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...Sezione: Papirologia: Pubblicazioni

I TESTAMENTI ROMANI NEI PAPIRI
E NELLE TAVOLETTE D'EGITTO
Silloge di documenti dal I al IV secolo d.C.

Livia Migliardi Zingale


Terza edizione G. Giappichelli Editore – Torino 1997

INTRODUZIONE


Le fonti papirologiche di provenienza egiziana hanno restituito una preziosa testimonianza di atti solenni di ultima volontà, confezionati nei secoli successivi alla conquista romana d’Egitto secondo le forme previste dal ius di Roma. Si tratta di documenti estremamente significativi per la ricostruzione della prassi testamentaria seguita dai cives romani d’Egitto i quali, ancora poco numerosi prima del 212 d.C., e costituiti in prevalenza da militari e da funzionari dell’amministrazione civile, aumentarono massicciamente di numero dopo il provvedimento legislativo meglio noto con il nome di Constitutio Antoniniana, che estendendo la civitas romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero obbligava anche i nuovi cittadini della provincia egiziana a redigere un atto di ius civile come il testamento in conformità alle norme e alla lingua del nuovo diritto.

In alcuni casi ci sono pervenuti gli originali latini scritti su tabulae ceratae, dei quali il più conosciuto rimane a tutt’oggi il polittico testamentario di Antonio Silvano, giunto in uno stato di conservazione pressoché perfetto; in altri casi sono rimaste le copie, redatte anch’esse in lingua latina e su papiro, dei testamenti trascritti integralmente nei relativi verbali di apertura, oppure tradotte in greco per destinatari ellenofoni, insieme con gli stessi protocolli di apertura. In altri casi ancora sono originali, o copie trascritte nei relativi verbali di apertura, di testamenti ancora romani oppure ampiamente romanizzati ma redatti ormai in lingua greca, dopo la concessione fatta da Severo Alessandro ai cives romani d’Egitto d’utilizzare gli hellenika grammata nei loro atti di ultima volontà.

L’attento esame di questi materiali, che sono stati ritrovati in diverse località dell a provincia egiziana, in particolare ad Ossirinco e in alcuni villaggi del distretto arsinoitico, ha permesso agli studiosi di riconoscere in essi quel genus testamentorum che il giurista Gaio nelle sue Institutiones definisce gestum per aes et libram, cioè il testamento ordinario romano, che un tempo era effettivamente posto in essere attraverso il rituale solenne della mancipatio familiae, cui i documenti ancora si richiamano attraverso la clausola cosiddetta mancipatoria, che ne dà per compiute le solenni e complesse formalità.

Se non è questa la sede opportuna per affrontare tutte le molteplici problematiche del testamento romano nell’ambito più vasto del diritto successorio, utilmente indagate in un corso istituzionale e per le quali si rinvia ai manuali e alla copiosa bibliografia specialistica (1), è tuttavia necessario, prima di leggere i documenti testamentari romani conservati nelle fonti papirologiche di provenienza egiziana – oggetto specifico di questo corso monografico –, descrivere almeno sommariamente forma e contenuto dell’atto, attraverso una breve elencazione delle singole clausole, che sono sempre disposte in ordine rigoroso ed appaiono formulate con locuzioni solenni, così confermando nella prassi quell’astratta ricostruzione dell’istituto già emergente dalle fonti giurisprudenziali ed autoritative.

Dopo l’indicazione del nome del testatore e la qualifica dell’atto, espresse in stile oggettivo con le parole Lucius Titius testamentum fecit, il documento testamentario si apre con la heredis institutio, cioè con la designazione formale di chi è chiamato alla successione, considerata dallo stesso Gaio caput et fundamentum totius testamenti, che da essa soltanto prende vigore ed efficacia. Uniche eccezioni, richiamate dalle fonti dottrinali ed anche attestate nei nostri documenti, sono rappresentate dall’anticipazione della clausola di manomissione, nel caso in cui il de cuius nomini erede uno schiavo, il quale può essere validamente istituito erede soltanto dopo essere stato liberato, oppure della clausola di diseredazione di un suus, nell’ipotesi rara ma ugualmente attestata in cui il testatore invece di un figlio, di un nipote o di un altro discendente in sua potestà nomini erede un estraneo.

All’istituzione di un erede ex asse, cioè per l’intero patrimonio, o di più eredi in quote, secondo la formula heres esto/heredes sunto, quasi sempre rafforzata nei documenti dalla diseredazione generale dei ceteri omnes, segue la clausola con cui il testatore impone all’erede o agli eredi di accettare l’eredità entro un termine stabilito di giorni, dopo il quale possono essere previste sostituzioni in caso di mancata accettazione. Ed è interessante notare che tra i diversi modi di accettazione, formali ed informali, citati dalle fonti giuridiche
cretio, pro herede gestio o anche nuda voluntas –, gli atti della prassi documentino soltanto l’imposizione della cosiddetta cretio, cioè dell’accettazione rituale e solenne dell’eredità, che secondo Gaio è data solitamente agli eredi extranei ma non ai sui e che consiste nella pronuncia di fronte a testimoni di determinate e precise parole con le quali l’erede istituito dichiara appunto di accettare (2).

Sempre in riguardo alla cretio, i documenti testimoniano anche quell’interessante distinzione tra cretio cosiddetta continua e cretio cosiddetta vulgaris, a seconda che il decorrere del tempo stabilito dal testatore per l’accettazione dell’eredità – solitamente cento oppure sessanta giorni – parta immediatamente, cioè senza soluzione di continuità, o soltanto dal momento in cui il presunto erede sappia appunto di essere stato nominato e possa conseguentemente certificarlo; la prima assai gravosa per l’erede, come rileva efficacemente lo stesso Gaio, la seconda più comunemente utilizzata e proprio per questo definita volgare, cioè ordinaria, come conferma ampiamente la stessa prassi documentale.

Frequentemente attestata è pure l’altra distinzione gaiana tra cretio perfecta e cretio imperfecta, l’una caratterizzata dalla formale diseredazione dell’erede in caso di mancata accettazione e della conseguente sostituzione dell’erede in primo grado, l’altra priva invece di siffatta ipotesi.

Le disposizioni a titolo universale sono poi seguite dalle varie disposizioni a titolo particolare, con le quali il testatore dopo aver assicurato l’eredità ai propri cari riesce a beneficare un numero più ampio di persone, attribuendo singoli beni e lasciti ad amici, a liberti e ad altri ancora: tali disposizioni possono essere realizzate sia attraverso la forma del legato ed espresse quindi imperativamente, sia attraverso la forma del fedecommesso, esplicitate allora come preghiera.

Per quanto concerne specificamente i legati, dei quattro tipi – per vindicationem, per damnationem, per praeceptionem e sinendi modo – che ancora una volta Gaio definisce e descrive nel suo manuale istituzionale, riportando le parole e i verbi che devono essere in ciascun caso correttamente adoperati, le fonti documentarie attestano soprattutto i primi due genera, facilmente riconoscibili nelle caratteristiche formule do lego e damnas esto. In particolare appare frequentemente utilizzato il legato per damnationem, che diversamente dal legato per vindicationem non richiede tra i suoi requisiti specifici l’appartenenza al testatore dei beni lasciati, ma serve per legare anche cose altrui creando un obbligo dell’erede nei confronti del legatario: e proprio per questo motivo tale legato è adoperato spesso nei documenti in una formulazione generale e complessiva, unita talvolta a fedecommesso, adatta a confermare e a rafforzare tutte le disposizioni particolari contenute nel testamento.

Anche i fedecommessi, con cui il testatore lascia qualcosa a qualcuno affidandosi totalmente alla lealtà dell’erede e in ciò seguendo non tanto il rigore del diritto civile – dicono le fonti dottrinali – quanto piuttosto la propria volontà, sono ampiamente usati nella prassi testamentaria e sono anch’essi facilmente identificabili nei documenti per i verbi a questo scopo adoperati, che vanno dal più diffuso volo ad altre forme, quali peto, rogo o lo stesso fideicommitto da cui appunto prende nome l’istituto.

Alle attribuzioni di carattere strettamente patrimoniale possono poi seguire altre diverse disposizioni, come la manomissione di schiavi, diretta o indiretta e talora fatta sotto condizione, la nomina di tutori per i figli minorenni o per la moglie, l’istituzione di amministratori o di altre persone cui vengono assegnati compiti specifici, quali la cura del funerale e del relativo culto funebre, o ancora la disposizione di particolari divieti: si tratta in tutti questi casi di clausole che diffictlmente possono essere ricondotte ed inquadrate in un unico formulario rigidamente stabilito, ma si differenziano invece da testamento a testamento, esprimendo in questa varietà e ricchezza di espressioni le singole individualità e personalità dei disponenti.

Le clausole sostanziali sono solitamente concluse da una conferma di eventuali codicilli, cioè di quelle disposizioni particolari fatte al di fuori del testamento, espressa nei documenti con una formulazione più o meno ampia che sempre ne sottolinea l’assoluta informalità, salvo la redazione scritta: ed è interessante a questo riguardo l’esplicito richiamo che si trova in molti documenti ai differenti supporti scrittorii, sui quali tali disposizioni possono essere appunto redatte, siano esse piccole tavole cerate – da cui appunto deriva il nome stesso codicilli – oppure fogli di papiro o di pergamena oppure altro materiale ancora diverso.

In calce al testamento vero e proprio, a chiusra cioè delle disposizioni sostanziali, si possono quindi trovare la clausola formale di dolo, con le parole huic testamento dolus malus abesto, attraverso le quali il testatore esprime l’augurio che frodi ed inganni stiano lontani dalle sue ultime volontà, e la clausola anch’essa formale della mancipatio familiae, la cui formula familiam pecuniamque testamenti faciendi causa emit quissestertio nummo uno, libripende quo …, antestatus este quem …, serve ad attestare l’avvenuto compimento del rito librale o lo dà comunque per avvenuto. Ad esse si accompagnano altre due clausole ancora, costituite dalle precise indicazioni del luogo e della data di confezione dell’atto, cui segue sempre nei testamenti di provenienza egiziana la sottoscrizione del testatore, non richiesta dal diritto di Roma ma rispondente invece alle consuetudini giuridiche dei greco-egizi, i quali già da secoli conoscono ed utilizzano comunemente nei loro documenti la cosiddetta hypographe, sia essa autografa o più facilmente allografa.

Se questa è la descrizione sommaria del testamento ordinario romano attestato nelle fonti papirologiche, è ora necessario sottolneare che, per tutto il periodo che va dalla conquista romana del territorio egiziano nel 30 a.C. fino alla Constitutio Antoniniana de civitate danda del 212 d.C., questo testamento utilizzato in Egitto dai soli cittadini romani e rigorosamente scritto in latino su tabulae ceratae coesiste, se pure in numero nettamente inferiore, con la cosiddetta diatheke, comunemente adoperata da tutti i peregrini ellenofoni per le loro manifestazioni solenni di ultima volontà e tradizionalmente scritta in greco su fogli di papiro.

Ma con l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero la situazione dovrebbe radicalmente mutare, dal momento che anche nella provincia d’Egitto tutti i neocittadini, e non soltanto quei pochi che già da tempo erano stati privilegiati della civitas, sono ora obbligati a confezionare un atto di ius civile in conformità al diritto e alla lingua di Roma, abbandonando così le proprie consuetudini testamentarie.

A questa aspettativa ufficiale la prassi testamentaria egiziana non sembra invece rispondere e nel periodo immediatamente successivo alla Constitutio Antoniniana sono pochissimi i testamenti ancora confezionati secondo il rito librale fino allora rigorosamente utilizzato dai non numerosi cives romani residenti in Egitto: al centro della questione è un interessante provvedimento normativo che soltanto alcuni decenni dopo l’editto di Caracalla, e più precisamente durante il regno di Severo Alessandro, viene emanato per permettere, se non a tutti i novi cives ellenofoni dell’impero, almeno a quelli che abitano nella Valle del Nilo di riadoperare la lingua greca nelle loro disposizioni di ultima volontà, in luogo del latino alla maggior parte di essi completamente estraneo.

Questa costituzione, promulgata certamente per superare le molte e comprensibili difficoltà linguistiche sorte nella redazione di un documento così rigoroso nella sequenza delle clausole e solenne nella sua formulazione – nonostante l’ausilio di formulari latini e di scribi bilingui, che le fonti papirologiche suggestivamente confermano –, provoca invero non soltanto un ovvio ritorno alla lingua greca ed al tradizionale supporto papiraceo, il cui uso è significativamente esplicitato proprio in un documento di questa età, ma porta soprattutto ad una riutilizzazione sempre più massiccia di tutte quelle clausole che avevano contraddistinto le diathekai dei peregrini fino ad anni di poco precedenti.

A partire dalla metà del III secolo d.C. i testamenti conservati nelle fonti papirologiche di provenienza egiziana, accanto ad una presenza sempre più rara e sporadica di formule «romane» tradotte più o meno letteralmente in greco, ripropongono di nuovo quella che è unanimemente considerata dai giusgrecisti la fondamentale caratteristica della diatheke, cioè la particolareggiata e dettagliata distribuzione dei beni fatta dal disponente per il tempo successivo alla morte, così lontana dall’istituzione di erede e dalla rigorosa divisione in quote, affatto peculiari del diritto romano, e solo forzatamente ricondotta da parte di certa dottrina ad un’alquanto improbabile heredis institutio ex re certa, ormai senza distinzione alcuna tra eredi e legatari.

Nei testamenti successivi alla concessione di Severo Alessandro, ricordata più o meno esplicitamente dai testatori proprio all’inizio del documento, si ritrovano sempre con maggiore frequenza le clausole che già caratterizzavano le diathakei ellenistiche, alle quali i documenti di questa età tarda appaiono ricollegarsi in ideale continuità: dalla data di nuovo posta all’inizio dell’atto alla formula introduttiva in cui è fatto un esplicito riferimento alla piena coscienza e alla sanità mentale del testatore, dalla riserva della completa disponibilità dei beni fino al momento estremo della morte alla ripartizione dettagliata e puntuale del patrominoio ereditario, dalla comminazione di multe per chi attacchi ingiustamente la volontà del defunto alla clausola cosiddetta kyria che da secoli ormai è comunemente utilizzata nei documenti negoziali greci, per sottolineare l’assoluta efficacia probatoria della scrittura. In calce al documento, accanto alla sottoscrizione del testatore, ricompaiono inoltre le hypographai dei testimoni già note alla vecchia diatheke, nelle quali essi dichiarano di presentare testimonianza all’atto.

Riemergono poi molti istituti tipici delle consuetudini giuridiche locali ma sconosciuti alla tradizione romana, quali la partecipazione della mdre, per questo detta epakolouthetria, alla tutela dei figli minorenni, o il servizio permanente degli schiavi manomessi per via testamentaria a beneficio di eredi e legatari, in quella particolare forma affatto diversa dal patronato romano che è la paramone.

Del testamento romano è forse rispettato soltanto il numero dei sette testimoni, ripetutamente ribadito da leggi imperiali, anche se non sono rare le eccezioni, ed è inutilmente recuperata quella clausola di dolo che, ignota alla tradizione locale, apriva nel testamento librale la serie delle clausole formali, insieme con la clausola mancipatoria, già da tempo scomparsa nella prassi documentale, prima ancora di essere definitivamente abrogata da Costantino per via legislativa.

Ma è soprattutto l’inserimento anomalo della clausola della stipulatio romana, nella sua stereotipa traduzione kai eperotetheis homologhesa, a sottolineare il definitivo distacco tra le due tradizioni giuridiche, greca e latina: certamente fraintesa in quello che era stato il suo originario significato contrattuale, con il quale era stata correttamente introdotta all’indomani della Constitutio Antoniniana nelle locazioni, nelle compravendite, nei mutui e così via, anche soltanto per una formale adesione al diritto dell’impero, essa viene ora utilizzata in modo anomalo in atti unilaterali quali il testamento. E poco convince l’attribuire ormai a questa antica clausola – come qualche studioso ha pur suggerito – il significato soltanto di un mero riconoscimento da parte del testatore di ciò che il documento contiene.

***

A questa breve descrizione della struttura interna del testamento romano nella prassi documentale egiziana, si può aggiungere ora qualche rapido cenno sull’aspetto esteriore di questo atto, che – come è stato detto altra volta – originariamente è redatto in latino, cioè nella lingua propria degli atti di ius civile, ed è confezionato su tavolette lignee cerate.

Ne è preziosa testimonianza, insieme con altri meno noti ma ugualmente importanti frammenti sempre di provenienza egiziana, il già ricordato testamento librale di Antonio Silvano, che giunto a noi in uno stato di conservazione pressoché perfetto permette non soltanto di analizzare in concreto il modo di confezione e di scritturazione delle tabulae testamentarie, ma anche di controllarne il rigoroso sistema di chiusura e di sigillazione, affiancandosi così utilmente a quelle poche fonti dottrinali che pure affrontano temi così lontani dall’astrattezza del pensiero giuridico.

Il testo del documento è inciso a graphium su cera nelle pagine interne di un polittico costituito normalmente da cinque tavolette lignee, anche se non si possono escludere tavolette più numerose o addirittura più polittici nel caso di documenti particolarmente lunghi e complessi nella loro formulazione. La scrittura, che può essere del testatore o più frequentemente di chi per lui confeziona materialmente il documento – in alcuni casi si può trattare di uno scriba di professione, addirittura bilingue –, inizia nella pagina interna della prima tabula e prosegue nelle altre successive pagine fino a completamento del testo.

Le tavolette sono poi chiuse e sigillate, così come richiede un senatoconsulto di età neroniana, con una cordicella passante per tre volte attraverso appositi fori, sulla quale sette testimoni, di cui tre partecipanti fittizzi al rito della mancipatio familiae, appongono i loro sigilli a garanzia del documento contro eventuali manipolazioni e falsificazioni. Accanto ai signa, che sono impressi normalmente con un anello sul quale è incisa in negativo una particolare immagine, figurano anche le cosiddette adscriptiones, cioè i nomi dei testes/signatores che hanno apposto i sigilli e che ne identificano in questo modo l’appartenenza.

Quanto è stato fin qui detto si riferisce specificamente al testamento romano redatto in latino su tabulae, ma lo stesso vale a grandi linee anche per il testamento romano confezionato in greco su papiro, dopo la già ricordata concessione di Severo Alessandro ai neocittadini ellenofoni di testare nella loro lingua, utilizzando cioè gli hellenika grammata: in questo caso il documento, non più confezionato su polittici lignei, è scritto ad inchiostro su fogli di papiro, poi arrotolati e sigillati secondo il tradizionale sistema delle diathekai ellenistiche, fatta eccezione per il numero dei testimoni che è di sette, come nel mondo romano, e non di sei, come nella prassi documentale greca.

Una volta confezionato, il testamento viene solitamente conservato e custodito, almeno per quanto riguarda la realtà egiziana, presso un ufficio pubblico, anche se sono noti alcuni casi, nei quali la custodia del documento è stata invece affidata a parenti o a persone di fiducia. Ed è comunque in un pubblico ufficio – quali sono ad esempio il loghisterion dello stratego oppure lo statio, dove si paga la cosiddetta vicesima che grava sulle eredità e sulle manomissioni, o ancora altri diversi luoghi a ciò deputati – che il testamento dovrà essere tempestivamente aperto e letto dopo la morte del testatore, alla presenza della maior pars dei testimoni che abbiano riconosciuto l’integrità dei propri sigilli.

Dell’intero rito di apertura è quindi redatto un processo verbale, contenente nella sua parte iniziale la trascrizione integrale del testamento cui seguono le indicazioni relative alla cerimonia stessa di apertura insieme con l’elenco dei testimoni presenti, e da un siffatto protocollo potranno quindi essere tratte tutte le copie necessarie per chi ne faccia specifica richiesta, siano essi gli eredi o i legatari, gli schiavi manomessi o quanti altri, non ultimo il fisco, possano essere interessati a conoscere esattamente le ultime volontà del testatore.

Ed anche per quanto riguarda i verbali di apertura testamentaria molti sono gli esempi conservati nelle fonti papirologiche, che sembrano attestare per la loro redazione l’uso costante della lingua latina – già proprio del testamento romano – almeno fino alla concessione di Severo Alessandro più volte sopra ricordata, cui si sostituirà poi il greco, quando in siffata lingua potrà ormai essere scritto lo stesso testamento: se questo è vero, i numerosi verbali greci datati o databili ad anni precedenti il provvedimento legislativo in questione non possono che essere traduzioni greche di originali latini, fatte per destinatari ellenofoni – come d’altronde ci conferma sia l’espressione hermeneia diathekes, cioè «traduzione di testamento», adoperata nel notissimo verbale di apertura del testamento di Gaio Longino Castore, sia l’ancor più esplicito antigraphon diathekes rhomaikes hermeneutheises, cioè «copia di testamento romano tradotto», utilizzato nel verbale di apertura del testamento di Marco Lucrezio Minore.

A conclusione di queste rapide osservazioni sui testamenti romani conservati nelle fonti papirologiche di provenienza egiziana, che hanno volutamente privilegiato gli aspetti formali ed esteriori già facilmente emergenti dalla semplice lettura dei documenti stessi, rimane ancora da aggiungere qualche breve annotazione sui principali protagonisti di questi atti di ultima volontà – siano essi i testatori siano essi gli eredi –, senza con questo addentrarci nel tema squisitamente giuridico, e pertanto più consono ad un’indagine di tipo dogmatico, della cosiddetta testamenti factio, cioè della capacità testamentaria, attiva e passiva.

In alcuni casi il testatore è un militare dell’esercito o della flotta, il quale anziché usufruire del privilegio a lui concesso di testare in forme libere – come ripetutamente affermano le fonti giurisprudenziali ed autoritative – sembra preferire il testamento di tipo ordinario: questo peraltro si piò spiegare abbastamza facilmente, se si pensa che il cosiddetto testamento militare vale soltanto durante gli anni di servizio e scade un anno dopo il congedo. E che sia più sicuro affidare le proprie ultime volontà ad un atto già pienamente efficace e valido, senza il problema di doverlo poi rifare in forme ordinarie, lo testimonia in modo significativo il cavaliere della prima ala Mauretana dei Traci ed attendente del prefetto, Antonio Silvano, che confeziona un testamento secondo il rito solenne della mancipatio familiae, a noi giunto – come già è stato più volte ricordato – nel suo originario polittico.

Altre volte sono veterani, congedati onorevolmente dal servizo e per questo beneficiati del ius civitatis e/o del ius conubii, che fanno testamento seguendo le forme previste dal diritto di Roma: lo sono – come si evince da tale qualifica indicata puntualmente nella clausola introduttiva – Caio Giulio Diogene e Caio Longino Castore, che lasciano le loro disposizioni di ultima volontà scritte in un testamento per aes et libram, conservatosi non in originale ma nella trascrizione integralmente riportata nel relativo verbale di apertura. E forse lo è anche Marco Sempronio Prisco, di cui conosciamo, se pur frammentariamente, il testamento riprodotto nel protocollo di apertura, in calce al quale sono indicati i nomi dei testimoni signatores, che sono appunto veterani.

Altre volte ancora sono privati cittadini, quali ad esempio il liberto Tiberio Claudio Alessandro, le cui ultime volontà ci sono note – unico caso a tutt’oggi – attraverso la minuta preparatoria redatta in greco e in latino, destinata ad essere poi completata e riportata sulle tabulae. Ugualmente appartengono a privati cittadini i testamenti di un altro Caio Giulio Diogene o degli antinoiti Marco Lucrezio Minore e Lucio Ignazio Rufino, trascritti nei relativi verbali di apertura.

Soltanto in pochi casi, e forse per questo particolarmente significativi, la prassi egiziana ci restituisce atti di ultima volontà appartenenti a donne: redige un testamento di tipo librale, non sappiamo se con l’intervento del tutore oppure da sola, utilizzando imperfettamente il cosiddetto ius liberorum, Sabinia Apollonarion, madre di due figli da lei istituiti eredi. Una copia del suo testamento, trascritto nel relativo verbale di apertura, è allegata ad una denuncia all’autorità di beni ereditari, che si è conservata fino a noi se pure in modo frammentario.

Anche Aurelia Serenilla fa testamento, con l’assistenza del tutore e del curatore: strano documento il suo, nel quale la diseredazione non è – come quasi sempre avviene – una semplice clausola di stile, che serve a rafforzare la stessa istituzione di erede, ma è diretta invece ad escludere i propri figli, in favore della madre.

Passando poi dai testatori agli eredi, le testimonianze che emergono dai nostri documenti confermano il dato che la nomina di erede, salvo casi del tutto eccezionali quali il testamento appena citato di Aurelia Serenilla, è sempre fatta in favore dei figli o dei parenti più stretti: soltanto in mancanza di questi sono istituiti eredi gli schiavi, purché al contempo siano manomessi, come negli atti di ultima volontà più sopra ricordati dai veterani Caio Longino Castore e Caio Giulio Diogene, oppure sono nominati eredi i colliberti, come nel testamento già ricordato di Tiberio Claudio Alessandro.

Per quanto riguarda da ultimo i beneficiari dei lasciti, la gamma delle possibilità è molto più vasta, dal momento che è proprio attraverso legati e fedecommessi che il testatore può ricordarsi concretamente di chi – moglie, amico, commilitone, superiore e così via – lo ha circondato di affetto o di stima durante la vita, ma sarà il lettore via via a scoprire in quanti modi diversi può essere espressa la gratitudine in un atto di ultima volontà, in ciò aiutato dalle brevi introduzioni e dai rapidi commenti che accompagnano ogni singolo testo.

Qui resta il tempo per una piccola nota sui luoghi che fanno da sfondo a questi testamenti: da Philadelphia a Karanis, da Ossirinco a Ermopoli fino alle meno note Phebichis, Ibion Peteaphti, Sepho, Moa, Pela e altre ancora, molte sono località della chora egiziana citate o come luogo di redazione dei documenti o come luogo dove si trovano le case e i terreni oggetto dei lasciti o ancora come luogo dove è stato celebrato il rito solenne dell’apertura testamentaria. Ad esse bisogna anche aggiungere Alessandria: proprio nella più importante città egiziana, sede del prefetto e dei più alti funzionari dell’amministrazione romana, nella quale nessun materiale è stato direttamente ritrovato in situ, sono stati infatti redatti alcuni dei nostri testamenti, rinvenuti poi altrove. Può essere ancora una volta di esempio, insieme con pochi altri casi, il testamento di Antonio Silvano, confezionato in Alessandria sul Delta e venuto alla luce in un lontano villaggio dell’Arsinoite.

A chiusura di queste pagine un’ultima avvertenza per chi legge: la raccolta in questione non vuole offrire soltanto un’arida sequenza di materiali, per una ricostruzione astratta e dogmatica dell’istituto testamentario – a ciò bastano le numerosissime fonti giurisprudenziali ed autoritative, esaustivamente indagate dalla dottrina giusromanistica –, ma vuole cercare invece di far riemergere la realtà e la concretezza di una prassi giuridica, lontana nel tempo e nello spazio eppure suggestivamente vicina.




Note:

1 In questa rapida introduzione alla lettura dei testamenti romani conservati nelle fonti papirologiche, oggetto della presente raccolta, mi limito a ricordare di M. Amelotti la monografia ormai classica, Il testamento romano attraverso la prassi documentale, I, Firenze 1966, cui si aggiunge utilmente la recente voce Testamento (diritto romano), in Enciclopedia del diritto, XLIV, Milano 1992, pp. 459-470 con ampia letteratura.

2 Sempre l’Egitto ha restiuito alcune preziose testimonianze di cretiones, realmente compiute: si tratta di dittici cerati nei quali si attesta in lingua latina e in stilizzazione oggettiva la dichiarazione di accettazione d’eredità fatta di fronte a testimoni da parte dell’erede istituito, che in calce al documento ha poi apposto la sua sottoscrizione in greco ed in forma soggettiva.



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