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L'infarto culturale. Nuove visioni per le politiche culturali

L'infarto culturale è il provocatorio titolo di un recente pamphlet scritto da quattro autorevoli esponenti dell'establishment economico-culturale tedesco: Dieter Haselbach, professore di sociologia a Marburgo, Armin Klein, professore di management culturale a Ludwigsburg, Pius Knüsel, direttore della Fondazione culturale Pro Helvetia, e Stephan Optiz, professore di management culturale a Kiel e responsabile del Dipartimento Affari culturali del Land Schleswig-Holstein. Un feroce j’accuse sulle politiche culturali pubbliche che ha già suscitato accesi dibattiti in Germania e che si appresta ad accenderne di maggiormente focosi in Italia dove è stato recentemente tradotto per i tipi di Marsilio con un sottotitolo che chiarisce al di là di ogni dubbio: azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura. "Der Kulturinfarkt" descrive la situazione dell'industria culturale europea come prossima ad un collasso: l’offerta cresce sempre di più, mentre la domanda diminuisce e i costi lievitano. Il settore culturale viene diagnosticato ad un passo dall’infarto: «Ci sono troppe cose e sono quasi ovunque le stesse» è la sintesi che rappresenta meglio lo sforzo a cui è sottoposto il sistema. E se la situazione europea è grave, in Italia, a partire dalla stagione dei grandi eventi e dalla bulimia dei musei d’arte contemporanea, abbiamo assistito plaudenti ad un’effervescenza inebriante che ha ulteriormente mandato in affanno il settore culturale. Le esperienze gloriose di Napoli, prima, e di Palermo con il Museo Riso, e poi di Bologna, Rovereto, Catanzaro e Nuoro, fino a Milano con il Museo del Novecento e Roma con il Macro e il Maxxi hanno contribuito a far nascere per emulazione e mimesi tante altre esperienze a livello locale.

Abbiamo surfato su un’onda culturale - spesso uno tsunami - che rivela sicuramente un’autentica sensibilità civile da parte di alcuni amministratori illuminati per difendere alcune esperienze artistiche dalle logiche del mercato o per rendere più accessibile alla comunità l’arte contemporanea o per il desiderio di diffondere i nuovi linguaggi multimediali. Naturalmente ci sono stati eccessi e sprechi, ma l'attuale crisi di queste istituzioni non è patologica o episodica, è strutturale: frutto di una "miocardite congenita" potremmo dire. Una situazione di allarme derivata dalla eliminazione dell'infinito - solo apparentemente - flusso di denaro pubblico che sosteneva le politiche culturali pubbliche, troppo spesso “dopando” il sistema. Oggi il rigore dei conti pubblici ci impone di ripensare il modello di sviluppo delle politiche culturali, ricordando che il sistema della produzione culturale e delle creative industries è un vero e proprio meta-settore nella "terza rivoluzione industriale", capace di concorrere al 7% del PIL mondiale e del 2,6 di quello Europeo, con un moltiplicatore degli investimenti - se ben utilizzato - maggiore di quello dell'industria chimica o di quella automobilistica. Il punto di partenza della riflessione è che si è prosciugato il fiume di denaro pubblico che, per decenni, è stato riversato su musei e teatri, su fondazioni e convegni, su rassegne e associazioni. In tempi di bilanci pubblici in pre-default - persino nella potente Germania - occorre trovare soluzioni prima che l'aridità prenda il sopravvento trasformando le nostre città nel deserto culturale.

La soluzione deve essere drastica e lungimirante al tempo stesso, riportando la questione nell'arena pubblica: ridurre gli interventi dall’alto per ridistribuirli secondo nuovi criteri non assistenziali e ridurre i sussidi, affidandosi a metodi più seri e rigorosi. Naturalmente verrà subito invocato il mantra ricorrente: "privatizzare" alcune realtà per costringerle a competere in un vero mercato della qualità, per destinare i fondi pubblici rimanenti ad un numero ristretto di istituzioni, ma soprattutto per "incubare" una nuova imprenditoria giovanile ed indipendente più sensibile al mercato globale e capace di incrementare il consumo interno dei prodotti culturali rinnovando la domanda e non solo adattando l'offerta. Dunque, più qualità e meno quantità, più innovazione e meno replicazione, più dinamismo e meno autoreferenzialità. Diventa indispensabile quindi una adeguata ridefinizione dei rapporti tra pubblico e privato, non limitandosi a spostare la soglia di separazione tra l'uno e l'altro a favore ora del pubblico ora del privato, nei fatti chiudendoli entro confini impermeabili che concorrono alla deresponsabilizzazione.

Occorre invece sperimentare nuove forme di politiche culturali condivise in cui il pubblico si impegni in ambiti che non garantiscono sicuri margini di profitto, ma che siano indispensabili per garantire i diritti di accesso e per alimentare l'innovazione; mentre il privato deve sostenere attività affini ai suoi settori d’intervento rendendo disponibile know-how e fornendo capitali per lo sviluppo di segmenti culturali strategici, capaci di incrementare il rendimento sociale delle politiche culturali. Significa anche non guardare solo al privato imprenditore, ma sempre più spesso al privato cittadino, indispensabile arcipelago di valorizzazione, sostegno e controllo. Naturalmente la questione non è solo risolvibile con ricette economiche, ma deve essere affrontata in termini politici, utiulizzando le risorse liberate dalla riduzione dei sussidi e investendole sulla formazione, sulle università e sulla scuola, per colmare il sempre più drammatico “cultural divide” che separa generazioni, classi e attori sociali. Ma anche sugli artisti, sulle startup creative e digitali, sui talenti e sui reticoli fitti di capitale sociale. Accelerando così la formazione di un pubblico più consapevole, più colto, più sensibile al contemporaneo e più esigente, capace di irrobustire il tessuto cardiaco dell'organismo culturale per renderlo non solo capace di resistere, ma finalmente capace di tornare a "pompare" energia vitale per le città..

[© Maurizio Carta, pubblicato in "Balarm", n.30, 2012.]