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...Sezione: Archeologia Classica: Pubblicazioni

Fantasmi
Da Maria Clara Ruggieri Tricoli, I Fantasmi e le cose.
La messa in scena della storia nella comunicazione museale
, Milano 2000


Le cose sono come i luoghi: c’è sempre qualche fantasma che le abita.
Nelle cose, innanzitutto, ci sono i fantasmi delle cose stesse: esse un tempo sono state nuove, esse un tempo sono state intere, esse un tempo sono state in uso.
Se ci viene spontaneo pensare che una rovina, un edificio diruto o abbandonato, ospitino fantasmi malinconici, che qualche bel restauro ed un appropriato riuso dell’edificio potranno senz’altro esorcizzare, non ci viene però altrettanto spontaneo pensare che piccoli fantasmi, non meno malinconici, abitino dentro gli oggetti. Non ci viene né spontaneo né facile neppure immaginare che anche per questi fantasmi sia necessario un appropriato esorcismo, una nuova forma di comunicazione, perché essi perdono tutta la loro malinconia.
Non basta, alle volte, conservare le cose in una bella vetrina, se non c’è nulla che esorcizzi i loro fantasmi. Se non c’è, insomma, un meccanismo comunicativo che le faccia tornare nuove e intere, seppur solo virtualmente, che le faccia tornare in uso, seppur solo espositivamente.
Nelle cose, poi, ci sono i fantasmi di chi le ha create, così come in qualche piramide c’è il fantasma dell’architetto immolato, come tanti telesmata, alla morte del faraone.
Se ci viene naturale, di fronte a qualsiasi importante edificio, domandarci chi ne sia stato l’architetto, in quale momento della sua vita lo abbia progettato, a quale cultura generale ed a quali ideali del tutto individuali egli si sia ispirato, sicché, alla fin fine, il suo fantasma, se pur esiste, ci appare come un fantasma del tutto benefico e protettivo, non è altrettanto naturale, di fronte ad una vecchia pentola, intravedere il fantasma del fabbro o del vasaio che l’ha costruita.
Eppure, anche quest’ultimo aveva un nome, viveva e produceva i suoi oggetti all’interno di un proprio sistema culturale, e guardava al suo prodotto con senso estetico e sentimenti di autocompiacimento.
Non basta, dunque, porre la pentola insieme ad altre consimili dentro una bacheca, se non esorcizziamo il fantasma del suo artefice, facendone tornare vivi i pensieri, la manualità, gli strumenti.
Nelle cose, poi, ci sono i fantasmi della gente per la quale le cose stesse sono state create, così come in un castello scozzese ci sono i fantasmi dei suoi antichi abitanti. […]
Non basta, dunque, appendere un quadro assieme ad altri alla parete di una pinacoteca, se non esorcizziamo il fantasma del suo pubblico, e non rendiamo comprensibile come esso lo vedeva in origine, se davvero come un’opera d’arte, o se non, invece, come un’immagine religiosa, come il ritratto di una persona cara o importante per la vita dinastica della famiglia, come un oggetto nuovo, perfino scandaloso, oppure spiritoso, decorativo, significativo, didattico, ininfluente. Se non spieghiamo, come certe nuove forme di didattica museale vorrebbero, chi sono i personaggi rappresentati, o quali siano le specie botaniche, e quale la loro interpretazione simbolica, o quale sia il senso degli emblemi, o il significato più profondo, iconologico, della rappresentazione: non ogni componente del pubblico è un Warburg o un Panowsky in incognito.
Nelle cose, infine, ci sono i fantasmi delle persone che le hanno raccolte, così come nei luoghi abitano non solo antichi fantasmi, ma anche più recenti emanazioni.
Se è del tutto ovvio quando si visita una città o anche una strada, chiedersi come quell’assortimento di stili e di colori, di gusti e di dettagli, si sia potuto formare, se dal caso o dalla storia, se per la pianificazione di qualche politico, o per il progetto di qualche urbanista, molto meno ovvio è che ci domandiamo, di fronte ad una raccolta di oggetti, come e perché quegli oggetti stanno insieme, insomma, che sia qualche cosa di più e di diverso della semplice addizione di quel che ci dice ciascun oggetto preso per sé.
Il collezionista ha una sua personalità, la collezione è una struttura dipendente da quella e non basta, dunque, conservare una collezione in un unico luogo, un oggetto vicino all’altro, se il fantasma del collezionista si aggira ancora nei pressi e noi lo esorcizziamo spiegandone le ragioni, la cultura, i movimenti.
Spesso, gli allestimenti dicono ben poco sulla personalità dei collezionisti che hanno dato origine ai vari musei, spesso, perfino le guide, seppur puntigliosamente compulsate, non dicono molto di più: pensare, invece, che l’umanità e la sapienza celate dietro ad una raccolta commuovono e colpiscono, talvolta, quanto la raccolta stessa. La cultura, alla fin fine, altro non è che la cultura dell’uomo, degli uomini che la fanno, uomini che hanno un carattere, dei sentimenti, dei problemi, e che riversano tutti questi aspetti della loro personalità in quella “ossessione organizzata” che è la collezione: troppo spesso i musei ed i curatori di museo, inariditi dalla specificità disciplinare, dimenticano o sottovalutano l’importanza del fattore umano.
Alla fine, tutti questi fantasmi a piede libero, delle cose, degli artefici, dei committenti, del collezionista, potrebbero tendere una cappa di nebbia sulle cose, una densa caligine di incomunicabilità, uno spettrale lenzuolo di desuetudine e di malinconia.
Quando i fantasmi si aggirano, i visitatori non si aggirano.
Se lo fanno, fuggono spaventati.
Se non fuggono spaventati, escono per lo meno annoiati e, come certi parapsicologi che non credono nei fantasmi, ma cionondimeno si intrigano di esperimenti medianici, confessano di non aver visto niente. Di non avere né visto né capito.

 

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