Il museo-chimera delle città del mondo

di Maurizio Carta ed Elisabetta Franzone
Estratto da Gattopardo, n. 81, dicembre 2024


Nell’ex Convento dei Crociferi di Palermo, Farm Foundation ha aperto uno spazio che si candida a diventare un catalizzatore delle migliori energie creative della città e un contenitore aperto a diversi usi. “Un luogo chimera”, per dirla con Maurizio Carta ed Elisabetta Franzone, l’uno urbanista della generazione X, l’altra studiosa di arti, beni culturali e moda della generazione Z. Che qui dialogano sul progetto del "Museo delle Città del Mondo". Per raccontare di speranze e di trasformazioni.

PALERMO ACCOGLIE LE CITTA' DEL MONDO
Farm Cultural Park, la fondazione di culture contemporanee nata a Favara, è approdata a Palermo aggiudicandosi il bando dell’Agenzia del Demanio per l’uso temporaneo del vetusto e claustrale edificio barocco dell’ex collegio dei Crociferi in via Maqueda con una proposta immaginifica: far deflagrare in città un “Museo delle città del mondo”, un centro espositivo e di ricerca per esplorare e celebrare la diversità urbana. L’edificio perderà la sua austerità, ma non la sua venustà, animato per cinque anni dall’energia creativa di Andrea Bartoli e Florinda Saieva e della loro ampia e vibrante comunità di innovatori urbani. L’agire creativo di Farm non si limiterà ad arricchire l’offerta culturale cittadina, ma sarà catalizzatore e amplificatore di nuova urbanità. “Intende diventare la casa di studiosi, ricercatori, studenti e cittadini attivi interessati a riflettere sulle più urgenti sfide contemporanee delle città, fungendo da piattaforma per la creazione di una comunità globale di pensatori e citymakers e promuovendo una visione condivisa delle città come organismi viventi e in continua evoluzione”, annuncia Andrea Bartoli con il suo sguardo profetico.
Come raccontare una cosa che non esiste ancora, che si mostra per epifanie e che è in piena evoluzione e adattamento? Per questa operazione servono visioni ampie e ottiche prospettiche, così abbiamo composto i nostri punti di vista – quello di un urbanista della Generazione X e quello di una studiosa di arti, beni culturali e moda della Gen Z – realizzando un crossover delle nostre rubriche su Gattopardo in cui le parole interagiscono, si miscelano, si amplificano, partendo dalle nostre impressioni davanti a questa dirompente novità.
Il dialogo è la trascrizione di una conversazione in cui le due voci diventano una sola e per farle riconoscere le abbiamo distinte in normale (Maurizio) e in corsivo (Elisabetta): due diverse tonalità per raccontare di spazio e persone, esplorando la materia o esaltando l’immaterialità, per interpretare e immaginare cosa sarà e cosa potrebbe essere il Museo delle Città del Mondo. Perché raccontarlo oggi è già una forma di costruzione, un ponte tra le idee e la pietra, una cooperazione con Andrea e Florinda e la loro naturale capacità di cogliere i segnali deboli di luoghi e contesti e trasformarli in spazi multipotenziali.



Iniziamo dalla sede, perché il convento dei Crociferi di Santa Ninfa è un edificio monumentale del XVII secolo, con un prospetto rigoroso e severo su via Maqueda, che rompe la sequenza gastronomica aprendo la cortina su un giardino con alberi e banani che spero possa estroflettersi verso la via. Anche lo scalone monumentale, con le sue forme sinuose, concorre a donargli un’immagine fluida, sensuale, morbida che non ci aspettiamo dall’esterno. Il museo romperà la rigidezza dell’edificio e sarà uno spazio aperto e poroso, utilizzabile in ogni sua parte, il porticato potrà essere una piazza per la città e lo scalone un teatro civile. Quando qualche settimana fa ha aperto le porte alla cittadinanza per una intera giornata, subito si è rivelato ai nostri occhi come un organismo proteiforme, composto da geometrie diverse, in un contrappunto di rigidi spazi monumentali e della sinuosa natura selvatica del giardino. Per tutta la giornata lo spazio è stato reso ancora più dinamico dalle migliaia di persone che lo hanno animato delle loro speranze. I corpi e le idee si sono impossessate dell’edificio come un crostaceo che si adatta a un insolito carapace.

Farm ai Crociferi non è solo spazio ma è soprattutto impressioni: la prima visita ha stimolato il mio sguardo con immagini di un progetto ancora in divenire, che agisce dall’interno di uno spazio storicizzato e cristallizzato per ridargli vitalità, soprattutto per renderlo di nuovo visibile. Un luogo rinato grazie alla capacità di sognare con coraggio e di impedire che al risveglio l’idea cullata durante il pensiero onirico, sfumi, lasciando piuttosto che la visione prenda forma o, ancor meglio, plasmi forme già esistenti, offrendo possibilità inedite. Affacciarsi dalle finestre del piano superiore, membrane tra esterno e interno, per esempio, mi ha restituito una impressione nuova di via Maqueda dall’alto: sembra quasi un canale d’acqua e potremmo essere a Venezia o ad Amsterdam, affacciati su uno spazio dinamico e fluido percorso da persone con diverse storie, desideri e aspirazioni. L’immagine dell’acqua e della sua capacità pervasiva può essere un’idea per rigenerare lo spazio museale, per rifocillare e muovere le idee, le quali, anche per capillarità, raggiungono gli spazi più lontani, vivificandoli. Il movimento dell’acqua si ripercuote sull’edificio smaterializzandolo e riplasmandolo sulla base dei desideri delle persone che lo animeranno. Ecco che per un gioco di specchi quell’acqua, impressa nello stesso nome di Palermo, si trasforma nell’orizzonte cui guardare, invertendo i piani ed educandoci a guardare la vita da un’altra prospettiva. Una prospettiva dinamica e fluida.

 

Già, fluida, flessibile, adattabile: una postura frequente della tua generazione ma anche del miglior pensiero della mia, e che mi fa ripensare all’immagine del crostaceo. Risuonano profetiche le parole di Giancarlo De Carlo, profondo conoscitore di Palermo per averne redatto un piano ingegnoso di recupero del centro storico, che esaltava la genialità degli invertebrati: ‘La nostra educazione architettonica – sosteneva – ci dice che è il vertebrato il passo in avanti, ma lavorando mi sono accorto che il crostaceo è infinitamente più libero del vertebrato, ha delle capacità di organizzazione interna, in verticale, in diagonale, perché si è adattato al suo ambiente’. Il convento dei Crociferi rivitalizzato da Farm è indiscutibilmente un potente luogo invertebrato, pronto a scardinare dogmi troppo vertebrati – anche urbanistici e architettonici – e quindi limitati. Lo immagino come un luogo libero che, agendo come un crostaceo, adatta alle diverse vite la forma che assume come casa. Anche Farm si adatterà alla nuova città che abiterà e a sua volta la modificherà, contrastando quella siccità culturale in cui talvolta sprofonda, espellendo troppi giovani.

Mi emoziona pensare che qui nel luglio del 2025 aprirà un centro versatile e dinamico dedicato alla ricerca, allo studio e creazione di contenuti, con lo scopo di approfondire le culture e le storie delle città globali, coinvolgendo la comunità locale e attraendo persone da tutto il mondo. Un luogo di arte e culture contemporanee che farà sentire me e la mia generazione parte di una rete molto più ampia, rendendo Palermo una sineddoche delle città del mondo. Immagino di poter fruire questo nuovo spazio senza costrizioni, attraversando luoghi espositivi, archivi di informazioni e racconti, o vere officine e luoghi di sperimentazione che consentano un movimento flessuoso e adattivo, in relazione ai bisogni e ai desideri del momento. Il progetto di rigenerazione dell’ex convento restituirà alla cittadinanza un ambiente dove arte, sperimentazione e multidisciplinarità interagiscano, contrastando il degrado e generando ricadute economiche positive per la città. Spero possa essere un magnete per restare o per ritornare, un luogo che sappia dare voce a tutti i linguaggi.

 

Il Museo delle Città del Mondo non sarà mai un contenitore, ma un luogo di produzione ed esposizione, insieme: una piazza della conoscenza come in altre città europee, e anche di convivialità. La sua forza sarà quella di essere un archivio e un teatro, un racconto e un trasmettitore: un organismo ibrido composto di diverse parti, ognuna delle quali ne rafforza la capacità di agire come motore civico e culturale.

Lo potremmo chiamare un “luogo chimera”, con il corpo di pietra di un immobile pubblico, la testa multiforme di un centro culturale, il cuore pulsante di una foresta urbana, e gli occhi capaci di uno sguardo che è al contempo introspettivo e generoso. Una chimera seducente composta dalle parti più innovative di un centro culturale contemporaneo che sia anche un potente innovatore sociale. ‘Quale chimera è dunque l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizione, quale prodigio!’, scriveva Blaise Pascal rivelandoci che la chimera non è un mostro, ma la composizione creativa di differenze. Davanti a una chimera ci chiediamo se sia un errore o una epifania, uno scarto o una anticipazione.
È, quindi, ancora attuale domandarsi: si tratta di un mostro o di un prodigio? Le parti eterogenee di cui è composta sono un ostacolo nella realizzazione di se stessa o un valore aggiunto? Le diversità e la multipotenzialità sono in sé un prodigio, poiché attraverso sensibilità differenti possono fornire letture alternative e crossmediali, a cui siamo sempre più abituati. Farm potrebbe essere allo stesso tempo contenitore di una nuova narrazione della città, realizzata da coloro che la abitano e che, anche implicitamente, ne scrivono la storia, ed epifania di una nuova dimensione urbana, catalizzando idee e energie e diffondendole a vasto raggio.

 

Alla fine, una chimera è, quindi, un essere profetico, una figura che ci interroga, ma che è anche un oracolo per fornire risposte, stimolando il dubbio, sul futuro che ci attende. Il museo-chimera di Farm a Palermo indagherà su come abiteremo il mondo per non cadere nella trappola dell’antropocene consumatore e, come un luogo profetico, mostrerà anticipazioni di futuro possibile, esplorando i mutamenti delle città del mondo, sineddoche di quelle di cui racconto spesso le innovazioni, la creatività, la transizione ecologica e digitale, i loro spazi performativi e dei nuovi diritti. Sarà un museo dell’anima delle città.
Dal nostro dialogo emerge che il Museo delle Città del Mondo potrebbe essere – come avrebbe detto Italo Calvino – il frutto della mente o del caso, cioè di un programma predefinito o di una serie di pratiche emotive emergenti, ma ne l’uno né le altre basterebbero a tenere in piedi le sue mura, perché la cosa più importante è la risposta che saprà dare alle tue o alle mie domande. E in particolare alla domanda che attanaglia le nuove generazioni e che ne spinge un rinnovato attivismo: Dove andremo?

Il Museo delle Città del Mondo proposto a Palermo da Farm Foundation, nella sua poliedricità, saprà essere per entrambi – e per tutti coloro che lo visiteranno – una mappa per orientarci nel mare tempestoso del pianeta urbano. Ci aiuterà a chiederci ‘che cosa accade se?’, una domanda cruciale e intergenerazionale per non percorrere strade già battute ma esplorare sempre di nuove. Noi seguiremo senza timore le orme prodigiose della chimera, confidando che ci conducano verso un diverso presente.