI sec. del Vaticano[74] (libri IX XVI), di Torino, distrutto da un incendio nel 1904, di Parigi[75] (libri VI VIII) ed un frammento papiraceo, il Pap. Oxy. XV, 1813, che, proveniendo dallEgitto, documenta la tradizione orientale.
Sono ben note le
vicende di scoperte nellOttocento di manoscritti giuridici, come le
Istituzioni di Gaio del palinsesto veronese della metà del V sec., integrato
nel 1927 dal Pap. Oxy. 2103 della metà del III sec. e nel 1933 dal PSI 1182
della metà del IV sec., dei Vaticana
Fragmenta scoperti nel 1821 in un palinsesto del V[76],
o degli Scholia sinaitica
pregiustinianei rintracciati solo nel 1880. Invece i Tituli ex corpore Ulpiani ritrovati in un manoscritto del X sec. pubblicato a Parigi nel 1549,
(perduto e recuperato da Savigny agli inizi dell800 nella Biblioteca Vaticana[77]),
la Consultatio pubblicata da Cuiacio
nel 1577 ed irrimediabilmente smarrita, e la Collatio nota dal 1573 attraverso tre manoscritti[78]
del IX XI sec. rivelano linteresse ed il lento progresso nel Cinquecento
delle conoscenze storico giuridiche.
Una grave difficoltà precludeva in età medioevale limpiego di iscrizioni: linesistenza stessa di una corretta prospettiva storico-giuridica. Come è noto le antinomie dei testi del CJC venivano dalla scuola di Bologna risolte come fallentiae nellottica di una costante vigenza dei testi, avulsa dalla storia. Con questa mentalità non si poteva certo attribuire ad iscrizioni tracciate sulle pietre alcuna autorità.
La scarsa efficacia
giuridica della scrittura e la realizzazione di numerose falsificazioni (come
le presunte lettere di Giulio Cesare e di Nerone, dimostrate false dal Petrarca
nel 1355[79] o di falsi
privilegi, come lHadrianum, il Privilegium maius o minus[80])
concorrevano comunque a screditare ulteriormente limportanza delle epigrafi.
NellHadrianum, concepito secondo lopinione prevalente intorno alla metà dellXI
sec. a Ravenna, si rievocava una sinodo nel patriarchio lateranense effettuata
nel 774, che prendendo spunto dal fatto che il popolo romano con la lex regia aveva trasferito al principe
tutti i propri diritti e tutti i poteri, conferiva a Carlo Magno omne suum ius et potestatem eligendi
pontificem et ordinandi apostolicam sedem. Nei Privilegia Maius e Minus, attribuiti a Papa Leone VIII (963
- 964), si ripetevano le disposizioni
dellHadrianum ed in particolare nel Maius per la prima volta appariva la teoria dellirrevocabilità del
conferimento dei poteri imperiali da parte del popolo con la lex regia, ponendo il sovrano al riparo
da ogni rischio.
In epoca
umanistico-rinascimentale, nellambito più ampio della rivalutazione
postmedioevale dellantichità classica e del recupero dei modelli artistico
culturali greco romani ebbe però luogo un risveglio dellinteresse per le
epigrafi e la produzione di sillogi [come quelle di Spreti (c.a. 1467),
Marcanova (metà del XV sec.), Pehem (poco dopo il 1460), dellAnonimo Rediano
(1474), di Ferrarino (1477), di Pomponio Leto (1428-1497), di Pietro Sabino[81]],
raccolte che ben presto si accompagneranno alla scoperta di nuovi e
fondamentali testi. Nel 1534 appariva una raccolta di iscrizioni, pubblicate a
stampa da due professori di Ingoldstat, Apiano e Amanzio, un modello di negligenza
ed arbitrio per Dessau[82],
ma lopera veniva certamente favorita dalla nuova tecnica tipografica. Intanto
giovani eruditi olandesi, come Smetius, giunti a Roma al seguito di prelati, in
tale periodo affinavano la tecnica della trascrizione delle iscrizioni dai loro
originali su pietra, rilevandone ogni dettaglio: dalle dimensioni e forma delle
lettere, alla loro suddivisione in righe, oltreché alle abrasioni ed alle
lacune della pietra.
Era
quella però unetà assai diversa dalla
nostra, di lenta ed imperfetta diffusione delle notizie, di parziale
divulgazione delle scoperte e di comunicazioni alquanto limitate. Significativo
appare che ancora intorno alla metà del Cinquecento nellaccurata pubblicazione
di Carlo Sigonio dei Fasti consulares
rinvenuti simultaneamente allarrivo dalla Francia dei primi esemplari di Dione
e Dionigi nel 1546 e nel collegato commento di Paolo Manuzio De legibus romanis[83] o nella successiva opera De antiquo iure populi romani dello
stesso Sigonio[84] - solo
allora tanto attento allinteresse per la ricostruzione storico-giuridica delle
testimonianze epigrafiche al punto di trascriverle integralmente[85]
- manchi un qualsiasi accenno alla lex di Vespasiano affissa da Cola in S.
Giovanni da più di duecento anni, pur occupandosi i suddetti autori della lex regia e, ampiamente, dellimperium[86]. E
tuttavia due anni più tardi (1576) lo stesso papa Gregorio XIII, menzionato
allinizio dellopera di Sigonio De antiquo iure populi romani,
trasportava in Campidoglio la tavola dellantica sanzione di Vespasiano.
Altrettanto significativo è che Sigonio, che per primo diede
tanto rilievo alla documentazione epigrafica da poter essere ricordato come un
precursore nel campo della moderna epigrafia giuridica, pur occupandosi
diffusamente della cittadinanza ai Galli e del ius honorum, non menzioni la Tavola di Lione rinvenuta nel 1528 e
diligentemente copiata da Tschudi nel 1536 [87].
Purtroppo si
diffondeva anche la pratica delle falsificazioni: nella silloge di Mazzocchi
del 1521 erano ad esempio ricomposte epigrafi con espressioni arbitrariamente
mutuate dai testi degli antichi autori. Pirro Ligorio, autore di una vasta
opera sulle antichità di Roma (1553) è celebre falsificatore di epigrafi latine[88].
Ma nel 1555
veniva effettuata una scoperta particolarmente importante: alcuni ambasciatori
europei in Turchia, in occasione di un soggiorno ad Amasia, sede del sultano
Solimano II, notavano e sommariamente trascrivevano il testo delle Res Gestae Divi Augusti del Monumentum Ancyranum, riportandone notizia
in Occidente.
Il susseguirsi
dei rinvenimenti cinquecenteschi: la lex
Servilia (cioè Acilia repetundarum)
e la lex Thoria (lex agraria Beabia ?), prima
del 1521, la lex Antonia de Termessibus,
Cornelia de XX quaestoribus e SC
de Asclepiade; lOratio Claudii de
iure honorum, a Roma e Lione nel 1528, i SCC de Tiburtinibus e un frammento De ludis saecularibus, lEpistula
Vespasiani ad Saborenes, in Spagna, Domitiani
ad Falerienses, in Italia, ed infine, oltre ai Fasti, lEdictum Constantini de accusationibus in
Asia, indurranno Antonio Augustino a pubblicare a Roma nel 1583 lopera De legibus et senatusconsultis, prima
vera silloge di epigrafia giuridica, destinata a chiudere unepoca
dinvisibilità delle epigrafi, ma non ancora veramente predisposta ad un
corretto impiego storico-giuridico di tali testimonianze. Così Brissonio a
Parigi, ancora nel 1583, utilizzerà ampiamente le iscrizioni nella sua opera
sulle formule, come Pancirolli nel De
magistratibus municipalibus[89].
Ciò avveniva dopo lintroduzione della stampa, che determinava (come oggi il computer) in campo epigrafico profonde
trasformazioni per la riproducibilità dei testi, e dopo le notevoli innovazioni
in campo giuridico indotte dalla Scuola Culta.
Solo nella
seconda metà del XVI sec. furono tentate raccolte epigrafiche di grandi
proporzioni (di Smetius, pubblicata da Lipsius nel 1588; di Gruterus,
comprendente più di diciottomila iscrizioni greche e latine e di Gualtherus),
che ponendo criteri successivamente imitati dai moderni epigrafisti
costituivano già primi tentativi di produrre raccolte sistematiche di
iscrizioni al fine di mettere a disposizione degli studiosi strumenti di
consultazione ordinati. Il Gualtero in particolare tentò di realizzare un corpus delle iscrizioni dItalia come frutto
di ricerca personale e di visione diretta, sperando di supplire con la sua
giovane età, di soli venticinque anni, ai disagi del viaggio. Sapeva che ogni
epigrafe costituiva una valida testimonianza linguistica, storica e giuridica
soltanto se veniva trascritta con la massima fedeltà alloriginale, al punto da
richiedere revisioni continue, che però potevano divenire moleste agli
stampatori e attirare lironia degli eruditi locali che affermavano che le pietre del Gualthiero, nelle quali erano
intagliate le iscrizioni, dhora in hora si mutavano di scrittura. In
quattro anni raccolse più di ventimila iscrizioni, superando così i criteri
delle precedenti raccolte - non sempre di prima mano e pubblicando a Messina[90]
le Antiquae Tabulae della Sicilia, Calabria
ed isole circostanti, prima parte del corpus.
Ma se cauta fu la sua posizione sullautenticità di due pretesi senatoconsulti
relativi alla concessione di privilegi alla città di Messina, in riconoscimento
dellatteggiamento ostile dei Mamertini a Gerone ed ai cartaginesi[91],
ammettendo che il carattere arcaico avrebbe potuto essere snaturato da
successive trascrizioni che ne ammodernavano la lingua, meno prudente fu con i
catanesi per tredici false iscrizioni di eroi leggendari. Ciò forse lo costrinse
a cercare protezione a Malta e nel viaggio per nave al largo di Siracusa
incappò in uno scontro con i barbareschi e nella morte per un colpo di
bombarda. Perivano con lui i taccuini delle iscrizioni dItalia, ma non si
placava lastio suscitato se la tragica morte in mare dellepigrafista, rimasto
così privo discrizione e di tomba, pare sia stata contrapposta come meritata
pena per laver negato ai presunti eroi catanesi lautenticità delle epigrafi
apposte sui sepolcri [92].
Spetterà al Mommsen e agli studiosi dellAccademia di Berlino nella
realizzazione delle grandi raccolte greche e latine dellOttocento la
rivalutazione di Gualtero.
E ancora per
una scienza epigrafica occorrerà attendere la rivoluzione illuministica, con i
progressi in ambito scientifico, le numerose scoperte e gli straordinari
sviluppi della scuola storica tedesca dellOttocento per dare autentica dignità
ad una disciplina, che oggi deve sapersi rinnovare, avvalendosi delle nuove
risorse offerte dalla tecnologia informatica, ma restare al tempo stesso memore
delle sue assai elevate tradizioni, volte alla ricerca ed allinsegnamento.
Gianfranco Purpura
Dipartimento Storia del Diritto
Università di Palermo
* Lezione di Dottorato in discipline romanistiche, tenuta a Palermo l11 marzo 1999 ed il 14 marzo 1999 a Scilla.
[1] Santoro, Il tempo ed il luogo dellactio, AUPA, XLI, 1991, pp. 9 ss.
[2] Isocrate, Panath. 209; Harris, Lettura ed istruzione nel mondo antico, Bari, 1991, p. 93.
[3] L'osservazione è di Momigliano, Secondo contributo alla storia degli
studi classici, Roma,
1960, p. 37; Sesto
contributo, I, Roma 1980, p. 38, citato da Harris, op. cit., p. 92, che
critica Goody, Laddomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, 1981, pp.
108 e s. il quale sostiene che gli archivi fossero necessari per la
storiografia.
[4] Cicerone, De legibus I, 5. Secondo Desideri, Scrivere gli eventi storici, I Greci, I, Torino, 1996, p.963, la definizione risaliva forse a Teofrasto (cfr. Cic., Orator, 39).
[5] Cavallo, Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storico critica, Roma - Bari, 1990, p. XV.
[6] Pfohl, Die inschriftliche Uberlieferung der Griechen. Eine erste Grundlegung
ihres Studiums, Stuttgart, 1965.
[7] La posizione di Finley, Problemi e metodi di Storia antica, Roma Bari, 1987, p. 27, che sostiene lindifferenza universale degli storici greci e romani per i documenti, sembra eccessiva. Cfr. Desideri, op. cit., p. 967 nt. 56 e Id., Storici antichi ed archivi, Atti Convegno Archivi e sigilli nel mondo ellenistico, Torino, 13-16 gennaio 1993 (in corso di stampa).
[8] SEG XXII, 1967, 274.
[9] Erodoto IV, 88; V, 59- 61.
[10] Tucidide V,
47 e IG I, 2, Suppl. 46b. Larsfeld, Griechische
Epigraphik, Leipzig, 1914, pp. 11 e s.
[11] Tucidide VI, 54 = IG I, 2, 761.
[12] Polibio V,9,3; III, 22, 25.
[13] Polibio XII, 11, 2. Schulte, De rebus quae intercedunt inter Polybium et
tabulas publicas, Diss. Philol.
Halens., XIX, 2, 1910, pp. 168 244.
[14] IG IX, 2, 1, 2, 241; Livio XXVI, 24.
[15] Plutarco, De malignitate Herodoti 26; Calderini, Epigrafia, Torino, 1974, p. 4.
[16] Skard, Epigraphische Formeln bei Dionys von Halicarnassus, Symb. Osl.,
1933, pp. 55 60.
[17] Varrone, De ling. Lat. IV,4.
[18] Nel De claris rhetoribus 1 si riferisce il testo di un SC de philosophis et rhetoribus del 161 a.C. (FIRA I, 32). Cfr. anche Svet., Caius 8,1; Tit. 4.
[19] Gellio, Noct.Att. X, 1 ,7; XIII, 24.
[20] Householder, Lucians use of incriptions, TAPhA, 74, 1943, p. XXII.
[21] Plinio, Nat. Hist. III,
20, 136; CIL V, 7817.
[22] Tacito, Ann. XI, 24; CIL XIII, 1668 = ILS 212 = FIRA I, 43.
[23] Calderini, op.cit., p. 4.
[24] CIG III, 5127 = Syll. 199 = OGIS
54.
[25] Châtelet, La nascita della storia. La formazione del pensiero storico in Grecia, Bari, 1974.
[26] Calabi, Luso storiografico delle iscrizioni latine, Milano - Varese, 1953.
[27] Calderini, op.cit., p. 5; Manganaro, Le fonti epigrafiche greche, Storia antica. Come leggere le fonti, Bologna, 1996, p.163
[28] Krech, Craterus. The fragments from his collection of athenian decrees,
Berlin, 1888 (rist. Chicago, 1979), p. 24 e s.
[29] Ateneo, Deipnosophistae 214 d e: Apellicone, al tempo in cui aveva acquistato la
biblioteca di Aristotele
e molti altri libri, aveva cominciato ad acquisire furtivamente epigrafi originali degli
antichi decreti del Metróon, larchivio di Atene, e di altre città, purchè fossero antiche e
rare. Ricercato per queste azioni ad Atene,
avrebbe perduto la sua vita se
non si fosse nascosto. Ma dopo breve tempo tornò ad Atene di nuovo,
ottenendo il favore di molta gente.
[30] Dain, Inscriptions attiques trouvées dans les
fouilles sous-marines de Mahdia, REG, 1931, pp. 290 - 303 = Inscriptions
grecques du Musée du Bardo, 1936, pp. 9 - 33.
[31] Gianfrotta, Pomey, Archeologia subacquea, Milano, 1981, p. 201.
[32] Petzl, Die
griechischen Inschriften, in Das Wrack. Der antike
Schiffsfund von Mahdia, Köln, 1994, I, pp.
381 - 397, finisce
per concludere che, o le epigrafi erano rimaste come pezzi dimenticati
nellenorme cala della nave, o dobbiamo ammettere che la questione
resta senza risposta.
[33] Purpura, Testimonianze storiche e archeologiche di traffici marittimi di libri e documenti, AUPA, XLIV, 1996, pp. 375 382.
[34] Roda, Le fonti epigrafiche latine, Storia antica. Come leggere le fonti, cit., p. 187.
[35] Roda, Le fonti epigrafiche latine, in Storia antica. Come leggere le fonti, a cura di Cracco Ruggini, Bologna, 1996, p. 193.
[36] Silvagni, Nuovo ordinamento delle sillogi epigrafiche di Roma anteriori al XI sec., Roma, 1921; Calderini, op. cit., p. 6; Calabi Limentani, Epigrafia latina, Milano, 1991, p. 39 ss.; Roda, op. cit., p. 187.
[37] CIL VI, 939, 3518; Calabi Limentani, op. cit., p. 40.
[38] n.361.
[39] Roda, l.c.
[40] Calabi Limentani, op. cit., p. 41.
[41] CIL V, 2865; cfr. Calabi Limentani, op. cit., tav. V e la lett. cit. in didascalia.
[42] Odofredo, Interpretatio in undecim primos Pandectarum libros, I, 1, 6:...et de istis duabus tabulis (due delle Dodici Tavole) aliquid est apud Lateranum Romae et male sunt scriptae, quia non est ibi punctus nec § in litera et nisi resolveritis ipsas non possetis aliquid intelligere.
[43] Savigny, Storia del diritto romano nel medioevo, II, p. 419; De Rossi, Inscr. Chr., II, p. 301; Cantarelli, La lex de imperio Vespasiani, Bull. Comm. Arch. Comunale di Roma., XVIII, 1890, p. 194 = Studi romani e bizantini, Roma, 1915, p. 110; Calabi Limentani, Epigrafia latina, Milano, 1991, p. 68.
[44] Sordi, Cola di Rienzo e le clausole mancanti della Lex de imperio Vespasiani, St. Volterra, II, Milano, 1971, p.310.
[45] De Grassi, Doxa, II, 1949, p. 63; Krautheimer, Roma profilo di una città. 312 - 1308, Roma, 1981, pp. 242 e s.; Calabi Limentani, op. cit., p. 68.
[46] Rushforth, Magister Gregorius de Mirabilibus Urbis Romae: a new description of Rome in the twelfth century, JRS, 9, 1919, p. 17; Moatti, op. cit., p. 24 e s. Nella suddetta dettagliata guida per pellegrini si dichiara: Ante hanc (la celebre statua della Lupa) in porticu ante hiemale palatium domini Papae (cioè il Laterano) aenea tabula est ubi pociora legis praecepta scripta sunt. Quae tabula prohibens peccatum dicitur. In hac tabula plura legi, sed pauca intellexi. Sunt enim afforism<i>, ubi fere omnia verba subaudiantur.
[47] Lex XII Tab. X, 1. Rushforth, op. cit., p. 29.
[48] Rushforth, l.c., che ritiene tuttavia unesagerazione del magister Gregorius affermare che quasi tutte le parole avrebbero potuto essere sottintese. Come è noto invece la brachigrafia è abbastanza frequente nei testi giuridici di età repubblicana.
[49] Purpura, Sulla tavola perduta della Lex de auctoritate Vespasiani, Minima Epigraphica et Papyrologica, I, 1998, 2, pp.
[50] Cfr. Lanciani, Lantica Roma, Bari, 1981, pp. 22 e s.; Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, II, Torino, 1973, pp. 1583 ss.; Moatti, Roma antica tra mito e scoperta, Trieste, 1992, pp. 25 e s.
[51] Purpura, op. cit., pp. ss.
[52] Moreschini, La fama di Livio nelletà antica e nel medioevo, in Livio, Storia di Roma, ed. BUR, I, Milano, 1988, pp.162 ss.
[53] Pap. Oxy. XI, 1379.
[54] Pap. Oxy. IV, 668.
[55] Bravo, Athenaeum, 66, 1988, pp. 447 521.
[56] LXX, 3.
[57] n. 83.
[58] n. 2369.
[59] n. 124.
[60] n. 102.
[61] n. 79.
[62] n. 130.
[63] Hammond, The sources of Diodorus XVI, II, Classical Quarterly, 1938, pp. 137
151.
[64] Urbinate gr. n. 105 e Chigiano gr. n. 51.
[65] Gr. n. 1288.
[66] Gr. n. 1425.
[67] Gr. D. 50 sup.
[68] Gr. n. 148 e Palatino gr. n. 284.
[69] Una sintesi sempre utile è offerta da Chiazzese, Vicende ed interpretazione delle fonti romane in Occidente, AUPA, XXXIII, Palermo, 1972.
[70] Veronensis LXII.
[71] Pistoriensis 66.
[72] Parisiensis 4516.
[73] Casinas 49.
[74] Vaticanus Reginae latinus 886.
[75] Parisinus 9643.
[76] Vat. Lat. 5766.
[77] Codex Vaticanus Reginae 1128.
[78] Codex Beroliniensis latinus 269 dellIX; Vercellensis 122 del X; Vindobonensis 2160 del X XI sec.
[79] Calabi Limentani, op. cit., p. 69.
[80] Cfr. Cortese, Il diritto nella storia medioevale, I, cit., pp. 359 e s. e supra nt. 41.
[81] Calderini, op. cit., pp. 8 e s.
[82] Dessau, Lat. Epigrafik, in Einleitung in die Altertumwissenschaft, a cura di Gerke, Norden, I,
Lipsia Berlino, 1925, p. 3; Lavagnini, Sulle
orme dellepigrafista Georg Walther, Röm. Hist. Mitteilungen, Österreichischen Akad. Der Wissenschaft, Wien, 27,
1985, p. 353.
[83] Sigonio, Fasti consulares ac triumphi acti a Romulo rege usque ad Ti. Caesarem, Venezia, 1556 (la stessa opera edita da Paolo Manuzio, figlio di Aldo, contiene un commento dei Fasti e un trattato De nominibus romanorum di Sigonio, oltre ad un Liber de legibus romanis di Paolo Manuzio).
[84] Sigonio, De antiquo iure populi romani, Bologna , 1574.
[85] Sigonio, De antiquo iure, cit., pp. 112 e s.; 129 ss. (lex Cornelia de XX quaestoribus = FIRA I, 10); 221 ss.; 288 e s. (lex Thoria = lex agraria Baebia ? = FIRA I, 8); 317; 526 e le epigrafi trascritte a p. 232; 271 e s.; 288 e s. (SC de Asclepiade clazomenio sociisque = FIRA I, 35) 302; 306; 317 e s. (lex Antonia de Termessibus); 501; 526 ss. (lex Acilia repetundarum = FIRA I, 7).
[86] Sigonio, Fasti consulares, cit., p. 25 a; Sigonio, De antiquo iure, cit., pp. 88 ss.
[87] Cioè lOratio Claudii de iure honorum Gallis dando, pubblicata da Parodinus nel 1573 (CIL XIII, 232 = FIRA I, 43; Walser, Röm. Inschriftkunst, Stuttgard, 1993, pp. 18 ss.). Cfr. Sigonio, De antiquo iure, cit., pp. 2 ss.; 266 ss.; 83, ove si tratta della cittadinanza romana, delle concessioni alla Gallia, del ius honorum, senza far mostra di aver avuto sentore dellOratio Claudii. Cenni allimportante fenomeno della riscoperta umanistica, in particolare nella prima metà del XVI sec. del patrimonio giuridico-epigrafico, evidentemente in conseguenza di un mutato atteggiamento degli studiosi e dei cultori di diritto nei confronti delle antichità, in Calabi Limentani, op. cit., p. 92 e s. Nello stesso anno 1528, nei pressi dellAerarium Saturni e dunque del Tempio di Vespasiano e Tito ai piedi del Campidoglio, veniva ritrovata la lex Cornelia de XX quaestoribus. Cfr. Varvaro, La lex Cornelia de XX quaestoribus, AUPA, XLIII, 1995, pp. 579 ss.
[88] Una rassegna più dettagliata in Calderini, op. cit., p. 9.
[89] Brisson, De formulis et sollemnibus populi romani verbis libri VIII, Parigi, 1583; Pancirolli, De magistratibus municipalibus, (Reggio Emilia, 1523-99 ?).
[90] Sembra che allarrivo in Sicilia Gualtero abbia incautamente promesso la pubblicazione della raccolta che si accingeva a realizzare nella città dello Stretto e che la conoscenza di ciò a Palermo abbia potuto interrompere una prima edizione ivi intrapresa nel 1621. Lavagnini, op. cit., p. 343.
[91] CIL X, 1, 47.
[92] Lavagnini, op. cit., p. 350.