Pubblicazioni - Annali 2002

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Appio Claudio e la concezione strumentalistica del ius.

di Raimondo Santoro

 

     1. Il significato fondamentale che ius ha in età repubblicana, di ‘rito’ o ‘schema rituale’[1], alimenta una concezione strumentalistica del diritto. Perciò il diritto vigente appare, in questa età, il diritto di cui ci si serve (hoc iur utimur) e solo nelle età successive, progressivamente inteso come ‘complesso normativo’, il diritto a cui si è soggetti.

     In questa prospettiva ci è apparso il ius Papirianum[2],  in quanto complesso di prescrizioni rituali, quale si rivela già nel titolo di questa opera (mos ritusque sacrorum) e nella qualifica (civile) che accompagna la sua denominazione tradizionale, giusta il valore che le si deve riconoscere, che evidenzia la sua destinazione all’uso da parte della comunità.        

     Alla stessa prospettiva vanno ricondotte anche le opere della più antica giurisprudenza laica. Qui dobbiamo limitarci a discorrere di quelle che la tradizione attribuisce ad Appio Claudio il Cieco.

 

2. Di una prima opera parla la testimonianza relativa al ius civile Flavianum[3] riportata in

D.1.2.2.7 (Pomp. lib. sing. enchir.) Postea cum Appius Claudius <com>[pro]posuisset et ad formam redegisset has actiones, Gnaeus Flavius, scriba eius, libertini filius, subreptum librum populo tradidit, et adeo gratum fuit id munus populo, ut tribunus plebis fieret et senator et aedilis curulis. Hic liber, qui actiones continet, appellatur ius civile Flavianum, sicut ille ius civile Papirianum: nam nec Gnaeus Flavius de suo quicquam adiecit libro.

Qui a Gneo Flavio viene attribuito solo il merito di aver reso di dominio pubblico il libro contenente un’opera di Appio Claudio, suo patrono, concernente le legis actiones, al quale l’avrebbe sottratto. Gneo Flavio non vi avrebbe aggiunto nulla di suo. La paternità spetterebbe ad Appio Claudio.

     Tuttavia, la notizia richiede una conferma non solo di fronte ai dubbi che involgono in genere ogni testimonianza proveniente dal liber sing. enchiridii, ma anche, specialmente, di fronte ai dubbi che possono nascere dalle altre testimonianze che riguardano il ius civile Flavianum. Se

 

            Cic.de orat. 1.186…deinde, postea quam est editum (scil.: ius[4]), expositis  a Gneo Flavio, Annei filio,  primum  a c t i o n i b u s, nulli fuerunt, qui illa artificiose digesta componerent…

 

si pone sulla stessa linea, senza tuttavia dir nulla della vicenda della composizione della raccolta, anteriore alla sua pubblicazione, 

 

            Liv. 9.46.5 …c i v i l e  i u s, repositum in penetralibus pontificum evolgavit fastosque circa forum in albo proposuit, ut quando lege agi  posset sciretur[5]

e

Val. Max. 2.5.2 I u s  c i v i l e  per multa saecula inter sacra caerimoniasque deorum immortalium abditum                   solisque pontificibus notum Gneus Flavius…v u l g a v i t  ac fastos paene toto foro  exposuit.[6]

 

ugualmente tacendo della composizione della raccolta, parlano non di actiones, ma genericamente di ius civile, aggiungendo, tuttavia, la notizia della pubblicazione dei fasti.

     Lo stesso Cicerone ricorda l'opinione di non pochi autori, secondo i quali Gneo Flavio 'fastos protulisse actionesque composuisse', in

 

              Cic. ad Att. 6.1.8 E quibus ƒstorikÕn requiris de Gneo Flavio, Annei filio.Ille vero ante decemviros non fuit, quippe qui aedilis curulis fuerit, qui magistratus multis annis post decemviros institutus est. Quid ergo profecit  quod  p r o t u l i t  f a s t o s ? Occultatam putant quodam tempore istam tabulam, ut dies agendi  peterentur a paucis. Nec vero pauci sunt auctores Gneum Flavium scribam  f a s t o s   p r o t u l i s s e   a c t i o n e s q u e  c o m p o s u i s s e  ne me hoc vel  potius Africanum (is enim loquitur) commentum putes. 18…O ¢nistorhs…an  turpem! Nam illud de Flavio et  fastis, si secus est, commune erratum, et tu belle  ºpÒrhsaj, et nos publicam prope opinionem secuti sumus, ut  multa apud Graecos[7]

 

     Secondo l'attuale lezione del testo, gli autori richiamati da Cicerone avrebbero attribuito a Gneo Flavio, oltre la pubblicazione del calendario, la composizione della raccolta delle actiones.

           Vi sono, d'altra parte, fonti che si riferiscono solo alla pubblicazione dei dies fasti[8], come

 

            Plin. Nat. Hist. 33.(6)17 … Hic (scil.: Gneus Flavius) namque  p u b l i c a t i s  d i e b u s  f a s t i s, quos  populus a paucis  principum cotidie petebat, tantam gratiam plebei adeptus est - libertino patre aliqui genitus  et ipse scriba Appi Caeci, cuis hortatu exceperat eos dies consultando adsidue sagaci ingenio  promulgaratqueut aedilis curulis crearetur[9].

 

o del calendario, come

 

            Macr. Sat. 1.15.9 Priscis ergo temporibus, ante quam fasti a Gneo Flavio scriba invitis patribus  i n  o m n i u m n o t i t i a m   p r o d e r e n t u r,[10]               

 

E tale sembra essere anche la portata di

 

            Cic. pro Mur. 11.25 Quorum in isto vestro artificio, Sulpici, nihil est. Primum dignitas in tam tenui scientia nonpotes esse; res enim sunt parvae prope in singulis litteris atque interpunctionum verborum occupatae. Deinde, etiamsi quid apud maiores nostros fuit in isto studio admirationis, id enuniatis vestris misteriis totum est  contemptum et abiectum. Posset agi necne pauci quondam sciebant; fastos enim vulgo non habebant. Erant in  magna potentia qui consulebantur; in quibus etiam dies tamquam a Chaldeis petebatur. Inventum est scriba quidam Gneo Flavius qui corniculos confixerit et singulis diebus discendis  f a s t o s   p o p u l o  p r o p o s u e  r i t et ab ipsis cautis iuris consultis eorum sapientiam compilarit. Itaque irati illi, quod sunt veriti ne dierum ratione pervulgata et cognita sine sua opera lege agi posset, verba quaedam composuerunt ut in omnibus rebus             ipsi interessent. 26…Quae dum erant occulta necessario ab eis qui eam tenebant petebantur; postea vero pervulgata atque in manibus iactata et excussa inanissima prudentiae reperta sunt, fraudis autem et stultitiaeplenissima.

 

     Qui, infatti, la creazione dei formulari delle legis actiones sembra attribuita ad un tempo posteriore alla pubblicazione del calendario ad opera di Gneo Flavio, quale reazione dei giuristi a tale iniziativa. Solo successivamente sarebbe avvenuta la divulgazione dei formulari. Ad essa si riferisce quanto si dice nel § 26 (postea vero pervulgata…), ma dovrebbe riferirsi proletticamente anche quanto si dice all'inizio del § 25 (enuntiatis vestris misteriis…). 

     Da questo elenco  di testimonianze va tenuta distinta quella di

 

            L. Piso apud  Gell. N. A. 7.9.1 Quod res videbatur memoratu digna, quam fecisse Cn. Flavium, Anni filium, aedilem curulem, L. Piso in tertio annali scripsit eaque res perquam pure et venuste narrata a Pisone, locum istum totum huc ex Pisonis annali transposuimus.2 Cn., inquit, Flavius, patre libertino natus, scriptum                            faciebat; isque in eo tempore aedili curuli apparebat, quo tempore aediles subrogabantur eumque pro tribu   aedilem  curulem renuntiaverunt. 3 Aedilem, qui comitia habebat, negat accipere, neque sibi placere, qui      scriptum faceret eum aedilem fieri.4 Cn Flavius, Anni filius dicitur tabulas posuisse, scriptu sese abdicasse;  isque aedilis curulis factus est. 5 Idem Cn.Flavius Anni filius dicitur ad collegam venisse visere aegrotum. Eo  in conclave postquam  introivit, adulescentes ibi complures nobiles sedebant. Hi contemnentes eum, assurgere ei            nemo voluit. 6 Cn. Flavius Anni  filius aedilis id arrisit, sellam curulem iussit sibi adferri, eam in limine  apposuit, ne qui  illorum exire posset utique hi omnes inviti viderent sese in sella curuli sedentem.

 

poiché non parla affatto, anche se è stato erroneamente ritenuto il contrario[11], della pubblicazione del calendario. E, tuttavia, essa va considerata, poiché è la più antica della tradizione, a noi pervenuta, di vicende connesse alla figura di Gneo Flavio[12].

 

     3. Questa tradizione fu sottoposta a critica radicale dal Seeck[13], che negò la storicità tanto della pubblicazione del calendario, ritenendola una invenzione di Ennio, che della pubblicazione delle actiones, ritenendola una invenzione di Licinio Macro. Nonostante qualche voce di consenso[14], la tesi non fu generalmente accolta, probabilmente per il suo carattere altamente congetturale e per il successivo prevalere della tendenza conservativa nello studio delle fonti.

     Più rispettosa della loro testimonianza fu la ricostruzione della tradizione proposta dallo Zocco Rosa[15], che, sulla base della pretesa difformità dei passi ciceroniani, distinse tre fasi: nella prima, si sarebbe creduto che Gneo Flavio avesse pubblicato il calendario; nella seconda, le actiones; nella terza, l'uno e le altre. Anche questa tesi, probabilmente per il suo malcelato carattere artificioso, non ebbe seguito.

     Migliore fortuna non toccò, nonostante il nome dell'autore, alla tesi dello Schulz[16], per il quale la possibilità di seguire la tradizione concernente la pubblicazione del calendario e la raccolta delle actiones trova ostacolo nella notorietà dell’uno e delle altre. Quel che per lo Schulz potrebbe ammettersi è che il ius Flavianum sia stato una semplice raccolta di formule, quali si rinvengono nella giurisprudenza più antica.

     La più recente critica si deve al Wolf[17], per il quale la tradizione potrebbe risalire fino a Pisone, al quale si collegherebbero Cicerone e Livio, che attinge anche a Licinio Macro. A Pisone si potrebbe collegare anche, da un lato, Plinio e, dall'altro, Pomponio, ma solo attraverso Valerio Anziate e Varrone. Del nucleo più antico della tradizione[18] farebbe parte la pubblicazione del calendario e delle actiones, ma non, per quel che più ci interessa,  quanto attiene alla figura di Appio Claudio, che rappresenterebbe il frutto di mere ipotesi di Varrone.

 

     4. Il pensiero del Wolf non ha riscosso l’attenzione che meritava, sicchè la posizione che la dottrina assume, decisamente conservativa, rischia di risultare acritica[19]. Noi riteniamo che il dato tradizionale meriti fiducia. Ma esso va valutato alla luce di una verosimile ricostruzione della tradizione, che valga a chiarire i suoi nessi e a risolvere i contrasti che sembrano emergere, talora, pur entro le testimonianze di uno stesso autore. E, tuttavia, nella prospettiva della nostra ricerca, potremo esimerci dal tentare una ricostruzione totale e limitare la nostra indagine agli aspetti più direttamente connessi alle notizie fornite dal frammento del l. sing. enchiridii conservato da D. 1.2.2.7.

     Se partiamo dalla testimonianza più antica, quella di Pisone (console nel 133 a. Cr.), riportata da Gell. N.A. 7.9.4, dobbiamo dire che essa è ininfluente per la questione della credibilità del racconto fornito dallo stesso frammento. Gellio dichiara espressamente di trascrivere per intero un passo del terzo libro degli Annali di Pisone - che, in ragione del contenuto e dello stile piacevolissimi, ha destato il suo interesse - relativo alle vicende connesse alla elezione di Gneo Flavio ad edile curule (rinunzia alla attività di scriba e difesa della dignità della sua carica durante la visita al collega malato), sicchè noi non possiamo dire se e che cosa Pisone abbia eventualmente ricordato di Gneo Flavio in altro luogo della sua opera, con la conseguenza che, come non c'è prova per poter ricondurre a Pisone, come pure il Wolf ammette[20], la notizia della pubblicazione dei fasti e delle actiones, non si può, sulla scorta dello stesso passo, escludere, come lo stesso Wolf vorrebbe, una partecipazione a tali vicende da parte di Appio Claudio, per arrivare a ritenere che essa sia il frutto di una invenzione da parte di Varrone. Né, come vedremo, le testimonianze più recenti consentono di risalire a Pisone, o solo a lui, come alla fonte a cui tutta la tradizione successiva fa capo[21].

 Le testimonianze che cronologicamente seguono sono quelle di Cicerone. E tuttavia, fra le stesse, quella di ad Att.

6.1.8 (che è del 50, ma si riferisce ad un passo del de re publica, che è del 52) si rivela  fondamentale, perché riporta la notizia che Gneo Flavio 'fastos  protulisse actionesque composuisse' a 'nec pauci auctores'. Si tratta di diverse fonti, come è ribadito più giù, in ad Att. 6.1.18, ove si parla di una 'publica prope opinio', ciò che varrebbe a scusare dell'eventuale errore in cui, nel seguirla, Cicerone sarebbe caduto, poiché si tratterebbe di un 'commune erratum'[22]. E tali fonti possono ritenersi considerevolmente risalenti[23].

      Su un punto di Cic. ad Att. 6.1.8 occorre, tuttavia, far chiarezza, poiché nella lezione attuale del testo si dice che Gneo Flavio'…actionesque  c o m p o s u i s s e'. Non si sarebbe trattato della mera pubblicazione della raccolta di actiones già compiuta, secondo D. 1.2.2.7, da Appio Claudio. Ma, con ogni probabilità, tale lezione va corretta, poiché, come risulta da Cic. de orat. 1.41.186, di cui qui di seguito parleremo, già nel 55 (anno di composizione di quest'ultima opera) Cicerone aveva detto di Gneo Flavio, che aveva 'pubblicato' e non 'composto' le actiones. In base alla espressione usata nel de oratore (expositis a Cn. Flavio primum actionibus) è legittimo proporre per Cic. ad Att. 6.1.8, come del resto si ammette[24], la restituzione di 'composuisse'  in 'exposuisse'.

     La testimonianza di Cic. de orat. 1.41.186, sulla quale conviene concentrare ora l'attenzione, non parla della pubblicazione del calendario, ma solo della pubblicazione delle azioni. Ciò si spiega in considerazione del fatto che il tema al quale è dedicato tutto lo squarcio dell'opera è il ius civile e quello del passo che stiamo esaminando, specificamente, la sua conoscenza, di cui si vuole evidenziare la facilità, nonostante il fatto che la sua scienza sia stata tenuta segreta.  Perciò, nel tratto per noi più rilevante della testimonianza, che abbiamo più su riportato (deinde, postea quam est editum,expositis a Cn. Flavio primum actionibus, nulli fuerunt, qui  illa artificiose digesta  generatim componerent), il soggetto sottinteso di 'editum' è ius. Ciò importa la necessità di riconoscere che per Cicerone il termine ius poteva essere usato come referente di una raccolta di actiones. Quel che aveva in mente era il ius civile Flavianum.

     Fin qui Cic. de orat.1.41.186 conferma D. 1.2.2.7. Peraltro, Cicerone non parla affatto di Appio Claudio. Che egli, però, conoscesse l'opera di Appio Claudio in materia di actiones si può trarre, come si vedrà[25], da un'altra sua testimonianza (Cic. pro Caec. 19.54, che è probabilmente del 69 o 68, mentre il de oratore è del 57-55), ma da essa traspare il ricordo, piuttosto che della raccolta delle actiones, del 'de usurpationibus'. E, tuttavia, il convincimento che Cicerone le conoscesse tutte e due può fondarsi sulla correlazione che, come vedremo, lega le stesse. In ogni caso, poiché, come si è visto, anche in de orat. 1.41.186 Cicerone doveva parlare, come in ad Att. 6.1.8; 18, di un'attività di Gneo Flavio limitata alla pubblicazione delle actiones, c'è margine sufficiente per ritenere che egli fosse a conoscenza del fatto che alla loro raccolta aveva provveduto Appio Claudio.

     L'ultimo testo di Cicerone (pro Mur. 11.25-12.26) accenna, all'inizio, ad un'opera di divulgazione della giurisprudenza (11.25…id enuntiatis vestris misteriis…), per poi parlare, con riferimento a Gneo Flavio, della sola pubblicazione del calendario. Quindi, anacronisticamente, indica, come reazione dei giuristi a questo atto, la creazione del formalismo delle legis actiones, del quale, nel seguito del discorso, da noi non riportato, si danno esempi che consentono una rappresentazione satirica dell'operato dei giuristi. Il discorso si conclude con il tratto riportato del § 26 (Quae-plenissima) in cui la mancanza di buon senso e la stolta capziosità dei formulari si dice venuta alla luce con la loro pubblicazione.

     Sembra, dunque, che il cenno iniziale alla divulgazione della giurisprudenza sia prolettico rispetto alla conclusione, nella quale se ne torna a parlare. Si tratterebbe, quindi, di un evento successivo all'età di Gneo Flavio. Ecco perché a Gneo Flavio sarebbe attribuita la pubblicazione del calendario, ma non delle actiones.

     La spiegazione di questa rappresentazione dei fatti è probabilmente dovuta all'intento, perseguito da Cicerone nella orazione, di mettere in cattiva luce l'operato dei giuristi. In effetti, anche qui si parla di una pubblicazione dei formulari ed è, quindi, buona congettura ritenere che Cicerone abbia fatto di una sola storia, concernente Gneo Flavio, due storie[26], la seconda delle quali, relativa alla successiva pubblicazione dei formulari, è dovuta alla invenzione della notizia, palesemente anacronistiaca, della reazione dei giuristi consistente nella introduzione del formalismo, operata perché essi potessero meritare la derisoria rappresentazione di cui sono oggetto nel seguito del § 25 e prima della conclusione riportata del § 26.

     Il risultato che si può ricavare dall'analisi delle testimonianze ciceroniane è che esse sono coincidenti e radicate in una tradizione che può ritenersi considerevolmente più antica. In particolare, esse confermano la notizia di D.1.2.2.7 relativa alla pubblicazione da parte di Gneo Flavio delle actiones  e del calendario e lasciano margine per ritenere che la raccolta delle actiones sia stata opera di Appio Claudio.

     Sullo stesso piano si pongono le testimonianze di Liv. 9.46.5 e Val. Max. 2.5.2.

     Nel contesto di un discorso (9.46.1-12), tutto dedicato a Gneo Flavio[27], al principio del quale (9.46.2), nel parlare della rinunzia da parte dello stesso all'attività di scriba, Livio si richiama, come a fonti diverse e non coincidenti in un particolare[28], a certi annali, da un lato, e a Licinio Macro, dall'altro, si attribuisce, come si è visto, a Gneo Flavio la pubblicazione del ius civile e la pubblicazione dei fasti.

     Quel che ha destato sospetto è l'indicazione dell'oggetto della prima pubblicazione, dato che ius civile non può assumere qui certamente  un senso generale, corrispondente  al complesso di precetti consuetudinari e legislativi costituenti il primo ordinamento della civitas[29], sicchè non sono mancate proposte interpretative più o meno vicine al dato ricavabile da altre testimonianze[30], e specialmente da quelle ciceroniane che abbiamo già esaminato, secondo cui la pubblicazione in discorso riguardò le actiones. Che a ciò abbia alluso lo stesso Livio, si può ricavare, anzitutto, dal collegamento della sua testimonianza a quelle di Cicerone. Esso è provato dal ricorrere di espressioni comuni (v., da un lato, in Liv. 9.46.5, 'fastos … proposuit ut, quando lege agi posset, sciretur' e, dall'altro, in Cic. pro Mur.11.25, 'posset agi lege necne pauci quondam sciebant; …Cn. Flavius … fastos … proposuerit)[31] e, inoltre, come si è visto, dall'uso, in Cic. de orat. 1.186, dello stesso termine ius[32], come referente delle actiones. Tutto dipende non solo dal suo valore fondamentale, tradottosi, alla fine dell'età repubblicana in quello di 'schema d'azione', ma dal fatto, di cui si ha il torto da parte di alcuni di dubitare[33], che la raccolta delle actiones era stata denominata, conformemente a quel valore, già largamente diffuso a metà dell'età repubblicana, ius civile Flavianum[34]. La consapevolezza di ciò sembra in qualche modo emergere dal fatto che Livio parla di questo ius come repositum in penetralibus pontificum e, quindi, connesso a materia rituale, cosa che sarà evidenziata da Valerio Massimo, nella sua testimonianza, che, come vedremo tra poco, si collega a quella di Livio[35], con il dire che il ius civile pubblicato da Gneo Flavio era stato 'per multa saecula inter sacra caerimoniasque deorum immortalium abditum'. Del resto, più in generale, risultano dalle fonti impieghi più tardi dell’espressione ius civile nei quali essa indica un complesso di rituali[36] o, specificamente, un rito, una azione o i relativi schemi[37]. 

     Ciò chiarito, la testimonianza di Liv. 9.46.5 risulta pienamente concorde con quelle di Cicerone. Lo stesso deve dirsi, per quanto già rilevato, della testimonianza di Val. Max. 2.5.2, che non fa che ricalcare, rendendola più esplicita, la testimonianza di Livio.

     Quel che, semmai, potrebbe osservarsi è che dietro la pubblicazione delle azioni non viene ricordata alcuna opera di Appio Claudio riguardante le stesse. E, tuttavia, almeno in Livio, la figura di Appio Claudio si delinea come quella di un play maker politico dell' opera di Gneo Flavio.

     Ciò risulta anche dalla testimonianza di Plin. N.H. 33(6)17. E’, però, da osservare che qui si parla solo della pubblicazione del calendario. Ma Plinio usa espressioni che richiamano da presso Cicerone (Plin. : publicatis diebus fastis, quos populus a paucis…petebat; Cic. pro Mur. 11.25 …pauci…a quibus…dies …petebatur; ad Att. 6.1.8 … ut dies agendi peterentur a paucis)[38], per non parlare dell’affinità di immagine, usata con riferimento a Gneo Flavio, tra ‘sagax’ di Plinio e ‘qui cornicum oculos confixerit’ di Cic. pro Mur. 11.25), sicché si deve supporre che i due autori abbiano utilizzato uno o più fonti comuni o che, almeno riguardo a questi punti, Plinio sia stato influenzato dalla lettura di Cicerone.

     Ma c’è qualcosa di più ed è proprio il fatto, già accennato, che nel racconto relativo alla pubblicazione del calendario si delinea nel retroscena la figura di Appio Claudio come di colui che avrebbe istigato Gneo Flavio, suo scriba, mentre, come si è detto, in Cicerone la figura di Appio Claudio appare connessa, almeno attraverso il ‘de usurpationibus’, all’opera sulle actiones.

     Per tutte queste ragioni si può credere che anche Plinio fosse a conoscenza della pubblicazione delle actiones da parte di Gneo Flavio e della raccolta stessa, come compiuta da Appio Claudio. Se non ne ha parlato è forse perché, essendo ai suoi tempi le legis actiones quasi del tutto scomparse, il riferimento a questo tema avrebbe richiesto spiegazioni, mentre nell’economia del discorso il più facile tema della pubblicazione del calendario poteva essere sufficiente a chiarire le ragioni dei meriti acquisiti da Gneo Flavio in vista dell’elezione ad edile.

     Delle fonti elencate non resta che Macrob. Sat.1.15.9, ma, al riguardo, per spiegare il fatto che qui si parli della sola pubblicazione del calendario, è sufficiente rilevare il carattere assolutamente incidentale della notizia[39].

 

     5. Quel che, a conclusione del discorso si può dire, è che la ricostruzione del Wolf è viziata, a tacer d'altro, dal fatto che la tradizione è ricondotta tutta a Pisone, la cui testimonianza certa riguarda solo due episodi della vita di Gneo Flavio, laddove Livio si richiama almeno a tre fonti diverse e, dunque, almeno ad una terza, oltre Pisone, che è riconoscibile, e Licinio Macro, che è citato espressamente, mentre Cicerone si richiama  a 'nec pauci auctores'.

     D'altra parte, non si può sostenere, come fa il Wolf[40], che le notizie contenute nel frammento del l. sing.enchiridii che riguardano Appio Claudio si devono ad invenzione di Varrone. Il Wolf trascura del tutto D. 1.2.2.36, che concerne l'opera di Appio Claudio de usurpationibus, che, come vedremo[41], è collegata alla raccolta delle actiones.

     Di tale opera Cicerone doveva essere informato, come mostra il passo della pro Caecina (19.54) già richiamato, sul quale ci soffermeremo[42]. E' probabile inoltre che, come vedremo[43], le notizie contenute nel frammento del l. sing. enchiridii derivino anche, se non esclusivamente, da Cicerone. Varrone può averne avuto conoscenza e può avere contribuito a trasmetterle[44], ma esse dipendono da fonti più antiche.

     Tra queste potrebbero esservi anche quegli studia Aeliana che Cicerone menziona nel de oratore, opera in cui si mostra al corrente degli sviluppi della giurisprudenza repubblicana. Certo è che tali studi riguardano, come dimostreremo[45], le actiones e si riallacciano, pur non identificandosi solo con quelle, alle opere di Sesto Elio (la raccolta dei nuovi moduli di actiones e anche i Tripertita, che, pur muovendo dalle XII Tavole, attraverso la interpretatio si risolvono nell'actio). Non è escluso che in queste opere si trovassero notizie delle opere di Appio Claudio, cui si collegano per la materia, che è per la prima volta da lui trattata per iscritto. Non è escluso, inoltre, che ad una tradizione giuridica si debba il discorso riguardante la pubblicazione delle actiones compiuta da Gneo Flavio, condotto da Liv. 9.46.5 e da Val. Max. 2.5.2 in termini di ius civile, cui corrisponde il discorso condotto da Cic. de orat.1.86 in termini di ius.

     Tutto ciò può contribuire ad arricchire il quadro delle fonti che hanno alimentato la tradizione raccolta nel frammento del l. sing. enchiridii ed a dimostrare una loro più alta risalenza. Si tratta, comunque, di un quadro che, pur considerando i soli dati più certi, di cui si è detto all'inizio di questo paragrafo, appare affidante.

 

     6. L'analisi della tradizione conferma, dunque, la notizia contenuta nel frammento del liber sing. enchiridii circa la pubblicazione da parte di Gneo Flavio della raccolta delle actiones denominata ius civile Flavianum e la rende credibile quanto al fatto che la raccolta sarebbe stata opera di Appio Claudio.

      La testimonianza di D.1.2.2.7 può, d'altronde, essere sostenuta con argomenti che la riguardano direttamente e che possono trarsi dall' interno e dall'esterno della stessa.                        

     Quanto ai primi, deve dirsi che la stessa inverosimiglianza dell'episodio narrato in D. 1.2.2.7 relativo al furto compiuto da Gneo Flavio del liber actionum[46] induce a ritenere che nel racconto debba riconoscersi almeno un nucleo di verità, costituito dalla composizione della raccolta ad opera di Appio Claudio. E un altro indizio nello stesso senso è rappresentato dal fatto che il testo fornisce particolari, come vedremo di qui a poco, sul procedimento seguito dall'autore per la sua stesura.

     Quanto ai secondi, deve dirsi che nelle fonti di tradizione letteraria si può cogliere uno spunto che vale a confermare la tradizione giuridica. Esso è rappresentato dalla emersione, in Plin. N. H. 33.1.17, della figura di Appio Claudio, quale mandante dell'azione di Gneo Flavio diretta alla pubblicazione del calendario (…et ipse scriba Appi Caeci, cuius hortatu exceperat eos dies consultando adsidue sagaci ingenio promulgaveratque). E' probabile che dietro la pubblicazione delle actiones stia una analoga iniziativa di Appio Claudio[47] e che, perciò, si debba riconoscere in lui, come vuole D. 1.2.2.7, l'autore della raccolta.

 

     7. D. 1.2.2.7, nel descrivere il procedimento seguito da Appio Claudio, parla di una sua attività che sarebbe consistita nel proponere e nel redigere ad formam  le legis actiones. Ma la lezione attuale è insostenibile[48]. Poiché proponere ha il significato tecnico  di 'esporre', 'pubblicare', il testo sarebbe in contrasto con sé stesso, poiché più in là si dice che la pubblicazione del liber actionum di Appio Claudio fu opera, dopo il suo furto, di Gneo Flavio. E, d'altra parte, l'ordine logico esige che del 'proponere' si parlasse dopo e non prima del 'redigere ad formam'.

     Da ciò deriva che 'proposuisset' va emendato. L'ipotesi più probabile è che il testo dicesse originariamente 'composuisset'[49]. Appio Claudio avrà cominciato con il 'metter insieme' le azioni, per poi operare nel senso del 'redigere' le stesse 'ad formam'.

     Certo, anche se si pensa ad una attività del 'componere' come 'mettere insieme', c'è da rendersi conto come il 'redigere ad formam' non dovesse logicamente precederla. E' evidente che quel che fu messo insieme non aveva ancora l'aspetto che assunse dopo il 'redigere ad formam'.  Poiché 'forma' significa 'formula'[50] e, in specie, 'formula scritta', il 'redigere ad formam' sarà consistito nel 'ridurre in formula scritta' i riti della 'legis actio'[51]. Il 'componere' sarà stato, quindi, un 'mettere assieme' i riti, probabilmente secondo un certo ordine[52], prima di ricavarne la formula.

     Per rendere più comprensibile questa spiegazione occorre chiedersi come questi riti si presentassero ad Appio Claudio, prima che egli iniziasse la sua opera.

     Al riguardo si può prospettare una alternativa. Secondo una prima possibilità, si può congetturare che Appio Claudio li abbia conosciuto solo attraverso l'osservazione paziente della pratica forense[53]e, quindi, nella loro espressione orale e gestuale. Il tal caso, il metterli insieme, come operazione preparatoria rispetto al ricavarne le formule, sarà consistito -  una volta individuate, nel complesso delle pronunzie, quelle che costituivano legis actiones -  nella semplice raccolta ordinata dei riferimenti che valessero ad individuare i riti da cui le stesse formule dovevano  ricavarsi. Questa seconda attività - la sola che trovò espressione - sarebbe consistita nel tradurre le pronunzie orali in formule scritte, disposte secondo i riferimenti. A favore di questa possibilità sta l'equivalente pratica che Appio Claudio avrebbe suggerito, secondo Plin. Nat. Hist. 33.(6).17, come si è visto[54], a Gneo Flavio per conoscere l'elenco dei dies fasti in vista della loro pubblicazione. Nello stesso senso depone il dubbio che Appio Claudio possa avere avuto accesso agli archivi pontificali, fondato sul fatto che non risulta dalle fonti espressamente che egli sia stato pontefice[55].  

     Ma, se si ammette che Appio Claudio vi avesse accesso, si può prospettare un'altra possibilità. Questa si articola in  dipendenza del vario modo in cui la materia interessante le legis actiones potè trovarsi conservata insieme ai riti di carattere più propriamente religioso. Si può pensare che si trattasse ancora, come riteniamo dovette avvenire in generale alle origini, di una generica massa di documenti comprendenti gli exempla e, cioè, i modelli di comportamento, implicanti  legis actiones, non ancora distinti dal materiale storico, veridico o immaginario, al quale rimanevano collegati dalla permanenza almeno parziale della concezione più antica del diritto, derivante dall'integrale originario risolversi della esperienza giuridica nella esperienza storica[56]. In tal caso si deve ritenere che Appio Claudio abbia dovuto iniziare la sua opera con l'enucleare dagli exempla i riti e abbia quindi messo assieme questi ultimi. Ma, anche se si pensa, con maggiore verosimiglianza, che la enucleazione dei riti dagli exempla fosse stata già compiuta ai suoi tempi dai pontefici, un altro compito rimaneva tuttavia da svolgere oltre la semplice raccolta dei riti. Poichè ciò che atteneva ai riti non era costituito solo dalle formule da pronunziare, ma anche da una serie di prescrizioni che, oltre alla descrizione dei gesti, alla indicazione dei simboli, dei soggetti partecipanti e degli oggetti, del tempo e del luogo, dovevano fissare, almeno, i passaggi da un momento all'altro dei singoli riti[57], c'era da ricavare le formule da tutte queste prescrizioni. Perciò, se si ammette che Appio Claudio abbia potuto direttamente attingere dagli archivi pontificali, è più probabile ritenere che egli abbia messo assieme, traendoli dagli archivi, i riti interessanti la pratica relativa alle azioni contenziose o negoziali riguardanti specialmente i privati e li abbia ridotti, quindi, alle semplici formule, che costituirono il contenuto del suo liber actionum.

 

      8. Il risultato complessivo di questa attività consistente nel componere e nel redigere ad formam le actiones fu il conseguimento di una conoscenza delle stesse migliore di quella consentita dall'osservazione della pratica quotidiana sotto il profilo della organicità e, soprattutto, della certezza che la materia venne così acquistando. Ciò basterebbe a sgombrare il campo del dubbio che circa la veridicità del racconto tradizionale nasce dal fatto che le legis actiones erano comunque note attraverso le loro concrete applicazioni[58]. Un ulteriore ancor più rilevante passo sulla via della certezza fu costituito dalla pubblicazione della raccolta, che fu diretta a rendere di dominio pubblico le legis actiones.      Tutto ciò riflette la personalità di Appio Claudio, che la tradizione (v. Liv. 10.22.7) descrive come callidus sollersque, iuris atque eloquentiae consultus, e appare coerente con l'azione politica di Appio Claudio[59], volta a contrastare il patriziato. Nel campo che stiamo esaminando tale azione si risolveva in una garanzia contro i possibili arbitri del collegio pontificale che del patriziato era espressione. Si può dire, quindi, che anche il quadro generale conferma la tradizione giuridica recepita nel frammento del l. sing. ench., D. 1.2.2.7.

     Alla luce dei risultati conseguiti, che hanno permesso di stabilire che veramente Appio Claudio compose un liber actionum (il primo della serie) traducendo i riti delle legis actiones nella loro integrale espressione, o le loro formule orali, in formule scritte, e che esse divennero di dominio pubblico attraverso la pubblicazione ad opera di Gneo Flavio, risulta confermata, del resto, anche la denominazione di ius civile Flavianum che, secondo D. 1.2.2.7, designa la raccolta delle actiones pubblicata da Gneo Flavio. La denominazione 'ius civile Flavianum' corrisponde, infatti, nel sostantivo 'ius', che indica la raccolta, al suo contenuto e nell'aggettivo 'civile', che la qualifica, alla sua destinazione.

     Quanto al primo punto, risulta che l'esperienza giuridica, tra il IV e il III sec. a. Cr., era ancora centrata sui momenti dinamici dell'azione. Se una trasformazione è in atto, essa riguarda un più accentuato grado di obiettivazione della legis actio, raggiunto attraverso la sua definitiva traduzione in formula scritta. Ciò è conforme alla permanenza del significato fondamentale di ius, come equivalente a 'rito', 'schema rituale', del quale, ora, tende a prevalere il valore particolare corrispondente a 'formula rituale', che può estendersi per indicare un complesso di formule rituali, come il ius Flavianum e come già il ius Papirianum.

     Quanto al secondo punto, va rilevato, non diversamente da quanto abbiamo fatto a proposito del ius civile Papirianum, che la qualifica di 'civile', che accompagna la denominazione del ius Flavianum, non può derivare dal fatto che si tratti di una manifestazione della interpretatio (nel significato specifico di ius civile, riguardante l'opera della giurisprudenza), posto che di Gneo Flavio si dice, in D. 1.2.2.7, che anche egli 'nec de suo quicquam adiecit libro'. Tale qualifica, quindi, è da riconnettere al fatto della pubblicazione e alla conseguente opportunità di utilizzazione da parte dei cives (valore di 'civile' dal quale deriva il più tardo impiego dell'espressione 'ius civile' come equivalente di 'ius civitatis'). Ne risulta, come abbiamo visto per il ius civile Papirianum, la prova, per l'età di Appio Claudio, della sussistenza della concezione strumentalistica del ius.

 

     9. Ancor più chiaramente questa concezione traspare dall'altra opera che si deve ascrivere ad Appio Claudio.

     Se ci si chiede quale risultato pratico potessero avere, di per sè, la raccolta delle actiones di Appio Claudio e la sua successiva pubblicazione ad opera di Gneo Flavio, si deve riconoscere che esso non potesse essere che assai limitato.

     E' questo un punto sul quale, nella ricostruzione storica della vicenda del ius civile Flavianum, gli studiosi non si sono soffermati. Eppure, è di tutta evidenza che la conoscenza dei formulari non poteva segnare un gran passo in avanti sulla via del loro impiego pratico. Qui non vogliamo alludere ai gravi problemi che potevano nascere dalla scelta del modulo d'azione congruente alla ragione che si voleva far valere[60], ma ai problemi connessi alla pronunzia stessa dei formulari, indipendentemente dal sapere chi fosse legittimato a ricorrervi e per quale causa e per quale oggetto.

      Quanto gravi essi fossero e come occorresse risolverli, già riguardo al tempo dell'azione - a prescindere da ogni aspetto di legittimazione sostanziale, sotto il mero aspetto procedurale - risulta dal dato acquisito della pubblicazione del calendario, che permise di conoscere i dies fasti[61], nei quali si poteva ordinariamente lege agere in vista di una pronunzia giurisdizionale. Sotto questo profilo la connessione della pubblicazione del calendario con la pubblicazione delle legis actiones, che si può arguire dalle fonti, trova la sua facile spiegazione[62]. Ne è conferma la coincidenza della finalità di certezza, contro i possibili arbitri del collegio pontificale, che si voleva conseguire nella conoscenza, come delle legis actiones, dei dies fasti.

      Né doveva essere del tutto evidente la soluzione, in concreto, del problema del luogo dell'azione, in un'epoca, come quella in cui la vicenda del ius civile Flavianum ricade, nella quale non è ancora delineata una netta distinzione tra legis actiones contenziose e legis actiones negoziali, per le quali ultime si era venuta sviluppando la prassi della possibilità del compimento fuori dal comizio[63].

     Ma i problemi circa l'impiego dei formulari dovevano riguardare, soprattutto, la successione delle pronuncie delle formule di uno stesso modus agendi e, finanche, la pronuncia di ciascuna delle formule delle quali era composto un modus agendi o di ciascuna delle parole di cui era composta una formula.

     Di ciò è facile convincersi, quanto alla successione delle pronuncie, se appena si supponga che del cosiddetto processo per legis actiones noi non avessimo la conoscenza che ce ne permette lo squarcio di Gai. 4. 11-33, ma semplicemente quella  che ci sarebbe consentita, se a noi fossero pervenute le sole formule di legis actio che sono da esso tramandate. Ai fini del loro impiego è necessario conoscere il tessuto connettivo che le lega, fatto di rilievi circa le prescrizioni o la prassi del loro succedersi. Ed è quello che Gaio diligentemente insegna[64]. Questa conoscenza doveva essere tanto più necessaria, all'epoca di Appio Claudio, in quanto ancora i modus agendi a carattere contenzioso non avevano assunto la natura di forme processuali, nelle quali la serie di atti componenti apparisse finalizzata necessariamente al giudizio. Poiché, in tale realtà, ad ogni pronunzia di parte l'azione poteva interrompere il suo corso, l'indicazione dei passaggi alle pronunzie successive doveva esser più necessaria che nell'epoca in cui, consolidatasi la prospettiva processuale, le diverse actiones di cui si componeva uno stesso modus agendi costituirono un complesso compatto di formule.

     A render conto di ciò sarà sufficiente riflettere sulla portata che dovette avere una prescrizione, come quella che troviamo riferita alle legis actiones  nella sigla di Prob. 4.5 S.N.S.Q. (Si negat sacramento quaerito)[65]. Dalla intestazione della sezione del testo di Probo, in cui è riportata (4. In legis actionibus haec:), non si può ricavare che tale sigla si riferisca, come quelle che la precedono (1-4)[66] e la seguono (5-8)[67], ad una pronunzia di legis actio di una parte. Non si può trattare di pronunzia del convenuto, poiché il 'negare' riguarda una attività del convenuto che non potrebbe riferirsi, nel suo dire, a sé stesso e, per di più, usando la terza persona del verbo. Per quest'ultima ragione non può trattarsi neanche di pronunzia dell'attore, poiché egli si rivolge al convenuto usando la seconda persona del verbo, come risulta dalle sigle di Prob. 4.2 Q.N.T.S.Q.P. quando negas, te sacramento quingenario provoco e di Prob. 4.3 Q.N.A.N.N. quando neque ais neque negat. 'Quaerito' ha portata prescrittiva[68], come mostra la terza persona dell'imperativo. Né può trattarsi di pronunzia prescrittiva del magistrato, perché essa imporrebbe, nella sua manifestazione concreta, il ricorso al sacramentum, laddove il carattere dell'intero procedimento fa pensare che si tratti di un atto eventuale, che occorre compiere solo se l'attore valuti opportuno non interrompere il procedimento, ma portarlo innanzi attraverso i successivi momenti, eventualmente fino alla decisione sul sacramentum stesso[69]. Non rimane, perciò, altra possibilità che ritenere che si tratti di una prescrizione probabilmente formulata per la prima volta dai pontefici nella astratta descrizione complessiva del rito, con la quale si indicava all' attore l'ulteriore atto che avrebbe potuto compiere dopo la defensio dell'avversario. Perciò la intestazione della sezione del testo di Probo (4. In legis actionibus haec) deve aver fatto riferimento ad un contenuto costituito tanto da formule che da prescrizioni relative al loro impiego. E ciò è confermato dal significato con cui l'espressione legis actiones è usata nell'altro passo su riportato[70] del fr. del l. sing. ench., D. 1.2.2.12, in cui le legis actiones vengono richiamate come quelle 'quae formam agendi  c o n t i n e n t', che, quindi, per il fatto di contenere gli schemi d'azione, non si esauriscono in questi, ma devono contenere anche, come in Prob. 4, prescrizioni relative al loro impiego.      

    A considerazioni analoghe si prestano le legis actiones a carattere negoziale[71]. E' sufficiente gettare uno sguardo sulla descrizione gaiana, tanto per fare degli esempi, del testamentum per aes et libram o della emancipatio o della adoptio, per comprendere come una semplice indicazione delle formule da pronunziare non potesse di per sé risolvere il problema del loro impiego pratico.

     A render conto di ciò si può riflettere sulla portata che dovette avere una prescrizione del tipo di quella 'raudusculo libram ferito', ricordata da Varr. de l.l. 5. 163 e Fest. 320,31[72],  relativa al rito della mancipatio. Stando alla testimonianza di Festo (in mancipando…dicitur) di questa prescrizione deve ammettersi che in qualche modo rientrasse nel rituale[73], ma dalla descrizione gaiana non risulta alcun appiglio per attribuirla al mancipio dans. Può darsi che si trattasse di una pronunzia del libripens, ma il silenzio delle fonti non autorizza siffatta congettura molto più che l'altra, che sembra potersi pure proporre, secondo cui, ammesso che anche nelle legis actiones a carattere negoziale si ricorresse al praeire verbis[74], le parole in discorso fossero pronunziate, appunto, da chi guidava le parti nel compimento del rito. Per questa via si può arrivare a pensare che tali parole facessero parte delle prescrizioni pontificali. Ne potrebbe essere conferma il fatto che nella testimonianza di Varrone[75](veterius in mancipiis scriptum…) non si parla di una pronunzia, ma di qualcosa che sembra costituire, in senso proprio, una prescrizione astratta[76], piuttosto che il testo scritto di una lex mancipii.

     Del resto, tracce di analoghe prescrizioni dei pontefici sono rimaste nella tradizione anche per il campo del diritto sacro, come in

 

        Fest. 160,14 Nectere ligare significat, et est apud plurumus auctores frequens, quin etiam in commentario sacrorum usurpatur hoc modo: 'Pontifex minor ex stramentis napuras nectito', id est funuculos facito, quibus sues adnectarentur[77].

 

     Ciò conferma l'idea che anche la materia più propriamente attinente al ius civile fosse corredata, negli archivi pontificali, da una serie di regole concernenti l'esercizio delle azioni, come, del resto, abbiamo già supposto più su, nel descrivere il primo intervento di Appio Claudio volto a trarre dal più complesso tessuto di tali prescrizioni i moduli di azione ai fini della loro pubblicazione.   

     Il problema dell'impiego delle actiones doveva concernere, d'altra parte, come si è accennato, anche la pronunzia di una singola formula o di una parola che vi apparteneva. Ciò deve dirsi già riguardo a quella componente inscindibile dalla parola che è il gesto e, inoltre, quando ne fosse richiesto in connessione l'impiego, riguardo agli elementi simbolici che talora accompagnano la pronunzia. Tutto ciò aveva bisogno di essere prescritto al di fuori della formula cui si connetteva. Ma il problema poteva concernere la stessa parte orale, sia che si trattasse di stabilire le pause varie che dovevano essere osservate nell'andar ripetendo le parole, in corrispondenza o in deroga della divisione originaria della formula in cola [78], sia che si dovesse pronunziare, in un modo o in un altro, in corrispondenza o in deroga delle originarie regole fonetiche, anche una singola lettera di una stessa parola.

      Un riflesso di ciò si scorge nei problemi che affaticavano ancora alla fine dell'età repubblicana i cultori del ius civile, nella derisoria rappresentazione che della loro scienza dà il passo, già riportato, di

       

        Cic. pro Mur 11.25 … Primum dignitas in tam tenui scientia non potest esse; res enim sunt prope in singulis   litteris atque  interpunctionibus verborum occupatae…

 

in cui tale scienza appare addirittura quasi esaurirsi in questioni riguardanti, appunto, singole lettere di una parola o interpunzioni tra parole diverse[79].

     E', peraltro, da osservare che i pontefici non si limitarono a formulare in astratto le prescrizioni circa l'impiego dei formulari, ma si prestarono in concreto a servire da guida alle parti nella loro pronunzia - come abbiamo già avuto modo più su di ricordare - attraverso l'attività del praeire verbis. La interruzione del monopolio pontificale non importò certo il venir meno di questa attività, il cui ricordo permane nello stesso passo della pro Murena[80],  ma l'assunzione della stessa da parte dei giuristi laici. Ciò permette di stabilire fin d'ora che l'istruzione relativa all'impiego dei formulari, che, per quanto detto, si imponeva come esigenza inderogabile dopo la loro pubblicazione, doveva avere per destinatari non direttamente i privati interessati, ma dei tecnici del diritto laici, che andavano prendendo il posto dei pontefici.  

     Questa precisazione ci permette di stabilire, fin d'ora, che se - come appare per le ragioni svolte - è necessario ritenere che la pubblicazione dei formulari dovesse esser seguita da un'opera che contenesse istruzioni sul loro impiego, è alla categoria in formazione dei giuristi laici e non direttamente ai privati interessati che essa doveva principalmente essere rivolta.

 

     10. Che lo stesso Appio Claudio si sia stato autore di un' opera siffatta, quali che ne siano stati i limiti, può stabilirsi in base a quant'altro la stessa tradizione giuridica gli attribuisce, come iniziatore dell'attività di riforma nel campo del diritto.                             

  La testimonianza al riguardo è ancora una volta fornita dal frammento del l. sing. enchiridii conservato nei Digesta, ma non appartiene, come quella riguardante la raccolta delle actiones ad opera di Appio Claudio e la loro pubblicazione ad opera di Gneo Flavio, alla prima delle tre parti in cui l'intero discorso del frammento si divide (§§ 1-34: iuris origo ac processus), sibbene alla terza (§§ 35-49: iuris civilis scientia: nella successione dei iuris periti, dopo Publio Papirio e Appio Claudio decemvir, di Appio Claudio il Cieco si dice che maximam scientiam habuit). Si tratta di

 

        D. 1.2.2.36 (Pomp. l. sing. ench.) Hunc etiam actiones scripsisse traditum est primum de usurpationibus, qui liber   non extat. Idem Appius Claudius, qui videtur ab hoc processisse, R litteram invenit, ut pro Valesiis Valerii essent  et pro Fusiis Furii.    

 

     La lezione dell'edizione Mommsen-Krüger, qui riprodotta, diverge dalla littera Florentina, come viene segnalato, in quanto sostituisce  pro Valesiis’ a ‘pro Valesii’' [81] e ‘Furii’' a ‘Fusiis’'. Ma c'era anche da segnalare, come fa l'editio maior, a parte le correzioni, segnate  nella stessa littera Florentina, di ‘existat’' e di ‘pro Fusus’' rispettivamente in ‘extat’ e ‘pro Fusiis’, la presenza di ‘usurpatioί’ tra ‘idem’ e ‘Appius Claudius’'.

     L'ipotesi che appare più probabile è che si tratti di una erronea ripetizione dell'amanuense, che ha trascritto il precedente ‘usurpationibus’ fino al primo tratto verticale della’n’' (che ora si legge ‘ί’)[82]. Tuttavia, ci si sarebbe atteso che il correttore del manoscritto, attento nella correzione degli errori di cui si è detto, eliminasse la ripetizione in discorso con chiari segni di espunzione. Va invece rilevato che l'evidenza al riguardo manca, poiché la parola che ipotizziamo intrusa, divisa nel manoscritto in due righi (usur-patioί), presenta un segno di espunzione in posizione corretta solo dopo la r, mentre un segno simile, se è da interpretare come tale, risulta soprascritto alla lettera finale (i o primo tratto verticale di n). Quanto alle lettere iniziali  (u e p), i segni di espunzione, se di questi si trattò, si risolvono in un allungamento in alto del primo tratto verticale della u e del tratto verticale della p.

     Se l'ipotesi di una ripetizione da parte dell'amanuense non appaia convincente, si deve pensare che 'usurpatioί costituisce un glossema, derivato dalla incorporazione nel testo di una glossa 'usurpationibus', in cui la i finale soprascritta avrebbe indicato la terminazione della parola. Tale glossa potrebbe essere stata scritta in corrispondenza di ‘hoc’ per chiarirne il significato, come richiamante l'idea espressa dal precedente termine ‘usurpationibus’, che fa parte del testo genuino. Tuttavia, contro siffatta proposta interpretativa sta il rilievo che, se non si tratta di glossema pregiustinianeo, che sembra escluso dalla presenza della abbreviazione, contrastante con il divieto giustinianeo, è, tuttavia, difficile ammettere anche l'eventualità di un glossema postgiustinianeo, data la estrema rarità di alterazioni di questo tipo nella littera Florentina.

 

     Pur accettando la lezione corrente del testo, si deve dire che essa suscita notevoli problemi interpretativi. Essi riguardano anzitutto il primo periodo - che è quello sul quale si è concentrata l'attenzione di quasi tutti gli studiosi -  e hanno comportato spesso, come vedremo, proposte di restituzione di un diverso testo originario; ma riguardano anche il secondo periodo, che si è avuto generalmente il torto di trascurare, nonostante l'evidente connessione denunziata dalle parole 'qui videtur ab hoc processisse', che richiamano qualcosa detta precedentemente, da cui  esso indica una derivazione.

 

     11. Se cominciamo l'analisi dal primo periodo, dobbiamo dire che l'unica notizia che se ne può con certezza trarre, salvo a valutare in seguito la sua attendibilità, è che Appio Claudio ('hunc' del testo, poiché di lui si è parlato anche precedentemente[83], ricordando altri aspetti della sua attività) svolse inoltre, secondo la tradizione, un'attività letteraria (…etiam… scripsisse traditum est) in campo giurisprudenziale. Ma in che cosa questa attività sia consistita non è facile determinare. L'oggetto sembrerebbe costituito dalle actiones (actiones scripsisse), ma, dopo aver rilevato una priorità storica (primum) dell'autore della trattazione, si evidenzia  quel che ne sembra l'argomento (de usurpationibus).

     Di fronte all' evidente specificità di questo tema, gli studiosi  hanno concentrato la loro attenzione esegetica sul significato da attribuire al termine 'usurpationes' e l' hanno, fin da un lontano passato[84], quasi unanimemente individuato nel primo valore fornito da

 

        D. 41.3.2 (Paul. 54 ad ed.) Usurpatio est usucapionis interruptio[85]

 

     Quanto alle actiones, di cui si parla precedentemente, parve al Huschke[86] che esse fossero costituite da formulari   utilizzabili, giusta questo valore di usurpatio, per interrompere l'usucapione. Certo, che un'opera avente tale contenuto possa essere ricordata come la prima di una serie, della quale non c'è nella tradizione alcuna traccia, è estremamente difficile ammettere[87]. E' questa la ragione che dovette indurre il Huschke[88] a giudicare 'primum' di D. 1.2.2.36 privo di senso e a proporne la sostituzione con 'libro', fondata sull'ipotesi della presenza originaria nel testo di una sigla 'L', corrotta in 'I' e, quindi, sciolta in 'primum'. Ma, qualunque sia la probabilità di tale ipotesi, una certa difficoltà ad accoglierla deriva dalla ripetizione[89], quasi immediata e non necessaria, che il testo recherebbe, di 'liber'. D'altra parte, come vedremo tra poco, la presenza nel testo di 'primum' può avere una buona giustificazione.

     Diversamente il Mommsen[90] ritenne che le actiones delle quali D. 1.2.2.36 parla dovessero identificarsi con la relativa raccolta, seguita dalla pubblicazione di Gneo Flavio, ricordata in D. 1.2.2.7. Ma si tratterebbe di un glossema[91], che avrebbe, appunto, il valore di un richiamo alla notizia che il frammento del l. sing. enchiridii dà nella parte prima. E', tuttavia, da osservare che analogo richiamo manca, per Sesto Elio, di cui in D. 1.2.2.37 si citano i Tripertita senza ricordare la notizia, data nello stesso D. 1.2.2.7, relativa al ius Aelianum.

     Delle due proposte di emendazione del testo il Bremer[92] accettò solo quella del Mommsen, anche se riconosceva che, se si fosse al contempo seguito il Huschke, restituendo 'librum' piuttosto che 'libro', la lezione di D. 1.2.2.36 sarebbe risultata più semplice. Ma 'primum' potrebbe essere conservato, poiché potrebbe significare non che Appio Claudio fu il primo giurista a scrivere un'opera de usurpationibus, ma che fu il primo giurista autore di un'opera scritta, ossia che il 'de usurpationibus' fu il primo scritto giurisprudenziale, il cui contenuto, anche il Bremer, pur muovendo, come il Huschke, da un valore più generale di 'usurpatio'[93], finì col limitare agli atti interruttivi dell'usucapione[94].    

     Il significato attribuito a 'primum' dal Bremer potrebbe trovare conforto nel fatto che il ius civile proprium è definito in D. 1.2.2.5, in rapporto alla disputatio fori sviluppatasi dopo l'emanazione delle leges XII tabularum, come il ius quod sine scripto venit compositum a prudentibus, se non fosse che analoga definizione appare in D. 1.2.2.12 con riferimento all'epoca classica, motivo non ultimo del dubbio che una parte della dottrina ha sollevato circa la genuinità di simile caratterizzazione[95]. Ma bisogna riconoscere che l'attribuzione ad Appio Claudio del merito di essere stato il primo autore di un'opera giuridica scritta (e di potere essere così identificato come il primo autore della letteratura latina) può reggersi anche senza il richiamo del carattere non scritto della originaria produzione giurisprudenziale, poichè nel fr. del l. sing. enchiridii la priortà storica di un fatto e, specialmente, di un'opera compiuta da parte di una figura storica è evidenziata in tanti passi[96], da costituire uno schema consueto della trattazione[97].

     A differenza dagli studiosi ricordati, il Baviera[98] sostenne l'integrale genuinità della prima parte di D. 1.2.2.36, qui discussa, pur non discostandosi dalla interpretazione del Huschke nel sostenere che il testo dica che Appio Claudio scrisse actiones de usurpationibus, ossia formule di atti diretti alla interruzione dell'usucapione. Sennonchè, il sostegno che il Baviera cercò per tale interpretazione nelle testimonianze che ricordano opere della giurisprudenza repubblicana relative alle actiones lascia scorgere una possibilità di trasferire il discorso su un terreno più largo[99], poiché esse si occupano dei formulari di actiones  contenziose e negoziali, non specificamente di quelli che potrebbero essere utilizzatiai fini della interruzione della usucapione[100].

 

     12. Questa possibilità non fu colta, poiché la dottrina rimase generalmente ancorata all'idea che usurpatio per Appio Claudio significasse usucapionis interruptio. Ma proprio da qui nasceva il maggiore problema del quale essa dovette occuparsi, poiché non poteva non risultare difficile ammettere che la prima opera della giurisprudenza romana potesse avere riguardato un istituto, come, si precisava, l'interruzione del possesso ad usucapionem, di così limitatata portata. Né il motivo della perplessità si attenuava con l'ammissione, per l'età repubblicana, di una figura di interruzione non naturale, ma civile del possesso ad usucapionem, realizzantesi in forme simboliche, che si pensava, a torto, di scorgere nella testimonianza di Cic. de orat. 3. 110, relativa all' usurpare surculo defringendo[101].

     Di qui nasce il tentativo dello Schulz[102]di negare del tutto la storicità della notizia fornita da D. 1.2.2.36. Di fronte alla impossibilità di ritenere che si tratti di una invenzione[103] - la stessa specificità[104] dell'opera attribuita ad Appio Claudio è indizio di verosimiglianza - gli studiosi, tuttavia sensibili al motivo della critica, hanno, sempre muovendo dal valore di 'usurpatio' equivalente ad interruzione del possesso ad usucapionem,  orientato la ricerca successiva verso la determinazione di un ambito dell'opera diverso da quello costituito dalla interruzione del possesso ad usucapionem, ma contiguo, o, pur inclusivo della stessa, possibilmente più ampio.

     Nel primo senso, il Mayer Maly[105] ha sostenuto che Appio Claudio deve aver trattato piuttosto della cd. trinoctii usurpatio[106]. In favore di tale tesi sta il modo con il quale Gaio[107] presenta l'istituto, quale atto con il quale la uxor interrompeva l'usus, impedendo l'acquisto su sé stessa della manus. Ma, al di là dei dubbi che investono la interpretazione dell'usus[108], è da rilevare, sul piano terminologico, che l'atto interruttivo dell'usus della uxor  è indicato nelle fonti dal termine 'usurpare' solo in Gellio[109]. L'impiego che ne è fatto non è, d'altra parte, congruente con quello in materia di interruzione del possesso ad usucapionem, poiché usurpare  non ha per oggetto, come ci si attenderebbe, l'usus,  né il fatto che abbia per oggetto la uxor  può costituire un equivalente, perché la uxor ne è, al tempo stesso, il soggetto, assumendo nell'atto un ruolo attivo[110]. 'Usurpare' in Gellio è un 'usurpare' sé stessi e, in sostanza, un 'liberarsi'. Tutte queste ragioni[111] sono sufficienti a rendere estremamente problematica l'idea che Appio Claudio abbia potuto occuparsi nella stessa opera della cd. trinoctii usurpatio in una con la  usurpatio quale atto interruttivo del possesso ad usucapionem. Che se, invece, si fosse occupato della sola cd. trinoctii usurpatio, i dubbi nascenti dalla limitatezza del tema si riproporrebbero, aggravati, anzi, dall'ancora più ristretto ambito di applicazione della cd. trinoctii usurpatio rispetto alla interruzione del possesso ad usucapionem. 

     Nel secondo senso, il tentativo di rintracciare un più ampio contenuto dell'opera di Appio Claudio ha portato l'Albanese[112] a proporre la suggestiva ipotesi che in essa venisse trattato anche l'istituto riguardante il divieto per il flamen dialis di decubare de suo lecto trinoctium continuum[113]. A favore dell'accostamento potrebbe deporre una possibile derivazione dal trinoctium del flamen dialis del trinoctium della uxor[114]. Ma le differenze, allo stato della documentazione che si può ritenere rifletta un regime già in vigore all'età di Appio Claudio, sono così nette da escludere che le due fattispecie potessero essere ricondote ad una trattazione unitaria[115]. Va rilevato, infatti, che il trinoctium del flamen non riguarda anche la flaminica[116], come, invece, ci si dovrebbe aspettare di veder testimoniato se da esso derivasse il trinoctium della uxor e che, d'altra parte, poiché il flamen deve avere contratto nozze confarreate, è esclusa per lui o per la flaminica  la prospettiva dell'usus. Ma v'è di più, poiché, come avverte lo stesso Albanese[117], mentre la cd. trinoctii usurpatio matrimoniale opera come impedimento per la costituzione del potere della manus, il trinoctium del flamen dialis presuppone un potere già costituito con la captio sullo stesso sacerdote. Quest’ultimo è, in effetti, un istituto confinato al piano sacrale, che importa una sanzione, qualunque essa sia, d'ordine esclusivamente religioso. Se a ciò si aggiunge, ma è dato fondamentale, che il termine 'usurpatio' non risulta usato affatto in materia, si deve concludere che l'opera di Appio Claudio non doveva riguardare neanche il trinoctium del flamen dialis.[118].

     Infine, contro l’idea che l’opera di Appio Claudio sia stata una monografia riguardante un oggetto limitato, si è schierato anche il Behrends[119], preferendo ritenere genericamente che si sia trattato di uno scritto programmatico ‘die sich für die Möglichkeiten ausspricht, mit alten Brauch zu brechen’, da assimilare, sotto questo riguardo, alla pubblicazione da parte di Gneo Flavio del calendario e delle legis actiones.  

  13. Esaurite le possibilità dell'interpretazione comune, la dottrina ha tentato altre vie, muovendo da altri significati che le fonti testimoniano per il termine 'usurpatio'. Così il Guarino[120], cui si deve una critica degli ultimi sviluppi di questa interpretazione, si è richiamato al valore di 'usurpatio' equivalente a 'usurpazione' per sostenere, in via congetturale,  che esso reggesse la trattazione di Appio Claudio. Posto che D. 1.2.2.36 ricorderebbe la raccolta delle actiones, si potrebbe pensare che le usurpationes (vale a dire, gli abusi) fossero ciò che le actiones permettevano di combattere[121].

     Più lontano conduce la considerazione del secondo significato attribuito a 'usurpatio' dal già in parte riportato

 

        D. 41.3.2 (Paul. 54 ad ed.)…oratores autem usurpationem frequentem usum vocant. 

 

     Si tratta di un significato scorto in passato e valorizzato dal Sanio e ripreso dal D'Ippolito, dal Paricio e dal Magdelain.

     Il Sanio[122] muove da una lezione della prima parte di D. 1.2.2.36 che comporta l'inserimento di un 'et' tra 'primum' e 'de usurpationibus'[123]. Questa lezione permetterebbe di assegnare ad Appio Claudio la paternità, oltre che della raccolta delle actiones, di un distinto liber de usurpationibus. Questo libro non riguarderebbe, perciò, direttamente le actiones, ma il ius civile risolventesi nella interpretatio giurisprudenziale. Conformemente al significato di 'usurpatio' equivalente a frequens usus[124], il  'de usurpationibus' dovrebbe ritenersi, infatti, uno scritto di carattere casistico, riferentesi alle applicazioni del ius civile[125], contenente la indicazione non di regole o principi giuridici, ma di exempla, di precedenti.

     Ma, quanto alla lezione del testo, fa difficoltà già il fatto che il rilievo della priorità storica, risultante da 'primum, che il Sanio vuol conservare[126], riguarderebbe solo l'opera sulle actiones e inconcepibilmente non sarebbe esteso all'opera sulle usurpationes. D'altra parte, poiché 'et' potrebbe voler dire 'anche' e poiché 'de' potrebbe indicare l'argomento, il senso complessivo del testo potrebbe essere che Appio Claudio scrisse le actiones anche con riferimento alle usurpationes. Certo, l'autonomia della trattazione 'de usurpationibus' emergerebbe anche da questa interpretazione, ma dovrebbe ritenersi che D. 1.2.2.36 ricordi solo questa trattazione e non anche la raccolta delle actiones di D. 1.2.2.7.      Quanto alla portata dell'opera, che è ciò che più interessa, deve dirsi che all'accoglimento della tesi del Sanio non giovano i limitatissimi richiami testuali utilizzati, che non consentono di riferirla all'uso del ius civile[127]e di riconoscerle un contenuto costituito da responsa relativi a casi concreti[128].

     Anche per il D'Ippolito il 'de usurpationibus' richiamerebbe il significato di usurpatio equivalente a usus frequens. Ma il merito maggiore di questo studioso è l'avere portato l'attenzione sull' ultima parte di D. 1.2.2.36, trascurata dalla vecchia dottrina, da cui si trae che Appio Claudio ha avuto a che fare con l'introduzione del rotacismo[129]. E, in effetti, come vedremo di qui a poco, questo collegamento può gettare luce sul 'de usurpationibus', anche se in una prospettiva diversa da quella nella quale il D'Ippolito si è posto.

     Il D'Ippolito sviluppa la sua tesi sulla base dell'idea, avanzata dal Mommsen[130], che le Notae iuris di Probo, nella sezione relativa alle legis actiones, rifletterebbero il ius Flavianum. Il 'De usurpationibus' sarebbe stata l'edizione della raccolta di actiones già pubblicata da Gneo Flavio e costituente il ius Flavianum[131]. E, infatti, Appio Claudio avrebbe trovato[132] l'uso della lettera R nelle sigle pontificali. L'opera di Appio Claudio sarebbe consistita in un testo che rapportava, come nelle Notae di Probo, le sigle alle formule, rendendo così di dominio pubblico i più comuni strumenti processuali[133]. Lo stesso termine 'usurpatio', nel significato di 'usus frequens', varrebbe a chiarirne il contenuto[134].

     In tale rappresentazione dell'opera di Appio Claudio si trovano preziosi spunti ricostruttivi. Quel che rimane, tuttavia, in ombra, è il punto centrale, costituito dal valore di usurpatio, di cui non si coglie con sicurezza il riferimento (se all'uso della lettera R[135], o delle actiones [136]). Dubbio è, d'altra parte, il territorio della ricerca, nel quale Appio Claudio avrebbe rinvenuto la lettera R, che il D' Ippolito dichiara essere stato il materiale pontificale, cioè, a suo parere, le legis actiones, fissate nelle relative abbreviazioni, laddove egli stesso ammette che il rotacismo è fenomeno riscontrabile nella lingua anteriormente[137]. Che il redigere ad formam le actiones da parte di Appio Claudio sia consistito nel risolvere le sigle delle actiones in serie di parole compiute, come il D'Ippolito ritiene, sembra escluso dal valore dell'espressione[138]. D'altra parte, anche ammesso che Appio Claudio abbia avuto a che fare con le sigle pontificali delle actiones, bisognerebbe che da qualcuna di quelle che conosciamo risultasse positivamente traccia del rotacismo. Ciò, come vedremo[139], può provarsi per le actiones, ma non per le loro sigle. Inoltre, perché ritenere che Appio Claudio dovesse rinvenire  nell'antico materiale pontificale impieghi della R testimonianti  l'uso nuovo e non piuttosto impieghi della S testimonianti l'uso precedente?

     Dubbia, è, infine, soprattutto, nella tesi del D'Ippolito, a parte la sua base , costituita dall'idea del Mommsen della derivazione delle Notae iuris di Probo dal ius Flavianum, ora sottoposta a critica da parte dell'Albanese[140], la riduzione del 'de usurpationibus' alla raccolta delle actiones[141], della quale non si vede, tra l'altro, perché avrebbe dovuto costituire una seconda edizione, posto che la sua pubblicazione era già avvenuta ad opera di Gneo Flavio.

     A questa critica si sottrae il Paricio[142] per il quale Appio Claudio scrisse due opere. Se, come vedremo, questo rilievo è fondato[143], non è, tuttavia, da condividere l' idea di questo studioso che Appio Claudio abbia cominciato, nel liber de usurpationibus, con il pubblicare una collezione di formule negoziali di uso corrente, per portare a compimento il suo attacco al monopolio pontificale con la pubblicazione del repertorio delle azioni processuali. E, infatti, è proprio il presupposto sul quale il Paricio fonda la sua ipotesi[144], che, cioè, l' actio al tempo di Appio Claudio abbia potuto ricomprendere le formule negoziali, a rendere impossibile la distinzione tra le due opere nei termini in cui il Paricio se la rappresenta. La ragione del fatto che Appio Claudio scrisse due opere distinte va cercata, come vedremo, in altro ordine di idee.

     Per comprenderla, deve dirsi, infine, che non aiuta la troppo generica determinazione ultimamente tentata dal Magdelain[145], che, muovendo dalla identificazione della usurpatio  con l'usus frequens, si limita ad affermare che Appio Claudio avrebbe commentato nel 'De usurpationibus', opera comunque distinta dalla raccolta delle actiones, le espressioni giuridiche usuali, ma oscure alla massa.

 

     14. Come si vede, quel che viene in discussione è non solo il contenuto dell'opera di Appio Claudio relativa alle 'usurpationes', ma anche la sua indipendenza dalla raccolta di actiones menzionata in D. 1.2.2.7 e, in connessione, l'eventuale richiamo che ad essa si debba scorgere all'inizio di D. 1.2.2.36.

     Noi dobbiamo affrontare tali questioni e tentarne una soluzione coerente con le conclusioni raggiunte nella prima parte di questa ricerca e con la prospettiva che esse hanno aperto.

     La  via da battere è segnata dal significato di 'usurpatio' equivalente a 'usus frequens', indicato da D. 41.3.2. Qui Paolo l'attribuisce al linguaggio degli oratori, un'impiego di per sé di un certo interesse, posto che Appio Claudio era anche oratore[146]. Ma il riferimento di Paolo non è esatto, perché, a parte quel che osserveremo circa la qualifica (frequens) dell'usus, nelle fonti giuridiche non mancano testimonianze di applicazioni nel significato di 'usus frequens'[147].  

     A questo significato si connettono impieghi abbastanza risalenti di 'usurpare', testimoniati almeno già in Plauto  ed Ennio[148]. Qualunque opinione si voglia nutrire sul significato originario (e il valore equivalente ad 'interruzione dell'uso' potrebbe essere quello etimologico[149]), si deve, dunque, ammettere che Appio Claudio abbia potuto conoscere ed applicare 'usurpatio' con un valore più o meno corrispondente al secondo significato testimoniato da D 413.2.

     Qui occorre offrire un sintetico quadro di testimonianze concernenti applicazioni di 'usurpatio', 'usurpare' aventi tale valore 

 

      a)  Si può muovere da quelle che connettono a questi termini 'mos' e 'consuetudo'. Così , ad es.,

 

           Liv. 3.38.8 … ut eum morem, si non semper, crebro tamen usurpant

 

           Val. Max. 2.3.1 …hanc diutina usurpatione firmatam consuetudinem

 

           Plin. ep. 10.116 …longa consuetudo usurpata contra legem[150]

 

     Liv. 3.38.8 mette in rilievo la frequenza (crebro) di un uso di un mos. Questo uso è un usurpare. Val. Max. 2.3.1 consente di scorgere l'operare dell' usurpare, come uso frequente (qui diutina usurpatio), nella formazione della consuetudine. Plin. ep. 10.116 consente di scorgere l'operare dell' usurpare, come uso frequente di una consuetudine (qui longa consuetudo usurpata) contro la legge. La connotazione della frequenza dell'uso è, come si vede, sempre presente, ma, piuttosto che essere implicita negli stesso termini  'usurpare','usurpatio', è evidenziata da un avverbio che qualifica usurpare (crebro, in Liv. 3.38.8) o da un aggettivo che qualifica la stessa usurpatio (diutina: Val. Max. 2.3.1) o il fenomeno cui l' usurpare  è riferito (longa consuetudo: Plin. ep. 10.116). Ciò rende conto del fatto che 'usurpatio', 'usurpare' possono essere impiegati per indicare l'uso come tale[151]. E, in effetti, finiscono per identificarsi con 'usus', 'uti'[152]. Come vedremo fra poco, si tratta di un valore assai risalente, tanto da essere presente anche fra le testimonianze più antiche a noi pervenute.

         

     b) Un particolare rilievo, tra le diverse pratiche adoperate, ha l'uso nella lingua. E' perciò che i termini 'usurpatio', 'usurpare' sono impiegati spesso per indicare l'uso di un fonema o di una lettera, di un nome, di una parola, di una espressione. Così, ad es., in

 

        Fest. 222,6  Orcum quem dicimus, ait Verrius ab antiquis dictum Ur[a]gum, quod et 'u' litterae sonum per 'o' offerebant et per 'c' litterae formam nihilominus ‘g’ usurpabant.

                        

        Plaut. Cist.  505 …inter novam rem verbum usurpatur vetus…

 

        Enn. Scen. 156 (Vahlen, 144) …quid hoc hic clamoris, quid tumulti est? Nomen qui usurpat meum?

 

        Vell. 1.5.3 …saepe illud usurpat (Homerus) oioi nun brotoi eisin 

 

        Gell. N. A.12.10.1 ‘Aeditimus’ verbum Latinum est et vetus, ea forma dictum qua ‘finitimus’ et ‘legitimus’. 2. Sed pro eo a plerisque nunc ’aedituus’ dicitur nova et commenticia usurpatione quasi a tuendis aedibus appellatus.   

 

     Se negli ultimi due testi, ‘usurpare’, ‘usurpatio’ si riferiscono ad un uso frequente (saepe: Vell. 1.5.3; a plerisque: Gell. N. A. 12.10.2) e ciò si può ritenenere che risulti implicitamente per ‘usurpare’ nel primo, nel secondo e nel terzo, che recano ‘usurpare’, questo carattere dell'uso non rileva specificamente, segno della possibilità, più su segnalata, che i termini in discorso siano stati impiegati, anche in testimonianze risalenti, per denotare l'uso come tale.

        

     c) Particolare interesse rivestono le testimonianze di impieghi di 'usurpare' per indicare l'uso di parole, quando si tratti di linguaggio tecnico. Così, nella lingua religiosa o giuridico religiosa, ad es., in

 

        Fest. 462,2 L. …Sispitem Iunonem, quam vulgo  sospitem appellant, antiqui usurpabant, cum ea vox Graeco videtur sumta, quod est sozein   

 

        Fest. 160,14 L. Nectere ligare significat, et est apud plurumus auctores frequens; quin etiam in commentario sacrorum usurpatur hoc modo: 'Pontifex minor ex stramentis napuras nectito', id est funiculos facito, quibus sues adnectantur 

 

     In quest' ultima testimonianza, più su già riportata, appare evidente come all'uso frequente si connetta un uso tecnico indicato, come abbiamo rilevato[153], in una prescrizione, qui contenuta 'in commentario sacrorum'. L'uso tecnico può appartenere al linguaggio giuridico, come, ad es., in

 

        Cic. de leg. 1.56 Praeclare iam nunc a te verba usurpantur iuris civilis et legum…[154]

 

        Fest. 462,29 L. …Spondere ante ponebatur pro dicere, unde et respondere adh<uc manet, sed postea> usurpari coeptum est d<e promissu ex interrogatione> alterius.

 

     Tra i testi riportati alcuni sono particolarmente importanti perché rinviano ad una antichità alta (così, oltre quello di Plauto e quello di Ennio, già evidenziati, probabilmente anche quelli di Festo, in ragione della loro derivazione). Ne risulta confermata, come si è accennato, la possibilità che Appio Claudio abbia conosciuto il termine 'usurpatio' nel significato equivalente ad  'usus' con una connotazione se non implicita, tuttavia normale, di frequenza, e, perciò, quale 'usus frequens'. Tale significato, come si desume dai testi di Festo e da quello di Cicerone, riguarda specificamente l'uso di espressioni tecniche e, particolarmente, tecnico giuridiche. Si apre, quindi, la possibilità di verificare se in questa prospettiva debba determinarsi il contenuto dell'opera di Appio Claudio de usurpationibus ricordata dalla prima parte di D. 1.2.2.36.

 

     15. Se ci chiediamo a cosa si dovesse riferire questo uso, potremo trovare una risposta nello stesso passo. L'uso doveva riguardare le actiones, delle quali qui si parla. Le actiones, infatti (redactae ad formam da Appio Claudio secondo D. 1.2.2.7) sono schemi rituali costituiti da parole accompagnate eventualmente da gesti, appartenenti ad  un linguaggio tecnico.

     Ma, se il senso del discorso è, nel complesso, facilmente percepibile, riesce più difficile raccordarlo con la forma impiegata in D.1.2.2.36 per esprimerlo. Certo, che si sia detto, come ora si legge, che Appio Claudio, secondo la tradizione, ha scritto per primo le actiones de usurpationibus, potrebbe accettarsi ove si ammettesse che la preposizione 'de' sia usata nel senso di 'quanto a', 'riguardo a',  per significare che il tema delle actiones è stato considerato nell'aspetto del loro uso. E ciò potrebbe apparire tanto più probabile se 'de usurpationibus' abbia rappresentato una sorta di sottotitolo[155]dell’opera intitolata ‘actiones’.

     Ciò è possibile, ma ne deriverebbe una indicazione solo mediata del contenuto dell'opera. Se si voglia ritenere che il contenuto dovesse essere indicato immediatamente, sì da potere costituire il titolo del libro e che , quindi, Appio Claudio abbia scritto un'opera intitolata 'de usurpationibus actionum', occorre correggere actiones, ipotizzando, come è stato proposto, sia pure in vista di altra tesi, dal D'Ippolito, che la lezione attuale 'actiones' derivi dalla erronea trascrizione, da parte dell'amanuense, di un originario actionum con 'm' compendiato, sicché 'actionuscripsisse' avrà dato luogo ad 'actiones scripsisse'[156]. La costruzione, è vero, potrebbe lasciare a desiderare, perché sarebbe preferibile un collegamento diretto del tema con la sua specificazione. Ma, in fondo, deve riconoscersi che l'ipotesi è compatibile con lo stile di tutto il frammento del l. sing. enciridii, che contiene ben altre singolarità. La costruzione non presterebbe, invece, il fianco ad alcuna critica se, accettando l'ipotesi del Huschke[157], si dovesse sostituire a 'primum', nonostante le ragioni che fanno propendere per il suo mantenimento, 'librum'. Il testo che ne risulterebbe (Hunc enim actionum scripsisse traditum est <librum> [primum] de usurpationibus, qui liber non extat) attribuirebbe ad Appio Claudio la paternità di un liber actionum, riguardante particolarmente l'aspetto del loro uso.

      Del resto, potrebbe anche accettarsi la proposta, sostenuta seguendo una più antica tendenza dal Sanio[158], secondo cui la prima parte di D. 1.2.2.36 andrebbe letta con la semplice integrazione di un 'et' prima di 'de usurpationibus' (Hunc enim actiones scripsisse traditum est primum <et> de usurpationibus), purchè ad 'et' si dia il valore di 'anche'[159]. Il testo direbbe che, secondo la tradizione, Appio Claudio ha scritto actiones per primo anche riguardo al loro uso.

     In questo ordine di idee potrebbe essere presa in considerazione pure la proposta del Bauman[160], che inserisce 'et' tra 'est' e  'primum', in tal modo spiegandone meglio la caduta dopo 'est' (Hunc enim actiones scripsisse traditum est <et> primum de usurpationibus). Così restituito il testo ricorderebbe anche la raccolta delle actiones  e il riferimento del 'de usurpationibus ' alle 'actiones' sarebbe implicito. Il senso del testo sarebbe che, secondo la tradizione, Appio Claudio ha scritto actiones e per primo riguardo al loro uso. Nè farebbe difficoltà il fatto che solo della seconda opera si aggiunga che 'non extat'[161], perché, come vedremo[162], è possibile ritenere che il ius Flavianum sia sopravvissuto al tempo della composizione del liber sing. enchiridii.      

 

     16. Ogni dubbio, se non sull'esatto titolo dell'opera di Appio Claudio qui discussa, sul suo contenuto, scompare alla luce del secondo periodo di D. 1.2.2.36, che occorre ora studiare. Esso non va affatto tralasciato, quasi che ricordi un aspetto totalmente separato della multiforme attività di Appio Claudio, ma va letto in connessione con la notizia della produzione di un'opera rigurdante l'uso delle actiones.

     Questa connessione potrebbe risultare già dalla parola iniziale, se, in luogo della lezione attuale 'Idem', si dovesse leggere, come pure si propose in un lontano passato, 'Item'[163]. Ma, anche se l'ipotesi si debba scartare, la connessione risulta dal seguito del discorso. In esso si informa che Appio Claudio, proprio muovendo da qualcosa di cui si è detto in precedenza, ha proceduto (ab hoc processisse) in maniera da trovare la lettera R (R litteram invenit) con il risultato per cui Valerii dovesse sostituire Valesii e Furii dovesse sostituire Fusii[164].

     La notizia riguarda, come è noto, il fenomeno del rotacismo[165]ed è resa assolutamente credibile dalla testimonianza di un altro intervento di Appio Claudio sul terreno della fonetica[166], ma non è generalmente messa in rapporto, come invece ha giustamente proposto il D'Ippolito[167], con il lavoro svolto da Appio Claudio come autore dell'opera che per noi riguarda l'uso delle azioni. Tale relazione potrebbe essere confermata dal termine 'usurpatioί che si legge, come abbiamo visto[168], nel manoscritto della littera florentina, se esso costituisce un glossema e si ritenga che sia stato scritto a chiarimento di 'hoc'.

     Quel che va più precisamente determinato è il procedimento seguito da Appio Claudio nel suo punto di partenza, nel suo corso, nel suo esito.

     Un rilievo anzitutto va fatto: è da escludere che Appio Claudio abbia inventato, in certe parole, il suono corrispondente alla R. Egli deve averlo riscontrato nella pronunzia diffusa nella comunità dei parlanti, che, come abbiamo rilevato, in quanto uso di un fonema, costituisce essa stessa un usurpare[169]. Il fenomeno del rotacismo ha cominciato a manifestarsi, infatti, in certe parole, qualche tempo prima dell'età in cui Appio Claudio operò[170].

     Ora, poiché il fenomeno interessò, come subito vedremo, alcune parole appartenenti al lessico giuridico e, particolarmente, al lessico delle actiones, Appio Claudio, rilevata per esse la nuova pronunzia diffusa nell'uso comune, si trovò a dover risolvere il problema se dovesse tener conto del mutamento fonetico a fronte della antica forma grafica che esse presentavano nelle formule della raccolta pubblicata da Gneo Flavio e nelle prescrizioni con cui occorreva accompagnarle per indirizzare il loro impiego.

     La soluzione di tale problema aveva gravi implicazioni. Non si trattava semplicemente di una questione di comprensione dei termini impiegati, alla quale solo erano esposte le prescrizioni, ma anche della più grave questione, alla quale erano esposte le formule, della validità degli atti che comportassero la loro pronunzia, dato che essa doveva essere assolutamente corretta.

     Appio Claudio dovette affrontare tale problema, nella consapevolezza delle sue implicazioni, appunto nell'opera de usurpationibus, in cui si occupò dell' uso delle actiones e, in questo quadro, necessariamente anche della pronunzia (essa stessa una usurpatio) delle parole che le componevano. E' perciò che in D.1.2.2.36 si dice che Appio Claudio 'ab hoc processisse' con riferimento a quell'opera, che riguardava questo uso, della quale il testo dà notizia proprio nelle parole precedenti.

     Se il punto di partenza è così chiarito, è chiarito anche perché in D.1.2.2.36 si dica che Appio Claudio rinvenne la lettera R. Ciò avvenne nel corso dell'opera, quando ebbe a verificare, al di sotto del segno grafico S, scritto nelle formule e nelle prescrizioni antiche, il suono e trovò che al segno corrispondeva il nuovo suono R.

      Appio Claudio operò in conseguenza una scelta innovativa sostituendo il segno grafico R al segno grafico S. Questo esito del suo procedere assicurava la comprensione delle prescrizioni e, quel che più contava, sanzionava la validità della pronunzia delle formule secondo il moderno fonema. Si trattava, ancora una volta, di un intervento contrario al conservatorismo pontificale.

    

     17. Una generica conferma di ciò può trovarsi nella parte iniziale della testimonianza, più su riportata[171], di Cic. pro Mur. 11.25, ove è indicata la esigua portata dei problemi della scienza del ius civile, come limitata alla determinazione di singole lettere e alle interpunzioni tra le parole[172]. E' probabile che Cicerone si riferisse anche, se non esclusivamente, al problema risolto da Appio Claudio.

      Ma quel che più conta è la conferma specifica che può essere fornita in numerosi casi, nei quali si può dimostrare che la sostituzione del segno grafico R al segno grafico S è avvenuta in parole attinenti al lessico giuridico e, specificamente, al lessico delle actiones.

       Un caso è costituito dalla prescrizione 'Si negat sacramento quaerito', la cui sigla S.N.S.Q. Prob. 4.5 dice trovarsi fra le legis actiones. E' comune insegnamento dei linguisti, infatti, che il rotacismo ha riguardato il verbo quaero[173] come provano

 

     Fest. 312,7 Quaeso , ut significat idem quod rogo, ita quaesere ponitur ab antiquis pro quaerere, ut est apud Ennium lib. II (Ann.144 s. Vahlen): 'Ostia munita est; idem loca navibus pulchris munda facit, nautisque mari quasentibus vitam'; et in Cresphonte (scen.129 Vahlen): ' ducit me uxorem liberorum sibi quaesendum gratia';et in Andromeda  (scen. 120 Vahlen): ' liberum quaesendum causa familiae matrem tuae' [174]

 

       Un altro caso è costituito dal formulario dell' actio de arboribus succisis, che Gai 4.11 ricorda come appartenente alle legis actiones, evidenziando la necessaria pronunzia del termine 'arbores', per mettere in luce la rigidità del formalismo antico. Ma, appunto 'arbor' ha sostituito un originario 'arbos', come ricorda

 

        Fest. Paul. 14,9 (cfr. 280,9) Arbosem pro arbore antiqui dicebant et robosem pro robore

 

       Un altro caso ancora è costituito, con ogni verosimiglianza, dal formulario della legis actio per pignoris capionem, se, come sembra doversi ritenere, in esso rientrava la pronunzia della parola ‘pignus’, poiché anch’essa è stata soggetta al mutamento del suono e del segno grafico dovuto al rotacismo, come testimonia

 

          Fest. 232,21 Pignosa, pignora, eo modo, quo Valesii, Auselii,[pinosi, palisi] dicebantur

 

ove la presentazione del primo esempio (Valesii) potrebbe non essere casuale, poiché esso corrisponde al primo esempio di D. 1.2.2.36.

      Ma, d'altra parte, il rotacismo ha interessato anche il verbo dare, come è attestato da

 

          Fest. Paul. 60, 9  Dasi, dari.

 

       Che qui il mutamento fonetico sia riferito alla forma passiva può essere spiegato in ragione della risalenza delle testimonianze in cui doveva leggersi nella espressione più antica. Ma è, appunto, noto che 'dari' e non 'dare' era termine usato nell'atto dello star garante rappresentato dalla sponsio e, probabilmente, in origine, nella stessa stipulatio. Ciò posto, si può ritenere che, tanto in questi atti, che costituiscono bene actiones[175], che nella legis actio per iudicis postulationem[176], dovesse originariamente comparire l'espressione pù antica 'dasi', poi sostituita da 'dari'.     

      Ancora più importante è il caso costituito da tutti quei formulari nei quali trova impiego il termine ius, là dove, nella declinazione, ‘r’ ha sostituito ‘s’. Finanche questo termine è stato interessato dal fenomeno del rotacismo[177], come assicura

 

           Fest. Paul. L. 92,3 Iusa iura

 

E ne risulta che nello stesso fenomeno deve essere stato coinvolto il termine opposto, ossia iniuria[178].

     Perciò il mutamento dovuto al rotacismo deve avere riguardato tutti i formulari nei quali si riscontra l’espressione ‘ex iure quiritium’, che accompagna l’ affermazione dell' appartenenza di cose o dell’esistenza di una potestà, ivi compresa la libertas (come si desume da Prob. Einsidl. 31 M.M.P. manu mancipio potestate e 32 E.I.Q. ex iure quiritium e, per la libertas, da Cic. pro Caec. 33. 96 e Gai 1.35). Si tratta dei formulari che rientrano nella legis actio sacramento in rem, nella mancipatio, nella in iure cessio, nella manumissio vindicta e nei negozi derivati da questi atti o che nella loro struttura li implicano (mancipatio familiae-testamentum per aes et libram; legis actio costitutiva del consortium tra extranei, adoptio, emancipatio). E deve aver riguardato pure, almeno, la formula Q.I.I.T.C.P.A.F.A. Quando in iure te conspicio postulo anne fias auctor (Prob. 4.7) e la formula ‘quando ti iniuria vindicavisti sacramento te provoco’ della legis actio sacramento in rem.

      In conclusione, sia riguardo a tutte queste formule contenenti impieghi dei termini ius e iniuria , che riguardo alla prescrizione ‘Si negat sacramento quaerito’, contenente il termine quaerito; alle formule delle legis actio in personam de arboribus succisis, contenente il termine arbor; alla legis actio per pignoris capionem, contenente il termine pignus; alla sponsio, alla stipulatio e alla legis actio per iudicis postulationem, contenenti il termine dari, Appio Claudio deve essere ritenuto l’autore delle nuove forme grafiche registranti l’avvenuto rotacismo. Poiché era diretta a render possibile l’uso delle prescrizioni e delle actiones, si comprende bene come l’innovazione debba essere stata apportata proprio nell’opera 'de usurpationibus' che riguardava tale uso.

 

     18. Una definitiva conferma che l’opera ‘de usurpationibus’ avesse a che fare con l'uso dei formulari si può scorgere in una testimonianza ciceroniana, che è stata finora del tutto trascurata o non convenientemente utilizzata[179] per la ricostruzione dell'attività in campo giuridico di Appio Claudio, giacché non è stata finora intesa pienamente nella sua forza espressiva. Si tratta di

 

        Cic. pro Caec. 19.54  A c t i o  est in actorem presentem his verbis: 'Quandoque in iure te conspicio'. H a c  a c t i o n e  Appius  i l l e  Caecus  u t i  non posset, si ita  i n  i u r e  homines verba consectarentur, ut rem, cuius causa verba sunt, non considerarent. 

 

      Cicerone parla qui della possibilità di estendere l'interpretazione di un testo giuridico al di là della sua dizione letterale. Tra gli altri esempi Cicerone reca quello della formula dell'actio 'Quandoque in iure te conspicio', che Probo, nelle Notae iuris, riferisce, tra le legis actiones[180], con una minima differenza iniziale e in maniera completa, con la relativa sigla[181].

     Nell'interpretazione del passo occorre sottolineare l'impiego, da parte di Cicerone, di ius, nel senso di formula[182]. I verba ai quali ci si potrebbe attaccare (homines verba consectarentur) in iure sono quelli della formula[183]. Ma, più ancora, occorre fermare l'attenzione sull'espressione 'actione uti'. Si tratta di un 'servirsi dell'actio', in quanto formula rituale, ius, nel senso individuato. E, certo, dato che essa presuppone un 'conspicere', un uomo come Appio Claudio, perchè cieco, non avrebbe potuto servirsene, se un testo giuridico consentisse solo un' interpretazione meramente letterale. Ma perché, c'è da chiedersi, Cicerone non parla, in genere, di un cieco, ma proprio di Appio Claudio? 'Ille' sembra indicare qui non 'il famoso' Appio Claudio, ma 'proprio lui'[184]. La ragione del richiamo che Cicerone fa proprio della figura di Appio Claudio sembra evidente. Poiché il discorso è relativo alla possibilità di 'actione uti' tale richiamo è dovuto - e in ciò sta tutta la sua arguzia - al fatto che Appio Claudio è colui che, nell' opera in cui si occupava delle usurpationes delle actiones, ha fornito istruzioni circa l'uso delle actiones e, per di più, circa l’uso, in particolare, dell’actio in actorem praesentem ‘Quando in iure te conspicio, postulo anne far auctor’, in ragione del rotacismo del termine ‘iure’ più su rilevato[185]. Sarebbe paradossale che egli proprio si trovasse a non potere usare le actiones e specialmente quella del cui uso deve essersi occupato particolarmente.

    Ciò presuppone che Cicerone fosse al corrente del contenuto del 'de usurpationibus'. L' actio verso l' auctor  è, come abbiamo visto, ricordata, attraverso la sigla, da Probo (4.4) nel quadro delle legis actiones e nello stesso contesto Probo (4.7) richiama, attraverso la sigla, l' istruzione 'Si negat sacramento quaerito', che doveva esser presente, come abbiamo mostrato, nel 'de usurpationibus'. Come il ius Flavianum'[186], il 'de usurpationibus' doveva essere perciò esistente, o, quanto meno essere conosciuto, ancora nel I sec. d. Cr., età dell'opera di Probo. Cicerone doveva esserne, quindi, in qualche modo al corrente. La scomparsa del libro è attestata per il II sec. d. Cr., nell'età cui appartiene il frammento del l. sing. enchiridii. Ma anche l'autore di tale frammento era in qualche modo al corrente del suo contenuto, poiché dalla testimonianza di D. 1.2.2.36 emerge, come abbiamo mostrato, il significato delle usurpationes, alle quali il libro è riferito. Questa consapevolezza risulta, d'altra parte, anche dal modo in cui l'opera è rappresentata nel quadro della tradizione giuridica, in quanto l'autore è conosciuto probabilmente come il primo ad avere trattato della materia cui essa si riferisce.

     Del resto, al di là della generica possibilità così resa plausibile, un indizio positivo della conoscenza da parte di Cicerone del contenuto del 'de usurpationibus' si può cogliere nel già richiamato[187] passo della pro Murena (11.25)  nella rappresentazione dei problemi del ius civile come riguardanti, anche semplicemete, singole lettere, il che vale, in particolare, per l’actio in actorem praesentem richiamata nel passo della pro Caecina (19.54).

 

     19. Ora, che abbiamo mostrato il contenuto dell'opera che D. 1.2.2.36 attribuisce ad Appio Claudio, già delineato indiziariamente a conclusione della prima parte della nostra ricerca, possiamo ritenere certo che essa non va affatto confusa con l'opera, ricordata  sotto il suo stesso nome, da D 1.2.2.7[188]. Questa fu una mera raccolta dei formulari (e perciò D. 1.2.2.7 parla semplicemente di actiones); quella, invece, composta dopo, per rendere compiuta l'iniziativa assunta con la prima, riguardò l'uso dei formulari, e perciò, D.1.2.2.36 può averla ricordata sotto lo specifico titolo 'de usurpationibus actionum' o sotto il titolo 'actiones' e il sottotitolo 'de usurpationibus'[189].

     Del resto, che si tratti di opere distinte poteva risultare già da altri rilievi esterni alle stesse opere. Essi riguardano, da un lato, le vicende della pubblicazione, dall'altro la loro sorte.

     Quanto alle vicende della pubblicazione va osservato che se ne parla, in D. 1.2.2.7, solo in rapporto alla prima, ricordando che fu pubblicata da Gneo Flavio. Nulla si dice , invece, al riguardo, per la seconda, in D. 1.2.2.36. Ciò si comprende bene, poiché solo la pubblicazione della prima doveva essere ricordata come primo atto di rivelazione del segreto pontificale. Una volta svelato tale segreto, la pubblicazione della seconda, ancorchè essa avesse un certo contenuto eversivo, non poteva destare lo stesso clamore. Ciò è confermato dalla considerazione dei destinatari. Il libro delle actiones  è dato da Gneo Flavio al popolo, mentre esistono buone ragioni per supporre, come abbiamo visto, che il libro concernente le usurpationes delle actiones, anche se destinato a servire gli interessi della comunità, era indirizzato ai tecnici del diritto.

     Quanto alla sorte delle due opere, solo del libro ‘de usurpationibus’ si dice, in D. 1.2.2.36, che 'non extat'. Del ius Flavianum D. 1.2.2.7 non dice esplicitamente nulla circa la sua scomparsa, anzi, nel precisare, al presente, che il libro 'actiones continet', consente di credere che esso circolasse ancora nel II sec. d.Cr., epoca cui appartiene il l. sing. enchiridii[190]. Così si può spiegare il fatto che solo della notizia della seconda si dice che è dovuta alla tradizione (D. 1.2.2.36: hunc etiam actiones scripsisse traditum est primum de usurpationibus).

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     20. L' idea che ci siamo fatta del contenuto dell'opera concernente le usurpationes delle actiones pone il dato tradizionale circa la sua appartenenza ad Appio Claudio al riparo dalla critica nascente dal rilievo della impossibilità che il primo scritto della giurisprudenza romana abbia potuto riguardare un oggetto troppo limitato. Sebbene si debba supporre che l'opera contenesse una trattazione specificamente concernente il tema dell'impiego dei formulari, pure esso aveva una vastissima portata[191].

     Ciò è tanto vero che la giurisprudenza successiva continuò ad elaborarlo in una serie di opere, che, nell'assumere ad oggetto le actiones, mostrano come questo riferimento tematico sia l'elemento caratterizzante la prima fase della giurisprudenza laica[192].

     In questa prospettiva viene meno l'ultima ragione di dubbio circa la bontà della notizia fornita da D. 1.2.2.36, dovuta al fatto che Appio Claudio è indicato come il primo giurista al quale potrebbe attribuirsi, in alternativa al merito di avere prodotto la prima opera scritta, il merito di avere trattato dell’uso delle azioni. C'è solo da render conto del perché le opere successive vengano intitolate o riferite alle actiones, senza che il profilo del relativo uso, tuttavia presente nella trattazione[193], venga comunque evidenziato. Ma la soluzione del problema risulta agevole, se appena si ricordi come il monopolio pontificale imponesse ad Appio Claudio i tempi della sua iniziativa, che dovette svilupparsi gradualmente e, nella prima opera, la raccolta delle actiones, solo  mediante la collaborazione di Gneo Flavio, laddove soltanto con la seconda, compiuta da solo, l'obiettivo che egli si era proposto si può dire compiutamente realizzato. Quando, successivamente, i giuristi, sulla scia di Appio Claudio, continuarono a trattare delle actiones, poterono assumere questo a referente unico delle loro opere, giacchè il problema del rendere di dominio pubblico le actiones era superato e, invece, come risulta già dal ius Aelianum[194], era sorto un altro problema, che era quello della escogitazione di moduli nuovi o della trasformazione degli antichi, che finì col sopravanzare quello del loro impiego, oltre che il problema, che finì per divenire prevalente, della determinazione del fondamento sostanziale delle actiones.

 

 

     21. Se ci richiamiamo alla tesi, che anche in questo lavoro, abbiamo voluto trattare, della esistenza, al tempo di Appio Claudio, della  concezione strumentalistica del ius, possiamo dire che essa è dimostrata dalle sue due opere, quella che contenne la raccolta delle actiones e, ancora più specificamente, quella che trattò del loro uso.

      Per rendere più compiutamente conto del fatto che esse richiamano la concezione strumentalistica del diritto, è utile, a conclusione del discorso, dare un sintetico quadro delle opere successivamente dedicate dalla giurisprudenza alle actiones, riservandoci di sottoporle ad un esame particolare nel corso delle ulteriori ricerche che abbiamo in animo di condurre sulle manifestazioni di tale concezione in età repubblicana[195].

     A tale quadro appartengono anzitutto le opere di Sesto Elio. Non solo, dunque, il ius Aelianum, che è un liber actionum[196], ma anche i Tripertita (che non si identificano con il ius Aelianum[197]), nei quali la considerazione delle leges XII  tabularum  sfocia, attraverso la interpretatio, nella determinazione dell' actio[198].

     Analogo contenuto hanno le Manili actiones, circa le quali è rimasta esplicita traccia del fatto che riguardavano l'uso delle actiones[199]; e i formulari contenuti nel De agricultura di Catone, qualunque sia il rapporto con l’opera di Catone[200]; per non parlare delle Hostilianae actiones[201] e delle actiones di Cosconio[202]. Di tutte è rimasto il ricordo complessivo in Cic. de orat.1.42.193; 1.58.246, che le designa come studia Aeliana[203]. Ma si tratta di un genere coltivato diffusamente e con approfondimenti che vanno sempre più al di là del primitivo livello di cataloghi di formulari, anche alla fine della repubblica, come testimoniano i resti pervenuti dell’opera di Ofilio intitolata actiones[204] (ne sono indizi , in particolare, i nomi dati a certe formule per la paternità di certi giuristi, come Aquilio Gallo[205] e Cascellio[206]) e del quale esistono propaggini in  tutta l’età classica, come dimostrano i resti dei libri actionum, se non di Aburnio Valente[207], di Venuleio[208]e di Paolo[209]. Con tale tipo di trattazione deve avere avuto un certo collegamento anche l'opera di Varrone relativa al ius civile, della quale non è pervenuta alcuna notizia oltre quella dell'estensione in quindici libri, ma il cui contenuto deve avere avuto a che fare con le actiones, come si può indurre da altre testimonianze varroniane (v. tra le altre, quella, già citata, di de l.l. 5.163 (cfr. Fest. 322 L.) relativa alla mancipatio[210]) se non anche dalla derivazione da quest'opera delle notizie contenute nel frammento del liber sing. enchiridii e, fra queste, specialmente delle notizie riguardanti l'opera di Appio Claudio e di Gneo Flavio. Del resto, in generale, è nella prospettiva delle actiones che si sviluppa il sistema di Quinto Mucio e quello stesso di Sabino[211], né vanno dimenticate le forme nelle quali si risolve l'attività pratica della giurisprudenza repubblicana, delle quali il cavere e l'agere si identificano con la determinazione delle actiones negoziali e processuali, mentre anche il respondere può risolversi nella loro indicazione. Tutte le opere relative al ius civile concernono, in un primo tempo, le azioni e il loro uso. E la riprova è data dall'impiego, ricordato più su[212], di ’ius civile' per indicare un singolo rito, una singola azione o i relativi schemi.          

     Il fatto è che, come precedentemente[213], anche dopo l'età di Appio Claudio ius vale a significare, a lungo, fondamentalmente, il 'rito', lo  'schema rituale' o, più spesso, per una attenuazione del ritualismo, che ormai si è tradotto in formalismo, la  'formula d'azione' negoziale e processuale e,  quindi, le raccolte di formule d'azione e di prescrizioni relative al loro uso. In relazione a questo significato, come confidiamo di potere mostrare, la concezione strumentalistica del diritto continua a caratterizzare l'esperienza giuridica romana e la visuale che ne hanno i giuristi fino alla fine dell'età repubblicana. Qui ci riteniamo paghi di avere mostrato che ad essa si ispirarono le opere del primo giurista laico.  

 

 

                                                

 

 

 

       

                                                                           Studia Aeliana.

 

 

 

     Degli studia Aeliana parlava probabilmente Cic. de orat. 1.43.193. Conviene avvertire che il passo è vicino a quello della stessa opera (1.42.186), sul quale ci siamo soffermati, che fornisce la notizia della pubblicazione da parte di Gneo Flavio delle actiones, rientrando nella stessa argomentazione, mediante la quale Cicerone intende dimostrare, nel discorso che fa pronunziare a Crasso, a partire dal § 185, che nessuna scienza è facile da apprendere come il diritto. Così, per intendere pienamente il cenno agli studia Aeliana nel quadro di questa argomentazione, è necessario riportare, prima del § 193, almeno anche il § 192, non senza avere ricordato che il discorso si connette alla notazione precedente (§ 191) secondo cui, non essendo stata applicata al ius civile l’ars quae rem dissolutam divulsamque conglutinaret et ratione quandam contingeret, (§ 188: ad essa deve riferirsi il programma ciceroniano ‘de iure civili in artem redigendo), la situazione attuale del diritto appare caratterizzata dalla presenza di elementi dispersi, ma è tuttavia possibile, raccogliendoli qua e là, fornirsi di una sua sufficiente conoscenza.

      La ragione è chiarita in

      Cic de orat. 1.42.192 Omnia sunt enim posita ante oculos, conlocata in usu cotidiano, in congressione hominum    atque in foro, neque ita multis litteris aut voluminibus magnis continentur. Eadem enim elata sunt primum a pluribus; deinde paucis verbis commutatis etiam ab isdem scriptoribus scripta sunt saepius. 193. Accedit vero, quod minime plerique arbitrantur, mira quidem in cognoscendo suavitas ac delectatio. Nam sive quem  h a e c  A e l i a n a  s t u d i a delectant, plurima est et in omni iure civili et in pontificum libris et in XII Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum vetustas prisca cognoscitur et actionum genera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant;…

     Occorre dire che la lezione ‘haec Aeliana studia’ risulta dalle proposte, peraltro generalmente concordi, degli editori moderni. I codici recano, invece, ‘aliena’ e, quanto ad ‘haec’, il termine è presente nella tradizione dei codici integri e non nella tradizione dei codici mutili ed è noto che, se la prima è migliore, perché è diretta, a favore della seconda sta la presunzione della  maggiore correttezza, perché è la tradizione dei grammatici, dei critici del testo. Tuttavia ‘haec’ si deve conservare, come quasi unanimemente si ammette[214], perché, come vedremo, rappresenta un elemento di connessione tra il § 192 e il § 193, che consente una più piena comprensione del discorso. Quanto ad ‘aliena’, il termine va corretto, perché esso non dà alcun senso. Paolo Manuzio (nella edizione del 1554) proponeva di leggere ‘antiqua’, in connessione con la antiquitatis effigies di cui si parla nella proposizione seguente, ma gli editori moderni hanno concordemente preferito, a ragione, come pure avremo occasione di rilevare, la restituzione ‘Aeliana’.

     Tuttavia, secondo l’opinione prevalente, l’aggettivo richiamerebbe Lucio Elio Preconino Stilone, ricordato dallo stesso Cicerone, che lo aveva seguito nell’insegnamento da adolescente (Brut.56.207) come 'eruditissimus et Graecis litteris et Latinis, antiquitatis nostrae et in inventis rebus  et in actis scriptorumque veterum litterate peritus' (Brut. 56.205; v. anche Gell. N.A. 16.8.2).

     Per una identificazione con il giurista Sesto Elio si è schierato recentemente l’Albanese[215], che ha bene osservato che Elio Stilone non è citato nel de oratore prima di 1.43.193 ed è molto dubbio che lo sia dopo, in 1.62.265, ove i manoscritti hanno un ‘Laelio’ difficilmente restituibile in ‘L. Aelio’, con riferimento ad un personaggio mai citato in precedenza. Sesto Elio è citato, invece, nel de oratore, quattro volte: la prima, poco più in là (§ 186), nel famoso verso (egregie cordatus homo, catus Aelius Sextus) dedicatogli da Ennio; e poi in 1.48.212, come figura tipica di giurista, insieme a M.Manilio e P. Mucio; in 1.56.240, con cenno ai Sexti Aeli commentarii; e in 3.33.133, nel ricordo che ne avevano il padre e il suocero di Crasso.

     A favore della identificazione con il giurista Sesto Elio potrebbe, secondo l’Albanese, proporsi l’ipotesi che Cicerone, in 1.43.193, abbia potuto alludere ai Tripertita (ricordati in Pomp. l. sing. ench., D. 1.2.2.38) per la relazione che si potrebbe stabilire tra il riferimento ciceroniano a ‘omne ius civile’, ‘pontificum libri’ e ‘XII Tabulae’ e le prime due parti dell’opera di Sesto Elio (XII Tabulae e interpretatio) e tra il riferimento ciceroniano ai ‘genera actionum’ e la terza parte della stessa opera, riguardante, appunto, la legis actio.

     Peraltro, l’Albanese finisce con il preferire l’ipotesi che il termine ‘aliena’, che compare nei manoscritti, debba emendarsi in ‘antiqua’ per la concordanza con l’immediatamente successivo cenno ciceroniano alla ‘antiquitatis effigies’. E' , tuttavia, da osservare che, a parte la scarsa probabilità paleografica di uno scambio di ‘antiqua’ con ‘aliena’, ‘antiqua’ avrebbe un significato denotante piuttosto l’antichità degli studia che un contenuto antiquario degli stessi.

     La lezione ‘Aeliana’ ha, invece, un buon riscontro nelle citazioni, nel de oratore, di Sesto Elio, opportunamente evidenziate dall’Albanese, laddove, come si è visto, è carente il riferimento ad Elio Stilone. Più ancora, nello stesso senso depone il contenuto del discorso precedente.

     Quel che va precisato è la portata del riferimento a Sesto Elio. Che Cicerone, nel parlare di studia Aeliana, alludesse ai soli Tripertita, appare improbabile in ragione del plurale ‘studia’, che consentirebbe di ritenere che Cicerone pensasse anche al ius Aelianum, che va ritenuta opera distinta[216]. D’altra parte, le corrispondenze intraviste dall’Albanese tra il discorso di Cicerone e la struttura dei Tripertita non sussistono né nell’ordine dei riferimenti (poiché verrebbe prima la corripondenza a interpretatio e solo poi la corrispondenza alle XII tabulae) né nella logica del discorso, poiché ‘in omni iure civili’ e ‘pontificum libri’ indicano delle fonti e ‘actionum genera quaedam’un contenuto di quelle fonti.

     Per uscire da ogni difficoltà occorre considerare il discorso precedente. Qui, con riferimento alla situazione attuale del diritto, per giustificare l’asserita facilità della conoscenza del ius civile attraverso la raccolta, qua e là, dei dati dispersi (§ 191), nel dire, nel § 192, che ‘Omnia sunt enim posita ante oculos, conlocata in usu cotidiano, in congressione hominum atque in foro’, si fa evidente riferimento ai moduli di azione che appaiono nella pratica forense[217], non esclusi quelli negoziali[218], anzi, più concretamente, in relazione alla concezione strumentalistica del diritto, che sono oggetto dell’uso quotidiano. Così si spiega non solo il fatto che del diritto si dica che è contenuto in poche e ristrette opere, ma che si aggiunga, con riferimento agli stessi moduli di azione, che in un primo tempo sono stati resi pubblici da più persone e, quindi sono stati scritti dalle stesse persone sempre più frequentemente solo con la modifica di poche parole.

      Sono queste opere che, nel loro complesso, Cicerone richiama per dimostrare il godimento che può dare la conoscenza del ius civile. ‘Haec[219] Aeliana studia’ indica questo tipo di studi, che deve la sua denominazione al fatto che Sesto Elio ne è stato il più eminente autore. La radice è rappresentata dalla raccolta delle actiones di Gneo Flavio, come lo stesso Cicerone avverte poco più su, nel passo che abbiamo studiato (1.41.186 deinde, postea quam est editum <scil. ius> expositis a Cn. Flavio  p r i m u m  actionibus, nulli fuerunt qui illa artificiose digesta generatim componerent).Tra gli altri, ai quali si deve la pubblicazione delle azioni, v’è certamente, oltre Sesto Elio, con i Tripertita ed il ius Aelianum, M. Manilio, con la sua raccolta dei formulari negoziali di compravendita. Ciò risulta da quanto Cicerone dice in un successivo passo dello stesso de oratore. Si tratta di

       de orat. 1.58.246 …deinde , quod sit plena delectationis; in quo tibi remittunt istam voluptatem et ea se carere patiuntur; nec quisquam est eorum, qui, si iam sit ediscendum sibi aliquid, non Teucrum Pacuvi malit quam Manilianas venalium vendendorum leges ediscere..

     Il passo rappresenta la più diretta riprova della identificazione che abbiamo sostenuto degli studia Aeliana, perché fa parte dell’insieme delle risposte che Antonio oppone a Crasso. Dopo avere ricordato la caratterizzazione della figura del giurista, nel pensiero di Crasso, come ‘leguleius acutus, praeco actionum, cantor formularum, auceps syllabarum (1.55.236), Antonio, all’osservazione di Crasso che la scienza del diritto sarebbe piena di godimento, risponde, in questo punto, con una battuta: ‘sappi che tutti lasciano a te questo godimento e ne fanno volentieri a meno e non c’è nessuno che, se deve imparare qualcosa, non preferisca il Teucro di Pacuvio piuttosto che i formulari di Manilio relativi alla compravendita'. Agli Aeliana studia, che secondo Crasso sarebbero fonte di godimento, Antonio oppone quel che è solo un esempio, che deve essere bene di tali studi. Non a caso si tratta di formulari, che, e ciò è ancor più significativo, fanno parte di un’opera che probabilmente aveva per titolo, come abbiamo visto[220], Manili actiones.

     Gli studia Aeliana sono costituiti, quindi, da tutte quelle opere che hanno in comune il contenuto, costituito dalle actiones. Di esse ben a ragione si può dire, in genere, quel che Cicerone ha detto, prima di farvi specifico riferimento, che si tratta di opere, riflettenti un’esperienza giuridica che si concreta nell’uso forense, non numerose né di contenuto ampio, dirette in un primo tempo a far conoscere le actiones, quindi sempre più spesso scritte, ossia riscritte, financo dagli stessi loro autori, con la variazione di poche parole. Nel loro novero possono rientrare, almeno anche tutte quelle altre che, come abbiamo rilevato[221], sopravvivono come tracce di una letteratura giuridica, più abbondante dei residui che ci sono pervenuti, che è già apparsa alla dottrina[222]come caratteristica di questa fase della storia della giurisprudenza repubblicana.

     Così si spiega come Cicerone abbia rilevato che la antiquitatis effigies si può cogliere in esse, nella varietà delle sue manifestazioni (plurima), non solo nella verborum vetustas prisca, ma anche nella rappresentazione delle consuetudini e della vita degli antenati, che appaiono da actionum quaedam genera. Perciò tale antiquitatis effigies si trova in tutte le opere della giurisprudenza (in omni iure civili[223]), che sono fonte diretta delle actiones, e nei libri dei pontefici, che le conservavano[224], e nelle XII Tavole, da cui la giurisprudenza ha attinto.

      Se questa spiegazione degli studia Aeliana è vera, noi dobbiamo pensare che Cicerone disponesse di un quadro di conoscenze storiche sulla giurisprudenza repubblicana alquanto più vasto ed organico di quel che comunemente si ritiene. Tale quadro doveva costituire una sorta di premessa storica al programma de iure civili in artem redigendo, come indica il fatto che il frammento di tale opera che ci è pervenuto attraverso Gell. N. A. 1.22.7 contiene una notizia storica su un giurista repubblicano[225]. Non può essere, quindi, casuale il fatto che nel de oratore, ove si delineano le idee fondamentali dell'ars, il discorso di Cicerone sia intessuto di notazioni riguardanti la storia della giurisprudenza repubblicana. Le ragioni per ipotizzare che a Cicerone abbia potuto attingere l'autore del frammento del l. sing. enchiridii, sono, quindi, più ampie da quel che si è voluto ricavare da quel poco che si sa circa il contenuto del de iure civili in artem redigendo.

     Da tutto ciò, ai fini della nostra ricerca, si può ricavare un altro particolare risultato. Gli studia Aeliana, quali emergono dal quadro delle conoscenze storiche di Cicerone, possono rappresentarsi come uno sviluppo della tradizione che fa capo al liber actionum di Gneo Flavio. In essi doveva mantenersi il ricordo della pubblicazione delle actiones. Questo ricordo deve esser passato nel l. sing enchiridii attraverso Cicerone, che, come abbiamo detto[226], può essere considerato tra le sue fonti.

 



 


[1] V. già Potere ed azione nell'antico diritto romano, AUPA 30 (1967) 152 ss.; 451 ss.; Actio in diritto antico,  Poteri, negotia, actiones nella esperienza romana arcaica, Atti Copanello 1 (1982) 206; Sul ius Papirianum, Mél. A. Magdelain (1998) 399. Diversamente, nell'ultimo suo lavoro, A. Magdelain, De la royautè et du droit de Romulus à Sabinus (1995) 12; 67 ss., ritiene che ius abbia avuto alle origini il significato di 'formula' e abbia fondamentalmente mantenuto questo significato in età repubblicana, ma si trova a dover subito fare i conti con i valori testimoniati dalle lingue indoiraniane, evocanti l'idea della 'purezza', della 'salute'. Il tentativo di soluzione  del problema (p. 68: 'Le lien est à chercher dans les serments qui promettent salut et prospérité à celui qui dit vrai et malheur au parjure') non si discosta da quello operato da certi glottologi (v., tra i contributi meno risalenti, E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes 2. Pouvoir, droit, religion [1969] 111 ss.) che sostengono che ius si colleghi ad un significato equivalente a una formula esprimente la salute o una condizione ottimale; nello stesso senso si muove, ora, tra gli storici del diritto, Calore, 'Per Iovem Lapidem'. Alle origini del giuramento [2000] 146 s., per la determinazione del valore di iusiurandum come 'formula da formulare'; con richiamo a L. Ciferri, ' Iurisprudentia' : alcuni profili semantici, Ostraka 3, 2 [1994] 477 ). L'artificiosità di tale tentativo appare evidente, sol che si osservi che altro è la salute, come condizione ottimale di un soggetto, altro è la formula dalla cui pronunzia essa può farsi dipendere. Qualunque soluzione si voglia dare al problema del significato più antico (noi continuiamo a ritenere preferibile quella proposta in Potere ed azione, cit. 202 ss. e passim, per cui originariamente ius deve avere avuto il significato di 'forza rituale') per l'età repubblicana, che è quella che qui interessa, basta rilevare che il valore di 'formula'  è solo derivato da quello testimoniato in una nutritissima serie di testimonianze (della quale darò conto molto più ampio di quello, già largo,dato nei lavori su citati) di 'rito', che il Magdelain trascura. E tuttavia va sottolineato che la tesi del Magdelain conduce, come è intuibile, ad esiti importanti e per certi aspetti coincidenti con quelli indicati dal presente lavoro e, più in generale, dalla linea di ricerca nella quale stiamo operando in vista della ricostruzione dell'esperienza giuridica dell'età repubblicana.

[2] V. Sul Ius Papirianum, Mél. A. Magdelain (1998) cit., 399 ss.

[3] Sul ius civile Flavianum e, per connessione, sull'opera di Appio Claudio, v.* Danneberg, PWRE X, 1 (1918) 1215 ss. s.v. Ius  Flavianum (con lett.); F. Casavola, Noviss. Dig. It. 9 (1963) 380 s., s. v. Ius Flavianum (con lett.); adde Th.  Mommsen, Röm. Cronologie2 (1859) 31 e nt. 55; O. E. Hartmann, Der röm. Kalender (1882) 112 ss.; P. Jörs, Röm. Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik. (1888)72; H. Kreller, ZSS. 45 (1925) 600 ss.; Kaser, Das altröm.ius (1949) 78; L.Wenger, Die Quellen des röm. Rechts (1953) 479; R. Santoro, Potere ed azione, cit., 162; 171 s.;  Atti Copanello 1 (1982) cit., 206; F. Wieacker, Die Zwölftafeln in ihrem Jahrhundert, Fond. Hardt 13 (1967) 297 s.; Röm. Rechtsgesch. (1988) 524 ss.; P. Frezza, Corso di st. del dir. rom.(1968) 367 ss.; J. Vernacchia, Gneo Flavio, Archivio e cultura (1970) 35 ss. (non visto);  E. Ferenczy, Über das Ius Flavianum, St. Grosso 5 (1972) 181 ss. (con lett.) 184, ntt. 3-6); From patrician State to the patricio-plebeian State (1976) 189 s. (con lett. 200, nt. 64); G. Nocera, ''Iurisprudentia''. Per una storia del pensiero giuridico romano (1973) 80 ss.; C. Gioffredi, Nuovi studi di diritto greco e romano (1980) 179 ss.; J. G. Wolf , Die literarische berlieferung der Fasten und Legisactionen durch Gnaeus Flavius. Nachrihten der Ak. der Wissensch. in Göttingen. Phil.- Hist. Kl. (1980) 9 ss.; A. Guarino, Appio Claudio ' De usurpationibus' , Labeo 27 (1981) 10 s.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman Republican Politics. A Study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC (1983) 24 ss.; G. Mancuso, Praetoris edicta, AUPA 37 (1983) 334 ss.; F. D'Ippolito, Das ius Flavianum und die lex Ogulnia,  ZSS. 102 (1985) 51 ss.; Giuristi e sapienti in Roma arcaica (1986) 39 ss.; M. Talamanca, BIDR.. 99 (1986) 524 s.; M. Brutti, Lineamenti di storia del diritto romano 2 ed. (1989) 331; A. Schiavone, Scrittura e politica fra Appio Claudio e Sesto Elio, Sem. Complutenses de Derecho Romano I (1989) 26 ss. (= Pensiero giuridico e razionalità aristocratica, in A. Momigliano - A.Schiavone; Storia di Roma I 2 (1990) 418 ss.; J. Paricio, Sobre el ''De usurpationibus'' de Appio Claudio, SDHI  60 (1994) 633 ss.; B. Albanese, Le ''Notae iuris'' di Probo ed il ''ius Flavianum'', Iura 46 (1995; ma pubbl. 2000) 15 ss.; M. Humm,  Spazio e tempo civici: riforma delle tribù e riforma del calendario alla fine del IV secolo a. C., The Roman middle Republic. Politics, Religion, and Historiography. C. 400-133 B.C  (2000) 95 ss.       

[4] V. infra, § 4.

[5] Cfr. il contesto: 9.46.1 Eodem anno Cn. Flavius Cn. filius scriba, patre libertino humili fortuna hortus, ceterum callidus  vir et facundus, aedilis curulis fuit. 2 Invenio in quibusdam annalibus, cum appareret aedilibus fierique se pro tribu aedilem videret neque accipi nomen quia scriptum faceret, tabulam posuisse et iurasse se scriptum non facturum; 3 quem aliquanto ante desisse scriptum facere arguit Macer Licinius tribunatu ante gesto triumviratibusque, nocturno altero, altero coloniae deducendae. 4 Ceterum, id quod haud discrepat, contumacia adversus contemnentes humilitatem suam nobiles certavit; 5 ….; 6 aedem Concordiae in area Vulcani summa invidia nobilium dedicavit; coactusque consensu populi Cornelius Barbatus pontifex maximus verba praeire, cum more maiorum negaret nisi consulem aut imperatorem posse templum dedicare. 7 Itaque ex auctoritate senatus latum ad populum est ne quis templum aramve iniussu senatus aut tribunorum plebi partis maioris dedicaret. 8 Haud memorabilem rem per se, nisi documentum sit adversus superbiam nobilium plebeiae libertatis, referam. 9 Ad collegam aegrum visendi causa Flavius cum venisset consensuque nobilium adulescentium, qui ibi adsidebant, adsurrectum ei non esset, curulem adferri sellam eo iussit ac sede honoris sui anxios invidia inimicos spectavit. 10 Ceterum Flavium dixerat aedilem forensis factio, Ap. Claudi censura vires nacta, qui senatum primus libertinorum filius lectis inquinaverat et  11 posteaquam eam lectionem nemo ratam habuitt nec in curia adeptus erat quas petierat opes urbanas, humilibus pere omnes tribus divisis forum et campum corrupit; 12 tantumque Flavi comitia indignitatis habuerunt ut plerique nobilium anulos aureos et phaleras deponerent. 13 Ex eo tempore in duas partes discessit civitas; aliud integer populus, fautor et cultor bonorum, aliud forensis factio tenebat, 14 donec Q. Fabius et P. Decius censores facti et Fabius simul concordiae causa, simul se humillimorum in manu comitia essent, omnem forensem turbam excretam in quattuor tribus coniecit urbanasque eas appellavit. 

[6] Cfr. il seguito: qui cum ad visendum aegrum collegam suum veniret neque a nobilibus, quorum frequentia cubiculum erat completum, aedendi loco reciperetur, sellam curulem afferri iussit et in ea honoris pariter atque contemptus sui vindex consedit; inoltre, 9.3.3 Itaque ne illi quidem probandi, quamvis factum eorrum nobilitatis splendore protectum sit, qui, quod Cn. Flavius humillimae quondam sortis praeeturam adeptus erat, offensi anulos aureos sibimet ipsis et phaleras equis suis detractas abicierunt, doloris impotentiam tantum non luctu professo testati.

[7] Sulla interpretazione del testo e sulla questione storica sollevata da Attico v. infra § 4 e nt.22.

[8] Per la spiegazione di questo riferimento ai dies fasti, piuttosto che, in generale, al calendario v. infra, nt. 22.

[9] Cfr. il contesto: 33.1.17 Frequentior autem usus anulorum non ante Cn. Flavium Anni filium deprehenditur….cum Q. Anicio Praenestino, qui paucis ante annis hostis fuisset, praeteritis C. Poetelio et Domitio, quorum patres et consules fuerunt. 18 additum Flavio, ut simul et tribunus plebei esset, quo facto tanta senatus indignatio exarsit, ut anulos ab eo abiectos fuisse in antiquissimis reperiatur annalibus. Fallit plerosque quod tum et equestrem ordinem id fecisse arbitrantur; etenim adiectum hoc quoque sed et Phaleras positas propterque nomen equitum adiectum est, anulosque depositos a nobilitate in annales relatum est, non a senato universo. Hoc actum a P. Sempronio L. Sulpicio cos. 19 Flavius vovit aedem Concordiae, si populo reconciliasset ordines, et cum ad id pecunia publice non decerneretur, ex multaticia faeneratoribus condemnatis aediculam aream fecit in Graecostasi, quae tunc supra comitium erat, inciditque in tabella aerea factam eam aedem CCIIII annis post Capitolium dedicatam.

[10] Cfr. il seguito: …pontifici minori haec provincia delegabatur, ut novae lunae primum observaret aspectum visamque regi sacrificulo nuntiaret.

[11] Così A. Zocco Rosa, L' ''Ius Flavianum'' nella storia delle fonti del diritto romano, Scritti Giuridici Chironi (1915) 384 e nt.3; 385 e nt. 3, che crede che alla pubblicazione del calendario alluda l'espressione 'tabulas posuisse', con la quale, invece, si indica il fatto che Gneo Flavio rinunziò all'attività di scriba.

[12] Alle fonti riportate va accostata la testimonianza di Diodor. XX 36. 6, che, a conclusione delle notizie concernenti Appio Claudio, pur tacendo di una sua partecipazione alle vicende riguardanti le actiones e il calendario, ricorda l'elezione di Gneo Flavio ad edile curule come dovuta a reazione popolare a sostegno di Appio Claudio.

[13] O. Seeck, Die Kalendartafel der Pontifices (1885) 1 ss.

[14] V. J. Binder, Die Plebs (1909) 520 s.; C. G. Bruns- O. Lenel, Geschichte und Quellen des röm. Rechts, in Holtzendorff-Kohler, Enzyklopädie der Rechtswissenschaft I 7 (1915) 330; H. Kreller, ZSS. 45 (1925) 600 ss.

[15] Zocco Rosa, op. cit., 385 s.

[16] F. Schulz, History of Roman legal Science (1946) 9 s.

[17] J. G. Wolf, Die literarische Überlieferung der Publikation der Fasten und Legisaktionen durch Gnaeus Flavius. Nachricten der Ak. der Wissensch. in Göttingen I Phil.-hist. Kl. (1980) 1 ss.

[18] Esso si ridurrebbe, oltre quanto detto nel testo, al fatto che Gneo Flavio era figlio di un liberto dal nome non romano di Annio; che fu scriba e fu eletto edile curule nel 304; che fu tribuno della plebe e forse anche triumvir nocturnus e coloniae deducendae: v. J.G. Wolf, op. cit., 29.

[19] V., tuttavia, in critica al Wolf, J. Rüpke, Kalender und Öffentlichkeit. Die Geschichte der Rapräsentation und religiösen Qualification von Zeit in Rom (1995) 245 s., nt. 2, ma senza particolare riferimento agli aspetti giuridici concernenti la vicenda della pubblicazione del ius Flavianum e l'opera di Appio Claudio.

[20] Wolf, op. cit., 23.

[21] Cfr. Wolf, op. cit., 27 ss.

[22] Dalla lettera ad Attico si ricava che questi aveva posto un quesito storico circa la notizia della pubblicazione da parte di Gneo Flavio dei fasti, che Cicerone deve aver rappresentato come fornita da Scipione Africano, personaggio del De republica, in un passo a noi non pervenuto. Il dubbio doveva esser nato dal fatto che, poichè Gneo Flavio, come edile curule, doveva essere assegnato ad un'età posteriore al decemvirato legislativo, c'era da spiegare a che fosse servita la pubblicazione dei fasti, dato che vi avevano provveduto già i decemviri. La spiegazione comunemente fornita era che la tavola, contenente il calendario, sarebbe stata occultata per un certo tempo, sì da costringere alla consultazione dei pontefici in ordine ai dies agendi. Probabilmente tale spiegazione non doveva apparire del tutto convincente allo stesso Cicerone, che giustifica, come abbiamo detto nel testo, l'eventuale errore richiamandosi al fatto che la notizia circa la pubblicazione del calendario proveniva da 'nec pauci auctores', tanto da costituire una 'publica prope opinio', sicchè, ammesso che essa fosse erronea, essa avrebbe dato luogo a un 'commune erratum' (cosa ben diversa da quel vergognoso errore storico - turpis ¢nistorhs…a commesso da Quinto Cecilio Metello Scipione, cui si allude all'inizio di ad Att. 6.1.18). Che Cicerone possa avere avuto perplessità nell'accogliere la tradizione può ammettersi (v., in questo senso, B. Albanese, Brevi studi di diritto romano. II – VI. Le XII Tavole e il calendario, AUPA 43 [1995] 141 ss., che tenta di negare l'idea che la lettera possa far riferimento alla pubblicazione di una tavola contenente il calendario sostenuta ultimamente da D'ippolito, Questioni decemvirali [1993] 59 ss.). Ma è da osservare anzitutto - ed è quel che ai nostri fini più rileva - che la ragione del dubbio che affiora in Cic. ad Att. 6.1.8; 18 non si estende alla parte della notizia riguardante Gneo Flavio concernente le actiones, che, del resto, trova altre conferme nelle fonti. D'altra parte, a ben riflettere, le perplessità di Cicerone riguardano la spiegazione concernente l'occultamento del calendario e non la tradizione come tale, alla quale Cicerone, anche in ragione del fatto che si deve a non pochi autori, sì da costituire una opinione pressocchè generale, ha prestato fede. Si può, perciò, ritenere che quelle perplessità non sarebbero sorte, se si fossero date spiegazioni diverse. E spiegazioni migliori di quella antica, che, comunque, potrebbe contenere una parte di vero, sono state proposte dagli studiosi moderni. Così, tra le altre, è degna di considerazione quella di A. Kirsopp Michels, The Calendar of the Roman Republic (1967) 110 s., che, rifiutando le precedenti (ivi, 110) ritiene che il calendario decemvirale contenesse l’indicazione dei soli ‘named days’ (Calende, None, Idi e feriae publicae stativae), mentre Gneo Flavio vi avrebbe aggiunto l’indicazione dei dies fasti, che, quindi, sarebbero stati precedentemente non certi (a favore di tale spiegazione sta il rilievo, che la tradizione sembra fondare, che l'iniziativa di Gneo Flavio fu diretta a far conoscere i dies fasti, piuttosto che, in generale, il calendario, come risulta direttamente da Plin. N. H. 33(6)17, o il calendario, ma in vista della conoscenza dei dies agendi, come risulta, oltre che da Cic. ad Att. 6.1.8, da Cic. pro Mur. 11.25); cfr. Bona, Ius pontificium e ius civile nell’esperienza giuridica tardo repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum, Atti Copanello (1990) 225 s, che ipotizza che i decemviri si siano potuti limitare, come lascia intendere Tuditano ap. Macrob. Sat. 1.13.21, a esplicitare le regole circa l’intercalazione. Un intervento decemvirale in materia di calendario appare, comunque, indiscutibile anche in vista di Ovid. Fast. 2. 47-54 V. in questo senso, con varietà di tesi, oltre Kirsopp Michels, op. cit.¸119 ss. (con lett.), H. Hauben, Some observations on the early Roman Calendar, Ancient Society 2 (1980) I , 241 ss. (con lett.); Rüpke, op. cit., 230 ss.; indiziariamente, Humm, op. cit.,103 ss.; lo ammette lo stesso Albanese, op. cit., 146 ss.e, tuttavia, fuori dalle XII tavole.

[23] V. infra, § 5.

[24] V. A. Zocco Rosa, op. cit., 380.

[25] Infra, § 18.

[26] V. Wolf, l. c. Ma non se ne può trarre, con il Wolf, che i formulari dovessero essere solo processuali.

[27] V. nt. 5.

[28] Si tratta del punto se la rinunzia sia avvenuta in vista della elezione ad edile, come testimoniato 'in quibusdam annalibus', o qualche tempo prima, come sosteneva Licinio Macro.

[29] E' il falso spunto sul quale il  Pais, Storia di Roma, I 1 (1898) 580 ss.  e il Lambert, L'histoire traditionelle des XII Tables et les critères d'hinathenticité des traditions en usage dans l'école de Mommsen,  Mélanges Appleton (1903) 504 ss.;  548 ss. (con rinvio ai lavori precedenti) edificarono l'idea che la legislazione decemvirale non fosse che una duplicazione del ius Flavianum.V. contro  Zocco Rosa, op. cit., 386 ss.; il Ferenczy, St. Grosso 5 (1972) cit., 89, pensa che il ius Flavianum comprendesse, oltre che i formulari negoziali e processuali, i testi delle XII Tavole e delle leggi successive.

[30] Un quadro della dottrina è in Bauman, op. cit., 24 s. e nt. 33-39; ma cfr., per una precisa determinazione del significato di ius civile come equivalente di actiones, già B. W. Leist, Versuch einer Gesh. der röm. Rechtssysteme (1850) 17 (16) nt. 2.  Perfettamente compatibile con il dato delle fonti è la tesi del Jörs, op. cit. 70 s. e del Wenger, op. cit., 479, secondo cui  la raccolta avrebbe compreso anche formule negoziali. Puramente congetturale e in contrasto con la tradizione l'ipotesi dello stesso Bauman, op. cit., 39 ss., secondo cui il ius Flavianum  deve avere contenuto specialmente azioni costituenti precedenti di quelle edilizie e, fors'anche, forme di tutela a favore dei peregrini.

[31] V.  Wolf, op. cit., 23 s.  

[32] Diversamente Wolf, op. cit., 15; 23.

[33] V. Wolf, op. cit., 28.

[34] Non vedo ragioni per escludere , come fa, invece, lo Zocco Rosa, op. cit., 388, che Livio e Valerio Massimo fossero a conoscenza di tale denominazione, tanto più in quanto si può ammettere che l’opera fosse ancora esistente al tempo in cui fu composto il fr. del l.sing. enchiridii, come si può argomentare dal presente ‘continet’ di D. 1.2.2.7. V. infra, § 19.

[35] V, da ultimi, Wolf, op. cit., 15 e Albanese, op. cit., 10, che ritiene Val. Max. 2.5.2 dipendente da Liv. 9.46.5 o sostanzialmente corrispondente.    

[36] V. D. 1.2.2.7 (ius civile Papirianum). Nello stesso senso va intesa la ragione della attribuzione della paternità rispettivamente  a Papirio e Gneo Flavio, che non sono autori delle opere, ma semplicemente artefici della loro pubblicazione. Cfr. anche D. 1.2.2.7 (ius Aelianum); ma la denominazione riguarda in questo caso l’autore dell’opera; sulla assenza della qualifica ‘civile’ per il ius Aelianum v. Sul ius Papirianum, Mél. Magdelain (1998) cit., 412 s.; diversamente, A. Magdelain, op. cit., 87 s., vorrebbe spiegare tale assenza con il fatto che si tratterebbe di azioni del più recente processo formulare, sulla base del rilievo che Pomponio lascia chiaramente intendere che si tratta di qualcosa di nuovo, laddove sembra trattarsi della considerazione delle carenze delle legis actions dovuta alla desuetudine di certi impieghi (…quia deerant quaedam genera agendi) cui Sesto Elio sopperì con la creazione di nuovi moduli d’azione solenni.

[37] V,. Cic. de orat.1.110, riguardo all’usurpare surculo defringendo (sul tema v. L'usurpare surculo defringendo di Cic. de orat. 3.110 e l'interruzione civile dell'usucapione, AUPA 46 [2000]343 s.); cfr. Cic. in Caec.18 civili fere actione et privato iure repetuntur; Varr. de r. r. 2.1.15 de  i u r e  in parando quemadmodum quamquam pecudem emi oporteat  c i v i l i  i u r e; 2.10.4 si hereditatem iustam adiit…si…mancipio ab eo accepit a quo  i u r e  c i v i l i  potuit, aut in iure cessit (testi significativi, dato che ius civile, anche se non indicante il singolo atto, concernerebbe, comunque, un complesso di atti); v., del resto, Lex Col. Gen. Iuliae LXI iure civili vinctum habeto (cfr. E. Ehrlich, Beiträge zur Theorie der röm. Rechtsquellen [1902]70 s.).

[38] V. Wolf, op. cit., 24.

[39] Nel seguito (riportato in nt. 10) Macrobio parla della pratica dell'annunzio della comparsa della luna nuova che doveva  essere fatto al rex sacrorum.

[40] Wolf, op. cit., 27 s.

[41] Infra, § 9 ss.

[42] Infra, § 18.

[43] Infra, Appendice.

[44] La tesi della derivazione delle notizie contenute nel frammento del l. sing. enchiridii dall'opera di Varrone de iure civili, proposta da F. D. Sanio, Varroniana in den Schriften der röm. Juristen ; cfr. Wolf, op. cit., 27  e nt. 95 (con lett.), è ora generalmente rifiutata: v. D. Nörr,  Pomponius, oder zum Geschtssverständnis der röm. Juristen, ANRW 15 (1976) 518 ss. (con lett., ivi, 518, nt. 104).

[45] V. infra, l' excursus relativo a tale tema in appendice a questo lavoro.

[46] Di una tarda storiella parla lo Zocco Rosa, op. cit., 383. Si è rilevato che il fatto avrebbe provocato la reazione di Appio Claudio. Ma il fatto può essere dimensionato ipotizzando una messa in scena architettata per realizzare un disegno dello stesso Appio Claudio.

[47] Che sia stato proprio Appio Claudio a servirsi del figlio di un proprio liberto è opinione diffusa. V. Casavola, op. cit., 381 e già gli autori citati da Zocco Rosa, op. cit., 383, nt. 2, che, tuttavia, dissente.

[48] Un tentativo di salvare 'proposuisset' si deve ad A. Mantello, IURA 37 (1986) 190 ss. Nel presupposto, fondato sulla interpretazione di un passo di Liv. 10.8.5 (riportato infra, nt. 53) secondo cui questo testo non avrebbe portata meramente retorica, ma proverebbe che Appio Claudio abbia fatto parte del collegio pontificale, il Mantello sostiene che ‘il proponere (et ad formam redigere) del passo pomponiano significa semplicemente la presentazione al collegio pontificale, da parte del Appio, di formule procedimentali al fine del loro esame ed approvazione in rapporto ai noti compiti d’esso collegio in materia giuridica’. A parte il dubbio che investe, nella dottrina, l’interpretazione del testo di Livio (v., tuttavia, sul punto, infra, nt. cit., per la possibilità che esso attesti il pontificato di Appio Claudio) è da rilevare, in senso contrario, a tacer d’altro, il fatto che l’opera di Appio Claudio investì, secondo D.1.2.2.7, tutte le legis actiones fino ad allora praticate (‘has actiones’ si riferisce appunto a queste, delle quali si parla immediatamente prima, in D. 1.2.2.6) e non un certo numero di actiones nuove, mentre rimarrebbe da dimostrare che il procedimento che si pensa sia stato seguito da Appio Claudio possa rientrare nell’attività del praesse privatis di cui il Mantello, op cit., 192, nt.7. ipotizza che lo stesso Appio Claudio sia stato investito.

[49] v. Zocco Rosa, op. cit., 380 , nt 1 ((con lett.) e, tra gli altri, ultimamente, G. Mancuso, op. cit., 334 e nt. 9.

[50] Lo si ricava già, nello stesso fr. del l. sing. enchiridii, da D. 1.2.2.12…aut sunt legis actiones, quae formam agendi continent. E' evidente che qui legis actio non equivale a schema rituale, poiché si dice che le legis actiones contengono la forma agendi , che è, appunto, lo schema rituale. La ragione di ciò emergerà infra, § 9, a proposito del significato della intestazione di Prob.4. Particolarmente interessanti sono gli impieghi di forma contenuti in Gai. 4. 24  e 4. 32. In Gai. 4.24 Nec me praeterit in forma legis Furiae testamentariae ‘pro iudicato’ verbum inseri, cum in ipsa lege non sit il termine ‘forma’ potrebbe indicare addirittura uno schema dell'azione del processo formulare (una formula con fictio di legis actio per manus iniectionem) come ritengono Biscardi, Une catégorie d'actions negligèe par les romanistes: les actions formulaires 'quae ad legis actiones exprimuntur', TR. 21 (1953) 312, nt. 4 e Albanese, Sulle formule che 'ad legis actionem exprimuntur' (4. 4.10 e 32-37), nel testo che è stato composto nel 1997 per gli Studi Gandolfi e che ho potuto leggere grazie alla cortesia del Maestro, in corrispondenza alle ntt. 43-44. Questo, com maggiore probabilità, è il significato che forma assume in Gai. 4.32 Item in ea forma, quae publicano proponitur, con riferimento ad una fictio di legis actio per pignoris capionem, se il testo non concerne, come riteneva il M. Wlassak, Der Judikationsbefehl der röm. Prozesse (1921) 278 ss., seguito dal Lenel, Edictum perpetuum 3 (1927) 389 , dal Dekkers, La fiction juridique. Étude de droit romain et de droit comparé (1931) 182, nt. 1 e, ultimamente dal Magdelain,  De la royauté, cit., 155, una forma censualis; contro v., con convincenti argomentazioni, ultimamente, Albanese, Sulle formule, cit., in corrispondenza alle ntt. 17-20; E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano (1997) 217 ss.; L. Maganzani, La pignoris capio dei pubblicani dopo il declino delle legis actiones. Cunabula iuris. Scritti storico giuridici per G. Broggini (1999) 6, nt. 13; I poteri di autotutela dei publicani nel Monumentum Ephesenum (Lex portus Asiae), Min. Epigraph. et Papyrol. 3 (2000) 136 s., nt. 16; e ora Pubblicani e debitori d'imposta. Ricerche sul titolo edittale De publicanis (2002) 9 ss., nt. 11; F. Mercogliano, <Actiones ficticiae>. Tipologia e datazione (2001) 11 ss. Non è escluso, tuttavia, già in ragione del fatto che il manoscritto lascia in questo punto a desiderare (in luogo di Item, che è solo una delle possibili restituzioni, si legge solo la lettera ‘t ; nel manoscritto compare ‘proponit’, che è mantenuto soltanto da Wlassak, op. cit., 278, ma è generalmente corretto in 'proponitur') che forma debba correggersi in formula, come proponeva Ph. E. Huschke, Kritische Bemerkungen zum vierten Buch der Institutionen des Gaius, Z. f. RG. 13 (1846) 288 ss. (in tal caso verrebbe meno una ragione di interdere ‘forma’ di G. 4.24 come formula, piuttosto che come forma di legis actio).

     E' probabile  che il termine 'forma' sia stato usato fondamentalmente nelle legis actiones, per essere sostituito dal termine 'formula' (=piccola formula) nel processo formulare, a misura che veniva attuandosi il fenomeno di integrazione del giudizio nell'actio, per cui la formula costituisce in sintesi un programma di giudizio (detta, perciò, 'iudicium' quando venga adottata in concreto). Si deve a questo fenomeno l'atteggiarsi dell'azione a strumento processuale (Cels. 3 dig., D. 44.7.51) per cui, d'ora innanzi, con il litigare per formulas e, più compiutamente, con le cognitiones extra ordinem andrà sviluppandosi la categoria del processo, che non può applicarsi correttamente, tanto più quanto più indietro si risale nel tempo, alle legis actiones. Sul tema v. Actio in diritto antico, Poteri Negotia Actiones nella esperienza romana arcaica, Atti Copanello 1982 e, ultimamente,  l'intervento nel Convegno su Processo civile e processo penale nell'esperienza giuridica del mondo antico (Siena, 13-15 dicembre 2001), in corso di pubblicazione. In questa prospettiva si può pensare con Bianchi, op. cit., 220 s., che gli impieghi di ‘forma’ in Gaio, se è corretta la lezione di 4. 32 e se essi si riferiscono a formule con fictio di legis actio, rivelino la percezione che, attraverso la fictio, si tramanda un modulo arcaico. Cfr., del resto, per un impiego risalente, Gell. N.A. 13.15.1 in edicto consulum…scribitur ex vetere forma perpetua: ne quis magistratus minor de coelo servare velit.  

[51]Cfr. G. Crifò, Lezioni di storia del diritto romano (1994)169. Diversamente Mancuso, op. cit., 334, che pensa che 'redigere ad formam' le actiones da parte di Appio Claudio abbia comportato un 'disporle sistematicamente'; cfr. Brutti, op. cit., 331 s. Il D'Ippolito, Giuristi e sapienti, cit., 56 s., sembra ritenere, muovendo dall'idea che Appio Claudio avesse a che fare con un materiale pontificale consistente in sigle, che il ridurlo ad formam sia consistito nello scioglire le sigle. Sulla tesi del D'Ippolito v. infra, § 12.  

[52]Ciò si può trarre dal confronto con il precedente impiego di 'componere', relativo al ius Papirianum, contenuto in D.1.2.2.3 … sed quod leges sine ordine latas in unum composuit; nello stesso senso 'componere ' è usato nel successivo § 4…quas (leges) in tabulas eboreas perscriptas pro rostris composuerunt.

'Componere' assume il significato fondamentale di 'mettere insieme' negli impieghi contenuti nel frammento del l. sing.enchiridii. Ad esso si possono ricondurre anche gli impieghi del § 5…hoc ius, quod sine scripto venit compositum a prudentibus e del § 6 … Deinde ex his legibus eodem tempore fere actiones compositae sunt …ex isdem legis actiones compositae sunt, in quanto si sia posto l'accento, piuttosto che su tali attività come come creative, sulla riunione del loro prodotto rispettivamente nella pars iuris chiamata  ius civile e costituita dal proprium ius civile (§12) e nella pars iuris costituita dalle legis actiones. Né una smentita viene dal fatto che, nello stesso § 7, anche di Sesto Elio si dice che 'alias actiones  c o m p o s u i t', ove dalla motivazione data  (quia deerant quaedam genera agendi) voglia ricavarsi che deve essersi trattato di attività creativa, perché, così dicendo, ancora una volta potrebbe essersi messo l'accento piuttosto che sul solo fatto di avere forgiato le nuove azioni, sul fatto di averle riunite in una raccolta. Il problema è, d'altra parte, complicato dal fatto che il ius Aelianum  non è menzionato successivamente , nel § 38, poiché qui , oltre ai Tripertita, si parla di altri tre libri, dei quali si aggiunge che da alcuni veniva negata la paternità di Sesto Elio. Se ne potrebbe trarre, come è stato fatto, che non ne esistessero altri e che il ius Aelianum non fosse che la terza parte dei Tripertita (riguardante le actiones). In tal caso, l'uso di 'componere' nel significato di 'metter insieme' sarebbe confermato anche sotto il diverso profilo della riunione di una parte dell'opera alle altre. Ma esso non sarebbe smentito anche se si ritenesse, come è preferibile, che il ius Aelianum sia opera distinta dai Tripertita. La questione va compiutamente trattata a parte, come ci riserviamo di fare. Qui, a tacer d'altro, può rilevarsi che del ius Aelianum si parla separatamente, nel § 7, mentre dei Tripertita  nel § 38. La ragione può esser dovuta al fatto che, come il ius civile Papirianum e come il ius civile Flavianum, trattati precedentemente nella stessa sezione del frammento (dedicata alle partes iuris) anche per il ius Aelianum l'autore del frammento deve aver ritenuto che non si trattasse di una opera creativa. Vero è che solo di Papirio e di Gneo Flavio si dice che non hanno aggiunto alle rispettive sillogi quicquam de suo, ma appunto questa espressione potrebbe far pensare che Sesto Elio abbia aggiuto qualcosa, senza che il suo apporto limitato abbia potuto modificare la valutazione generale del ius Aelianum come di raccolta di actiones, già esistenti, in quanto dovute alla attività integratice svolta dalla giurisprudenza, probabilmente nella prassi del III sec. a. Cr. Il significato di 'componere' come equivalente, nel fr. del l. sing. enchiridii di 'mettere insieme' è confermato dall'impiego nel § 44, che va interpretato nel contesto: …is (Ofilius)…libros de iure civili plurimos et qui omnem partem operis fundarent reliquit. Nam de legibus vicensimae primus conscri[b]<psit>:de iurisdictione idem edictum praetoris diligenter  c o m p o s u i t (da preferire alla lezione della Vulgata: Nam et de legibus vicensimae et de iuruisdictione primus conscribit. Item edictum praetoris diligenter  c o m p o s u i t ). Nam ante eum Servius duos libros ad Brutum perquam brevissimos ad edictum subscriptos reliquit. Senza approfondire le questioni, suscitate dal testo, concernenti Ofilio e la sua opera, che esamineremo in altro lavoro, in cui ci occuperemo della concezione strumentalistica del diritto alla fine della repubblica (anche Ofilio, come osserveremo più in là, nel § 21, fu autore di libri riguardanti le actiones; su tali questioni v., intanto, D'ippolito, I giuristi e la città, cit., 102 ss.; S. Tondo, Note esegetiche sulla giurisprudenza romanaa, IURA 30 (1979) 49 ss.; Mancuso, Praetoris edicta, cit., 329 ss.; D. Mantovani, Gli esordi del genere letterario ad edictum, in Per la storia del pensiero giuridico romano (1993) 63 ss. (con lett.); G. Falcone, Ofilio e l'Editto, Labeo 42 (1996) 101 ss.; P. Cerami, Il sistema ofiliano,  La codificazione del diritto dall'antico al moderno (1998) 183 ss.; G. Albanese, Quattro brevi studi. III. I libri di Ofilio, Labeo 46 (2000) 462 ss.; A. Guarino,  L’esigenza giurisprudenziale della sintesi e la sua storia generale,  La codificazione del diritto, cit., 20 ss.) ma limitando la considerazione dello stesso a quanto attiene al problema terminologico relativo all'uso di 'componere' (su cui, anche per la letteratura precedente, con varietà di determinazioni, v. Mancuso, op. cit., 330 ss. ; Mantovani, op. cit. , 64 s.; Falcone, op. cit., 101 s.; Guarino, op. cit., 22) possiamo qui rilevare come 'composuit', usato a proposito dell'opera , in materia di giurisdizione, concernente l'editto, corrisponda a 'conscripsit', usato a proposito dell'opera in materia di leggi, nello stesso significato di 'mettere assieme per iscritto', che è confermato per 'conscribere' dagli altri impieghi nello stesso fr. del liber sing, enchiridii (v. D. 1.2.2.2 quae (leges) omnes conscriptas extant in libris Sexti Papirii; 40  Caelius Antipater qui historias conscripsit; 44 fere tamen hi libros conscripserunt;…ex His decem libros octo conscripserunt; 47… et conscribendis libris operam daret (Laabeo); per scribere v. D. 1.2.2.36 …in XII tabulis scribendis;…actiones scripsisse traditum est et primum de usurpationibus; 39…volumina scripta Manilii monumenta; 42…3eorum scripta non talia extant; …nec versantur omnino scripta eorum inter manus hominum; 45 … Cascelli scripta non extant; 46 …sermone antiquo scribere (responsa); 49 (responsa) iudicibus scribebant; cfr. perscribere: 4 …percriptos composuerunt; e inscribere: 38 …qui inscribitur Tripertita). E a questo significato potrebbe far riscontro il successivo 'subscriptos', usato a proposito dei libri perquam brevissimi di Servio ad Brutum, se il termine valesse ad indicare, secondo l’opinione comune, il fatto che si trattò di note aggiunte all'editto, piuttosto che il il sottotitolo 'ad edictum' dopo il titolo ad Brutum (in questo senso Mantovani, op. cit., 71; Falcone, op. cit., 105 s.). Un utile confronto è rappresentato dalla terminologia usata per indicare, da un lato, l’attività di redazione dell’editto compiuta dal magistrato (Cic. ad fam.3.8.3 Romae composui edictum, cfr. in Verr.II 1. 100; 116; 119) e, dall’altra, la portata dell'opera di Giuliano relativa alla cd. codificazione dell'editto perpetuo (Aurel. Vict. de Caesar. 19.1…edictumin ordinem composuit; Eutrop. brev. 8.17 …perpetuum composuit edictum ; cfr. le parafrasi di Paolo Diacono , S. Girolamo, Peanio e Landolfo Sagace cit. in G. Guarino, La leggenda della codificazione dell’Editto e la sua genesi,  Atti Congr. Intern Verona II [1948] 179 s.); Const. Tanta 18 Iulianus, legum et edicti perpetui suptilissimus conditor…et non ipse solus, sed et divus Hadrianus in compositione edicti; cfr. C. I. 4. 5.10.1… praetorii edicti ordinatorem); in rapporto alla tesi del M. Wlassak,  Edict und Klageformel (1882) 22 ss., secondo cui Giuliano avrebbe messo assieme agli editti particolari le formule costituenti precedentemente l'ultima appendice del testo pubblicato nell'albo. Sul tema v., anche, Girard, Mélanges Girard I (1912) 200 ss. (con lett.).

     Decisiva per il significato da assegnare in generale a 'componere' è la testimonianza di D. 47.10.5.9 (Ulp. 56 ad ed.) Si quis librum ad infamiam alicuius pertinentem scripserit composuerit ediderit dolove malo fecerit, quo quid eorum fieret, su cui E. Pólay, Iniuria Types in Roman Law (1986) 149,  sotto questo riguardo, a nostra conoscenza, trascurata dalla dottrina. In essa, infatti, 'componere' appare distinto da 'scribere'. La ragione è dovuta al fatto che, a differenza dallo scribere, il componere deve avere implicato la combinazione di elementi diversi, qualunque sia la loro derivazione, non rilevando, come abbiamo notato, che essi siano predisposti soltanto dall'autore dell'opera o si debbano soltanto o in parte ad acquisizioni da fonti esterne. Sulla tecnica della raccolta dei materiali al fine della composizione delle opere nell'antichità v. G. Cavallo, Testo, libro lettura, Lo spazio letterario di Roma antica II. La circolazione del testo  (1992) 310 ss.;  G. Purpura, Diritto, papiri e scrittura (1999) 114 ss. Ciò non esclude, beninteso, impieghi di 'componere' in un senso, esprimente un'attività creativa indipendentemente dall'idea della riunione di elementi diversi, ma essi si allontanano dal significato fondamentale al quale, comunque - ed è quel che qui conta - si possono ricondurre, come si è visto, tutti gli impieghi che si riscontrano nel fr. del l. sing. enchiridii.

[53] Egli potè essere agevolato in ciò dal fatto di essere stato pretore, se la prima volta lo fu anteriormente alla pubblicazione della raccolta delle actiones. Da Liv. 10.22.7-9 risulta che la seconda volta lo fu nel 295 e che la prima   al più tardi nel 297: T. R. S. Broughton,  The Magistrates of the Roman Republic (1951) 178; cfr. Bauman, op. cit., 45, che suggerisce la possibilità che Appio Claudio sia stato pretore la prima volta nel 304 e, quindi, nello stesso anno della edilità di Gneo Flavio. La testimonianza di Liv. 10.22.7-9 riguardante la seconda pretura è particolarmente significativa, perché tratteggia la carica dei pretori  come competenti 'ad reddenda iura', dove 'iura' equivale ad 'azioni', 'formule di azioni' (qui di legis actiones), un valore che trova riscontro, con un riferimento alla figura di Appio Claudio, come si vedrà (infra, § 18), in Cic. pro Caec. 19.54. La funzione giurisdizionale del pretore è egualmente indicata nel frammento del l. sing. enchiridii D. 1.2.2.10 come iura reddere, con evidente riferimento alle formule accordate nei singoli casi concreti: 'Eodem tempore et magistratus  i u r a  r e d d e b a n t  et ut scirent cives quod  i u s  d e  q u a q u a  r e quisque dicturus esset, seque praemunirent, edicta proponebant. Tali testi sono di grande importanza per la ricostruzione della portata della iurisdictio negli ultimi secoli della repubblica, in conformità al significato fondamentale di ius, quale 'rito', 'schema rituale'. L'iscrizione di Arretium (C.I.L. I , 192) non dà notizia, per contro, di un pontificato di Appio Claudio. E, tuttavia, la partecipazione al collegio pontificale potrebbe indursi, nel quadro di Liv. 10. 7-8, da Liv. 10.8.5 Noli erubescere, Appi, collegam in sacerdotio habere, quem in censura, quem in consulatu collegam habere potuisti, cuius tam ductatoris magister equitum quam magistri equitum dictator esse potes (in questo senso Mantello, op. cit., 191; L, Amirante,  Sto scrivendo un libro, Index 15 (1987) 11; Rüpke, op. cit., 249 s., nt. 18 (con lett.).

[54] Supra, § 4. 

[55] Cfr. supra, nt. 53.

[56] E' a questa concezione, che dà conto del fatto che i pontefici siano ad un tempo custodi della storia, del calendario e del diritto (come in genere delle tecniche dell'azione umana) cui abbiamo accennato in Sul ius Papirianum, Mél. Magdelain, cit., 399, e alla quale dedicheremo una specifica ricostruzione, che si sovrappone, progressivamente scalzandola, la concezione strumentalistica del diritto, cui si riferisce questo lavoro.

[57] Cfr. quanto diremo infra, nel § 9, a proposito del compito che, dopo la raccolta delle actiones, Appio Claudio dovette inversamente svolgere per indicarne le modalità d'uso.

[58] Se ne fa interprete specialmente lo Schulz, come ricordato supra, nt. 16.

[59] Sulla figura politica di Appio Claudio v. specialmente A. Garzetti, Appio Claudio nella storia politica del suo tempo, Athenaeum 25 (1947) 175 ss.; E. S. Stavelay, The Political Aims of Appius Claudius Caecus, Historia 8 (1959) 410 ss.; F. Cassola, I gruppi politici del III secolo a. C. (1968) 128 ss.; Bauman, op. cit., cit., 21 s.; 28 ss.(con lett.); nella prospettiva dell’esigenza di affermazione personale, Mantello,  op. cit., 193 ss.

[60] E' anticipare i tempi dello sviluppo definirla già come situazione giuridica sostanziale e contrapporla al procedimento che ne permetteva la tutela. Si tratta di aspetti diversi che vanno individuandosi nell'esperienza giuridica solo progressivamente, fino a contrapporsi. Ma questo esito non si può dire raggiunto pienamente neanche in diritto classico.

[61] V. ante, nt. 22.

[62] Ciò corrisponde, del resto, più o meno, al comune convincimento. Basti citare, per ultimo, Humm, op. cit., 99 ss.

[63] Sulla regola  per cui l'actio dovesse originariamente compiersi in generale nel comizio v. R. Santoro, Il tempo ed il luogo dell'actio prima della sua riduzione a strumento processuale, AUPA 41 (1991) 300 ss.

[64] Cfr., per un cenno inteso a dimostrare, attraverso il richiamo della trattazione del IV libro delle Istituzioni di Gaio, la presenza nelle opere concernenti le legis actiones di un tessuto di collegamento e interpretativo che poteva contenere prescrizioni circa l'uso delle actiones, W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des röm. Kriminalverfahrens in vorsullanischer Zeit (1962) 100, nt. 367.

[65] Questa sigla va riferita, secondo l'opinione più diffusa, alla legis actio sacramento in personam. La riferisce alla legis actio sacramento in rem, per l'ipotesi che, trattandosi di cosa mobile, il convenuto negasse di possederla, H. H. Pflüger, Die legis actio sacramento in rem (1898) 67 s.; contro v. M. Marrone, Actio ad exhibendum,  AUPA 26 (1958) 624 s., nt. 19; alla legis actio per manus iniectionem del quadruplator F. La Rosa, Note sui‘tresviri capitales', Labeo 3 (1957) 244, contro v. G. Sacconi, 'Si negat sacramento quaerito', SDHI 29 (1963) 310 ss.; che, criticando l'idea di Kunkel, op. cit., 98 ss., secondo cui Prob. 4.5 riguarderebbe il quaerere magistratuale delle quaestiones perpetuae (contro cui v. pure G. Pugliese, BIDR 66 [1963]170 s.; ma cfr. W. Selb, Zur Aufgabe des iudex in der legis actio, GS Kunkel [1984] 412 ss.; e, per un riferimento al processo criminale, genericamente, già G. Demelius, Die confessio im röm. Civil-process [1880] 84 e nt. 2; Ph. E. Huschke, Jurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt 5 [1886] 139, nt. 2; G. Broggini, La prova nel processo romano arcaico, Jus 11 [1960] 366, nt. 7; M. Wlassak, Der Gerichtsmagistrat im gesetzlichen Spruchverfahren, ZSS  25 [1904] 152 [151] nt. 3) preferisce connettere la sigla qui discussa a Prob. 4.7 Q.I.I.T.C.P.A.F.A quando in iure te conspicio, postulo anne far auctor e riferirla a una pronunzia del magistrato contro l'auctor qui auctoritatem defugit. Contro questa tesi, che risale a O. Karlowa, Der röm. Civilprozess zur Zeit der Legisactionen (1873) 32 (cfr. C. Gioffredi, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane [1955] 128 e nt. 39) e che il Pugliese, op. cit., 171  ritiene 'la meno improbabile e la meglio coordinata con gli altri dati delle fonti', è da osservare che non ha peso l'argomento sistematico su cui la Sacconi vuole fondarla, rappresentato dal fatto che la sigla di Prob. 4.5 si trova fra altre sigle riguardanti la legis actio sacramento in rem, perché, a rigore, nell'ordine del procedimento cui si vorrebbe assegnarla, dovrebbe comparire dopo la sigla di Prob. 4.7 ; S. Tondo, La semantica di 'sacramentum' nella sfera giudiziale, SDHI (1969)320 ss., fermo nella convinzione che le sigle di Probo riguardino pronunzie di parte, anzi, 'in tutto o in parte, la 'battuta' o 'domanda' del soggetto che imprime impulso al dialogo processuale', chiude il discorso con un non liquet (ivi, 326).

[66] Fa difficoltà, tuttavia, proprio quella immediatamente precedente: Prob. 4.4 E. I. M. C. V. ex iure manum consertum vocavit, che, secondo Kunkel, op. cit., 101, nt. 372, non si potrebbe identificare, in ragione della forma grammaticale, con una pronunzia concreta; contro, Sacconi, op. cit., 313, nt. 16, seguita da Pugliese,  op. cit., 171, che la ritiene parte del formulario pronunziato dal magistrato in caso di mancata replica all'invito alla vocatio ex iure manum consertum; Tondo, op. cit., 323 s., che preferisce correggere 'vocavit' in 'voco', come proposto da Huschke, Iur. anteiust. 5, cit.,139, nt. 1, in alternativa a 'vocasti'.   

[67] Nè si riferisce a pronunzia di legis actio, del resto, qualunque valutazione si voglia dare di Prob.4.9  I.T.S.P. in diem tertium sive perendinum (che riguarda la comperendinatio), verosimilmente Prob. 4.10 A.L.A. arbitrum liti aestimandae, mentre Prob. 4.11 Q. B. F. quare bonum factum, secondo la congettura del Huschke, Iurisprudentiae anteiustinianae 5, cit., 139, nt. 8, rifletterebbe una espressione edittale e andrebbe perciò inserita nella sezione seguente, dopo 5.1.

[68] L'idea appare in Ph. E. Huschke, Ueber den Gregorianus und Hermogenianus Codex, Z. f. RG. 6 (1867) 330, nt. 88, anche con riferimento alla formula 'raudusculo libram ferito' (cfr. Jörs, Römische Wissenschaft zur Zeit der Republik (I [1888] 88 e nt. 2; F. Leifer, Altröm. Studien IV. Mancipium und auctoritas, ZSS 56 [1936] 226, nt. 2) ed è sostenuta modernamente, da Kunkel, op. cit., 98 ss.; cfr. A. Magdelain,  Un aspect négligé de l'interpretatio. Jus Imperium Auctoritas. Études de droit romain (1990) 98 s.; De la royautè, cit.,189.

[69] Su questo carattere v. Potere ed azione, cit., 179, nt. 18; 310 (309) nt. 3; 323 s.; 376, nt. 5; 476 s.

[70] V. supra, nt. 52.

[71] Sulla originaria  riduzione a legis actiones degli atti negoziali, v. il lavoro su Actio in diritto antico, Atti Copanello I (1982) cit., 201 ss., in cui sostengo che la nozione di actio non si situa originariamente sul terreno processuale, ma su tutto il terreno dell’esperienza giuridica. Indipendentemente da questa più ampia prospettiva, la tesi della presenza di formulari negoziali nel ius Flavianum e, in generale, nelle opere riguardanti le actiones, è, comunque, generalmente accettata. In questo senso v., particolarmente, Jörs, op. cit., 70 s. ; Wenger, op. cit., 479 e, ultimamente, Magdelain, De la roayauté, cit., 180; M. Bretone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura (1998) 20 e nt. 15.

[72] Fest. 320, 31 Vulgus quidem in usu habuit, non modo aere imperfecto,…sed etiam signato, quia in mancipando, cum dicitur 'raudusculo libram ferito', asse tangitur libra.

[73] E' la giusta osservazione di B. Albanese, IURA 46 (1995) 148 a Magdelain, De la royauté., cit., 189 ss.( cfr. Études, cit., 98, e nt. 8, con lett.) che l'attribuisce, sia pur congetturalmente, senz'altro, ai libri pontificali. V. già, nello stesso senso, Huschke, l. c.; Leifer, cit. supra, nt. 67.

[74] Ciò vale specialmente per le applicazioni negoziali che avessero una struttura complessa (per la stessa mancipatio si consideri l'impiego relativo alla familia o al derivato testamentum per aes et libram: v. Gai. 2.104).

[75] Varr. de l.l. 5. 163 aes raudus dictum; ex eo veteribus in mancipiis scriptum 'raudusculo libram ferito'.

[76] Cfr. Huschke, l.c.; Magdelain, Études, cit., l.c.

[77] Cfr. Magdelain, op. cit., 191 e nt. 40, che richiama pure, per il diritto sacro, Fab. Pict. ap. Non. 873 L. aquam manibus pedibusque dato, polybrum sinistra manu teneto, dextera vasum cum aqua (Études, cit., 99)

[78] Un caso può essere stato costituito dal tratto della formula vindicatoria rispecchiato da  Prob. 4.1 S.S.C.S.D.E.T.V. secundum suam causam ecce tibi vindicta<m>, se era già degli antichi interpreti il problema, posto dalla dottrina moderna, se  'secundum suam causam' appartenga, piuttosto, al tratto precedente. Su tale problema v. Santoro, Potere ed azione, cit., 262 ss. Sulla divisione in cola  v. S. Tondo, Aspetti simbolici e magici nella struttura della  manumissio vindicta (1967) 70 ss.

[79] Sul punto cfr. infra, § 17 e nt. 171.4

[80] V. Cic. pro Mur. 12.26, su cui, per il punto che qui interessa, R. Santoro, XII Tab. 12.3, AUPA 30 (1967) 543; 547 e nt. 83 (con lett.); cfr. Cic. de orat.1.10.41, su cui Santoro, op. cit., 582.    

[81] Sulla scorta di F2.

[82] Cfr. P. Pescani,  Studi sul Digestum vetus, BIDR. 84 (1981) 173, che pensa ad un errore del dettante, aggravato dall’amanuense (‘Evidentemente il dettante stava per rileggere la riga, perché idem si trovava alla fine di essa, mentre usurpationibus stava all’inizio. Si accorse in tempo dell’errore ed impedì allo scriba di continuare. Da notarsi che lo scriba aveva capito male, perché aveva scritto usurpatioi che verosimilmente sarebbe stato completato usurpatioibus e non usurpationibus’).

[83] D. 1.2.2.36 (Pomp. l. sing. ench.)… post hunc Appius Claudius eiusdem generis maximam scientiam habuit: hic Centemmanus appellatus est. Appius viam stravit et aquam Claudiam induxit et de Pirrho in urbe non recipiendo sententiam tulit:…(segue la parte del paragrafo su riportata).

[84] V. già, tra gli altri, cit. da Sanio, op. cit., 142, nt. 209, M. A. Muretus, Commentarius de origine iuris et omnium magistratuum,& successione prudentium, in Thes. iuris Romani Ottonis (Lugduni Batavorum, 1744)169; quindi, specialmente Ph. E. Huschke, Kleine kritische Versuche ueber Pandektenstellen und Pandektenmaterien. 2. Ueber die 'usurpatio' des vorjust. Rechts im Verhältnis zur spät. L. 5, 'de usurp.' (41, 3), Z. f. Civilrecht u. Prozess, N. F. II (1846) 141ss. Da allora la comune dottrina. E', peraltro, da osservare che nei contributi della dottrina più risalenti il significato fornito da D. 41.3.2 è ricondotto ad un valore più ampio di 'usurpatio', riferito a mezzi diretti ad evitare la perdita della proprietà per l'altrui usucapione o, più in generale, ad ogni attività diretta a conservare i propri diritti (così Huschke, op. cit., 146 s.; F. P. Bremer, Jurisprudentiae antehadrianae quae supersunt (1896) 4 s.; una traccia ne sopravvive in A. Guarino, Storia del diritto romano 2 (1954) 318, anche se in vista di un valore di 'usurpatio' equivalente alla usurpazione altrui). Disconosce questo valore più ampio Th. Mayer Maly, Roms älteste Juristenschrift, Mnem. Bizoukides (1960) 231 (e, deve pensarsi, la comune dottrina, che ne tace) senza tener conto del largo spettro di significati che 'usurpatio' e 'usurpo' rivelano specialmente nel lessico ciceroniano: v. H. Merguet., Lexikon zu den Reden des Cicero IV (1962) 1029 ss., s. vv. usurpatio; usurpo; Lexikon zu den philosophischen Schriften Cicero's III (1961) 885, s.v. usurpo. E, tuttavia, il Mayer Maly pone bene il problema a quale scopo, ammesso che a questo valore si sia richiamata, l'opera de usurpationibus sarebbe potuta servire a fianco della pubblicazione delle azioni.

[85] Va rilevato che l'interruzione è riferita alla usucapione , non all'usus (o al possesso). Diversamente Gai.1.111 Itaque lege XII tabularum cautum est, ut si qua nollet eo modo in manum mariti convenire, ea quotannis trinoctio abesset, atque eo modo <usum> cuiusque anni interrumperet, in tema di cd. trinoctii usurpatio.

[86] Huschke, op. cit., 117.

[87] Come vedremo (infra, § 20) l'obiezione non varrebbe contro la nostra interpretazione, poichè il significato che attribuiamo ad 'usurpatio' consente di pensare ad un contenuto specifico, ancorchè di portata generale, dell'opera 'de usurpationibus' di Appio Claudio, tale da potere essere ricompreso nella successiva nutrita serie delle opere scritte in età repubblicana in materia di actiones.

[88] Ph. E. Huschke, Pomponius über die Aelier und Catonen und über A. Ofilius, Z. f. gesch. Rechtswiss. 15 (1850) 193.

[89] Cfr. l'analogo rilievo critico che il Mayer Maly, op. cit., 221, rivolge contro la sostituzione a 'primum' di 'librum' presa in considerazione dal Bremer, che qui di seguito ricordiamo.

[90] Mommsen, Digesta ad h.l.

[91] Segue la proposta del Mommsen, recentemente, L. Lantella, Metastoria.I. Prelettura teorica per un seminario sull'Enchiridion di Pomponio, nella traduzione del passo (p. 114: ' è stato tramandato che egli abbia scritto per primo un'opera 'de usurpationibus') che non sembra, in assenza di precisazioni, discostarsi dall'interpretazione comune del termine usurpatio. Contro, v., invece, Albanese, Le 'Notae iuris' di Probo e il 'ius Flavianum', cit., 17 s.

[92] Bremer, Jurisprudentiae antehadrianae, cit., 3

[93] V. supra, nt. 84.

[94] Bremer, op, cit., 4 ss. Diversamente, intendendo 'primum' come indicazione del libro primo, Crifò, op. cit., 173 presenta la traduzione: 'si è tramandato che abbia scritto sulle azioni e che nel primo libro parlasse delle usurpazioni, un libro non pervenuto', che, tuttavia, richiederebbe quanto meno l'integrazione e la correzione <libro>prim[um]<o>.

[95] Sulla questione v. M. Bretone, Linee dell’ Enchiridion di Pomponio (1965) 69; 69 s., nt. 14 (con lett.).

[96] V. gli impieghi di 'primum' nei §§ 1; 47; e di 'primus' nei §§ 24; 36; 38 (2 v.); 42; 44; 48; 49:

[97] V. F. Wieacker, Über das Verhältniss der röm. Fachjurisprudenz zur griechischen-hellenistischen Theorie, IURA 20 (1969) 464 e nt. 57; Mantovani, op. cit., 63

[98] G. Baviera, I 'Monummenta' di Manilio e il ius Papirianum, Scritti giuridici I (1909) 69; 69 s., nt. 1.  

[99] Su questa apertura della  ricerca v. infra, § 13 ss.

[100] Sulla proposta di restituzione del Bauman v. infra, § 15.

[101] Cic. de orat. 3.110 Atq [hactenus loquuntur] etiam hac <in> instituendo divisione utuntur, sed ita, non ut iure aut iudicio, vi denique recuperare amissam possessionem, sed ut iure civili surculo defringendo usurpare videantur. In questo senso particolarmente Huschke, Z. f. Civilrecht u. Prozess, N.F. II (1846) cit., 141 ss. Ma si tratta dell’opinione comune agli storici del diritto che se ne cono occupati. La testimonianza si riferisce, in realtà, al sumere vindicias della legis actio sacramento in rem, come credo di avere dimostrato in AUPA 46 (2000) cit., 331 ss.(ivi, 333 s., ntt. 1-3, le indicazioni della letteratura). Poiché il sumere vindicias doveva importare una pronunzia rituale, è possibile che con 'usurpare' Cicerone abbia inteso evidenziare qui, oltre l'atto di difesa, l'impiego di una formula: v. AUPA 46 (2000) cit., 340 s.

[102] F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana ( trad. it. dell' ed. inglese 1953. 3a e dell'ed. tedesca 1961) 24 ss. Cfr. già Leo, Geschichte der röm. Literatur (1913) 43, nt. 2; V. Arangio Ruiz, Storia del diritto romano 7 (1957) 126; contro, tra gli altri, particolarmente D'Ippolito, Giuristi e sapienti, cit., 51 s. Critico circa l’attendibilità della tradizione, nel presupposto che il fr. del l. sing. enchiridii parli di una sola opera di Appio Claudio, in quanto il de usurpationibus si identificherebbe con la raccolta delle actiones, anche il Brutti, op. cit., 331 s., che aggiunge il rilievo, infondato, che ad Appio Claudio si attribuirebbe una attività di organizzazione sistematica della materia delle actiones (questo sarebbe il senso del ‘redigere ad formam’, su cui v., invece, supra, § 7 e nt. 51). Cfr. anche M. Talamanca, Costruzione giuridica e strutture sociali fino a Q. Mucio, in Società romana e produzione schiavistica. Modelli etici, diritto e trasformazioni sociali (1981) 304, nt. 1, per cui ‘l’effettiva realtà di quest’opera ‘monografica’ è … assai dubbia’.

[103] Lo Schulz, l.c., ammette, in alternativa, che si tratti di opera più tarda, falsamente attribuita ad Appio Claudio. Ma rimarrebbe da spiegare come possa essere stata la sola rintracciabile in tutta la tradizione giuridica.

[104] Nel sottolineare la specificità dell'opera - che è possibile - non si vuol concedere nulla al carattere limitato - che è improbabile. Cfr. infra, § 20.

[105] Mayer Maly¸ op. cit., 221 ss. La sua tesi è ritenuta  molto probabile anche da Bauman, op. cit., 22; 36. Propende per la più ristretta interpretazione tradizionale Wieacker, Röm. Rechtsgeshichte, cit., 534.

[106] La testimonianza di Gell. N.A.3.2 (somm.); 3.2.12-13 (riportata infra, nt. 109) che vi si riferisce è richiamata già dal Corasius e dall'Hotomannus, citati dal Muretus, op. cit., 169.

[107] Gai. 1. 111…Itaque lege XII tabularum cautum est, ut si qua nollet eo modo in manum mariti convenire, ea quotannis trinoctio abesset atque eo modo <usum> cuiusque anni interrumperet.

[108] A parte la difficoltà di identificare l'usus in generale con un fenomeno possessorio, è attualmente disputato se l'usus della uxor non abbia nulla a che fare con quello che rileva nel campo della usucapione e del relativo atto interruttivo. V. I. Piro, 'Usu' in manum convenire (1994) 129 ss., che attribuisce all'usus della uxor il significato di ‘comportamento abituale’, ‘pratica corrente’, ‘consuetudine’ (ivi, 154) e legge la testimonianza della prima parte di Gai. 1.111 relativa alla conventio in manum mediante usus come espressione di una semplice equiparazione con l'acquisto per usucapione. Sul pensiero della Piro cfr. criticamente, E. Cantarella, Labeo 41 (1995) 440 ss.; Peppe, Storie di parole, storie di istituti, SDHI 63 (1997) 175 s., nt. 222; 185; R. Astolfi, Il matrimonio romano nel diritto preclassico (2000) 232 s. Ma cfr. P. Zannini, Labeo 45 (1999) 412 ss.

[109] Gell. N. A. 3.2 (somm.); 3.2.12-13… Quintum quoque Mucium iurisconsultum dicere solitum legi, non esse usurpatam mulierem , quae calendis Ianuariis apud virum matrimonii causa esse coepisset, et ante diem quartum Kalendas Ianuariassequentes usurpatum isset. Non enim posse impleri trinoctium, quod abesse a viro usurpandi causa ex XII Tabulis deberet, quoniam tertiae noctis posteriores sex horae alterius anni essent, qui inciperet Kalendis…H. Levy Bruhl, 'Usurpari' déponent, Rev. de philol. 62 (1936) 345 s., crede trattarsi qui di un deponente.

[110] V. Guarino, op. cit., 9 s.; Piro, op. cit., 129 ss.; Astolfi, op. cit., 220 s.; Santoro, AUPA 46 (2000), cit., 340 s., nt 18.

[111] Le individua ottimamente Guarino, l. c.

[112] V. B. Albanese, Il trinoctium del flamen Dialis, SDHI 35 (1969) 73 ss. Accorda credito all'ipotesi dell'Albanese Bauman, op. cit., 22.

[113] V., nell'ambito delle pratiche e delle interdizioni rituali imposte al flamen dialis ricordate da Gellio, quel che si dice in N. A. 10.15.14 Pedes lecti, in quo cubat luto tenui circumlitos esse oportet et de eo lecto trinoctium continuum non decubat, neque in eo lecto cubare alium fas est. Sul tema v., oltre Albanese, op. cit. 74 ss., già R. Filhol, Usurpatio trinoctii (Aulu-Gelle, Nuits Attiques, X, 15), Hommages à Léon Herrmann (1960) 359 ss.; L. Peppe, Storie di parole, storie di istituti, SDHI 63 (1997) 188 ss.

[114] E' quanto è sostenuto dagli autori citati nella nota precedente.

[115] Per una critica v. A. Guarino,   op. cit., 8 s.; Santoro, AUPA 46 (2000) l. c.

[116] Che il divieto si estendesse alla flaminica ritiene Peppe, op. cit., 189 s. e nt. 275, ma, a parte le difficoltà che lo stesso autore ha presenti, è da rilevare che solo forzandone la interpretazione una testimonianza al riguardo si può ricavare, come egli ritiene, da Gell. N. A.10.15.26-30.

[117] Op. cit., 95, nt. 42.

[118] Al quadro delle interpretazioni tendenti a rintracciare un contenuto più ampio del de usurpationibus va riportata l'ipotesi ora proposta da F. De  Marini Avonzo , Lezioni di storia del diritto romano (1999) 144 ss., secondo cui l'opera avrebbe trattato 'diverse regole connesse all'acquisto dei diritti'. Manca, tuttavia, al di là del possibile significato del termine 'usurpatio', una dimostrazione al riguardo.

[119] Nella recensione a Baumann,  op. cit., 22, contenuta in ZSS 107 (1990) 591.

[120] Op. cit., 11.       

[121] Cfr. Nocera, op. cit. , 82, che pensa che Appio Claudio abbia potuto occuparsi delle arbitrarie e abusive occupazioni di ager publicus.

[122] Sanio, Varroniana in den Schriften der römischen Juristen (1867) 142 ss.

[123] Per le citazioni degli studiosi più antichi che la proposero v. Sanio, op. cit., 142, nt 208.

[124] Il Sanio, op. cit., ammette anche il significato di usus, non implicante la frequenza. Sul punto v. infra, § 14, sub a).

[125] Jörs, op. cit., 86 s., nt. 2 oppone, peraltro a torto, il rilievo che 'usurpatio' indicherebbe sempre un uso anomalo, ma ritiene ammissibile l'opinione del Sanio in quanto l'intepretazione dei giuristi innovò molto rispetto alle norme decemvirali e tuttavia finisce per propendere per la tesi del Huschke. Mostra di dissentire dal Sanio anche il Mayer Maly, op. cit., 222.

[126] Ivi, l.c.

[127] Dei testi richiamati (op. cit., 143 s., nt. 213) Liv. 5.12.8 Cum tamen ultra processum est quam ut unus ex plebe, usurpandi iuris causa, P. Licinius Calvus militum consulari potestate crearetur testimonia bensì un impiego di usurpare in connessione con ius, ma in un senso soggettivo del sostantivo. Lo stesso deve dirsi probabilmente riguardo a Liv. 1.17.9 Hodie quoque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta, a meno che si voglia assegnare qui a ius il significato di 'rito', 'procedimento'. Anche Tac. ann. 6.11 qui consulare munus usurpet e Tac. ann. 3.60 et quaedam (civitates) quod falso usurpaverant sponte omisere riferiscono 'usurpare' a situazioni soggettive. Negli altri testi richiamati 'usurpare' non è impiegato in connessione con ius, tanto meno con ius civile. Così in Quint. inst. or.7.1.3 Igitur, quid ipse sim secutus, quod partim praecepta partim usurpatum ratione cognoveram, promam nec unquam dissimulari (se non debba leggersi piuttosto partim praecepta partim usu partim ratione) ove 'quod' indica i criteri applicati. Così pure in Tac. ann.12.6.16 Morem accommodari, prout conducat, et fore hoc quoque in iis quae mox usurpentur; Plin. epist.10.116 Nam et legis auctoritas et longa consuetudo usurpata contra legem in diversum movere te potuit; Val. Max. 2.3.1 Sed hanc diutina usurpatione formatam consuetudinem C. Marius capite censum legendo militem abrupit, ove compare in connessione più o meno diretta con mos, consuetudo, e in Gell. N..A. 12.10.1 (v. il testo infra, § 14, sub b) ove compare in connessione con verbum, nei quali testi indica l' uso di un mos o di una consuetudo o l'uso di un verbum. Questi ultimi testi, e specialmente Gell. N. A. 12. 10 1, come vedremo, contengono impieghi di 'usurpare' particolarmente interessanti  per la nostra ricerca, ma in prospettiva diversa da quella seguita dal Sanio.

[128] Il Sanio pensa al caso ricordato da Gai. 4.11 relativo al responso in materia di actio de arboribus succisis.

[129] Al D'Ippolito aderisce Schiavone, Scrittura e politica fra Appio Claudio e Sesto Elio, cit., 27 s.; contro, Albanese, Le 'Notae iuris' di Probo e il 'ius Flavianum', cit., 18 ss.

[130] V. Mommsen, M. Valerius Probus de notis antiquis, in Berichte über die Verhandlungen der Sächs. Gesellschaft der Wissenschaften, Phil.-hist. Kl. 5 (1853) in Gesammelte Schriften 7 (1909) 210 ss.

[131] D'Ippolito, op. cit., 53, che segue in proposito Guarino, Labeo 27 (1981) cit.,10 s. Cfr. Brutti, cit. in nt. 102 ; Schiavone, l.c. Nello stesso senso pare al D'Ippolito di poter addurre quanto dico in Atti Copanello (1982) cit., 206, da cui penso, tuttavia, non potersi trarre una adesione all'idea che il ‘de usurpationibus’ debba identificarsi con il ius Flavianum.

[132] D'ippolito, op. cit., 56.

[133] Op. cit., 57.

[134] Il D'ippolito, l.c., si richiama a questo significato nel testo, laddove nella nt. 24 preferisce richiamarsi al più generico significato di uso. Quanto agli impieghi dell'uno e dell'altro, il D'Ippolito li dichiara attestati  nella lingua letteraria, limitandosi a citare Cic. ad Att. 7.2.8 (su cui v. infra, nt. 154) e Gell. N.A.12.10.1-3 (rectius: 1-2;  su cui v. infra, § 14, sub b).

[135] Op. cit., 56.

[136] V. op. cit. 57, se ad un uso frequente delle actiones allude il discorso, qui fatto, intorno al rendere di dominio pubblico i ‘più comuni’ strumenti processuali. Più chiaro, nello stesso senso, ma non supportato da un corrispondente svolgimento, il titolo dell'intero § 4 (L'uso del diritto), in cui il D'Ippolito sfiora, senza avvedersene, l'aspetto saliente dell'intera problematica. Significativa è, infine, la presa di posizione in ordine alla lezione del testo. Dopo averlo riferito come appare nell' edizione dei Digesta del Mommsen e averlo tradotto omettendo 'actiones' (v. p. 51 e nt. 17), nell'Appendice (p.67) del suo lavoro il D'Ippolito propone l'interessante sostituzione di 'actiones' con 'actionum', basata sulla ipotesi di una m compendiata (actionusscripsisse-actionus scripsisse-actiones scripsisse) da cui può trarsi, appunto (ma è una conclusione che l'autore non esplicita) che l'opera di Appio Claudio riguardasse le usurpationes, ossia gli usi, delle actiones (su tale lezione v. infra, § 15).

[137] V. op. cit., 55 s. e nt. 23.

[138] Sul punto v. supra, § 7 e nt. 53.

[139] V. infra, § 17.

[140]  Albanese, Le 'notae iuris' di Probo e il 'ius Flavianum', cit., 1 ss. Ritiene possibile la derivazione, ma non diretta, M. Talamanca, BIDR. 89 (1986) 525. Il problema della derivazione delle Notae di Probo riguardanti le legis actiones rimane aperto. Al riguardo è da rilevare che l'indicazione data in Prob. 1 lascia ritenere che esse siano state tratte e dai monumenta pontificum e dai libri iuris civilis e, perciò, tra questi, anche dal ius Flavianum (che, come mostreremo infra, § 19, sopravvisse fin nel II sec.d.C.) e dal ‘de usurpationibus.   

[141] Sulla questione v. infra, § 19.

[142] J. Paricio, Sobre el 'De usurpationibus' de Appio Claudio,  SDHI  60 (1994) 629 ss.

[143] V. infra, §19.

[144] Il Paricio, op. cit., 634, crede che la sua interpretazione possa integrarsi con la linea di svolgimento che, riguardo al termine 'actio' , come non circoscritto all'ambito processuale, ho prospettato in 'Actio' in diritto antico. Poteri negotia actiones nella esperienza romana arcaica (Atti Copanello, 1982) 206 ss. In realtà io ritengo che, fra gli altri, gli atti negoziali e quelli processuali appartenessero ancora ad una stessa nozione di actio. Ne deriva che, operando con quella nozione, Appio Claudio non poteva separarne la trattazione in opere distinte.  

[145] Magdelain, op. cit., 90 s.; 188.

[146] Cfr. Sanio, op. cit., 143; D'Ippolito, op. cit., 52, nt. 19.

[147] V. Mela ap. Ulp. 33 ad ed., D. 24.3.24.2 …quod hodie magis usurpatur; Ulp. 57 ad ed., D. 47.10.13.7 …usurpatum tamen et hoc est, tametsi nullo iure, ut quis prohiberi possit.

[148] V. Plaut. Cist. 505; Enn. Scen.156, sui quali v. infra, nel testo.

[149] V. C. Watkins, Studies in Indo-European legal Language, Instituttions, and Mythology , in Indo-European and Indo-Europeans (1970) 323 ss. Sulla etimologia di usurpare v. Santoro, L' 'usurpare surculo defringendo' di Cic. de orat. 3. 110 e l'interruzione civile dell'usucapione, AUPA 46 (2000) cit., 340, nt. 18 (con lett.).

[150] Cfr. anche, ad es., Tac. ann. 12.6.16 (riportato supra, nt. 127); Tac. ann. 5.5.10 trasgressi in morem eorum idem usurpant.

[151] Ciò è ritenuto anche dal Sanio (v. supra, nt. 124) e dal D'Ippolito (v. supra, nt. 134).

[152] Cfr., per tale esito semantico, Watkins, op. cit., 323.

[153] V. supra, § 8.

[154] Cfr., D. 50. 16. 158 (Cels. 25 dig.) In usu iuris frequenter uti nos Cascellius ait singulari appellatione; con riferimento all'editto del pretore, Cic. ad Att. 7.2.8 Itaque usurpavi vetus illud edictum Drusi, ut ferunt, praetoris in eo, qui eadem liber non iuraret, me istos liberos non addixisse, praesertim cum adesset nemo, a quo recte vindicarentur, su cui F. De Martino, La giurisdizione nel diritto romano (1937) 74; A. Metro, La ‘denegatio actionis’ (1972) 9 s. In quest' ambito può essere riportato l'impiego di 'usurpare' relativo al sumere vindicias della legis actio sacramento in rem, anche in ragione del fatto che Cic. de orat. 3.110, che lo testimonia, parla di 'iure civili surculo defringendo usurpare', ove, tuttavia, 'iure civili' si riferisce all'impiego di una formula. Sul punto v. AUPA 46 (2000), cit., 344.      .

[155] Lascia aperto il problema se 'de usurpationibus' indichi il contenuto dell'opera o ne costituisca il titolo Sanio, op. cit., 143.

[156] D'Ippolito, op. cit., 67.

[157] V. supra, § 11.

[158] Sanio, op. cit., 142 (con lett.).

[159] Si tratta della possibilità interpretativa che abbiamo indicato supra, l. c.

[160] V. Bauman, op. cit., 27.

[161] La difficoltà è prospettata dallo stesso Bauman, l. c., che, perciò, finisce per preferire, sia pure con riluttanza, la restituzione del Mommsen, su cui v. supra, § 11.

[162] Infra § 19.

[163] Dà notizia di tale proposta Muretus, op. cit., 170. L'ammette ipoteticamente Sanio, op. cit., 140.

[164] Il riferimento contenuto in 'hoc' non ha mancato di costituire problema (così per Sanio, op. cit., 140. E' solo un tentativo di eluderlo artificialmente la correzione del testo [qui] videtur<que> ab hoc processisse ut pro Valesiis Valerii essent et pro Fusiis Furii, proposta dal Muretus, l. c., per cui 'hoc' sarebbe prolettico. Crifò, op cit., 173 pensa che 'hoc' si riferisca ad Appio Claudio e perciò intende 'processisse' come allusivo alla discendenza da lui di un altro Appio Claudio, cui si dovrebbe la rilevazione del rotacismo.

[165] Cfr. D'Ippolito, op. cit., 51 ss. La traduzione del testo da lui offerta ('lo stesso Appio Claudio, il quale sembra aver preso le mosse da ciò, trovò la lettera R e sembra che, in seguito a ciò, si passasse a scrivere Valerii, anziché Valesii, Furii anziché Fusii'), contenendo una ripetizione ('sembra …'; 'sembra che…), presta il fianco alla critica dell'Albanese, Le 'Notae iuris' di Probo e il 'ius Papirianum', cit., 18, che la considera un tentativo di dare una apparenza logica ad un testo certamente guasto e perciò vede di buon occhio (ivi, 18 nt. 31; 19) la restituzione del Muretus. E, tuttavia, quel che il D'Ippolito ha reso con le parole 'sembra che, in seguito a ciò, si passasse a scrivere …' corrisponde in sostanza al senso del consecutivo 'ut'. Ma occorre precisare, come facciamo nel testo, che Appio Claudio trovò la R nell'uso comune e non nelle formule e, tanto meno, nelle sigle delle legis actiones.

     Sul fenomeno del rotacismo v. M. Leumann, in Leumann-Hofmann-Szantyr, Lateinische Grammatik I Lateinische Laut- und Formenlehre (1963) 140 s.; G. Radke, Archaisces Latein (1981) 46 ss.

[166] V. Mart. Capella 3.261 ‘Z’ vero idcirco Appius Claudius detestatur, quod dentes mortui, dum exprimitur, imitatur. Su tale intervento v. Leumann, op. cit. , 47 s. (con lett.) che è favorevole alla tesi che Appio Claudio non si sia limitato ad aborrire la lettera ‘Z’, ma l’abbia messa da parte; e rileva inoltre come per Valerii possano ritenersi avvenuti due mutamenti, da un originario Valezio- a Valesio- e, quindi, a Valerio-.

[167]  D'ippolito, op. cit., 55 ss.; contro, Albanese, op. cit.,18 s.

[168] Supra, § 10.

[169] V. particolarmente Fest. 202,15 (supra, § 14, sub b)

[170] Per la sua risalenza v. F. Altheim, Gesch. der lateinischen Sprache (1951) , 405 ss.; Radke, op. cit. 52, Cic. ad fam. 9.21.2 informa che L. Papirio Crasso (censore nell'anno 338 a. Cr.) dei Papirii 'primum Papisius est vocari desitus. Cfr. Radke, op. cit., 52; 187, nt. 211; E. Peruzzi, Civiltà greca nel Lazio preromano(1998) 162, nt. 23. Che Appio Claudio abbia tenuto conto di un fenomeno già sviluppatosi nella lingua ritiene M. Leumann, op. cit., 140, che però, non collegando la seconda parte della testimonianza di D. 1.2.2.36 alla prima, crede che Appio Claudio, censore nel 312 a. Cr.,  abbia modificato i segni grafici impiegati nella lista dei nomi dei censori (cfr. op. cit., 47). Ciò non può escludersi (e gli stessi esempi di nomi in D. 1.2.2.36 lo rendono credibile), ma, se deve ammettersi, si sarà trattato di un intervento successivo a quello relativo al ‘de usurpationibus.

[171] V. supra, § 9.

[172] Cic. pro Mur. 12.25 …Primum dignitas in tam tenui scientia non potes esse; res enim sunt parvae prope in singulis litteris atque interpunctionibus verborum occupatae. V. M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2 (1984) 117. Diversamente, come riferentesi alle sigle, propone, sia pure ipoteticamente di intendere il passo D'ippolito, op. cit., 41, nt. 5; così pure B Albanese, Sull’intervento dell’ auctor nella legis actio sacramento in rem, Labeo 41 (1995) 342, nt. 5. Questa interpretazione è ammissibile (sebbene le sigle siano dette anche, piuttosto, litterae singulares, come risulta da Prob. 3, laddove Prob. 1 parla comunque di singulae litterae, tuttavia forse con riferimento alle singole lettere di cui sono composte le sigle piuttosto che alle sigle come tali), ma non necessaria, anzi improbabile nel contesto, data l'alternativa costituita dalle interpunctiones. 

[173] V., per tutti, Radke, op. cit., 47.

[174] I passi di Ennio riportati da Festo non provano certo che al tempo in cui il poeta visse il rotacismo non si fosse già verificato. Si tratta di forme arcaicizzanti, cui, del resto, si affiancano forme moderne: Enn. Ann. 42 (Vahlen, 8);  81 (Vahlen, 14); 411 (Vahlen, 74); Sat. 70 (Vahlen, 211).

[175] V. Paul. 32 ad ed. D. 17.2.65 pr. Actione distrahitur, cum aut stipulatione aut iudicio mutata sit causa societatis.Va notato che Paolo è autore di un'opera concernente le actiones probabilmente solo negoziali ( cfr. infra, § 21 e nt. 209). V., inoltre, Ulp. 31 ad ed., D. 17.2.63.10. Cfr. Lab. ap. Ulp. 11 ad ed., D. 50.16.19.

[176] L'attivo 'dare' in Gai. 4.17 sarà bene la forma rammodernata che riflette la più moderna concezione della sponsio-stipulatio come vincolo per l'adempimento della prestazione. 

[177] Ha richiamato la mia attenzione sul punto  M. Varvaro, al quale devo la segnalazione del lavoro di G. Radke, cit.,  che presenta il caso di ‘ius’ in un quadro del rotacismo più completo di quello fornito da Leumann-Hoffmann, l.c.

[178] Non osta il fatto che il precetto di XII Tab. VIII. 4 è pervenuto con un impiego di ‘iniuria’ che testimonia che il rotacismo è già avvenuto. Ciò è comune a tutti  i precetti decemvirali che recano impieghi di parole coinvolte nel fenomeno e si spiega in considerazione del fatto che la tradizione dei testi decemvirali è meno risalente. Sul punto e per la spiegazione delle sopravvivenze di parole in cui il rotacismo non è ancora avvenuto, negli esempi di cui alla tradizione grammatico lessicale, v. Radke, op. cit. 126 s.

[179] La richiama D'ippolito, op. cit., 59 ss., che si limita a tentare di utilizzarla a favore della tesi secondo cui le Notae di Probo rifletterebbero il ius Flavianum. In questo senso per il D'Ippolito, presupposta la coincidenza del 'de usurpationibus' con il ius Flavianum, deporrebbe il fatto che Cicerone attribuirebbe ad Appio Claudio l'uso dell'actio in actorem presentem con una formula corrispondente a quella riportata da Prob. 4.7. Anche se l'interpretazione proposta non è scevra da inesattezze e non coglie in tutta la sua portata la testimonianza di Cicerone, al D'Ippolito va comunque riconosciuto almeno il merito di avere portato su di essa l'attenzione.

[180] Sul tema v. B. Albanese, Labeo 41 (1995) cit., 541 ss. (con lett.). Si tratta, propriamente, di actio, in quanto pronunzia solenne, ma probabilmente non di  l e g i s  actio (come ritiene Albanese, op. cit., 346), in quanto la pronunzia non riguarda una lex (originariamente precetto unilaterale, immediatamente operativo, senza limiti di autonomia). Sullo sviluppo della legis actio verso forme dialogiche, strutturalmente bilaterali, a partire dalla legis actio per iudicis arbitrive postulationem, che è utile qui richiamare particolarmente per l'analoga presenza di una postulatio, v. Potere ed azione, cit., 315 ss.; Actio in diritto antico, cit., 214 s. In considerazione di questo sviluppo si potrebbe avanzare l'ipotesi che l'actio in discorso sia entrata nel formulario della legis actio sacramento in rem solo in progresso di tempo, a misura che la razionalizzazione dell'azione ha condotto alla progressiva valorizzazione, al di là della originaria causa irrazionale della formula vindicatoria, della causa negoziale del 'meum esse', anche se tale causa è espressa attraverso il momento  personale della manifestazione, nell'azione, dell'auctor fieri.

[181] Prob. 4.7 Q.I.I.T.C.P.A.F.A. quando in iure te conspicio, postulo, anne fias auctor.

[182] Non deve indurre in errore il fatto che anche nella formula compaia l'espressione 'in iure', questa volta indicante la presenza in tribunale dell'eventuale auctor. E' significativo, in senso opposto, l'accostamento ai 'verba'. Quel che  si può concedere, al più, è che Cicerone abbia impiegato un doppio senso.

[183] Intende bene D'ippolito, op. cit., 60. Per questo valore di ius, con riferimento ad Appio Claudio e alla iurisdictio dei suoi tempi, v.  Liv. 10.22.4-9 (supra, nt. 55).

[184] 'Ille' nel significato di 'il famoso' non avrebbe senso. Non cè ragione di preferire nell'esempio a un cieco qualsiasi un cieco famoso; sì, invece, Appio, 'proprio quello', il Cieco, che aveva scritto ‘de usurpationibus’, posto che la questione riguardava l'uso di una actio.

[185] V. supra, § 17, p.*

[186] V. infra, § 19, circa la sua sopravvivenza fin nel II sec. d. C.

[187] V. supra, § 8 e § 15.

[188] Le riducono ad un'opera sola, invece, Guarino, op. cit., 11; D'Ippolito, op. cit., 53; Talamanca,  BIDR.  89 (1986) cit., 525; Schiavone, op. cit., 27.

[189] V. ante, § 15.

[190] Cfr., per i Tripertita, D. 1.2.2.38 …Sextum Aelium etiam Ennius laudavit et  e x t a t  illius liber qui inscribitur 'Tripertita', qui liber veluti cunabula iuris  c o n t i n e t…  

[191] Con questo rilievo può ritenersi soddisfatta la condizione dalla quale, giustamente, il D'Ippolito, op. cit.,52, ritiene debba dipendere il superamento della critica radicale dello Schulz (su cui v. supra, § 12 e ntt. 101 e 102).

[192] V., in questo senso, infra, § seg., con citazioni in nt. 195.

[193] Ciò risulta, come si accennerà (v. § seg. e nt. 199), dall'impiego di 'uti' riferito alle actiones, ai iura, nel senso di schemi di atti . Talora nel titolo si evidenzia la funzione dell'istruzione (così nei Manilii monumenta).

[194] In questa prospettiva, come abbiamo ricordato (supra, nt. 38), abbiamo proposto una spiegazione del fatto che, a differenza del ius Papirianum e del ius Flavianum, il  ius Aelianum non ricevette la qualifica di 'civile'.

[195] Su queste opere v., intanto, Jörs, op. cit., 86 ss.; 103 s.; 244; M. Wlassak, Röm. Prozessgesetze II (1891) 4 s.(con lett.); Baviera, op. cit., 18 ss.; Schulz, History, cit., 34 s.; 90; 155 s.

[196] V. D. 1.2.2.7 (Pomp. l. sing. ench.) …Augescente civitate, quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium, Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum.

[197] Sul punto v. ante, nt. 52

[198] V. D. 1.2.2.38 …'Tripertita' autem dicitur, quoniam lege duodecim tabularum praeposita iungitur interpretatio, deinde subtextitur legis actio. E' probabile che le actiones seguissero, ciascuna, la interpretatio  di ciascuna legis actio. Sul punto v. Schulz, History, cit, 35 (con lett.); Wieacker, Röm. Rechtsgeschichte, cit., 537 e nt. 39 (con lett.).

[199] Cfr. Varr. de r.r. 2.5.11 Paulo verbosius haec, qui Manili actiones secuntur lanii;  2.7.6 Emtio equina similis fere ac boum et asinorum, quod eisdem rebus in emptione dominum mutant, ut in Manili actionibus sunt perscripta.V. anche 2.3.5; 2.4.5. L’opera non è distinta da quella di cui parla il fr. del l. sing. enchiridii, D. 1.2.2.39, riguardante il ius civile, costituita da sette (non tre, come dice il fr.) libelli (v. Baviera, op. cit. 58 ss.; ivi le opinioni diverse della dottrina precedente) e si identifica, nel contenuto, con le Manilianae venalium vendendorum leges di cui parla Cic. de orat. 1.58.246 (v. in questo senso, ultimamente, L. Labruna, Plauto, Manilio, Catone: premesse allo studio dell’<emptio> consensuaale, Labeo 14 (1968) 39 e nt. 94, (con lett.). Su Cic. de orat. 1.58.246 v. infra, Appendice, ove cerco di dimostrare che si tratta di un'opera che rientra tra quelle che Cicerone chiama studia Aeliana). Almeno in età classica quel che era pervenuto doveva recare il titolo ‘Manilii monumenta’: cfr. C. Ferrini , Storia delle fonti del diritto romano e della giurisprudenza romana (1885) 27 s.; Baviera, I 'Monumenta' di Manilio e il 'ius Papirianum', cit., 37 ss.; altra lett. pro e contro in Labruna, op. cit., 39, nt. 94, che ne dubita. Per la riconducibilità dei formulari ricordati da Varrone alla concezione strumentalistica del diritto, anche se in questo passo si faccia riferimento a formulari anteriori a quelli testimoniati per Manilio (così, contro Baviera, Nota alla dottrina delle 'res mancipi' e 'nec mancipi', Scritti giuridici I, cit., 88, M. Talamanca, La tipicità dei contratti romani fra 'conventio' e 'stipulatio' fino a Labeone, Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell'esperienza tardo-repubblicana [Atti Copanello, 1988] 64, nt. 107; R. Cardilli, L'obbligazione di 'praestare' e la responsabilità contrattuale in diritto romano [1995]118 s.) v.Varr. de r. r. 2.2.5 In emptionibus  i u r e  u t i m u r  eo, quod lex praescripsit. In ea enim plura, alii pauciora excipiunt…De reliquo, antiqua fere  f o r m u l a  u t u n t u r. Cum emptor dixit 'tanti sunt mi emptae?', et ille respondit 'sunt' et expromisit nummos, emptor stipulatur prisca  f o r m u l a  sic:…Cfr. Cic. de r. p. 3.1.17, che lascia intendere che il suo contenuto fosse costituito da iura nel senso di formulari. La derivazione di ‘monumenta’ da monere spinge Ferrini, op. cit., 27,  a sostenere che l'opera avesse una carattere cautelare. Lo stesso carattere dovette avere anche l'opera del contemporaneo Livio Druso, di cui parla Val. Max. 8.7.4 Consimilis perseverantiae Livius Drusus, qui aetatis viribus et acie oculorum defectus  i u s  c i v i l e  benignissime interpretatus est  u t i l i s s i m a s que discere id cupientibus  m o n u m e n t a composuit, che consente di accostarla a quelle che concernono le actiones e di inquadrarla nella concezione strumentalistica del diritto. Il tema dei monumenta va trattato, in generale, come ci proponiamo di fare, nella proiezione dalla originaria concezione esemplaristica alla concezione strumentalistica del diritto.

[200] Sulla questione v. Labruna, op. cit., 39 ss. (con lett.).

[201] Cic. de orat.1.245: si tratta verosimilmente di formule testamentarie. V. Jörs, op. cit., 88 ss.

[202] Varr. de l.l. 6. 89. Sui dubbi che la notizia suscita v. Jörs, op. cit., 89 e nt. 2,; ma cfr. Mantovani, op. cit., 98 (97) nt.126 (con lett.).   

[203] V. infra, nell' Appendice, l'excursus dedicato a questo tema.

[204] Non ne parla Schulz, Geschichte, cit., 106. Talamanca, Costruzione, cit., 307, nt. 14, sostiene ‘l’assenza di opere di questo genere – a livello della nostra documentazione – per quanto concerne qualsiasi giurista posteriore a Manilio ed è perciò, portato a svalutare Cic. de leg. 1.14  Quam ob rem quo me vocas, aut quid hortaris? Ut libellos conficiam de stillicidiorum ac de parietum iure? An ut stipulationum et iudiciorum formulas componam? Quae et conscripta a multis sunt diligenter, et sunt humiliora quam illa quae a nobis expectari puto, quasi che si riferisca alle collezioni già note.

[205] V. la stipulatio Aquiliana; la formula di istituzione di erede dei cd. postumi Aquiliani, di cui a D. 28.2.29 pr.; l'actio de dolo.Cfr. E. I. Bekker, Der Legisactionsprozeβ mit Formeln zur Zeit Cicero’s, Z. f. RG. 5 (1866) 350 s.; Jörs, op. cit., 89; 89 s., nt. 4. 

[206] V. il iudicium Cascellianum di cui a Gai. 4.166 a, in rapporto alla testimonianza richiamata supra, nt. 154, di D. 50.16.158 (Cels. 25 dig.) In usu iuris frequenter uti nos Cascellius uti singulari appellatione, che può essere stata ricavata da un'opera di Cascellio in cui questo giurista si occupava, nel quadro dell'usus iuris, di formule di actiones.

[207] D. 36.4.15 (Valens 7 actionum), che Krüger attribuisce a Venuleio, poiché l’opera non è compresa nell’indice.

[208] Actionum libri X. Lenel, Palingenesia II (1889) 1207 ss., n. 1-6; Schulz, Geschichte, cit., 185.

[209] De actionibus liber singularis (Ind. Flor.). Lenel, Palingenesia I (1889) 951. Il contenuto è costituioto, probabilmente, solo da actiones negoziali. E’ dubbio se con questa opera debba identificarsi il liber singularis de conceptione formularum, di cui è pervenuto un fr. in D. 44.1.20, ma che non è elencato nell’Ind. Flor.

[210] Supra, § 9 e nt. 75.

[211] E’ una tesi che speriamo di dimostrare.V, intanto, G. Scherillo, Il sistema civilistico, St. Arangio Ruiz IV (1953) 445 ss.; Magdelain, op. cit, 196 ss.

[212] V. ante, § 4.

[213] Questi rilievi valgono già per il ius Papirianum, il cui contenuto, in rapporto al più risalente significato di ius come rito, è costituito anche da schemi rituali. Su tale contenuto v. Sul ius Papirianum, cit., 400 ss.

[214] Solo qualche eccezione segnala l'apparato critico dell'edizione teubneriana del Kumaniecki.

[215]Albanese, Le ‘Notae iuris’ di Probo e il ‘ius Flavianum’, cit., 14 (13), nt. 25. Cfr. Jörs, op. cit., 105, nt. 1; Schanz-Hosius,  Röm. Litteratur I 1 (1927) 237; Magdelain, op. cit., 88 e nt. 67; contro, fra i più recenti, Bauman, op. cit., 131 ss.; D'ippolito, Giuristi e sapienti, cit., 49.

[216] V. supra, nt. 52.

[217] Nonostante muova da una traduzione che identifica ciò che sta davanti agli occhi con le norme, finisce con l’intuirlo lo stesso D’ippolito, Giuristi e sapienti, cit. 46 ss., poiché gli ‘pare evidente che qui Crasso riferisce non tanto al complicato processo di formazione delle categorie giuridiche elaborate , in modo indubbiamente complesso, dai maestri repubblicani, quanto, piuttosto, alle loro applicazioni pratiche, riconoscibili in poche parole, in formule concrete’.

[218] Il foro è, ancora alla fine dell'epoca repubblicana, centro dell'attività negoziale, come lo era stato, in origine, il comizio, in ragione della unità spaziale e temporale delle più antiche manifestazioni dell' actio.

[219] Bauman, op.cit,131, si rende conto dell’importanza dell’impiego dell’aggettivo dimostrativo e tuttavia ritiene che esso sia stato usato da Cicerone per indicare la contemporaneità (91 a. Cr:) degli studi di Elio Stilone con  il discorso che Cicerone fa pronunziare a Crasso nel de oratore. Ma così si perde, in favore di un vago e problematico riferimento cronologico, un concreto riferimento a ciò che si è detto precedentemente nel testo.

[220] V. supra, nt. 199.

[221] V. ante, § 21.

[222] V. ante, l. c.

[223] Come è evidente, qui ius civile indica il proprium ius civile (v. E. Ehrlich, Beiträge. zur Theorie. der Rechts (1902) 17; contro Costa, Cicerone giureconsulto I (1927) 23 (22) nt. 3.

[224] Che le legis actiones fossero conservate negli archivi dei pontefici è comune insegnamento fondato principalmente sulla testimonianza del frammento del l. sing. ench., D. 1.2.2.6… actiones apud collegium pontificum erant; cfr. Liv. 9.46.5, su cui supra, § 2, p.*; § 4, p.*    ; Val. Max. 2.5.2, su cui supra, § 2, p. ; * 4, p.* . Ciò può ricavarsi anche da  Prob.1 Quod (cioè, l’uso di notae iuris) in praenominibus legibus publicis pontificumque monumentis et in iuris civilis libris etiam nunc manet; anche se, a differenza di quanto riteneva il Mommsen, M. Valerius Probus de notis antiquis, in Ges. Schriften VII (1909) cit., 210 ss., seguito recentemente dal D'ippolito, Giuristi e sapienti, cit. , 43 ss., si deve negare, con l’Albanese,  op. cit., 5 ss., una corrispondenza esatta, tra l’altro, tra ‘monumenta pontificum’ e notae iuris di Prob. 4 In legibus actionibus haec…, da un lato, e libri iuris civilis e notae iuris di Prob.5 In edictis perpetuis haec…, dall’altro. Si può ritenere, come si trae da Cic. de orat. 1.43.193, che le note relative alle legis actiones siano state ricavate tanto dai monumenta pontificum che dai libri iuris civilis. 

[225] V. M. Bretone , Pomponio lettore di Cicerone, Labeo 16 (1970) 177 ss.; F. Bona L’ideale retorico ciceroniano ed il‘ius civile in artem redigere’, SDHI 46 (1980) 372 s.; contro, D. Nörr  Pomponius oder ‘Zum Geschichtsverhältnis der röm. Juristen, ANRW II 15 (1976) 527 ss. Che si tratti di Q. Elio Tuberone il vecchio, amico e discepolo di Panezio, nipote di P. Cornelio Scipione Emiliano, come vuole Bretone, l. c. o il giovane, vissuto nell’età di Cesare, come vuole

Nörr  D., l. c., non fa, diversamente da quanto ritiene il Nörr, differenza. Sul punto v. rettamente Bona F. L’ideale  retorico ciceroniano ed il ‘ius civile in artem redigere’, SDHI 46 (1980) 372 s.,nt. 313.

[226] V. ante, § 5.