Re-cyclical Urbanism: planning in the Neo-Anthropocene
[estratto da M. Carta, B. Lino, D. Ronsivalle (a cura di), Re-cyclical Urbanism. Visioni, paradigmi e progetto per la metamorfosi circolare, Trento-Barcelona, Listlab, 2016] - Acquista il libro
“C’è una cosa più forte di tutti gli eserciti del mondo,
e questa è un'idea il cui momento è ormai giunto”
Victor Hugo
La metamorfosi circolare
Quando Eugene Stoermer ha introdotto il termine Antropocene per indicare le conseguenze sul pianeta della rivoluzione industriale attraverso l'accelerazione delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche prodotte dall'uomo non poteva immaginare che negli ultimi venti anni un pervasivo "antroposviluppo" avrebbe prodotto effetti anabolizzanti tali da rendere immensa l'impronta umana sul pianeta. E l'impronta è stata scambiata per quella di una divinità – un seducente demone – ed è stata oggetto di una idolatria pervasiva nei confronti della crescita infinita. Il suo culto ci ha consolati con le sue aporie che hanno prodotto una costante erosione di risorse territoriali, di cui quella del suolo è la sineddoche più evidente e allarmante. Insieme al suolo sono state consumate le strutture identitarie dei palinsesti culturali e le trame vegetali delle città, sono stati anestetizzati metabolismi vitali, interrotti i cicli delle acque e dei rifiuti e sclerotizzati quelli della mobilità, rendendoli inefficaci. E’ stata erosa la capacità degli insediamenti urbani di intrattenere le necessarie relazioni con la componente rurale, è stata sedata la capacità produttiva e generativa delle manifatture locali anestetizzando i fattori endogeni di sviluppo, è stato dimenticato il valore rigenerativo della manutenzione edilizia e della cura dei luoghi, così come sono stati interrotti o deviati i naturali processi circolari territoriali.
Dopo numerosi sussulti del pianeta rimasti inascoltati, dopo aver superato molte volte i limiti dello sviluppo spesso con conseguenze drammatiche, la crisi economica dell'ultimo decennio – con la sua virulenza che ha contagiato anche le strutture produttive, sociali e culturali, e persino politiche – ha svelato l'inganno anche all'ultimo dei credenti nelle magnifiche sorti e progressive. E ha prodotto, da un lato, gli evangelisti della decrescita felice e i vegani dello sviluppo, "spingendo gli urbanisti al disimpegno o a un paralizzante senso di colpa" (Sijmons, 2014a). Dall'altro lato ha generato gli urbanisti militanti di uno sviluppo sostenibile efficace – visionari e pragmatici al contempo – convinti che si debba accettare la sfida di vivere nel “buon Antropocene” , progettando la transizione e riattivando la tradizionale alleanza tra componenti umane e naturali come forze coagenti , guidati da un’etica del progetto di integrazione tra uomo e natura, tra città e ambiente come responsabilità collettiva nei confronti del Global Change a partire proprio dalle città . Il neo-antropocene – a tutti gli effetti un "antropocene urbano" (Swilling, Hajer, 2016) – in cui vogliamo entrare, soprattutto come sfida del nostro impegno di studiosi, di educatori e di progettisti, ci chiede un approccio responsabile e militante e il coraggio di una metamorfosi che non solo riduca l'impronta ecologica delle attività umane sul pianeta, ma che utilizzi l’intelligenza collettiva – la noosfera – che deriva dalle nuove idee e sensibilità nei confronti dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale, diffondendole a livello globale in una rinnovata ecologia integrale che si trasformi in protocolli progettuali, dispositivi urbani, nuovi cicli di vita. Dobbiamo essere protagonisti di un mutamento strutturale in cui le città – nelle loro declinazioni metropolitane, reticolari e rur-urbane – siano chiamate a riattivare i propri capitali territoriali guidate da un'urbanistica in grado di garantire nuove forme di convergenza tra sostenibilità culturale, economica, ambientale e sociale. E non solo attraverso l’adozione di rinnovate visioni di futuro o l’uso di nuovi paradigmi, ma soprattutto attraverso l’efficacia delle decisioni, la qualità dei progetti e l’efficienza dei processi. All'urbanistica più avanzata e sensibile alle identità e orientata all'innovazione viene chiesta l'assunzione di responsabilità di rigenerare le proprie condizioni di esistenza, ruolo e coinvolgimento. Nonché di riconsiderare il suo stesso nucleo epistemologico in rapporto alle nuove fonti e forme di conoscenza e di revisionare di conseguenza la propria cassetta degli attrezzi, sostituendo alcuni strumenti regolativi ormai logori con più efficaci strumenti progettuali in grado di agire in concorso con le sempre più numerose pratiche urbanistiche non istituzionali.
La Commissione Europea indica chiaramente che uno sviluppo più intelligente, sostenibile e competitivo richiede un salto di paradigma in cui il territorio venga inteso quale risorsa primaria, considerandolo un detentore di "cellule di sviluppo", troppo spesso sottoutilizzate o mistificate rispetto alle reali potenzialità d’uso (EC, Directorate-General for Research and Innovation, 2012). Alle città progettate e costruite sulla rendita fondiaria – su cui l'Italia ha fatto scuola – occorre sostituire le città della redditività sociale e culturale, della generazione di valore e della produzione di lavoro. Città che riciclano il suolo già utilizzato per evitare di disperderne l'energia, città più intelligenti, non solo in senso tecnologico, ma nel senso di città più sapienti e senzienti, capaci di attivare intelligenze collettive, città più dialogiche e condivise e quindi più responsabili. La strategia europea contenuta in Horizon 2020 indica chiaramente la necessità di utilizzare il potenziale delle "miniere delle città" (le aree, le infrastrutture e gli edifici dismessi), adattando le nuove politiche urbane all'approccio del ciclo di vita (Life Cycle Assessment): dall’approvvigionamento delle materie prime (il suolo e i contenitori dismessi) alla fine del ciclo (i nuovi usi e funzioni), utilizzando il minimo di energia e risorse, anzi riattivando l'energia latente.
Le città dovranno agire entro un nuovo modello evolutivo frutto della innovazione prodotta dalla terza rivoluzione industriale e dalle startup, dell’azione dei makers, della energia generata dalla creatività e della metamorfosi della circular economy. Un modello urbano più responsabile e capace di rimodellare gli obiettivi della produzione dei beni materiali e immateriali, di rivedere i protocolli energetici e di mobilità, ma soprattutto capace di ripensare il modello insediativo: un nuovo pensiero olistico che produca riusi, ricicli ed evoluzioni creative entro un capitalismo di nuova generazione – il “capitalismo 4.0” di cui scrive Kaletsky (2010) – che generi una economia – la “next economy” proposta e declinata da Brugmans, van Dinteren e Hater (2016) – generata dalla integrazione tra energie rinnovabili e economia circolare è capace di produrre nuovo valore dai processi re-ciclici del nuovo metabolismo urbano. Il modello economico che dovrà sorreggere le città nella società circolare dovrà essere capace di generare valore locale, piuttosto che un'economia estrattiva che produca dipendenza dalle strategie esogene delle grandi imprese. Serve tornare ad una economia urbana che sia sostenibile in termini di agevolazione del capitale territoriale e umano, che sia dinamica e propulsiva per il mercato del lavoro e che offra valide alternative alla crescita delle diseguaglianze. Insomma, una economia urbana guidata da un'agenda sociale. Serve quindi una nuova dimensione urbana che combini l'impresa con la cittadinanza, che agevoli l'interazione tra la formazione e il lavoro e tra la residenza e lo spazio pubblico.
L'impegno degli amministratori, degli urbanisti, degli architetti, dei cittadini e delle imprese sarà quello di lavorare su insediamenti urbani caratterizzati da flussi di cicli, alcuni ancora vitali, altri prodotti dall'eccedenza e dalla sovrapproduzione dei complessi urbani in mutamento, lavorare sui ritmi dei tessuti insediativi in dismissione e delle reti infrastrutturali in trasformazione, i quali dovranno essere affrontati attraverso azioni di modifica, di rimozione o di reinvenzione grazie a cui le componenti vengono ricreate, senza distruggerle ma mutandone le funzioni perseguendo un’ottica generativa e aumentando la loro resilienza creativa. Il ritmo del riciclo e del mutamento sarà lo spartito che guiderà città sempre più in costante fluttuazione tra conservazione e trasformazione, tra identità e innovazione (Mehrotra, Vera, Mayoral, 2016), in un metabolismo accelerato dei cicli di vita.
Riciclo non è solo una delle principali parole chiave dell’azione progettuale dell’urbanistica, dell’architettura e del design (Ciorra, Marini, 2011; Marini, Rosselli, 2014), ma è uno dei più potenti pensieri-guida per la trasformazione da una economia lineare dissipativa ad una circolare rigenerativa per città e territori che vogliano percorrere la strada della sostenibilità, della qualità e della creatività (Carta, Ronsivalle, 2015). In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere valorizzati entro un sistema in cui tutte le attività, a partire dall’estrazione e dalla produzione, sono organizzate in modo che i rifiuti di una fase diventino risorse per la successiva. Secondo i principi dell’economia circolare nulla è un rifiuto, e tutto quello che viene scartato da un processo di produzione è la materia prima per un altro processo produttivo, e la stessa progettazione del prodotto è basata sulla possibilità di smontarne le parti e riutilizzarle attraverso successivi cicli produttivi basati sulla cooperazione di filiera e su nuove reti produttive: un più creativo “riciclo programmato” al posto della consumistica obsolescenza programmata . È una società circolare più aperta e collaborativa, fondata sulla sostenibilità e condivisione, il catalizzatore che consente all'economia di trasferire i suoi effetti sul territorio e sui cicli di vita delle comunità, attivandone ed estendendone il dividendo (Bonomi, Masiero, Della Puppa, 2106). La società circolare pretende una nuova responsabilità politica – e quindi urbanistica – per città che tornino a essere accoglienti per le persone, attrattive per le idee, generative per le imprese e solidali per gli arcipelaghi di comunità. Impone di attuare azioni concrete per garantire un nuovo equilibrio tra rurale, urbano e urbanizzabile, tra trame paesaggistiche e orditi infrastrutturali, non solo ponendo limiti al consumo indiscriminato di suolo ma soprattutto stimolando, incentivando e premiando il riutilizzo delle zone già urbanizzate e la densificazione delle funzioni. Pianificare città nell'era del Neo-antropocene e del metabolismo circolare significa rifiutare la consolazione di un approccio molecolare e accettare la sfida dell’approccio ecosistemico, organico, e farsi guidare da una nuova visione che sia lungimirante per guardare lontano nell'orizzonte dell'innovazione, ma anche capace di riguardare indietro recuperando sapienze, rituali e pratiche strutturalmente auto-sufficienti e circolari perché non ancora sedotte dal demone dello sviluppo antropico. Servono anche paradigmi efficaci e progetti concreti intesi come impegni che devono agire per un’urbanistica che sappia influire sul metabolismo urbano, ricombinando il codice genetico contenuto nelle aree e nei flussi da rimettere in circolo, spesso frammentati o indeboliti, ma ancora in grado di generare nuovo tessuto se riattivato dall'energia vitale prodotta dai cicli dell'acqua, del cibo, dell'energia, della natura, dei rifiuti, delle persone e delle merci. Flussi che hanno impatti sulla vita quotidiana delle città e che agiscono inevitabilmente a larga scala contribuendo alla connessione reticolare degli insediamenti. Riconnetterli in una visione olistica del metabolismo è una delle più grandi sfide per urbanisti, progettisti, amministratori e cittadini per dare nuova spinta al neo-antropocene circolare, connettendo le sue componenti tecniche con le sue dimensioni sociali e morali (Sijmons, 2014b). Infine servono nuovi tipi di piani territoriali che agiscano per strategie localizzative piuttosto che per piani comprensivi, piani che lavorino con regole semplici e adattive piuttosto che masterplan, azioni generatrici di insediamento accanto a piani regolativi (Carta, 2015).
Re-cyclical Urbanism: paradigmi, strumenti e pratiche
A mio parere siamo di fronte alla nascita delle prime forme di un Re-cyclical Urbanism , una “urbanistica re-ciclica” basata sul riciclo di aree, infrastrutture e paesaggi e guidata da processi circolari adattivi e incrementali, di cui è indispensabile indagare indizi e pratiche già in atto per individuare le genealogie, riconoscere le epistemologie, definire i protocolli ma soprattutto per forgiare i dispositivi progettuali per re-immaginare l’urbanistica nell’era della transizione circolare. Sono numerose le ricerche teoriche ed empiriche che si stanno facendo carico di riaggettivare l'urbanistica (dall'opensource urbanism di Sassen, al landscape urbanism di Waldheim fino all'ecological di Mostafavi, o altri ancora) come critica e antidoto, sorretti da una teoria sufficientemente robusta, ai modelli urbanistici del recente passato. Serve un nuovo approccio urbanistico che sappia rispondere alla metamorfosi del tradizionale modello europeo di città basate sulla densità, sulla centralità e sull'identità della forma urbana verso forme dell'abitare e del lavorare in ambienti più suburbani che urbani, più vegetali che lapidei, più reticolari che confinati, più produttivi che consumatori (Bergevoet, van Tuijl, 2016). Il Re-cyclical Urbanism lavora quindi non solo sulle potenzialità materiali (aree, cubature, infrastrutture, paesaggi), ma anche su quelle legate alle memorie e alle identità contenute nelle aree da reimmettere in circolo. E’ da queste aree che le città del XXI secolo dovranno produrre nuova intelligenza urbana, a partire dalla riscrittura di “righe di codice” dismesse (le funzioni), dalla riattivazione di “banchi di memoria” non utilizzati (le aree), dal recupero di "routine" urbane ancora efficienti (le infrastrutture). Tutti materiali urbani ancora con tracce di vitalità, che già oggi in molte pratiche si offrono come risorse per la progettazione ecologica e l'agricoltura urbana, come infrastrutture per la mobilità sostenibile e la produzione auto-sufficiente, come impegni per il crowdsourcing e come luoghi per la condivisione e l’innovazione sociale.
Rendere la città re-ciclica significa quindi abbandonare la tradizionale logica lineare erosiva per adottare un nuovo “sistema operativo dello sviluppo” – non più chiuso e predefinito ma opensource – che non solo si arricchisce del contributo dei diversi utenti, ma che impara dall'esperienza, adattandosi ai contesti spaziali, sociali e economici invece che irrigidirli entro standard e norme predefinite. Un sistema operativo – una intelligenza urbanistica – capace di generare una città più sostenibile, più responsabile ma anche più creativa, capace di ripensare modelli di comunità urbana per reinventare le forme dell’insediamento, a partire dalla ri-attivazione dei capitali urbani in dismissione, in mutamento, in crisi. Una città intelligente capace di ridisegnare il modo con cui ci muoviamo, di ritessere rapporti creativi con l’ambiente e il paesaggio e di alimentare la produzione di culture insediative urbane, in grado di riattivare gli organi vitali della città e i suoi cicli di vita, ma anche di reagire agli scenari di declino. Le città del futuro, soprattutto le città medie mediterranee – vero antidoto alle megalopoli mondiali – dovranno agire entro un nuovo capitalismo che operi non più come un set lineare di istruzioni finanziarie ma come un sistema evolutivo e circolare che si reinventa e si rinvigorisce attraverso la crisi – che impara dalla crisi – e capace di fornire una guida dei processi insediativi attraverso una forte integrazione con la sostenibilità ecologica, con la pianificazione territoriale, con la gestione dell’uso dei suoli, con l’efficienza energetica, con la progettazione di morfologie senza sottrarsi dalla produzione di valore. Il nuovo sistema operativo urbano abbandonerà il codice lineare delle obsolete 3R (risorse pubbliche, rendita, regolazione) per adottare quello circolare delle nuove 3R: riciclo, resilienza, riattivazione. Ma perché non rimangano un inefficace mantra e siano capaci di generare nuove pratiche progettuali e dispositivi urbani, esse dovranno essere inserite entro un rinnovato ecosistema urbanistico.
Per chi come me si occupa con approccio militante della ricerca di un nuovo ecosistema urbanistico, sono ormai numerose le evidenze empiriche che fanno riconoscere la presenza di una urbanistica re-ciclica, e per ordinarle ho elaborato una mappa concettuale come un diagramma di flussi che rappresenti le ramificazioni e le evidenze di ognuno dei sette principali rami paradigmatici: l’identità, il policentrismo, la conoscenza, la resilienza, la democrazia, la condivisione, la rigenerazione. Per definirne le tracce, gli indizi latenti e le sperimentazioni in atto, per ognuno dei paradigmi ho definito in che modo, con quali azioni concrete e attraverso quali progetti intercettino le domande di re-ciclo ai diversi livello del paesaggio e delle aree periurbane (landscape), delle città e dei sistemi urbani (city), delle infrastrutture e delle reti (infrastructures), dei quartieri, degli edifici e degli spazi pubblici (districts), dell’innovazione sociale (social innovation) e degli artigiani digitali (makers), identificando le ramificazioni, le ascendenze e le discendenze utili a tracciare una mappa per orientarci e per guidare le successive sperimentazioni.
Utilizzando sempre il prefisso "RE-" caratterizzante l'approccio reciclico, il primo ramo l'ho definito RE-NOWN perché rappresenta il paradigma dell’identità come “reputazione” urbana, indispensabile per agevolare una maggiore identificazione degli abitanti e users con il nuovo metabolismo circolare. Il primo livello a cui agisce è la città, la quale attraverso gli ecosistemi creativi torna a essere un fattore educativo della comunità e occasione di conoscenza e formazione (Marseille, Euroméditerranée). Al livello infrastrutturale assistiamo ad interventi di branding upcycling di viadotti o di ferrovie dismesse che si arricchiscono di azioni di marketing urbano per potenziarne l’azione rigenerativa (il Lowline Park di New York; l’IM Viadukt di Zurich; la Beltline di Atlanta). Al livello dell’architettura e dello spazio pubblico sono i distretti culturali che sempre più spesso rielaborano nuove forme, luoghi e relazioni che contengano e connettano i flussi di informazione e comunicazione che la città genera con sempre maggiore frequenza, portata e velocità, soprattutto a partire dalle sue risorse culturali latenti (Favara, Farm Cultural Park). Infine, l’innovazione sociale è implementata e accelerata dai ruolo dei talenti nella riattivazione delle città, sia nella riqualificazione degli spazi che nella notorietà e reputazione delle città (Barcelona, Mapa del Talent; Palermo, Mappa dei Talenti).
Il secondo ramo è RE-TICULAR e sorregge il paradigma del policentrismo, proteso verso l’impegno di creare nuovi nodi di aggregazione sociale che fluidifichino gli insediamenti, utilizzando luoghi in mutamento e riutilizzati per occasioni di socialità come nuovi attivatori. Agisce in primo luogo sul paesaggio, ripristinando le reti ecologiche in un’ottica progettuale che ridefinisce funzioni e modi d’uso delle componenti naturali e antropiche, ripristinando i reticoli della produzione agricola che hanno strutturato nei secoli il paesaggio europeo, recuperando vecchie tratte ferroviarie, rinaturalizzando infrastrutture in disuso e riattivando funzioni agricole (Netherlands, Natuurbrug Zanderij Crailo Ecoduct). Al livello delle città e delle infrastrutture, sono gli arcipelaghi metropolitani che accelerano l'affermazione di nuovi valori sovralocali che permettano di attivare nuovi cicli semantici sulle aree in trasformazione e in dismissione delle città in transizione dall’egoismo locale ad una dimensione reticolare e policentrica (Randstadt Holland; Poland Reticular Strategy). In particolare al livello infrastrutturale appartengono le gateway cities, le città-porta del sistema globale che fungono da hub nella riattivazione di cicli locali attingendo alle energie prodotte dai flussi globali (Amsterdam, Rotterdam, Barcelona). La conseguenza al livello del quartiere è la proliferazione di hub spaces che agevolano la localizzazione di ambienti urbani strutturati in arcipelaghi di poli competitivi nei diversi campi dello sviluppo, con l'impegno di aiutare le nuove imprese del terziario avanzato o del manifatturiero urbano a rivitalizzare i nodi urbani agevolandone la localizzazione in aree di riciclo a più basso costo insediativo (Impact Hub Global Network; Nantes, Hub Creatic).
RE-THINK è il paradigma delle nuove forme di conoscenza, in grado di agire sulla comunicazione urbana, pianificando occasioni e progettando luoghi in cui le conoscenze del sistema urbano escano dagli specialismi e diventino conoscenza diffusa, competenza intersoggettiva e nuovo pensiero collettivo, diventando materiale concreto per il patto di convivenza delle popolazioni urbane e per il conseguente patto di sviluppo. Appartengono a questo paradigma le ormai consolidate esperienze statunitensi e francesi di interpretation, le quali hanno generato una diffusione di piani di interpretazione dei paesaggi naturali e culturali per guidare la fruizione dell’armatura culturale riattivandone i cicli della conoscenza, dell’educazione e del turismo sostenibile (Site Unesco du Pont du Garde nella Région Languedoc-Roussillon). A livello urbano le politiche di sviluppo sostenibile stanno definendo e consolidando una vera e propria cloud governance che mette a sistema la conoscenza diffusa e prodotta costantemente dalla popolazione e dagli attori locali per produrre un nuovo sistema integrato di sensori e attuatori che renda più efficace e meno dissipativa le politiche urbane (Office for Civic Innovation a San Francisco). Un prodotto a livello di quartiere sono i living labs che sempre più spesso animano le città offrendo luoghi per stimolare l’innovazione aperta e condivisa, integrando il sapere tecnico, i processi innovativi e la domanda sociale con il partenariato pubblico-privato (Sant Cugat LOW3 a Barcelona; il Centquatre a Paris). L’innovazione sociale viene stimolata dalla continua produzione di city apps per smartphone e per dispositivi mobili e indossabili che stanno rivoluzionando il rapporto tra domanda e risposta, tra sensori e attuatori, tra cittadinanza attiva e amministrazioni proattive (Renurban; Boskoi per la mappatura dei paesaggi commestibili; Twitter Mapping di Eric Fischer).
Il ramo RE-SILIENCE incanala la linfa vitale della resilienza e della sostenibilità ambientale e ci spinge ad adottare un atteggiamento elastico e dialogico in cui la flessibilità delle funzioni, la permeabilità degli spazi e l’adattabilità degli insediamenti non vengano più affrontati come problemi puramente concettuali e spaziali, ma vengano messe in relazione con il portato sociale, economico e tecnologico che oggi entra a far parte della costruzione della città, diventando temi/strumenti/norme del progetto della resilienza urbana. Sono sempre più frequenti i nuovi paesaggi peri-urbani prodotti dal riciclo delle discariche come nuovi sistemi vitali capaci di produrre luoghi del loisir e generatori di energia proveniente dal ciclo dei rifiuti (New York, Freshkills Park) Il paradigma della resilienza produce pratiche, genera quartieri o intere città con un nuovo metabolismo urbano, capaci di gestire meglio i cambiamenti climatici o mutamenti idrogeologico, capaci di assorbire le inondazioni producendo nuova forme urbane liquide, soprattutto degli spazi pubblici. L'acqua, ad esempio, anche quando alluvionale o inondante, diventa materia di progetto per essere assorbita da parchi, strade e piazze permeabili, sia per alleviare il sistema fognario sia per creare nuove spazi collettivi legati all’acqua e che respirano con essa (Rotterdam Urban Metabolism; Copenaghen, Saint-Kjelds Climate Adaptation District; New York, BIG U project). Il livello infrastrutturale è oggetto di pratiche di resilienza puntuale attraverso il retrofitting delle strade, delle aree ferroviarie, dei sistemi fognari e delle acque per renderle più adeguate alle esigenze di efficienza energetica e alle sfide dei cambiamenti climatici. Al medesimo livello appartengono le sperimentazioni di agopuntura urbana per riattivare i cicli vitali dei quartieri in declino o in stasi. La riattivazione dei capitali urbani può avvenire facendo leva su piccoli punti di pressione nelle città, dando luogo a un riverbero positivo in grado di investire ampie aree, percorrendo i reticoli funzionali, infrastrutturali, culturali e sociali delle città (Curitiba: le strategie di agopuntura applicate alla città sono state utilizzate come la soluzione ottimale per risolvere le criticità della città contemporanea e le hanno consentito di vincere nel 2010 il Globe Sustainable City Award). I nuovi spazi urbani adattivi sono l’esito sempre più frequente dell’evoluzione del tactical urbanism in cui la riattivazione alla micro-scala e attraverso micro-attori delle risorse urbane viene privilegiata rispetto a programmi di larga scala che prevedono l'utilizzo di ingenti capitali. I nuovi spazi che riadattano le aree e gli edifici dismessi della città in transizione concorrono anche a fornire risposte a una potente domanda di resilienza sociale che produce la realizzazione nei quartieri, nelle comunità di veri e propri centri di innovazione sociale che agevolano la condivisione di spazi e competenze per agevolare la responsabilizzazione nei confronti delle nuove sfide del futuro (Centre for Social Innovation a New York), nonché la nascita di vere e proprie fattorie urbane che riportano l’agricoltura in città oltre la retorica degli orti urbani facendone un poderoso motore di nuova socialità e un alimentatore di rinnovate economie urbane (Valencia, Sociopolis; Munich, Agropolis; Greening Detroit; Hackney City Farm).
Il paradigma della democrazia partecipativa sorregge il ramo RE-SPONSIBLE, il quale richiede che la comunicazione alimenti il miglioramento dei caratteri di partecipazione ed efficienza dei piani stessi, promuovendo ambienti diffusi di cognizione/azione più adeguati ai bisogni sociali e ambientali contemporanei. Il primo effetto è l’estensione del crowdsourcing alle politiche urbane, attraverso un nuovo uso proattivo della cittadinanza come sistema permanente di sensori/attuatori. Una nuova etica argomentativa della pianificazione deve diventare veicolo di relazioni interpersonali, generatore di responsabilità e attivatore di mobilitazione delle intelligenze collettive attorno al progetto urbano attraverso la diffusione di network di urban center sempre meno luoghi fisici e istituzionali e sempre più aperti e condivisi, generando innovazione sociale attorno a sé attraverso un sistema sempre più diffuso di co-working e co-housing che superano la logica iniziale della necessità della condivisione dei costi per aderire ad una potente etica ed estetica della condivisione dello spazio urbano (The Embassy Network: case condivise per i creativi digitali). Entro tale paradigma i makers stanno progressivamente uscendo dai loro laboratori digitali e i cittadini dalle loro associazioni per generare le social streets con l’obiettivo di mettere a disposizione della comunità di prossimità le loro sensibilità, competenze e professionalità al fine di instaurare un legame, condividere necessità e scambiarsi conoscenze per portare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale (via Fondazza a Bologna e i suoi oltre 300 epigoni).
RE-MOTE è il paradigma della condivisione che ha prodotto la open-source city in cui viviamo, la quale ci richiede un'elevata sinergia tra la nuova poli-centralità dei servizi, la struttura edilizia molecolare richiesta dalle nuove forme dell'abitare e l’offerta costante di servizi tecnologici sempre più wireless e cloud based. I nuovi tessuti urbani derivanti dal riuso sono sempre più permeati da componenti digitali (sensori, app, social networking, civic dashboard) che si compongono e ricompongono tra producer e consumer intercettando le domande dei cittadini sempre più prosumers (Ratti, Claudel, 2016). Il ciclo digitale connette le percezioni e loro esigenze di funzionalità e di comfort degli abitanti, integrandola con le loro richieste di conoscenza ed esperienza e con la domanda di democrazia e l’offerta di cooperazione (Smart Citizen Initiative per il monitoraggio condiviso della qualità dell’ambiente; Place Pulse, esperimento di mappatura opensource della percezione urbana). Al livello delle infrastrutture e del quartiere, le sperimentazioni sempre più consolidate ed efficaci di smart grid per la gestione intelligente dell’energia sta modificando il modello tradizionale di produzione energetica delocalizzata e distribuzione inefficiente e onerosa verso un modello che non solo avvicina la produzione al consumo, ma sincronizza in maniera sostenibile la domanda e l’offerta. Molto interessanti sono le sperimentazioni di isolati energeticamente autosufficienti, i quali rimodellano lo spazio insediativo dell’isolato attraverso una polifunzionalità che prevede la interazione dello spazio residenziale, di quello produttivo legato alle nuove manifatture urbane, di quello legato al ritorno dell’agricoltura urbana, connessi con i nuovi cicli della raccolta differenziata e dell’auto-riciclo, con l’autoproduzione di energia fotovoltaica, microeolica o addirittura dalla fotosintesi delle alghe (Solarschiff a Freiburg; il Bed Zed Pavillion a London; l’Algae-Powered Building ad Hamburg). Tutto questo contribuisce ad una profonda innovazione sociale prodotta dall’unione fra lo spazio digitale e fisico creando le condizioni per riattivare la nuova città pubblica attraverso nuove forme e modi di utilizzo dello spazio pubblico. I fablab e gli artigiani digitali sono sempre di più i nuovi protagonisti della città contemporanea che torna ad essere produttiva e manifatturiera (KPMG, 2016), si configurano come un arcipelago di micro-attori dell’economia – ma anche della politica e della società – nella terza rivoluzione industriale, contribuendo al ritorno della manifattura nei capannoni dismessi, alla riattivazione dell’artigianato e alla costituzione di reti cooperative con la ricerca e l’industria, spesso costituendo veri e propri “makers quarters”. Oggi sono più di 350 i Fablab nel mondo e l’Italia, è il terzo paese al mondo dopo Stati Uniti e Francia (il FabLab del MIT a Cambridge, il progetto Fab City di Barcelona o la nuova Manifattura a Trento ci restituiscono tre diverse declinazioni del ruolo urbano dei makers).
RE-MAKE, infine, è il ramo della rigenerazione dello spazio pubblico, la quale attiva non solo luoghi della socialità, ma incentiva la rinascita di nuovi mestieri, rinate manifattura urbane che affiancano quelle tradizionali sopravvissute alla industrializzazione estensiva, rivitalizzandole, modificando antiche sapienze artigianali e adeguandole alle mutate domande dei nuovi consumatori più consapevoli. La città delle professioni innovative e la città produttiva del rinascimento manifatturiero richiederanno sempre più spesso non solo l’esercizio della creatività, della visione strategica, del sostegno economico e fiscale e della gestione innovativa, ma anche progetti integrati e tattiche urbanistiche dello spazio collettivo accompagnate da una costante valutazione degli effetti delle scelte e dal controllo delle performances. Il nuovo ecosistema creativo e innovativo delle città nasce sempre più spesso a partire dai nuovi spazi pubblici, dai paesaggi della trasformazione agricola e da architetture parassite che colonizzano sempre più spesso le aree urbane abbandonate, in attesa o sottoutilizzate, producendo nuovi e più seducenti reticoli urbani molteplicemente percorribili e che connettono alla produzione le nuove funzioni culturali, educative ed ecologiche. Sono i drosscape, formati dagli scarti prodotti dall’evoluzione delle città, considerati come interstizi, spazi in-between, nel tessuto urbano, fasce libere lungo le strade, arcipelaghi di parcheggi, terreni non usati, aree in attesa di sviluppo, zone di scarico rifiuti, distretti di stoccaggio merci: una distesa infinita e pervasiva di interruzioni e perimetri che incorniciano i quartieri abitativi. Sono aree che si accumulano nel processo di deindustrializzazione post-fordista e di innovazione tecnologica e che possono tornare ad accogliere le nuove manifatture urbane. Sono i luoghi della reversing city, la “città inversa” (Secchi, 1999) costituita dai luoghi in transizione, sempre meno spazi residuali e sempre più nuovo protagonisti del progetto re-cycle oriented. Tra le infrastrutture oggetto di revisione e di riciclo sono sempre più diffuse quelle portuali e periportuali, i waterfront urbani come attivatori della città fluida (Ronsivalle, 2016), come rigeneratori urbani attraverso l’energia dei flussi che li attraversa (esemplare è Hafencity ad Hamburg). Protagonisti del paradigma della rigenerazione sono i nuovi distretti energetici, capaci di integrare e valorizzare la domanda pubblica, la riduzione del consumo, gli incentivi energetici e fiscali e l’esigenza privata di interventi di riqualificazione. La loro fattibilità dovrà essere sostanziata dalla stipula di patti energetici a sostegno dei distretti, a fronte di progetti di sostenibilità ambientale e sociale, valutati sulla base di parametri di riciclo riguardanti gli edifici, gli spazi pubblici, la mobilità, il ciclo dei rifiuti e l’infrastrutturazione digitale (l’EcoQuartier de Bonne a Grenoble o l’Eco-quartiers Flaubert e Luciline a Rouen). L’innovazione sociale è incentivata attraverso la pervasività della sharing economy, che sta raggiungendo risultati e dimensioni di tutto rispetto, sia che si tratti di condivisione di beni, servizi, informazioni, spazi, tempo o competenze, o di bartering, ovvero il baratto tra privati ma anche tra aziende, o di crowding, ma anche di making cioè di autoproduzione dall’hobbismo alla fabbricazione digitale, trasformando radicalmente gli ambiti del turismo (Airbnb), dei trasporti (car e bike sharing; Uber), delle energie, dell'alimentazione (Food sharing initiatives) e del design. Anche l’urban making sta ricevendo un forte impulso dalle pratiche di urbanistica DIY (Do It Yourself) e DIT (Do It Together) attraverso cui gruppi di cittadini, di residenti, ma anche di temporary users, di travellers, di hacker urbani e di urban farmers, riattivano spazi, gestiscono luoghi dismessi, si prendono curadi spazi pubblici, mantengono o cogestiscono servizi collettivi (tactical urbanism; pop-up city).
Un’agenda progettuale per l’urbanistica re-ciclica
Il re-cycling urbanism, per non esaurirsi in una concettualizzazione seducente, richiede di verificare la correttezza delle sue intuizioni, la solidità delle sue ipotesi e la sostenibilità delle sue proposte. Dobbiamo sottometterci alla responsabilità di tradurre in regole generali le numerose sperimentazioni processuali e progettuali che punteggiano la mappa dell'urbanistica reciclica, perché non siano solo risposte locali ed episodiche, tattiche vincenti non replicabili al di fuori dei contesti di sperimentazione o al di là del talento del progettista. Siamo di fronte ad una sfida intellettuale che deve tradursi in una sfida progettuale, culturale e politica.
La prima sfida riguarda la normativa, perché credo che sia necessario incentivare il riciclo, per renderlo non solo conveniente ma preferibile, anche agendo entro il quadro giuridico esistente. Ovviamente questo non ci deve sottrarre al tentativo di individuare innovazioni normative o nuovi quadri giuridici che rendano ancor più strutturale il paradigma del riciclo nelle azioni di governo del territorio e di pianificazione urbanistica, aggiungendo alle pratiche messe in campo un ulteriore strato tematico attuativo che lavori sulla combinazione di diritto e fiscalità.
La seconda sfida è operativa e ci chiede di scegliere se il re-ciclo, sia funzionalmente che progettualmente, debba essere molecolare, cioè se si accontenti di agire puntualmente lì dove applicato attraverso specifici dispositivi progettuali, o se debba essere sistemico, e quindi metabolico, pervasivo e perturbativo. La seconda opzione consente che la spinta propulsiva delle prime fasi di una urbanistica basata sul riciclo locale non si esaurisca rischiando una sorta di approccio di maniera. Va superato un approccio in cui il riciclo appare solo un'innovazione lessicale di successo che risemantizza modalità già note, per sperimentare un nuovo paradigma che distrugga – proponendo un'alternativa – abitudini consolidate, ma ormai talmente indebolite da apparire come illusioni.
Il riciclo sistemico per me è un nuovo modo di vedere il mondo che ci circonda orientando l'azione perché sia pertinente alle nuove domande e soprattutto tempestiva rispetto alle domande in corso di formazione: questa è la forza di un nuovo paradigma urbanistico, anticipare risposte. Il progetto creativo, intelligente e resiliente della trasformazione della città, del territorio e del paesaggio richiede un approccio multiscalare e multiattore in cui hanno rilevanza non solo il contributo dell'urbanista ma anche quello del giurista, dell'economista, del manager dello sviluppo e quello della cittadinanza attiva. In un approccio di questo tipo dobbiamo essere orientati all'azione, producendo effetti fattuali sulle città, sulle infrastrutture e sui paesaggi, e non solo convincenti retoriche. Le isole di sperimentazione fondate sull'applicazione del riciclo nei contesti tradizionali non funzionano più, poiché non attivano quella metamorfosi radicale dello sviluppo di cui abbiamo bisogno. È un arcipelago del riciclo che pretendo – che invoco – in cui siano coinvolte non solo le aree naturalmente vocate al riciclo, le aree della dismissione produttiva e infrastrutturale, spesso drammatica, ma anche quelle aree che, pur non essendo direttamente coinvolte da azioni di riciclo, sono coinvolte in un processo di trasformazione attraverso altri approcci e strumenti del progetto, rendendole più efficienti, più sicure, più attrattive, persino più belle. Il riciclo è più un fattore condizionante che una invariante da applicare con fredda replicabilità. Dobbiamo quindi rifiutare un approccio molecolare in cui, fatte salve quelle parti del territorio, in cui si applica il riciclo, il resto può continuare a perseguire l'erosione, il consumo e la produzione di una rendita espansiva – ormai solo cartolare e quindi parassitaria. Per innovare il metabolismo reciclico – adattivo, riutilizzatore e circolare – non possiamo aspettare di revisionare l'apparato normativo vigente, ma dobbiamo agire per pratiche da cui estrarre regole che poi saranno norme. Preferisco quindi un approccio pragmatico, fondato su una visione come quella che anima la nostra ricerca, un modo di agire germinale che agisca per modifica, estensione, interpretazione creativa degli strumenti e delle norme esistenti da cui estrarre le regole che comporranno le norme future. Agendo entro le norme, i piani e i provvedimenti ai loro rispettivi livelli di cogenza e competenza, attraversando scale e soggetti alla ricerca di nuove connessioni.
Ovviamente la domanda è come? Secondo me dovremmo elaborare un dispositivo che renda tangibili gli effetti del re-cycling urbanism, che ne socializzi i vantaggi portandoli nella vita quotidiana delle persone. Serve un vero e proprio "Recycle Dividend", un dividendo collettivo prodotto dai processi di riciclo territoriale. O noi facciamo diventare il riciclo una nuova “moneta” in un capitalismo circolare, un elemento che entri nel gioco della valutazione, un capitale che agisca in un nuovo mercato dei valori culturali, oppure il riciclo rimarrà confinato nelle pratiche locali della sostenibilità invece che diventarne sua matrice costitutiva . La sfida etica che ci offre il dividendo del riciclo è quella di rendere collettivi ed intersoggettivi i suoi effetti. Dobbiamo evitare che il riciclo venga vissuto come un gioco delle élite, come un interesse di pochi invece che essere preteso come un nuovo diritto di cittadinanza capace di estendere i suoi effetti a tutta la comunità, anche a quella non coinvolta nelle azioni dirette. Deve entrare nella quotidianità anche di chi ritiene di non potersi permettere l'onere del riciclo e che preferisce la consolazione dell’espansione.
Il consumo di suolo è stato il nuovo "assenzio" consolatorio delle città contemporanee, e a noi quindi spetta l'onere del risveglio, dimostrando gli effetti rigenerativi di un metabolismo ciclico rispetto a quelli erosivi dello sviluppo lineare. A noi l'onere di dimostrare che la scomparsa di un sistema cospicuo di risorse economiche ci impone un cambio di visione prima che di strumenti, un cambio di azione prima che di norme. A noi l'onere di dimostrare che alla scomparsa di un sistema decisionale gerarchico deve corrispondere un'etica diffusa della responsabilità che impone un approccio circolare, adattivo e non erosivo delle poche risorse disponibili. La nebulizzazione del potere decisionale dei soggetti pubblici comporta la consapevolezza della ricchezza della distribuzione delle competenze entro un vero principio di sussidiarietà, che è soprattutto corresponsabilità.
Dobbiamo spezzare l'illusione che la rana morta possa essere resuscitata dal l'immissione di una corrente elettrica esterna, dobbiamo svelare che i suoi sobbalzi non sono una danza di resurrezione, ma gli spasmi di uno zombie. È finita l'epoca in cui l'eruzione di un progetto urbano finanziato da risorse europee veniva salutata come la nascita di una rinnovata vitalità invece che leggervi il presagio di una fine prodotta dal consumo delle ultime risorse veramente vitali: l’identità, la comunità e l’ambiente.
Propongo quindi una nuova strada per la rigenerazione, che la nostra ricerca e numerose pratiche in atto hanno mostrato con chiarezza: agire sui cicli di vita identitari, lavorare sulle componenti del metabolismo urbano ancora vive, trovare quali siano i fattori vitali da riattivare, i materiali di un bricolage fertile che, come in una barriera corallina, generi nuova vita da materie prime dismesse da altri cicli vitali in una circolarità creativa che produca i salti di livello necessari per produrre energia. Dobbiamo progettare luoghi che possano accogliere funzioni temporanee entro un ciclo programmatico che guarda all'arco della giornata o dell'anno come ispirazione di funzioni, come attrazione di usi ad elevata carica di innovazione.
Torniamo a parlare di tempi e cicli della città, che avevamo troppo presto abbandonato ritenendo che fosse solo una questione che riguardasse la conciliazione dei tempi di vita, le pari opportunità o le differenze di genere. Oggi è anche un problema di ergonomia, di visione metabolica della città che ci indica che nell'arco della giornata inevitabilmente ci siano cicli diversi in cui giocano attori differenti in funzione degli usi più adatti al tempo. La nostra vita è diventata liquida, multilivello e multiscalare, la stessa segregazione sociale si è infranta a favore di una mixité che richiede metabolismi multipli e plurali, un vero e proprio iper-metabolismo che domanda una maggiore circolarità della stessa città.
Sono convinto che dopo aver esitato il “Re-cycle Manifesto” – che ha chiarito le nostre posizioni, non solo scientifiche, ma anche politiche – dobbiamo spingere ancora più avanti la dimensione propositiva nei confronti del governo del territorio e delle politiche urbane, soprattutto in un momento in cui il Paese è impegnato nel ridisegno dell’armatura metropolitana e degli ecosistemi insediativi rurali, nel tentativo di innovazione della legislazione urbanistica, nella sperimentazione di procedure più performanti per la riduzione del consumo di suolo e la mitigazione dei cambiamenti climatici.
Il riciclo, infatti, richiede un programma di azioni ritmate nel tempo che non solo sappia produrre soluzioni immediate per il riuso degli spazi in abbandono, ma contemporaneamente sia capace di attivare le condizioni per ridurre la produzione di nuovi residui o per evitare l'interruzione dei cicli, programmando e progettando la reversibilità degli usi. L’urbanistica re-ciclica sottende un progetto condiviso contro la crisi, poiché nella economia circolare e condivisa le risorse dello scarto, del residuo e del dismesso concorrono in maniera più creativa e meno erosiva a ridefinire il modo con cui ci muoviamo, a chiudere i cicli energetici, ad alimentare la creatività, a produrre nuove ecologie e ad alimentare l'intelligenza urbana. Il riciclo è quindi militante, non si limita ad essere un approccio culturale, una sensibilità ecologica, un'azione sociale, ma richiede una forte etica della responsabilità orientata al mutamento e presuppone azioni concrete.
Ritengo indispensabile estrarre dalle numerose analisi e dalle sperimentazioni che abbiamo condotto nell'ambito della ricerca RE-CYCLE ITALY una “Agenda urbana del re-ciclo”, composta da azioni specifiche da conferire o da indirizzare verso politiche urbane capaci di rispondere alle domande della società circolare , che siano in grado di contaminare la nostra strumentazione e i nostri regolamenti su alcuni punti specifici, che possiamo considerare come i pilastri di un ragionamento, su cui dovremo costruire successivamente, e insieme, l’architettura della nostra azione.
Le prime modifiche alle regole vigenti chiedono di agire nel dominio dell'identità perché i luoghi di cui parliamo sono spesso detentori di connotazioni simboliche potenti, sono riserve di identità nella città in trasformazione. Forse hanno perso l'ultimo strato identitario ma hanno recuperato quello più profondo del loro palinsesto. Riattivare i cicli identitari significa chiedersi, innanzitutto, a quale ciclo appartenesse il luogo, il manufatto, l’infrastruttura o il paesaggio su cui vogliamo agire, quale metabolismo alimentasse la sua funzione, per domandarsi, prima di qualsiasi azione sostitutiva – figlia dell’obsoleto concetto di archeologica industriale come contenitore universale – se sia più opportuno riattivare una funzione identitaria, che costi meno in termini di risorse perché trova una predisposizione, che sia funzionale alla chiusura di un ciclo – produttivo, energetico, infrastrutturale, ambientale – e che ridia circolarità al metabolismo territoriale dell’area.
Altre azioni dovranno agire nel campo del dinamismo sociale che caratterizza le aree da riciclare, come frutto di una insoddisfazione della comunità tra lo stato presente e la voglia di un diverso futuro possibile. I drosscape, i vuoti della città inversa sono spesso luoghi catalizzatori dell’associazionismo, del civismo, del protagonismo sociale, prima per reazione al degrado e poi per proazione risolutiva. Talvolta siamo ancora alla fase dell’effervescenza civica, delle tattiche di riappropriazione dei luoghi che deve essere convogliata in dinamismo attraverso azioni di sistema che definiscano una visione comune che connetta le tattiche, senza tuttavia ridurne l’energia: un approccio opensource, che lavori contemporaneamente per codifica e hacking, per intuizioni e regole.
Servono, quindi, azioni che agevolino l’interazione – tra settori, tra luoghi, tra persone – e che concorrano alla indispensabile multisettorialità, multitemporalità e multiscalarità che sono proprie delle politiche urbane basate sulla circolarità. In particolare la multiscalarità del riciclo non presuppone solo un attraversamento di scale – in cui tutte le componenti sono già presenti ma si rendono visibili progressivamente – ma l'applicazione di un vero e proprio processo di scaling up che sia in grado di gestire la complessità crescente, di spazio, di tempi, di attori e di risorse che si materializzano ed entrano in gioco all'estendersi delle interazioni e dei loro effetti tra le dimensioni sociali, fisiche, culturali, economiche e ambientali.
Altre regole riguardano la potenzialità contenuta in questi luoghi, cioè il riconoscimento di un dislivello tra realtà e progetto, tra sguardo e visione, che permette di trasformare l’energia potenziale in un cinematismo indispensabile alla generazione di risorse – materiali e immateriali – che alimentino in forma autosostenibile il progetto di futuro dell’area. E l’energia potenziale delle aree di riciclo, dei drosscape, delle macerie urbane è elevata, sia in termini di stock, di collocazione geografica, di rinomanza simbolica. Allora sono fondamentali alcune norme e regole che sappiano agire su questo principio di potenzialità, attribuendogli un valore, computabile anche quando agisce nel campo degli intangibili, e che può essere scomputato in un’operazione di rigenerazione urbana che ne riconosca l’esistenza e ne preveda la perequazione urbana.
Alcune azioni dovranno necessariamente agire sulla dimensione amministrativa, innovando il regime proprietario e delle competenze verso un approccio collaborativo, snellendo le procedure autorizzative e di controllo delle trasformazioni nel cambio della destinazione d'uso, fatti salvi i vincoli monumentali e statico-strutturali. L’urbanistica re-ciclica deve agevolare il mutamento delle configurazioni interne e il frazionamento degli edifici per rispondere alle esigenze insediative in continuo mutamento, ma soprattutto deve poter integrare le nuove esigenze abitative e produttive con le nuove opportunità energetiche.
Altre modifiche delle regole attengono alla sostenibilità economica delle trasformazioni, non come punto di equilibrio tra un mix di risorse ma come individuazione di quale siano i nuovi valori da riattivare, chiudendo il circolo residenza-produzione-nuovi stili di vita come indispensabile linfa vitale delle città creative. La città re-ciclica diventa una vera e propria Fab City , luogo di micro-produzioni diffuse, di filiere manifatturiere distrettuali e di economie circolari di quartiere.
Infine, servono azioni perturbatrici, perché le aree di riciclo non sono mai luoghi neutri, sterili, in equilibrio stabile, ma sono invece luoghi in cui agisce una costante vibrazione, luoghi infetti dal virus del cambiamento, luoghi in costante equilibrio precario verso un nuovo stato. Sono luoghi eminentemente resilienti se consideriamo la resilienza come la costante tensione all’adattamento verso nuovi stati evolutivi. Ed è da questo stato di perturbazione che possiamo estrarre quei fattori vitali endogeni in grado di rivitalizzare l’area e di riattivarne il metabolismo senza attendere una illusoria energia esterna.
Tutto questo, naturalmente, si deve tradurre in dispositivi progettuali. Alcune proposte le abbiamo già lanciate in altre occasioni e le voglio qui riproporre sotto la luce delle azioni normative necessarie per attuarle . Innanzitutto ritengo fondamentale la proposizione di programmi di rigenerazione urbana basati su “distretti di riciclo urbano”, all’interno dei quali integrare e valorizzare la domanda pubblica, la riduzione del consumo, gli incentivi energetici e fiscali e l’esigenza privata di interventi di riqualificazione. I distretti di riciclo sono luoghi, prevalentemente alla dimensione del quartiere, in cui si sperimentano forme di vita re-cicliche, una sorta di “barriera corallina” urbana in cui tutto viene messo in riciclo per essere la base costitutiva di altro ciclo di vita. Distretti in cui la ciclicità si fa condivisione di luoghi, ma anche di funzioni – il modello delle social street ci mostra interessanti esempi. Una comunità che ritrova ruoli e responsabilità nei nuovi metabolismi urbani più sostenibili. I distretti di riciclo, tuttavia, non possono essere sottoposti a progetti di rigenerazione che adottino inefficaci masterplan basati sulla previsione di effetti a lungo termine fondati sulla inflessibilità delle decisioni e delle azioni previste. L'urbanistica re-ciclica richiede un approccio incrementale e adattivo di tattiche colonizzatrici, di conseguenti radicamenti consolidativi e di scenari di sviluppo: un protocollo di rigenerazione urbana che ho chiamato Cityforming© Protocol , basato su un approccio da masterprogram strategico basato sulla flessibilità delle azioni e dei tempi, piuttosto che un velleitario masterplan istantaneo, e fondato sul controllo, spesso inefficace e inattuabile nelle condizioni territoriali deboli, fluide e frammentate su cui agisce l’urbanistica delle città in transizione.
A sostegno dei distretti dovranno essere stipulati dei “patti di riciclo", a fronte di progetti di sostenibilità ambientale e sociale, parametrati sulla base di indicatori di riciclo riguardanti gli edifici, gli spazi pubblici, la mobilità, il ciclo dei rifiuti e l’infrastrutturazione digitale. I patti di riciclo, entro le sempre più numerose forme pattizie di accordo tra soggetti per perseguire obiettivi comuni, hanno bisogno di norme che ne facilitino l’esecuzione e ne incentivino l’attivazione, agendo per esempio nel dominio della compensazione fiscale, amministrativa o gestionale. Una vera e propria re-cycle governance che preveda il riciclo come componente premiale nel rapporto tra amministrazione e cittadinanza, ma in un’ottica di area vasta in modo da poter contare su una maggiore leva invece che su più elevati tassi, difficili da ottenere nella ibernazione della progressività fiscale in cui siamo piombati.
Indispensabile è l’attivazione di “agenzie di corresponsabilità” – progettuale, economica, urbanistica e gestionale – tra pubblico, privato, connesse ad una semplificazione responsabile ed a una maggiore efficacia dell’azione amministrativa. Dovranno essere agenzie/laboratori di sviluppo urbano circolare che non si accontentino di gestire, di controllare o di manutentare, ma che co-progettino: una sorta di “società di riciclo urbano” che mettano insieme i possessori della aree, i gestori dei servizi, gli attori istituzionali e i soggetti economici orientati ad una trasformazione delle aree che sia re-ciclica nei termini di cui abbiamo detto finora.
Infine, lo ribadiamo, è necessaria l’innovazione degli strumenti di partenariato pubblico-privato-società civile attraverso l'incentivazione dei principi di compensazione e perequazione urbanistica, della leva fiscale e degli incentivi. Serve una fiscalità urbanistica che premi e agevoli chi costruisce sui suoli di riciclo, ad esempio onerando o tassando maggiormente chi costruisce gli insediamenti sui greenfields, e incentivando e detassando chi realizza insediamenti che riattivino i brownfields e che alleggeriscano l'impronta ecologica dei grayfields.
Sebbene non esaustivi, mi sembrano questi i punti principali di un’agenda – che è anche un’agenda interna alla comunità del progetto urbanistico e territoriale – per regole multiple per attori molteplici.
L'urbanistica re-ciclica è quindi un'azione progettuale e normativa che richiede un impegno condiviso, perché il riciclo non rimanga nell'ambito delle decisioni individuali o delle volontà istituzionali, ma abbia la forza dirompente di un apparato regolamentare – nuovo o ricondizionato – che indirizzi l'azione pubblica, che agevoli i comportamenti privati, che consolidi le pratiche informali e che caratterizzi le nuove strumentazioni operative.
L’urbanistica re-ciclica ci chiama all’impegno di una nuova responsabilità sociale e una nuova ermeneutica del progetto come esito di una circolarità programmata, di una creatività generatrice fatta di cure, di recuperi e di riattivazioni di città che tornino a essere dispositivi sociali per alimentare cicli di vita, nutrici e pascolo dei talenti degli abitanti (per dirla con Platone), magneti per attrarre idee, propulsori per generare innovazione e produrre nuove economie e armature per rafforzare reti di cooperazione: quella che io definisco la “città aumentata” (Carta, 2016). L'economia circolare e le nuove forme produttive devono alimentare nuovi progetti di habitat capaci di mettere al centro i principi di equilibrio, continuità e contezza dei limiti eco-sistemici. Dalla critica dei modelli lineari “produzione-consumo-scarto” la transizione verso la società circolare impone che la circolarità si trasferisca programmaticamente nei processi, nei piani e nei progetti, che alimenti il recupero delle aree dismesse e delle infrastrutture dismesse o sottoutilizzate, che attivi il riciclo dei territori-scarto e che riattivi il metabolismo dei drosscapes, ma che soprattutto produca quel riciclo programmato, di cui abbiamo già detto, per un territorio che evolve senza produzione di scarti inerti e che si sviluppa senza erosione di risorse. Il Re-cyclical Urbanism deve progettare, attivare e governare processi e azioni sistemici orientati al riciclo, attraverso la riattivazione degli edifici in disuso, delle aree latenti e dalle infrastrutture dismesse, risorse preziose escluse dalle scelte di un modello di sviluppo drogato da un moderno kykeon estratto dalla miscela di rendita e finanza pubblica. Ma soprattutto impone una innovazione radicale delle politiche urbane perché siano più efficaci e creative, sensibili ai capitali culturali e paesaggistici e capaci di generare nuovo valore, non solo finanziario, ma territoriale.
Un'azione re-ciclica sistemica richiede agli urbanisti di non accontentarsi di gestire la ritirata strategica dall’urbanizzazione compulsiva, di governare efficacemente la contrazione, di essere obiettori di crescita o di imporre normativamente la riduzione del consumo di suolo, ma dovremo adottare un pensiero/azione che faccia delle pietre di scarto le nuove “pietre angolari” della città nel tempo della metamorfosi. Sono convinto che questa sia la sfida necessaria di una urbanistica che voglia essere efficacemente re-ciclica, concorrendo alla attuazione di un’agenda progettuale per la metamorfosi circolare in cui già viviamo e a cui dobbiamo adattare forme e funzioni dell'insediamento, strumenti progettuali e regolativi, processi di pianificazione e governo.
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