Belìce laboratorio di futuro
di Maurizio Carta
La vita della Sicilia è scandita da terremoti ed eruzioni che hanno portato distruzione ma anche stimolato rinascite, plasmando il paesaggio, facendo sorgere isole, distruggendo e rigenerando città. Ma il terremoto della Valle del Belìce nella notte del 14 gennaio 1968 è quello che più di altri ha scosso e commosso le coscienze, poiché è stato il primo grave terremoto dell’Italia Repubblicana, andato in scena davanti all’intero paese attonito per le tragiche conseguenze sulle vittime e stupito davanti alle condizioni di povertà e insicurezza in cui viveva una parte della popolazione italiana. E il Belìce da cinquant’anni è una poderosa sineddoche della Sicilia: della sua fragilità, ma anche della sua resilienza, della memoria sepolta ma anche della volontà quotidiana. Ricordarne il terremoto vuol dire affrontare questioni di interesse nazionale: l’inefficacia dell’intervento statale muscolare, il ruolo dell’arte pubblica nella costruzione dell’identità e della rinomanza dei luoghi, la forza evocativa delle visioni, le sperimentazioni progettuali non germogliate. Significa parlare di successi e fallimenti, di tensioni ed intenzioni.
Ma è con una utopia che oggi dobbiamo fare i conti! Cinquanta anni fa l’utopia urbanistica ha scelto di ricostruire altrove i centri urbani maggiormente colpiti. Ma lo spostamento di Gibellina, Poggioreale e Salaparuta ha riguardato solo edifici, strade e piazze. Le consuetudini, invece, le trame ed i tessuti urbani ed umani non sono stati spostati, sono rimasti – testardi – nei luoghi originari, sepolti nel funerario Cretto di Burri, sommersi dalle analisi e dai progetti, assordati dai proclami e dalle promesse, ma certamente ancora vivi ed oggi potenti produttori di identità, fragorosi postulanti di riscatto e pretendenti di futuro. L’utopia del Belìce ha portato amministratori, urbanisti, sociologi, architetti ed economisti ad affrontare le condizioni di povertà, rese ancora più drammatiche dalla distruzione tellurica, attraverso nuovi metodi e strumenti di sviluppo sostenibile che avrebbero potuto far rinascere la Sicilia occidentale mortalmente ferita. Quell’utopia rivelò presto la presunzione che la qualità si potesse importare, ottenendola come risultato della volontà politica, del progetto e delle opere d’arte. Danilo Dolci in quei luoghi e in un altro tempo insegnava, invece, che il bene e il bello vanno maieuticamente estratti dalla memoria, dalla vita quotidiana e dalle idee di coloro che abitano i luoghi, devono essere il frutto di un’operazione di cura di identità latenti e di estrazione di risorse sommerse.
A cinquanta anni dal sisma, anni di dolore e di dubbi, di esperimenti e di fallimenti, dobbiamo superare la visione commemorativa o sterilmente critica ed assumere un atteggiamento progettuale, capace di traguardare il futuro della Sicilia dal punto di fuga del Belìce. Oggi le nuove popolazioni belicine stanno faticosamente tessendo nuovi legami culturali, sociali, paesaggistici con i luoghi, agendo nell’anima delle città nuove o rinnovate, intessendo nuovi usi, disegnando nuovi paesaggi, scolpendo percorsi che radicano le case, i municipi, le chiese, le stazioni ed i mercati al territorio agricolo, da cui attingono la linfa vitale. Non più città trasferite o ricucite, non più simboli delle ferite, ma città potenti generatrici di comunità, di vite, di passioni, di libertà e di felicità.
Dobbiamo tornare ad aprire le porte ad un’utopia del possibile che faccia del Belìce un laboratorio collaborativo di futuro, lavorando nel profondo della dimensione politica, culturale, sociale, economica e non solo sulla epidermide. Grazie ad amministratori lungimiranti oggi il Belìce è un arcipelago di 12 città connesse da un potente paesaggio agricolo, intessuto da fertili relazioni sociali, produttive e creative per quasi 70.000 abitanti. Rimettere al centro dell’agenda politica nazionale i progetti di sviluppo dell’intero Belìce – come farà il Padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia curato da Mario Cucinella – vuol dire riconnettere il sistema infrastrutturale, soprattutto collegandolo alle porte marine e aeree, vuol dire ricomporre la qualità del paesaggio naturale e l’eccellenza agroalimentare integrandole con lo sviluppo rurale. Significa avere cura del patrimonio storico in modo da produrre valore turistico, ripensare energeticamente l’edilizia e la mobilità e ridisegnare istruzione e sanità. Significa realizzare una rete museale che racconti la storia belicina e che narri il futuro possibile. Vuol dire far tornare il lavoro in questi luoghi come scintilla per alimentare il fuoco dell’innovazione.
Un miraggio? No, un esperimento che stanno già conducendo i comuni del Gal Valle del Belìce insieme alla Scuola Politecnica dell'Università di Palermo, per sperimentare un nuovo progetto per la qualità e sicurezza del territorio attraverso interventi di sistema a Salemi, Gibellina, Partanna, Menfi, Poggioreale, Sambuca, Caltabellotta, Contessa Entellina, Montevago, Santa Margherita, Salaparuta, Santa Ninfa. Interventi materiali e immateriali che coinvolgano soprattutto i giovani, poiché hanno la mente più predisposta alla nuova cultura della cura del territorio, più orientata a guardare ai prossimi cinquant’anni..
[pubblicato su "Repubblica Palermo" del 7 gennaio 2018]
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