Le fonti papirologiche di provenienza egiziana
hanno restituito una preziosa testimonianza di
atti solenni di ultima volontà, confezionati
nei secoli successivi alla conquista romana dEgitto
secondo le forme previste dal ius di Roma.
Si tratta di documenti estremamente significativi
per la ricostruzione della prassi testamentaria
seguita dai cives romani dEgitto
i quali, ancora poco numerosi prima del 212 d.C.,
e costituiti in prevalenza da militari e da funzionari
dellamministrazione civile, aumentarono
massicciamente di numero dopo il provvedimento
legislativo meglio noto con il nome di Constitutio
Antoniniana, che estendendo la civitas
romana a tutti gli abitanti liberi dellimpero
obbligava anche i nuovi cittadini della provincia
egiziana a redigere un atto di ius civile
come il testamento in conformità alle norme
e alla lingua del nuovo diritto.
In alcuni casi ci sono pervenuti gli originali
latini scritti su tabulae ceratae, dei
quali il più conosciuto rimane a tuttoggi
il polittico testamentario di Antonio Silvano,
giunto in uno stato di conservazione pressoché
perfetto; in altri casi sono rimaste le copie,
redatte anchesse in lingua latina e su papiro,
dei testamenti trascritti integralmente nei relativi
verbali di apertura, oppure tradotte in greco
per destinatari ellenofoni, insieme con gli stessi
protocolli di apertura. In altri casi ancora sono
originali, o copie trascritte nei relativi verbali
di apertura, di testamenti ancora romani oppure
ampiamente romanizzati ma redatti ormai in lingua
greca, dopo la concessione fatta da Severo Alessandro
ai cives romani dEgitto dutilizzare
gli hellenika grammata nei loro atti di
ultima volontà.
Lattento esame di questi materiali, che
sono stati ritrovati in diverse località
dell a provincia egiziana, in particolare ad Ossirinco
e in alcuni villaggi del distretto arsinoitico,
ha permesso agli studiosi di riconoscere in essi
quel genus testamentorum che il giurista
Gaio nelle sue Institutiones definisce
gestum per aes et libram, cioè il
testamento ordinario romano, che un tempo era
effettivamente posto in essere attraverso il rituale
solenne della mancipatio familiae, cui
i documenti ancora si richiamano attraverso la
clausola cosiddetta mancipatoria, che ne dà
per compiute le solenni e complesse formalità.
Se non è questa la sede opportuna per affrontare
tutte le molteplici problematiche del testamento
romano nellambito più vasto del diritto
successorio, utilmente indagate in un corso istituzionale
e per le quali si rinvia ai manuali e alla copiosa
bibliografia specialistica (1),
è tuttavia necessario, prima di leggere
i documenti testamentari romani conservati nelle
fonti papirologiche di provenienza egiziana
oggetto specifico di questo corso monografico
, descrivere almeno sommariamente forma
e contenuto dellatto, attraverso una breve
elencazione delle singole clausole, che sono sempre
disposte in ordine rigoroso ed appaiono formulate
con locuzioni solenni, così confermando
nella prassi quellastratta ricostruzione
dellistituto già emergente dalle
fonti giurisprudenziali ed autoritative.
Dopo lindicazione del nome del testatore
e la qualifica dellatto, espresse in stile
oggettivo con le parole Lucius Titius testamentum
fecit, il documento testamentario si apre
con la heredis institutio, cioè
con la designazione formale di chi è chiamato
alla successione, considerata dallo stesso Gaio
caput et fundamentum totius testamenti,
che da essa soltanto prende vigore ed efficacia.
Uniche eccezioni, richiamate dalle fonti dottrinali
ed anche attestate nei nostri documenti, sono
rappresentate dallanticipazione della clausola
di manomissione, nel caso in cui il de cuius
nomini erede uno schiavo, il quale può
essere validamente istituito erede soltanto dopo
essere stato liberato, oppure della clausola di
diseredazione di un suus, nellipotesi
rara ma ugualmente attestata in cui il testatore
invece di un figlio, di un nipote o di un altro
discendente in sua potestà nomini erede
un estraneo.
Allistituzione di un erede ex asse,
cioè per lintero patrimonio, o di
più eredi in quote, secondo la formula
heres esto/heredes sunto, quasi
sempre rafforzata nei documenti dalla diseredazione
generale dei ceteri omnes, segue la clausola
con cui il testatore impone allerede o agli
eredi di accettare leredità entro
un termine stabilito di giorni, dopo il quale
possono essere previste sostituzioni in caso di
mancata accettazione. Ed è interessante
notare che tra i diversi modi di accettazione,
formali ed informali, citati dalle fonti giuridiche
cretio, pro herede gestio
o anche nuda voluntas , gli atti
della prassi documentino soltanto limposizione
della cosiddetta cretio, cioè dellaccettazione
rituale e solenne delleredità, che
secondo Gaio è data solitamente agli eredi
extranei ma non ai sui e che consiste
nella pronuncia di fronte a testimoni di determinate
e precise parole con le quali lerede istituito
dichiara appunto di accettare (2).
Sempre in riguardo alla cretio, i documenti
testimoniano anche quellinteressante distinzione
tra cretio cosiddetta continua e
cretio cosiddetta vulgaris, a seconda
che il decorrere del tempo stabilito dal testatore
per laccettazione delleredità
solitamente cento oppure sessanta giorni
parta immediatamente, cioè senza
soluzione di continuità, o soltanto dal
momento in cui il presunto erede sappia appunto
di essere stato nominato e possa conseguentemente
certificarlo; la prima assai gravosa per lerede,
come rileva efficacemente lo stesso Gaio, la seconda
più comunemente utilizzata e proprio per
questo definita volgare, cioè ordinaria,
come conferma ampiamente la stessa prassi documentale.
Frequentemente attestata è pure laltra
distinzione gaiana tra cretio perfecta
e cretio imperfecta, luna caratterizzata
dalla formale diseredazione dellerede in
caso di mancata accettazione e della conseguente
sostituzione dellerede in primo grado, laltra
priva invece di siffatta ipotesi.
Le disposizioni a titolo universale sono poi seguite
dalle varie disposizioni a titolo particolare,
con le quali il testatore dopo aver assicurato
leredità ai propri cari riesce a
beneficare un numero più ampio di persone,
attribuendo singoli beni e lasciti ad amici, a
liberti e ad altri ancora: tali disposizioni possono
essere realizzate sia attraverso la forma del
legato ed espresse quindi imperativamente, sia
attraverso la forma del fedecommesso, esplicitate
allora come preghiera.
Per
quanto concerne specificamente i legati, dei quattro
tipi per vindicationem, per damnationem,
per praeceptionem e sinendi modo
che ancora una volta Gaio definisce e descrive
nel suo manuale istituzionale, riportando le parole
e i verbi che devono essere in ciascun caso correttamente
adoperati, le fonti documentarie attestano soprattutto
i primi due genera, facilmente riconoscibili
nelle caratteristiche formule do lego e
damnas esto. In particolare appare frequentemente
utilizzato il legato per damnationem, che
diversamente dal legato per vindicationem
non richiede tra i suoi requisiti specifici lappartenenza
al testatore dei beni lasciati, ma serve per legare
anche cose altrui creando un obbligo dellerede
nei confronti del legatario: e proprio per questo
motivo tale legato è adoperato spesso nei
documenti in una formulazione generale e complessiva,
unita talvolta a fedecommesso, adatta a confermare
e a rafforzare tutte le disposizioni particolari
contenute nel testamento.
Anche i fedecommessi, con cui il testatore lascia
qualcosa a qualcuno affidandosi totalmente alla
lealtà dellerede e in ciò
seguendo non tanto il rigore del diritto civile
dicono le fonti dottrinali quanto
piuttosto la propria volontà, sono ampiamente
usati nella prassi testamentaria e sono anchessi
facilmente identificabili nei documenti per i
verbi a questo scopo adoperati, che vanno dal
più diffuso volo ad altre forme,
quali peto, rogo o lo stesso fideicommitto
da cui appunto prende nome listituto.
Alle attribuzioni di carattere strettamente patrimoniale
possono poi seguire altre diverse disposizioni,
come la manomissione di schiavi, diretta o indiretta
e talora fatta sotto condizione, la nomina di
tutori per i figli minorenni o per la moglie,
listituzione di amministratori o di altre
persone cui vengono assegnati compiti specifici,
quali la cura del funerale e del relativo culto
funebre, o ancora la disposizione di particolari
divieti: si tratta in tutti questi casi di clausole
che diffictlmente possono essere ricondotte ed
inquadrate in un unico formulario rigidamente
stabilito, ma si differenziano invece da testamento
a testamento, esprimendo in questa varietà
e ricchezza di espressioni le singole individualità
e personalità dei disponenti.
Le
clausole sostanziali sono solitamente concluse
da una conferma di eventuali codicilli, cioè
di quelle disposizioni particolari fatte al di
fuori del testamento, espressa nei documenti con
una formulazione più o meno ampia che sempre
ne sottolinea lassoluta informalità,
salvo la redazione scritta: ed è interessante
a questo riguardo lesplicito richiamo che
si trova in molti documenti ai differenti supporti
scrittorii, sui quali tali disposizioni possono
essere appunto redatte, siano esse piccole tavole
cerate da cui appunto deriva il nome stesso
codicilli oppure fogli di papiro
o di pergamena oppure altro materiale ancora diverso.
In
calce al testamento vero e proprio, a chiusra
cioè delle disposizioni sostanziali,
si possono quindi trovare la clausola formale
di dolo, con le parole huic testamento dolus
malus abesto, attraverso le quali il testatore
esprime laugurio che frodi ed inganni stiano
lontani dalle sue ultime volontà, e la
clausola anchessa formale della mancipatio
familiae, la cui formula familiam pecuniamque
testamenti faciendi causa emit quis
sestertio nummo uno, libripende quo
, antestatus este quem
, serve
ad attestare lavvenuto compimento del rito
librale o lo dà comunque per avvenuto.
Ad esse si accompagnano altre due clausole ancora,
costituite dalle precise indicazioni del luogo
e della data di confezione dellatto, cui
segue sempre nei testamenti di provenienza egiziana
la sottoscrizione del testatore, non richiesta
dal diritto di Roma ma rispondente invece alle
consuetudini giuridiche dei greco-egizi, i quali
già da secoli conoscono ed utilizzano comunemente
nei loro documenti la cosiddetta hypographe,
sia essa autografa o più facilmente allografa.
Se questa è la descrizione sommaria del
testamento ordinario romano attestato nelle fonti
papirologiche, è ora necessario sottolneare
che, per tutto il periodo che va dalla conquista
romana del territorio egiziano nel 30 a.C. fino
alla Constitutio Antoniniana de civitate danda
del 212 d.C., questo testamento utilizzato in
Egitto dai soli cittadini romani e rigorosamente
scritto in latino su tabulae ceratae coesiste,
se pure in numero nettamente inferiore, con la
cosiddetta diatheke, comunemente adoperata
da tutti i peregrini ellenofoni per le loro manifestazioni
solenni di ultima volontà e tradizionalmente
scritta in greco su fogli di papiro.
Ma
con lestensione della cittadinanza romana
a tutti gli abitanti liberi dellimpero la
situazione dovrebbe radicalmente mutare, dal momento
che anche nella provincia dEgitto tutti
i neocittadini, e non soltanto quei pochi che
già da tempo erano stati privilegiati della
civitas, sono ora obbligati a confezionare
un atto di ius civile in conformità
al diritto e alla lingua di Roma, abbandonando
così le proprie consuetudini testamentarie.
A questa aspettativa ufficiale la prassi testamentaria
egiziana non sembra invece rispondere e nel periodo
immediatamente successivo alla Constitutio
Antoniniana sono pochissimi i testamenti ancora
confezionati secondo il rito librale fino allora
rigorosamente utilizzato dai non numerosi cives
romani residenti in Egitto: al centro della
questione è un interessante provvedimento
normativo che soltanto alcuni decenni dopo leditto
di Caracalla, e più precisamente durante
il regno di Severo Alessandro, viene emanato per
permettere, se non a tutti i novi cives
ellenofoni dellimpero, almeno a quelli che
abitano nella Valle del Nilo di riadoperare la
lingua greca nelle loro disposizioni di ultima
volontà, in luogo del latino alla maggior
parte di essi completamente estraneo.
Questa
costituzione, promulgata certamente per superare
le molte e comprensibili difficoltà linguistiche
sorte nella redazione di un documento così
rigoroso nella sequenza delle clausole e solenne
nella sua formulazione nonostante lausilio
di formulari latini e di scribi bilingui, che
le fonti papirologiche suggestivamente confermano
, provoca invero non soltanto un ovvio ritorno
alla lingua greca ed al tradizionale supporto
papiraceo, il cui uso è significativamente
esplicitato proprio in un documento di questa
età, ma porta soprattutto ad una riutilizzazione
sempre più massiccia di tutte quelle clausole
che avevano contraddistinto le diathekai
dei peregrini fino ad anni di poco precedenti.
A partire dalla metà del III secolo d.C.
i testamenti conservati nelle fonti papirologiche
di provenienza egiziana, accanto ad una presenza
sempre più rara e sporadica di formule
«romane» tradotte più o meno
letteralmente in greco, ripropongono di nuovo
quella che è unanimemente considerata dai
giusgrecisti la fondamentale caratteristica della
diatheke, cioè la particolareggiata
e dettagliata distribuzione dei beni fatta dal
disponente per il tempo successivo alla morte,
così lontana dallistituzione di erede
e dalla rigorosa divisione in quote, affatto peculiari
del diritto romano, e solo forzatamente ricondotta
da parte di certa dottrina ad unalquanto
improbabile heredis institutio ex re certa,
ormai senza distinzione alcuna tra eredi e legatari.
Nei
testamenti successivi alla concessione di Severo
Alessandro, ricordata più o meno esplicitamente
dai testatori proprio allinizio del documento,
si ritrovano sempre con maggiore frequenza le
clausole che già caratterizzavano le diathakei
ellenistiche, alle quali i documenti di questa
età tarda appaiono ricollegarsi in ideale
continuità: dalla data di nuovo posta allinizio
dellatto alla formula introduttiva in cui
è fatto un esplicito riferimento alla piena
coscienza e alla sanità mentale del testatore,
dalla riserva della completa disponibilità
dei beni fino al momento estremo della morte alla
ripartizione dettagliata e puntuale del patrominoio
ereditario, dalla comminazione di multe per chi
attacchi ingiustamente la volontà del defunto
alla clausola cosiddetta kyria che da secoli
ormai è comunemente utilizzata nei documenti
negoziali greci, per sottolineare lassoluta
efficacia probatoria della scrittura. In calce
al documento, accanto alla sottoscrizione del
testatore, ricompaiono inoltre le hypographai
dei testimoni già note alla vecchia diatheke,
nelle quali essi dichiarano di presentare testimonianza
allatto.
Riemergono poi molti istituti tipici delle consuetudini
giuridiche locali ma sconosciuti alla tradizione
romana, quali la partecipazione della mdre, per
questo detta epakolouthetria, alla tutela
dei figli minorenni, o il servizio permanente
degli schiavi manomessi per via testamentaria
a beneficio di eredi e legatari, in quella particolare
forma affatto diversa dal patronato romano che
è la paramone.
Del
testamento romano è forse rispettato soltanto
il numero dei sette testimoni, ripetutamente ribadito
da leggi imperiali, anche se non sono rare le
eccezioni, ed è inutilmente recuperata
quella clausola di dolo che, ignota alla tradizione
locale, apriva nel testamento librale la serie
delle clausole formali, insieme con la clausola
mancipatoria, già da tempo scomparsa nella
prassi documentale, prima ancora di essere definitivamente
abrogata da Costantino per via legislativa.
Ma
è soprattutto linserimento anomalo
della clausola della stipulatio romana,
nella sua stereotipa traduzione kai eperotetheis
homologhesa, a sottolineare il definitivo
distacco tra le due tradizioni giuridiche, greca
e latina: certamente fraintesa in quello che era
stato il suo originario significato contrattuale,
con il quale era stata correttamente introdotta
allindomani della Constitutio Antoniniana
nelle locazioni, nelle compravendite, nei mutui
e così via, anche soltanto per una formale
adesione al diritto dellimpero, essa viene
ora utilizzata in modo anomalo in atti unilaterali
quali il testamento. E poco convince lattribuire
ormai a questa antica clausola come qualche
studioso ha pur suggerito il significato
soltanto di un mero riconoscimento da parte del
testatore di ciò che il documento contiene.
***
A questa breve descrizione della struttura interna
del testamento romano nella prassi documentale
egiziana, si può aggiungere ora qualche
rapido cenno sullaspetto esteriore di questo
atto, che come è stato detto altra
volta originariamente è redatto
in latino, cioè nella lingua propria degli
atti di ius civile, ed è confezionato
su tavolette lignee cerate.
Ne è preziosa testimonianza, insieme con
altri meno noti ma ugualmente importanti frammenti
sempre di provenienza egiziana, il già
ricordato testamento librale di Antonio Silvano,
che giunto a noi in uno stato di conservazione
pressoché perfetto permette non soltanto
di analizzare in concreto il modo di confezione
e di scritturazione delle tabulae testamentarie,
ma anche di controllarne il rigoroso sistema di
chiusura e di sigillazione, affiancandosi così
utilmente a quelle poche fonti dottrinali che
pure affrontano temi così lontani dallastrattezza
del pensiero giuridico.
Il testo del documento è inciso a graphium
su cera nelle pagine interne di un polittico costituito
normalmente da cinque tavolette lignee, anche
se non si possono escludere tavolette più
numerose o addirittura più polittici nel
caso di documenti particolarmente lunghi e complessi
nella loro formulazione. La scrittura, che può
essere del testatore o più frequentemente
di chi per lui confeziona materialmente il documento
in alcuni casi si può trattare di
uno scriba di professione, addirittura bilingue
, inizia nella pagina interna della prima
tabula e prosegue nelle altre successive
pagine fino a completamento del testo.
Le tavolette sono poi chiuse e sigillate, così
come richiede un senatoconsulto di età
neroniana, con una cordicella passante per tre
volte attraverso appositi fori, sulla quale sette
testimoni, di cui tre partecipanti fittizzi al
rito della mancipatio familiae, appongono
i loro sigilli a garanzia del documento contro
eventuali manipolazioni e falsificazioni. Accanto
ai signa, che sono impressi normalmente
con un anello sul quale è incisa in negativo
una particolare immagine, figurano anche le cosiddette
adscriptiones, cioè i nomi dei testes/signatores
che hanno apposto i sigilli e che ne identificano
in questo modo lappartenenza.
Quanto
è stato fin qui detto si riferisce specificamente
al testamento romano redatto in latino su tabulae,
ma lo stesso vale a grandi linee anche per il
testamento romano confezionato in greco su papiro,
dopo la già ricordata concessione di Severo
Alessandro ai neocittadini ellenofoni di testare
nella loro lingua, utilizzando cioè gli
hellenika grammata: in questo caso il documento,
non più confezionato su polittici lignei,
è scritto ad inchiostro su fogli di papiro,
poi arrotolati e sigillati secondo il tradizionale
sistema delle diathekai ellenistiche, fatta
eccezione per il numero dei testimoni che è
di sette, come nel mondo romano, e non di sei,
come nella prassi documentale greca.
Una
volta confezionato, il testamento viene solitamente
conservato e custodito, almeno per quanto riguarda
la realtà egiziana, presso un ufficio pubblico,
anche se sono noti alcuni casi, nei quali la custodia
del documento è stata invece affidata a
parenti o a persone di fiducia. Ed è comunque
in un pubblico ufficio quali sono ad esempio
il loghisterion dello stratego oppure lo
statio, dove si paga la cosiddetta vicesima
che grava sulle eredità e sulle manomissioni,
o ancora altri diversi luoghi a ciò deputati
che il testamento dovrà essere tempestivamente
aperto e letto dopo la morte del testatore, alla
presenza della maior pars dei testimoni
che abbiano riconosciuto lintegrità
dei propri sigilli.
Dellintero
rito di apertura è quindi redatto un processo
verbale, contenente nella sua parte iniziale la
trascrizione integrale del testamento cui seguono
le indicazioni relative alla cerimonia stessa
di apertura insieme con lelenco dei testimoni
presenti, e da un siffatto protocollo potranno
quindi essere tratte tutte le copie necessarie
per chi ne faccia specifica richiesta, siano essi
gli eredi o i legatari, gli schiavi manomessi
o quanti altri, non ultimo il fisco, possano essere
interessati a conoscere esattamente le ultime
volontà del testatore.
Ed
anche per quanto riguarda i verbali di apertura
testamentaria molti sono gli esempi conservati
nelle fonti papirologiche, che sembrano attestare
per la loro redazione luso costante della
lingua latina già proprio del testamento
romano almeno fino alla concessione di
Severo Alessandro più volte sopra ricordata,
cui si sostituirà poi il greco, quando
in siffata lingua potrà ormai essere scritto
lo stesso testamento: se questo è vero,
i numerosi verbali greci datati o databili ad
anni precedenti il provvedimento legislativo in
questione non possono che essere traduzioni greche
di originali latini, fatte per destinatari ellenofoni
come daltronde ci conferma sia lespressione
hermeneia diathekes, cioè «traduzione
di testamento», adoperata nel notissimo
verbale di apertura del testamento di Gaio Longino
Castore, sia lancor più esplicito
antigraphon diathekes rhomaikes hermeneutheises,
cioè «copia di testamento romano
tradotto», utilizzato nel verbale di apertura
del testamento di Marco Lucrezio Minore.
A
conclusione di queste rapide osservazioni sui
testamenti romani conservati nelle fonti papirologiche
di provenienza egiziana, che hanno volutamente
privilegiato gli aspetti formali ed esteriori
già facilmente emergenti dalla semplice
lettura dei documenti stessi, rimane ancora da
aggiungere qualche breve annotazione sui principali
protagonisti di questi atti di ultima volontà
siano essi i testatori siano essi gli eredi
, senza con questo addentrarci nel tema
squisitamente giuridico, e pertanto più
consono ad unindagine di tipo dogmatico,
della cosiddetta testamenti factio, cioè
della capacità testamentaria, attiva e
passiva.
In
alcuni casi il testatore è un militare
dellesercito o della flotta, il quale anziché
usufruire del privilegio a lui concesso di testare
in forme libere come ripetutamente affermano
le fonti giurisprudenziali ed autoritative
sembra preferire il testamento di tipo ordinario:
questo peraltro si piò spiegare abbastamza
facilmente, se si pensa che il cosiddetto testamento
militare vale soltanto durante gli anni di servizio
e scade un anno dopo il congedo. E che sia più
sicuro affidare le proprie ultime volontà
ad un atto già pienamente efficace e valido,
senza il problema di doverlo poi rifare in forme
ordinarie, lo testimonia in modo significativo
il cavaliere della prima ala Mauretana dei Traci
ed attendente del prefetto, Antonio Silvano, che
confeziona un testamento secondo il rito solenne
della mancipatio familiae, a noi giunto
come già è stato più
volte ricordato nel suo originario polittico.
Altre
volte sono veterani, congedati onorevolmente dal
servizo e per questo beneficiati del ius civitatis
e/o del ius conubii, che fanno testamento
seguendo le forme previste dal diritto di Roma:
lo sono come si evince da tale qualifica
indicata puntualmente nella clausola introduttiva
Caio Giulio Diogene e Caio Longino Castore,
che lasciano le loro disposizioni di ultima volontà
scritte in un testamento per aes et libram,
conservatosi non in originale ma nella trascrizione
integralmente riportata nel relativo verbale di
apertura. E forse lo è anche Marco Sempronio
Prisco, di cui conosciamo, se pur frammentariamente,
il testamento riprodotto nel protocollo di apertura,
in calce al quale sono indicati i nomi dei testimoni
signatores, che sono appunto veterani.
Altre volte ancora sono privati cittadini, quali
ad esempio il liberto Tiberio Claudio Alessandro,
le cui ultime volontà ci sono note
unico caso a tuttoggi attraverso
la minuta preparatoria redatta in greco e in latino,
destinata ad essere poi completata e riportata
sulle tabulae. Ugualmente appartengono
a privati cittadini i testamenti di un altro Caio
Giulio Diogene o degli antinoiti Marco Lucrezio
Minore e Lucio Ignazio Rufino, trascritti nei
relativi verbali di apertura.
Soltanto
in pochi casi, e forse per questo particolarmente
significativi, la prassi egiziana ci restituisce
atti di ultima volontà appartenenti a donne:
redige un testamento di tipo librale, non sappiamo
se con lintervento del tutore oppure da
sola, utilizzando imperfettamente il cosiddetto
ius liberorum, Sabinia Apollonarion, madre
di due figli da lei istituiti eredi. Una copia
del suo testamento, trascritto nel relativo verbale
di apertura, è allegata ad una denuncia
allautorità di beni ereditari, che
si è conservata fino a noi se pure in modo
frammentario.
Anche
Aurelia Serenilla fa testamento, con lassistenza
del tutore e del curatore: strano documento il
suo, nel quale la diseredazione non è
come quasi sempre avviene una semplice
clausola di stile, che serve a rafforzare la stessa
istituzione di erede, ma è diretta invece
ad escludere i propri figli, in favore della madre.
Passando
poi dai testatori agli eredi, le testimonianze
che emergono dai nostri documenti confermano il
dato che la nomina di erede, salvo casi del tutto
eccezionali quali il testamento appena citato
di Aurelia Serenilla, è sempre fatta in
favore dei figli o dei parenti più stretti:
soltanto in mancanza di questi sono istituiti
eredi gli schiavi, purché al contempo siano
manomessi, come negli atti di ultima volontà
più sopra ricordati dai veterani Caio Longino
Castore e Caio Giulio Diogene, oppure sono nominati
eredi i colliberti, come nel testamento già
ricordato di Tiberio Claudio Alessandro.
Per
quanto riguarda da ultimo i beneficiari dei lasciti,
la gamma delle possibilità è molto
più vasta, dal momento che è proprio
attraverso legati e fedecommessi che il testatore
può ricordarsi concretamente di chi
moglie, amico, commilitone, superiore e così
via lo ha circondato di affetto o di stima
durante la vita, ma sarà il lettore via
via a scoprire in quanti modi diversi può
essere espressa la gratitudine in un atto di ultima
volontà, in ciò aiutato dalle brevi
introduzioni e dai rapidi commenti che accompagnano
ogni singolo testo.
Qui resta il tempo per una piccola nota sui luoghi
che fanno da sfondo a questi testamenti: da Philadelphia
a Karanis, da Ossirinco a Ermopoli fino alle meno
note Phebichis, Ibion Peteaphti, Sepho, Moa, Pela
e altre ancora, molte sono località della
chora egiziana citate o come luogo di redazione
dei documenti o come luogo dove si trovano le
case e i terreni oggetto dei lasciti o ancora
come luogo dove è stato celebrato il rito
solenne dellapertura testamentaria. Ad esse
bisogna anche aggiungere Alessandria: proprio
nella più importante città egiziana,
sede del prefetto e dei più alti funzionari
dellamministrazione romana, nella quale
nessun materiale è stato direttamente ritrovato
in situ, sono stati infatti redatti alcuni
dei nostri testamenti, rinvenuti poi altrove.
Può essere ancora una volta di esempio,
insieme con pochi altri casi, il testamento di
Antonio Silvano, confezionato in Alessandria sul
Delta e venuto alla luce in un lontano villaggio
dellArsinoite.
A chiusura di queste pagine unultima avvertenza
per chi legge: la raccolta in questione non vuole
offrire soltanto unarida sequenza di materiali,
per una ricostruzione astratta e dogmatica dellistituto
testamentario a ciò bastano le numerosissime
fonti giurisprudenziali ed autoritative, esaustivamente
indagate dalla dottrina giusromanistica ,
ma vuole cercare invece di far riemergere la realtà
e la concretezza di una prassi giuridica, lontana
nel tempo e nello spazio eppure suggestivamente
vicina.
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