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Periferie, riserve di resilienza per le città in evoluzione

 

Le periferie delle città contemporanee si propongono alle politiche pubbliche, alla regolazione del piano urbanistico ed alla configurazione del progetto urbano come componenti attive di una città che si evolve orientata da ampie visioni, guidata da nuovi paradigmi e conformata da rinnovati dispositivi progettuali. Le grandi periferie urbane italiane sono figlie del modello urbanistico del Novecento essenzialmente basato sull’azione congiunta di tre R: Risorse pubbliche, Rendita e Regolazione, che ne hanno fortemente segmentato lo sviluppo relegandole ai margini – spaziali e concettuali – dell’azione urbanistica. Oggi esse si ritrovano ad agire entro un modello di governo delle città – ancora in formazione ma sufficientemente chiaro – alimentato dall’interazione di altre tre R: Resilienza, Riciclo e Riattivazione dei capitali urbani ed entro questo nuovo paradigma possono concorrere alla sua definizione operativa offrendosi come prezioso laboratorio.
Da criticità urbane, portatrici di marginalità e generatrici di conflitti le periferie contemporanee si evolvono – per chi le sappia guardare con occhi nuovi – in componenti significative delle trasformazioni nell’ambito delle metamorfosi delle città. Da aggregati di stigma si trasformano in soggetti attivi del negoziato per le scelte localizzative delle nuove centralità, per le azioni infrastrutturali da compiere in uno scenario di trasformazione metropolitana, per la riconnessione dei reticoli paesaggistici periurbani o per la formazione dei nuovi arcipelaghi sociali nella città più coesa. Da eresie resistenti al paradigma modernista della città competitiva, diventano avanguardie resilienti di un nuovo paradigma che usa la flessibilità, la diversità, la liquidità e la perturbazione come categorie del progetto urbano. Le periferie stesse sono preziose “riserve di resilienza” per la città in evoluzione verso forme più elastiche nella gestione di maggiori problemi, di un maggior numero di soggetti coinvolti nelle decisioni, di una maggiore competizione tra le città e di un conseguente maggiore conflitto tra visioni, soggetti, priorità e risorse. La distanza delle periferie dai centri propulsori del modello urbano compulsivo, consumatore di suolo ed eroditore di risorse in molti casi – non tutti – ne ha preservato alcuni valori insediativi, comunitari, paesaggistici e identitari che possono oggi costituire una preziosa riserva per ripensare una città che, a partire dalla necessità di assorbire la crisi e di adattarsi ai cambiamenti climatici ed energetici, voglia ripensare la sua struttura, redistribuire i suoi centri in forme reticolari, ripensare i rapporti con la dimensione peri-urbana e rurale. Ma è soprattutto dalle periferie che può ripartire una città che riattivi i suoi capitali sociali, territoriali e culturali dopo essere guarita dalla drammatica tossicodipendenza di una “urbanistica subprime” che ne ha anestetizzato la capacità di immaginare, di progettare, di radicare e di controllare.
L’impegno nell’affrontare la questione della riqualificazione delle periferie – spaziali, sociali o economiche – trova quindi un nuovo impulso nel non limitarsi ad un loro recupero fisico o al risanamento ambientale o al miglioramento dell’accessibilità viaria, agendo invece sulla loro più complessiva capacità rigenerativa dei tessuti sociali e spaziali, ma anche economici e produttivi entro nuove visioni di città che si contraggono, che recuperano frammenti di “terzo paesaggio”, che riciclano la dismissione e che rottamano il degrado edilizio.

Sull’ingente patrimonio di tessuti urbani periferici, coinvolti dalla dismissione produttiva o connotati da residenza energeticamente inefficiente e strutturalmente insicura non possiamo agire solo per manutenzione o sostituzione, ma occorre attivare pratiche del riciclo. In particolare è indispensabile attivare procedure di hyper-cycling le quali, attraverso l'attivazione di più cicli di vita in contemporanea sulle stesse aree, sono in grado di renderle più creativamente innovative e tempestivamente rispondenti alle esigenze di domani, meno erosive dell'ambiente, più inclusive dal punto di vista sociale, e più performanti dal punto di vista energetico.
Potremo agire in maniera efficace solo attraverso azioni che siano capaci di intervenire anche sul capitale sociale – coinvolgendo le donne e gli uomini che le abitano – e relazionale – ibridandone i corpi sociali – oltre che sul quello architettonico ed urbanistico, attivando processi di rivitalizzazione della base economica attraverso il ripensamento delle attività produttive, riposizionando le periferie come nodi nella complessiva armatura urbana, ammorbidendo sempre più le rigidezze infrastrutturali, sociali, ambientali delle città contemporanee ed utilizzando le basse densità ed i palinsesti identitari delle periferie per “elasticizzare” i tessuti urbani, per renderli capaci di ripartire con nuovo slancio per superare le crisi ecologiche, finanziarie o energetiche.

La questione delle periferie da problema settoriale diventa oggi sempre più spesso sfida all’interno dei complessivi processi di pianificazione strategica e di riqualificazione urbana. Ed uno dei primi esiti della internalizzazione delle periferie nei processi di piano è la loro identificazione come “aree di rigenerazione integrata”, cioè aree che presentano un sistema interconnesso di domande di trasformazione che richiedono la convergenza di interventi di riqualificazione edilizia, di valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, di rivitalizzazione economica, di miglioramento della dotazione infrastrutturale e di rafforzamento dei servizi di cittadinanza.
La periferia, tuttavia, non è più un atomo inscindibile o una categoria aggregata, e nelle città contemporanee coesistono molteplici periferie in funzione delle diverse identità reattive e delle differenti capacità proattive. Le situazioni periferiche sono un ampio mosaico di quartieri residenziali tendenti al degrado, di periferie di prima cintura con processi di riqualificazione e ricentralizzazione, di periferie peri-centrali in trasformazione fino a periferie centrali (ex borgate o centri storici) sottratte alla qualità del contesto. E questo mosaico policromo e multimaterico richiede altrettanti approcci interpretativi, localizzativi e gestionali, i quali hanno influenza nel determinare una nuova forma urbana che assuma come strutturale il tema delle periferie.
Possiamo individuare qui quattro nodi utili ad una riflessione orientata all’azione progettuale. Il primo nodo è quello della marginalità, poiché connotante rispetto alla qualità delle periferie è il loro carattere di centralità o di marginalità spaziale, in quanto i due elementi, utilizzati come dati di partenza, possono orientare soluzioni specifiche rispetto al disegno della città. Dall’analisi delle principali esperienze italiane possiamo individuare tre caratteri prevalenti: marginalità per evanescenza di servizi, marginalità per sconnessione con il tessuto urbano contemporaneo, e marginalità per degrado ambientale che caratterizza quartieri di edilizia pubblica periferici o aree di declino industriale.
Il secondo nodo è quello del recupero della identità, la cui progressiva perdita è prodotta dall’espansione della città e dalla tensione verso direttrici di sviluppo sempre più esterne che hanno frequentemente provocato fenomeni di marginalizzazione di aree peri-centrali. Alle politiche integrate si dovrà chiedere di esprimere una più esplicita gerarchia di sviluppo urbano, tale che sia capace di creare relazioni funzionali, culturali, economiche tra le periferie ed il resto della città, promuovendo lo sviluppo di reticoli intra-urbani, comunità di quartiere connesse attraverso la razionalizzazione del sistema di trasporto pubblico, arcipelaghi urbani caratterizzati da una precisa identità e scopo.
Il terzo nodo attiene alla partecipazione dei cittadini alle visioni del futuro della città ed alle scelte di attuazione dei piani, troppo spesso affrontata come un problema riguardante esclusivamente le procedure, le forme partenariali, la legittimazione e l’empowerment. Se questi aspetti sono senza dubbio rilevanti, non meno importante è l’esperienza di luoghi di prossimità e laboratori di quartiere collocati nelle aree periferiche e connessi alla rete degli smart data, dove differenti conoscenze, interpretazioni ed interessi sulla città possano entrare in relazione, costituendo l’indispensabile ordito sociale sul quale tessere la trama della qualità urbana.
Infine l’ultimo nodo riguarda la multifunzionalità, orientata ad invertire la tendenza di molte esperienze urbanistiche italiane in cui l’applicazione rigorosa – spesso routinaria – della zonizzazione monofunzionale ha creato situazioni di utilizzo del suolo che hanno spezzato la continuità e la varietà della vita urbana. Nelle città dei recinti e delle gerarchie concentriche realizzate a partire dal boom edilizio – con il conseguente saccheggio dei valori urbani – la varietà dell’esperienza della vita cittadina è andata diminuendo, riducendo le ibridazioni sociali e culturali che stanno alla base del patto di comunità. Oggi per ricostruire il tessuto comunitario delle città, l’urbanistica deve privilegiare, sia alla micro che alla macro-scala, una mixité non solo sociale e di funzioni, ma anche di forme, di configurazioni spaziali e di tempi della vita urbana. La promozione dell’uso misto nelle aree periferiche diventa un’occasione per introdurre maggiore differenziazione e vitalità nel tessuto urbano, evitando quei fenomeni di marginalizzazione causati dal declassamento degli usi. Una delle risposte all’anomia delle città contemporanee – e delle periferie come specchio deformato della crisi urbana – ed alla loro progressiva perdita di identità complessiva a favore di identità specifiche e spesso contrapposte, è l’applicazione del principio della multifunzionalità, il quale garantisce una maggiore varietà e vitalità all’interno del tessuto urbano. Ciò richiederà politiche sensibili ai bisogni delle differenti comunità componenti questi “reticoli insediativi” del futuro, evitando di privilegiare esclusivamente le grandi nodalità già esistenti, ma producendo nuovi nodi che generino nuovi luoghi.

Nelle città contemporanee i quartieri periferici sono portatori di istanze differenti e collocati in contesti urbani generatori di pressioni od opportunità differenziate. Di conseguenza gli interventi, per la loro efficacia e per la qualità degli effetti, devono attraversare contemporaneamente quattro dimensioni:
a) la riconnessione, intesa come azione complessiva di miglioramento dell’accessibilità da e verso le periferie, all’interno del più generale ridisegno della mobilità sostenibile nella città, agendo sia sulla connessione fast, ma soprattutto su quella slow, ma anche ricomponendo le reti ecologiche urbane;
b) la rigenerazione, sia intesa come intervento sul degrado fisico e ambientale che come intervento di lotta all’esclusione ed alla marginalità sociale, potenziando il capitale sociale delle periferie attraverso interventi di riqualificazione capaci di garantire attenzione alla dimensione “micro” con spiccate sensibilità per il progetto della residenza e per la cura degli spazi pubblici, per il contrasto alle fragilità sociali ed economiche e per il coinvolgimento attivo delle minoranze e delle pluri-identità culturali ancora rintracciabili scavando nel palinsesto;
c) la policentralizzazione, attuata attraverso la localizzazione di funzioni di rango metropolitano nelle aree periferiche, capaci non solo di fungere da attrattori che le ricollochino nello sviluppo della città, ma soprattutto di agevolare la localizzazione di attività sportive, commerciali, ludiche o direzionali da cui estrarre occasioni e condizioni per le politiche di coesione attraverso un efficace uso della tassazione diversificata della rendita fondiaria e dei capital gains;
d)
la resilienza, intesa non solo come capacità di adattamento alle spinte della trasformazione urbana ed alle forze degenerative della rendita fondiaria, ma soprattutto come immissione di elasticità nelle politiche urbane per connettere in maniera non rigida risorse, attori, identità e tensioni, per riattivare le filiere funzionali e per rianimare i metabolismi urbani troppo spesso congelati da una visione iper-urbana che nei fatti diventa anti-urbana.
La sperimentazione congiunta delle suddette dimensioni mira ad affrontare i problemi dei grandi quartieri della “città pubblica” degli anni Cinquanta e Sessanta, dei quartieri centrifugati dalla dispersione urbana o dei micro tessuti abitativi peri-urbani di derivazione rurale evitando ablazioni, ricuciture a freddo dei tessuti o trasfusioni di abitanti, sottraendosi ad un approccio di tipo “chirurgico” che implica azioni estremamente invasive, erosive, consumatrici di risorse materiali e immateriali e soprattutto dagli esiti non strutturali. Se nella nostra visione l’urbanistica chirurgica dello sventramento cosmetico, dell’innesto estetico, della demolizione e ricostruzione puramente volumetrica non è più percorribile, non lo è nemmeno l’urbanistica “radioterapica” prodotta dal bombardamento di risorse attraverso trasformazioni immobiliari di aree periferiche o innesti forzati di servizi di centralità e grandi attrattori commerciali.
Risulterebbe più efficace – proseguendo nella metafora sanitaria – una urbanistica di tipo “staminale”, ovvero l’introduzione di alcune “cellule staminali urbane” estratte dai medesimi organismi spaziali e sociali: agricoltura multifunzionale, servizi collettivi, spazi aggregativi dell’associazionismo o del co-working, luoghi centrali nella nuova geografia metropolitana, sostenibilità energetica e ambientale degli edifici, mobilità dolce, etc.

L’operazione di estrazione di staminali urbane è un’operazione importante per se stessa, poiché richiede una preventiva azione rigorosa di interpretazione delle identità, delle vocazioni e delle opportunità locali per individuare gli “embrioni di qualità” da utilizzare nell’innesto. Inoltre, non essendo specializzate nella fase iniziale (cioè non sovrastrutturali rispetto alle identità dei quartieri), le staminali non provocano crisi di rigetto, come potrebbe accadere nel caso di immissione dei corpi estranei della contemporaneità e dell’innovazione in quartieri rimasti per decenni ai margini dell’evoluzione urbana. Le staminali urbane, quindi, non immettono innovazione, ma “generano” innovazione e dinamismo. Il progetto della qualità immesso nel tessuto da risanare, da riqualificare e da potenziare si specializza in maniera creativa, si connette alle cellule esistenti, legandole a sé e generando nuovo tessuto urbano, nuova città con il medesimo Dna, senza ricorrere ad una modificazione genetica. Agire sulle periferie attraverso l’uso delle staminali urbane vuol dire incentivare efficacemente la riduzione del consumo di suolo, evitare che sulle aree peri-urbane non ancora impermeabilizzate o sugli spazi pubblici delle utopie urbanistiche della stagione del Piano Ina-Casa e dei suoi epigoni si concentrino gli ultimi sussulti della rendita fondiaria per sfruttare le residue occasioni del modello di sviluppo urbano tardo-novecentesco.
Le periferie diventano quindi l’occasione preziosa per sperimentare modi e forme di “resistenza urbanistica” alla pressione della rendita, introducendo nel progetto urbanistico un sistema di incentivazioni e compensazioni urbanistiche, che premi ed agevoli chi costruisce riciclando i suoli della dismissione infrastrutturale o residenziale, o chi densifichi gli insediamenti piuttosto che erodere campagne urbane. Va anche agevolato l’incremento dell’efficienza energetica degli edifici pubblici e privati consentendo non solo il risparmio energetico ma, ad esempio, la generazione di un “conto energia urbano” che concorra al sostegno del welfare di quartiere o alla manutenzione degli spazi pubblici, o alla agevolazione dell’insediamento di alcune fasce sociali. In una rinnovata Agenda Urbana, le periferie dovranno essere il laboratorio privilegiato nel quale sperimentare una più efficace fiscalità urbanistica che dovrebbe onerare o tassare maggiormente chi costruisce gli insediamenti sui greenfields, sui lacerti di paesaggio incastonati nelle aree periferiche, ed incentivare e detassare chi realizza gli insediamenti sui brownfields, sulle aree dismesse, o chi agisce sulla sostituzione del patrimonio edilizio inefficiente, degradato o a rischio sismico.

[© Maurizio Carta, estratto dalla prefazione a Barbara Lino, Periferie in trasform-azione. Riflessi dai «margini» delle città, Firenze, Alinea, 2013]