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...Sezione:
Archeologia Subacquea |
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Il
naufragio nel diritto romano:
Problemi giuridici e testimonianze archeologiche

di Gianfranco
Purpura |
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Il presente articolo riproduce il testo di una comunicazione,
effettuata a Giardini Naxos il 22 ottobre 1994 nel corso
della IX Rassegna di archeologia subacquea, avente per tema
il naufragio. E stato pubblicato in Annali Università
di Palermo ( Aupa), XLIII, 19995, pp. 463-476.
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Sommario
Larticolo
si sofferma sul concetto giuridico di naufragio e sul
ius naufragii, indicando diverse testimonianze archeologiche
e subacquee che contribuiscono a chiarire aspetti giuridici
dei commerci e degli affondamenti, come tesserae hospitales,
vasetti - campione, sistemi di stivaggio e di trasporto
di merci alla rinfusa, rinvenimenti monetali collegati
a depositi e prestiti marittimi. In particolare, vengono
esaminati D. 47, 9, 3, 8 (Ulpiano) e D. 48, 8, 3, 4 (Marciano),
restituendo ai testi - che erano stati arbitrariamente
emendati - loriginario riferimento ad una poco nota
pratica criminosa, volta non tanto a supprimere naufragos,
bensì naufragia. In seguito al controllo sulle
vie marittime e nei porti in età imperiale, predoni
e pirati provvedevano alloccultamento del naufragio
ed al deliberato affondamento di navi con un carico quasi
integro ma incommerciabile, trovando più conveniente
impadronirsi di pochi beni preziosi e far sparire ogni
traccia del resto. Ulpiano attesta che sarebbe stato punito,
non solo lispiratore (fraude aut consilio), ma anche
lesecutore materiale che con la forza (per vim)
avesse fatto sparire una nave in difficoltà con
tutto lequipaggio che chiedeva aiuto. Anche Marciano
affermava che chi avesse occultato un naufragio sarebbe
stato punito in seguito ad un SC, secondo una pena indicata
dalla legge Cornelia (81 a.C.), relativa alla repressione
degli attentati alla vita umana. Il crimine di supprimere
naufragia, così individuato, potrebbe contribuire
a giustificare lelevato numero di relitti della
fine delletà repubblicana e la quasi totale
integrità dei carichi, nonostante siano state riscontrate
tracce archeologiche dintervento di pirati, come
nel noto caso di Spargi in Sardegna.
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In
seguito al costante progresso della tecnica il moderno concetto
di naufragio appare destinato a subire una progressiva riduzione
di contenuto. Il c.d. "naufragio assoluto", che
si ritiene si verifichi quando in pieno mare o in vicinanza
della costa non resta dell'imbarcazione alcun segno permanente
sulle acque, non costituisce più il caso tipico di
scafo ridotto alla condizione di relitto perché oggi
sovente è possibile ripristinare le condizioni di
galleggiamento e dunque non è affatto agevole distinguere
il naufragio da altri sinistri, che implicano conseguenze
giuridiche diverse, come la semplice sommersione e l'incendio.
Né può indicare un criterio discretivo, e
determinare l'applicazione delle diverse disposizioni moderne
relative al recupero dei relitti o dell'assistenza in mare,
l'esistenza o meno nei marinai dell'animus dereliquendi,
dell'intenzione cioè di abbandonare lo scafo senza
speranza di recupero ed intento di ritorno, poiché
a ben vedere nel naufragio non v'è derelictio, intenzione
cioè di abbandonare la nave o le merci, e dunque
possibilità di usucapire ciò che viene rilasciato
per salvarsi, come già notava al tempo di Nerone
il giurista Giavoleno.
Neppure la fractio navis, la rottura della nave che
sulla scia dell'etimologia del termine naufragio e degli
interpreti medievali delle fonti romane potrebbe proporsi
(dicitur naufragium quasi navis fractura, a nave et frango),
appare idonea alla definizione del concetto in questione,
poiché si ritiene non esservi naufragio nel caso
di nave spezzatasi in due tronconi, che recuperati possono
essere ricomposti con ragionevole spesa ed al contrario
appare esservi indubbiamente naufragio senza l'esistenza
di alcuna frattura, come evidentemente avvenne, per citare
un celebre caso archeologico, per la Wasa, nave reale svedese,
che si inabissò per uno sbandamento nel viaggio inaugurale
nei pressi di Stoccolma ed è stata recuperata integra.
Seguendo uno dei più autorevoli studiosi settecenteschi
di diritto commerciale, il Casaregis (Si vero sint abscissa
vela et malus deiectus, tunc potest dici naufragium, donec
navis navigare non possit), si preferisce oggi porre
l'accento sulle condizioni di navigabilità ed il
grado di riparabilità del relitto e dunque sulla
convenienza economica e l'esistenza di danni ovviabili in
un periodo di tempo almeno superiore a sessanta giorni,
requisiti questi soggetti a mutare, come si è detto,
in seguito al progresso tecnico.
Nel mondo antico pare che il concetto di naufragio sia stato
originariamente completamente diverso: si sia, cioè,
esteso, in certi luoghi ed in epoche remote, a comprendere
addirittura qualsiasi nave, anche integra, approdata in
terra straniera in luogo non autorizzato. Essa sarebbe stata
esposta ad un possibile sequestro, alla pari dei beni che
la violenza dei marosi sospingeva sulle rive e che in base
all'esistenza o meno di una forte autorità statale
rivierasca venivano sequestrati dallo Stato o acquisiti
da coloro che li rinvenivano. L'antico diritto di naufragio
(ius naufragii) combattuto dall'impero romano e ancora
nel medioevo da Federico II nella costituzione Navigia,
nella quale tuttavia si escludeva ogni protezione per le
navi (navigia) che piraticam exerceant pravitatem
aut sint nobis sive Christiano nomine inimica, riesumando
così tempi poco sicuri per i naviganti stranieri
- si esercitava tanto sulla nave integra approdata in luoghi
non consentiti, come sull'imbarcazione abbandonata dal suo
equipaggio e dai passeggeri e lasciata in balia delle acque
e dei venti; e pure sullo scafo gettato dalla tempesta sulla
costa o sommerso in pieno mare, e sui resti nautici raccolti
in acqua o dal mare rigettati sulla riva.
Due opposte concezioni pare che si siano scontrate nel mondo
antico: una che considerava il naufrago un reietto da immolare
agli dei marini o da assoggettare a schiavitù, come
nell'Ifigenia in Tauride o nell'episodio omerico dei Lestrigoni;
l'altra, riflessa dall'atteggiamento di Alcinoo, in base
alla quale colui che era riuscito a sfuggire ai marosi andava
aiutato e coperto di doni.
Una pratica antichissima che ancora sopravviveva nel mondo
greco romano era quella che si collegava al sequestro ed
al symbolon. La diffusione del diritto di rappresaglia
(sylai) nella pratica del commercio più antico,
il soddisfacimento cioè sui beni di un concittadino
di un "debitore" straniero insolvente, imponeva
che i traffici si effettuassero solo in località
protette, come santuari, approdi autorizzati (asili) o facendo
ricorso allasylia ed al symbolon. L'ospitalità
(xenia) offerta invece ad uno straniero dava occasione
alla scissione di un oggetto (symbolon) che materializzava
così la prestazione ricevuta. Ma il symbolon,
le cui metà con la partenza erano destinate ad essere
separate e dunque portate lontano, non racchiudeva ancora
un diritto, tutt'al più un dovere. Il dovere, non
sanzionato da alcun obbligo - anzi sorto ancor prima della
nascita di un obbligo civile - di ricambiare la prestazione
ricevuta, che aveva stabilito una salda unità tra
gli interessati, interrotta con la partenza di chi era stato
ospitato, e che poi doveva ricostituire l'unità dell'ospitalità
ricevuta al momento dell'esibizione della metà dell'oggetto
(semeión) da parte di chi l'aveva ospitato,
o d'un familiare o di qualsiasi portatore. La fractio
non denotava dunque la fine del rapporto, ma il suo inizio,
e non era volta a precostituire una prova, ma un segno sacrale
della prestazione e dunque della necessità di ricostituirla
rendendola. Poteva così esser ricambiata l'ospitalità,
come poteva essere recuperato un bene depositato presso
uno straniero o restituito un mutuo; ed il symbolon,
piuttosto che costituire una prova decifrabile, come la
successiva singrafe, documento scritto, presentava il vantaggio,
indiscutibile nelle condizioni di insicurezza del commercio
arcaico, di essere un documento non scritto che non aveva
alcun significato o valore, se non per chi fosse in grado
di intendere il messaggio. Il rapporto, non ancora basato
su una prestazione e una controprestazione, era posto sotto
la protezione della divinità, dipendeva dall'esibizione
del symbolon e dal riconoscimento da parte dello
stesso "debitore"; ed al "creditore",
oltre al deferimento di un eventuale giuramento, non restava
possibilità alcuna di avere ricambiata la sua ospitalità.
Similmente in diritto greco sembra che il concettodi obbligazione
non fosse ancora svincolato dalla sfera religiosa e che
dalla violazione di una promessa giurata non scaturisse
dunque un'azione diretta, ma che l'azione contrattuale,
la dike blábes (azione di danneggiamento)
costituisse solo un rimedio a tutela del danno subito o
minacciato per la violazione di una promessa posta sotto
protezione divina.
Tra individui, gruppi gentilizi e familiari, comunità
straniere, persino città, potevano essere scambiati
symbola la cui esibizione accordava allo straniero
asilo, ospitalità e soprattutto di riflesso protezione
giudiziaria. Nonostante la diffusione della scrittura, l'impiego
di questi oggetti, che pian piano cominciarono a recare
brevi iscrizioni, persistette a lungo, e si sviluppò
nel sistema di tesserae hospitales e tabulae patronatus.
Relitti di età arcaica, come la nave rinvenuta a
Gela, al Giglio, di Magan Michael, a Pointe Lequin o a Panarea,
potrebbero restituire reperti di tal genere, che facilmente
potrebbero sfuggire all'attenzione degli scavatori. Il più
antico di tutti i relitti finora ritrovati, il relitto di
Ulu Burun risalente agli inizi del XIV sec. a.C., ha fornito
un anello prezioso, sicuramente scisso deliberatamente a
metà, che non trova spiegazione plausibile, se non
collegandosi alla pratica suddetta, che dunque appare attestata
nell'area del vicino Oriente già dal XIV sec. a.C.
Per il mondo arcaico romano si è parlato al riguardo
di una fractio stipulae - per alcuni "contratto-intaglio"
realizzato per il computo di quantità in occasione
di una promessa (stipulatio), marcando con delle
tacche numerali un ramo separato in due parti combacianti
- ma non si è saputo dar conto di due testi, uno
di Isidoro, l'altro di Festo che collegavano lo stipes
(= ramo) al senso di saldo, fermo.
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Isidoro, Orig. V, 24,30: Stipulatio est promissio
vel sponsio, unde et promissores stipulatores vocantur.
Dicta autem stipulatio ab stipula. Veteres enim, quando
sibi aliquid promittebant, stipulam tenentes frangebant,
quam iterum iungentes, sponsiones suas agnoscebant
sive quod stipulam iuxta Paulum iuridicum firmum appellaverunt.
Festo, De verb. sign. (Lindsay, p. 440): Stipatores
ait dictos a stipe quam mercedis nomine custodes cuiusque
corporis. Unde et stipam qua amphorae cum exstruuntur
firmari solent. |
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Inaspettatamente i rinvenimenti subacquei offrono la possibilità
di una nuova interpretazione dei testi suddetti - rilevanti
per la genesi della promessa romana - chiarendone il significato:
quasi tutti i relitti rinvenuti dal II millennio a.C. sino
all'età bizantina recano nella stiva ramaglia frapposta
tra fasciame e carico per rinsaldare il tutto e consentono
quindi di stabilire un legame tra firmus e stipula.
Le implicazioni dell'interpretazione dei brani di Festo
ed Isidoro da me suggerita esulano dal tema di questo Convegno
archeologico, ma credo che il caso dimostri con evidenza
la fondamentale unitarietà di discipline come il
diritto, (archeologia, la storia e la necessità di
costanti collegamenti. Senza lapporto dell'archeologia
subacquea non sarebbe stato possibile spiegare il rapporto,
che pare ricondurci alla pratica del commercio marittimo,
tra la solidità (firmus) di una promessa ed
il simbolo del ramo (stipula), come dimostra il fatto
che tra gli storici del diritto si era addirittura pensato
ad etichette di legno fissate alle anfore.
Il riconoscimento del diritto di naufragio poteva incentivare
la pratica dei naufragatori che intenzionalmente accendevano
falsi fuochi lungo la costa per attrarre in secco le navi
e saccheggiarle, come indica un celebre testo di Ulpiano
conservato nel Digesto, o imporre una disciplina dell'approdo
indotto da necessità (vis tempestatis cui resisti
non potest), che in tal caso avrebbe potuto determinare
l'esclusione del sequestro o del pagamento di eventuali
dazi doganali e la fissazione di un termine di tre o cinque
giorni per riparare i danni e ripartire, come previsto nel
primo trattato tra Roma e Cartagine, anteriore addirittura
al 509 a.C. La prima pratica indicata giustifica forse la
densità anomala di relitti in tratti particolari
della costa, come la cuspide sud occidentale della Sicilia,
ove laccensione di falsi fuochi di segnalazione all'interno
di vaste spiagge sabbiose desertiche, avrebbe potuto determinare
errate valutazioni da parte dei naviganti con conseguenti
arenamenti e saccheggi, reiterati nei secoli. La seconda
prassi segnalata fu forse alla base della famosa lex
Rhodia, fondamentale legge marittima degli antichi,
che, oltre a regolare la ripartizione dei danni tra i diversi
mercanti (vectores) in caso di getto delle merci
in mare, prevedeva l'esenzione doganale delle merci sospinte
dalla tempesta, come nella disposizione incisa nel I sec.
d.C. nella parete dell'ufficio della dogana del porto di
Cauno, un tempo controllato dai Rodii.
Se i numerosi tesoretti di monete o oggetti preziosi, rinvenuti
di recente in relitti dal IV a.C. al III d.C., sono per
lo più da collegare alla pratica della pecunia
traiecticia e del receptum, anche l'anomala struttura
della stiva, che attraverso i rinvenimenti archeologici
subacquei è talvolta apparsa ripartita in settori
o costituita da dolia, si connette alla prassi giuridica
della locazione di uno spazio a bordo, pratica testimoniata
nelle fonti accanto alla conclusione della locazione dell'intera
nave o di un vero e proprio contratto di trasporto (locatio
operis), che comportava la consegna delle merci sane
e salve nel porto di destinazione (salvas merces in portum
perducere). Il trasporto alla rinfusa, sovente di liquidi
o di aridi, implicava la riconsegna di merci del medesimo
genere e qualità (tantundem eiusdem generis),
garantita da vasetti campione sigillati che viaggiavano
con il carico e che, se pur non ancora sono stati ritrovati
in relitti, sono già apparsi in località portuali.
La quasi secolare durata delle navi, dimostrata adesso in
base a rinvenimenti archeologici, non solo si collega alla
celebre questione giuridica posta nel I sec. a.C. da Servio
Sulpicio Rufo e Alfeno Varo se una nave interamente rifatta
con legname nuovo costituisca la medesima entità
originaria (D.5,1,76), ma dimostra la genuinità di
contratti secolari di misthoprasia, attestati nei
papiri per diminuire i rischi marittimi e realizzare una
forma di utilizzazione protratta delle navi, assai simile
al moderno contratto di leasing.
Deleteria pratica antica, dalla quale però può
oggi trarre giovamento la moderna archeologia subacquea,
era la prassi dei falsi naufragi, testimoniata nel mondo
romano a partire dalla prima guerra punica, ma sicuramente
da tempo conosciuta nel mondo greco. Si trattava di far
sopportare il rischio del naufragio di vecchie imbarcazioni
fraudolentemente affondate o allo Stato, nel caso di trasporti
militari, o a privati prestatori di denaro e finanziatori
d'imprese marittime, ma talvolta lo stridore della sega
impiegata per 1'autoaffondamento dallo stesso capitano determinava
la reazione violenta dei passeggeri con esito fatale per
il naufragatore, come nel caso dell'orazione contro Zénothémís.
Non è stato ancora possibile riscontrare archeologicamente
un evento del genere, anche perché appare alquanto
improbabile poter distinguere fra travi segate prima del
naufragio ed assi asportate successivamente da scafi già
naufragati, come sembra essersi verificato nel relitto del
I sec. d.C. a Villasimius in Sardegna, che presenta tagliato
il legname emergente dal bassofondo. Tutto ciò testimonia
comunque una diffusa pratica di recuperi subacquei effettuata
da compagnie di urinatores, che nel relitto romano
della Madrague de Giens sembrano aver asportato la parte
centrale del carico a quattordici metri di profondità
lasciando sul fondo i ciottoli di zavorra utilizzati per
la discesa. Tale prassi fu infine disciplinata nella compilazione
marittima bizantina del VII sec., denominata Nomos Rhodion
Nautikós, in base alla differente profondità
dei recuperi, prevedendo compensi fino ad un solido d'oro
per oltre venticinque metri di fondo.
Un editto del tempo di Claudio si spinse a prevedere il
divieto di asportare chiodi della nave con intento fraudolento
per reprimere la prassi dei falsi naufragi. Non evidentemente
chiodi qualsiasi, ma soprattutto i lunghi perni di rame
ricurvi che consolidavano la chiglia e che ora son ben noti
attraverso i rinvenimenti archeologici. Nel caso di naufragio
di trasporti annonarii si impose ben presto un'inchiesta
(quaestio de naufragiis) che giunse nel tardo impero
a prevedere la tortura obbligatoria dei marinai, dei magistri
navium o addirittura dei figli, se costoro fossero venuti
meno.
In età repubblicana avanzata e forse in collegamento
con la repressione della pirateria ed i tumulti dell'ultima
repubblica, il pretore del noto editto de incendio ruina
naufragio rate nave expugnata, aveva preso in considerazione
il rapere, il damnum facere, dolo malo recipere
una res ex naufragio, concedendo un'azione in quadruplum
o in simplum rispettivamente nell'anno o dopo. Ben
presto fu necessario chiarire, come si è visto, la
portata della locuzione ex naufragio ed i giuristi
iniziarono a proporre un cauto allargamento della fattispecie
edittale, ma agli inizi dell'età imperiale, secondo
la prevalente dottrina, la direptio ex naufragio,
sottoposta in precedenza solo a tutela pretoria su richiesta
di azione da parte di un privato, fu soggetta a repressione
criminale (executio criminis) con un SC che "di
colpo" avrebbe addirittura prescritto la pena capitale
per la semplice sottrazione di cose naufragate. L'anomalia
di una repressione tanto grave per la semplice sottrazione
di una cosa naufragata è apparsa ancora più
strana se si tien conto che tale pena non sarebbe stata
in realtà applicata almeno fino ad una costituzione
di Caracalla, che distingueva tra res periturae e
non, e prevedeva, non nel primo, ma solo nel secondo caso,
pene relativamente miti, come la relegazione biennale o
la fustigazione. Soltanto in casi speciali furono fissati
provvedimenti più severi, come per coloro che accendevano
fuochi sulla spiaggia per provocare naufragi o al tempo
di Antonino Pio per vis ai nautae o di Adriano
per i possessori di terre riverasche che nascondessero le
navi infictae o fractae all'inchiesta del
governatore provinciale. Ma in tutti questi casi la gravità
della pena era giustificata da un comportamento quasi piratesco,
connesso alla perdita dell'intero naviglio.
I testi sui quali si basa la notizia della punizione con
la pena capitale per la semplice sottrazione di cosa naufragata
sono un commento di Ulpiano dell'editto de incendio ruina
naufragio ed un brano di Marciano. Nel primo testo
Ulpiano affermava che un SC aveva esteso la pena capitale
prevista dalla legge Cornelia de sicariis et veneficis
dell'81 a.C. "a coloro per frode o consiglio dei quali
i naufraghi fossero stati con violenza suppressi
perché non portassero aiuto alla nave e a quanti
ivi avessero bisogno di soccorso". Ma se, come è
stato notato, è difficile immaginare che dei naufraghi
vengano soppressi - o trattenuti, come parrebbe preferibile
- solo perché si astengano dal portare aiuto ad una
nave in difficoltà o a persone in pericolo di naufragare,
ancor più difficile è comprendere per quale
ragione debba essere prevista una pena particolare diversa
da quella che reprimeva il comune omicidio, punito già
dalla lex Cornelia de sicariis, senza il bisogno
di alcuna estensione tramite un successivo SC.
Il testo di Marciano, che si riferiva certamente al medesimo
SC, piuttosto che indicare come oggetto della soppressione
i naufraghi, menzionava il naufragio medesimo: et qui
naufragium suppresserit... ex senatus consulto poena legis
Corneliae punitur, ma la fattispecie è apparsa
in dottrina poco plausibile, in quanto "non si vede
perché dei ladroni debbano voler affondare nave e
carico (o parti dell'una o dell'altro) quando è proprio
di tutto questo che si vogliono impossessare". Si è
dunque pensato, confutando un'ipotesi di Mommsen, che i
due testi, pur riferendosi come si è detto al medesimo
SC, si colleghino a fattispecie diverse, l'ultima delle
quali (ipotizzando naufragos supprimere, piuttosto
che naufragium) sarebbe stata ascrivibile, se non
al vero e proprio occultamento di cadavere o alla vendita
del cittadino romano come schiavo, repressa già dalla
lex Cornelia, alla prassi assai diffusa di nascondere
naufraghi e viandanti liberi o schiavi in ergastula
(prigioni private). Il SC allora avrebbe protetto soprattutto
i naufraghi stranieri e combattuto l'antico diritto di presa
sui naufraghi, talvolta riemergente durante la stessa età
imperiale, malgrado la forte presenza di un'autorità
centrale.
Ma appare inammissibile e non comprovato da alcun testo
che il diritto di naufragio venisse ufficialmente riconosciuto
sotto l'Impero, come altrove ho già sostenuto, ed
in realtà l'occultamento del naufragio ed il deliberato
affondamento di navi con un carico quasi integro ma non
commerciabile, rientrava normalmente nella pratica della
pirateria o della guerra di corsa. Allorquando vi fu un
forte governo centrale ed un diffuso controllo nei porti
dell'Impero divenne conveniente impadronirsi di pochi beni,
i più preziosi di un'imbarcazione, ed affondare il
resto per far sparire ogni traccia. Il caso di Spargi (fine
del II sec. a.C.), preso in considerazione da Gianfrotta,
potrebbe essere emblematico della pratica di supprimere
naufragia, con un carico quasi integro dopo un combattimento.Alcuni
rinvenimenti archeologici subacquei infatti sembrano poter
dimostrare l'affondamento di carichi commerciali in seguito
ad azioni piratesche, dopo il frettoloso prelievo di oggetti
preziosi e smerciabili senza ingenerare sospetti.
Dunque con Mommsen - e in dissenso con Manfredini - è
possibile ricostruire il caso che diede luogo alla previsione
di diverse fattispecie represse dall'ignoto SC, commentato
da Ulpiano e Marciano. Secondo Ulpiano sarebbe stato punito,
non solo l'ispiratore (fraude aut consilio), ma anche
l'esecutore materiale che con la forza (per vim)
avesse fatto scomparire una nave in difficoltà con
tutto l'equipaggio che chiedeva aiuto e cercava con ogni
mezzo di scongiurare l'evento drammatico (...item alio
senatus consulto cavetur eos, quorum fraude aut consilio
naufragium suppressum esset quive per vim fecisset ne navi
vel sibi periclitantibus opitulentur). Ed in perfetta
sintonia Marciano affermava: ...et qui naufragium suppresserit.
. . ex senatus consulto poena legis Corneliae punitur.
Non si trattava come pur sosteneva Mommsen - de furto
facto ex naufragio, ma di far scomparire la nave con
quasi tutte le merci e l'intero equipaggio. È stato
infatti rilevato che i casi previsti dalla legge Cornelia
erano collegati dal comune denominatore di costituire attentati
alla vita umana, piuttosto che a beni, come sarebbe stato
per la direptio ex naufragio. Non solo la repressione
tanto severa sarebbe stata giustificata - in sintonia con
altri casi speciali che abbiamo già indicato ed in
dissidio con la disciplina per altro verso nota della sottrazione
di cose naufragate - ma l'interpretazione proposta appare
perfettamente accordarsi al termine supprimere nel
senso di "affondare" ben "documentato nelle
fonti letterarie, prevalentemente con oggetto naves e con
riferimento a battaglie navali".
Nel commento bizantino attribuito in via congetturale al
lib. 53, tit. 3,25 dei Basilici, si affermava sbrigativamente
riferendo il passo di Ulpiano che chi prendeva qualcosa
da un naufragio era tenuto alla legge de sicariis.
Pare questo essere ormai il regime affermatosi per il diripere
una res ex naufragio in tarda età, quando
è noto che la debolezza del potere centrale e la
frequenza delle trasgressioni si accompagnarono ad un inasprimento
delle sanzioni, ma è vano tentare di desumere alcunché
dalla mancata menzione del SC in questo sommario commento.
Correttamente nella Nov. 64 di Leone il Saggio l'imperatore
si chiede quali beni materiali possano autorizzare una condanna
alla perdita della vita per la loro sottrazione, per concludere
che non ne esisteva nessuno, ed abrogare così la
pena capitale in caso di direptio ex naufragio di
singole cose. Ma diversa sembra essere stata l'originaria
fattispecie classica e postclassica di quello che adesso
può, a buon diritto, essere ritenuto il crimine,
di gran lunga più grave, di supprimere naves et
naufragia. |
© Gianfranco Purpura
Dipartimento di Storia del Diritto
Università di Palermo
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