In:
Sicilia Archeologica, XV, 1982, 48, pp. 45-60.
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II
famoso cratere del IV sec. a.C. con la scena del venditore di
tonno, proveniente dalla necropoli di Lipari e custodito nella
collezione Mandralisca di Cefalù, conferma l'importanza della
pesca in generale ed in particolare di quella del
tonno per l'antica economia siciliana e la frequenza
del rinvenimento di resti ossei di pesci e di conchiglie nei
contesti archeologici siciliani ne dimostra la diffusione fin
dalla più remota antichità (1).
La propensione delle più ricche mense omeriche verso la carne
arrostita, che riservava ai poveri l'uso del pesce (2),
se pur si impose in Sicilia, ben presto dovette apparire
superata e le fonti greche parlano di ricette siceliote a base
di pesce, anche se non sempre in termini del tutto lusinghieri (3).
Riscuotevano l'approvazione dei buongustai antichi le murene del
Peloro, il gamberone imperiale di Catania, le conchiglie di
Tindari e del Peloro, le sardelle di Lipari e, naturalmente, il
pesce spada ed il tonno (4).
Nello stretto di Messina, oltre alla pesca del pesce spada, si
praticava la pesca del pesce rondine ed Eliano, citando Sofrone,
parla genericamente della pesca del tonno e di tonnare in
Sicilia (5).
A questa ampiezza e varietà di notizie non corrisponde però
eguale precisione sull'ubicazione degli stabilimenti per la
lavorazione del pescato e del tonno, che pure dovevano essere
numerosi. Dalle fonti sembra che possa desumersi l'esistenza di
stabilimenti del genere solo a Pachino, Tindari, Cefalù e Cetaria,
ma le monete di Solunto con l'effigie del tonno rivelano,
probabilmente, nei pressi di questo centro l'esistenza di un
altro impianto, che dal V sec. a.C. funzionava ancora in età
romana (fig.
1) (6).
Gli stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce e per la
conservazione delle eccedenze del prodotto non solo provvedevano
alla salagione del pescato ed erano, quindi, ubicati in
vicinanza di saline, ma curavano anche la prepazione di una
apprezzata salsa di pesce, il garum, composta di
intestini di sgombri o di tonni, talvolta mescolata con piccoli
pesci interi, lasciati a macerare in vasche con il sale per
circa due mesi, al calore del sole (7).
Negli stabilimenti più importanti il processo di maturazione
poteva essere accelerato con il calore di una vicina fornace. AI
termine il prodotto era filtrato e si distingueva il «fiore»
dal liquamen, di minor pregio. II garum
veniva consumato come condimento, talvolta miscelandolo con vino
(oenogarum), olio (eleogarum), aceto (oxygarum),
acqua (hydrogarum) e pare che l'invecchiamento ne
migliorasse la qualità. II migliore era ritenuto quello
prodotto con viscere e sangue di tonno (aimàtion), ma
egualmente apprezzato era il garum nero di sgombro
spagnolo. Preparato, infatti, in origine dai greci del Ponto,
sembra che già in età arcaica sia stato introdotto dagli
emigrati ionici in Spagna (8),
ove divenne prodotto di primaria importanza. Fonte di grandi
guadagni per i cartaginesi in età ellenistica, continuò ad
essere prodotto su larga scala sotto la dominazione romana e ad
essere esportato dalla Spagna in età imperiale in
caratteristiche anfore (Dressel 7 9) in ingenti quantità.
Alla diminuzione del flusso delle esportazioni spagnole
corrispose nell'età dei Severi l'accentuata presenza di
contenitori africani per questo prodotto (9),
che continuò, però, ad essere preparato anche in Spagna,
ancora in età assai tarda (fig.
1) (10).
Gli stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce (taricheiai,
cetariae) (11)
non solo preparavano il garum, ma soprattutto
curavano la confezione del pesce salato e del tonno (tàrichos),
che si distingueva per il grado di salatura, il modo di
presentazione, la natura del pesce e le diverse parti, che
spesso trovano riscontro nelle suddivisioni ancor oggi note (12),
La cattura dei tonni, vivacemente descritta nelle fonti (13),
pare che avvenisse secondo metodi vari, ma che il più comune
contemplasse l'avvistamento a terra da parte di vedette issate
su posti dì osservazione, capaci di valutare dal colore e dal
movimento del mare l'entità del branco. I tonni, stretti in una
grande rete e dalle barche che si accostavano le une alle altre,
se ancora vivi, venivano uccisi a colpi di fiocina o di bastone
e tratti sulle imbarcazioni o trascinati a riva nello
stabilimento per la lavorazione (14).
Tracce di questi stabilimenti esistono ancora oggi in tutto il
Mediterraneo e perfino in Atlantico, lungo la costa portoghese
ed africana (15),
confermando le indicazioni delle fonti che ne mostrano una
maggiore concentrazione in Bitinia, Asia Minore, Nabatea,
Egitto, Tripolitania, Mauretania, Spagna, Gallia, Italia,
Istria, Dalmazia, Epiro e Macedonia (fig.
1). Uno dei più importanti e meglio conservati è ubicato a
Cotta (Marocco) e si presenta come un vasto recinto
quadrangolare con al centro l'impianto di salagione vero e
proprio con numerose vasche rivestite in cocciopesto, dagli
angoli smussati per facilitarne la pulizia. In prossimità sono
l'impianto di riscaldamento, i magazzini per la lavorazione del
pesce e la conservazione delle anfore e, in un angolo dello
stabilimento, una torre, forse per I'avvistameto dei tonni, alla
quale fu aggiunto un frantoio per l'olio. Anche gli altri
stabilimenti noti confermano che caratteristiche salienti di
essi sono le particolari vasche in cocciopesto (cetariae),
disposte in serie nei pressi del mare (16)
e numerosi frammenti di anfore commerciali sparsi intorno. Ben
noti nel Nord Africa, Spagna, Francia, appaiono sconosciuti
in Italia (17),
benchè vengano menzionati nelle fonti, oltre che in Sicilia e
Sardegna, a Velia, Ipponio, Turi, Pompei, Pozzuoli, Anzio (fig.
1).
Era, quindi, plausibile che nella Sicilia nord-occidentale, sede
di numerose tonnare, attive sino a non molto tempo fa, restasse
qualche traccia di queste vasche, lungo la riva del mare con
numerosi frammenti di anfore attorno. La mia attenzione si
volgeva soprattutto alle moderne tonnare, poichè era possibile
supporre che perdurassero nel tempo le esigenze che dovevano
avere in origine determinato l'ubicazione di questi stabilimenti
(18).
Nei pressi della tonnara di S. Vito Lo Capo (Trapani) (fig.
2), lungo la riva del mare, a circa una ventina di metri dal
lato N-NE, intorno ad un piccolo magazzino quadrato, attualmente
deposito di attrezzi da pesca, si riscontra l'esistenza di
numerose vasche rivestite in cocciopesto a grana fine con
intorno molti frammenti di anfore antiche (fig.
3 e fig.4)
(19).
Gli avanzi più cospicui dell'antico impianto si osservano a SSO
dell'asse passante dalla parete a monte del magazzino (fig.
5 e fig.6).
Altri resti si scorgono sulla destra, oltrepassata la
costruzione. Partendo dall'angolo OSO del magazzino e procedendo
verso nord di circa m 17, si osserva un breve tratto di parete
intonacata in cocciopesto ed a monte di questa, a circa m 2,90
affiora un frammento di pavimentazione in cocciopesto (fig.
4). Dall'angolo opposto dell'edificio (E-NE), procedendo
di una decina di metri verso nord, si osservano due testate di
intonaci, distanti tra loro circa 80 cm e con facce
contrapposte. Sul lato opposto del magazzino, ove l'interrato è
minore, si contano almeno dieci vasche di dimensioni varie e
dagli angoli smussati, che si distanziano tra loro da 60 a 90
cm. In analoghi impianti la vicinanza delle vasche tra di loro
e l'esiguità dello spessore dei muretti è stata spiegata
supponendo che i bacini venissero riempiti contemporaneamente,
bilanciandosi reciprocamente le spinte sulle pareti.
Le vasche di S. Vito sono realizzate con muretti di pietrame
che si conservano per un'altezza media di circa 35 cm (fig.
7). Si constata, soprattutto negli angoli, la
sovrapposizione di numerosi strati, piuttosto spessi, di
cocciopesto. Poichè tre strati soltanto sembrano costituire la
consueta impermeabilizzazione, il numero dei rivestimenti delle
vasche di S. Vito rivela un'utilizzazione per un arco di tempo
piuttosto lungo (fig.
8). In considerazione della distanza che separa i due gruppi
di vasche a destra e a sinistra del magazzino e l'interramento a
monte di esso (fig.
9), si ha l'impressione che la successiva costruzione del
magazzino ne abbia distrutte alcune, ma che a monte ne esistano
altre interrate ed in miglior stato di conservazione. II numero
complessivo risulterebbe quindi assai elevato, anche se le
dimensioni di esse, confrontate con quelle di analoghi impianti,
appaiono alquanto contenute (fig.
10) (20).
Si può, quindi, supporre una grande varietà e relativa
abbondanza del pescato e l'uso di diverse preparazioni.
Qualche frammento di macina in pietra lavica indica, forse una
triturazione del sale prima dell'utilizzazione. I numerosi
frammenti di tegoloni presenti nel sito furono, invece,
probabilmente, destinati a ricoprire i modesti ambienti
circostanti o, addirittura, le stesse vasche per proteggerle
dalle intemperie, come negli stabilimenti simili, ove le scarse
tracce di muri hanno fatto pensare ad abitazioni di pescatori
assai precarie o, addirittura, a ripari in tenda. In questi
luoghi però non mancano i rinvenimenti di strumenti da pesca,
come ami, navette in bronzo o avorio, pesi in piombo o argilla
per le reti, che a S. Vito non è stato possibile reperire in
quanto non è stato effettuato alcuno scavo. II notevole
dilavamento del terreno fa poi supporre che molti reperti si
trovino in mare, nelle immediate adiacenze. Inoltre un antico
relitto, segnalato dai pescatori nei pressi della tonnara, tra i
40 e i 50 metri di profondità, potrebbe essere collegato con le
attività dell'antico stabilimento.
I cocci di anfore commerciali raccolti dal suolo presso la
tonnara, prevalenti rispetto all'esiguo numero di frammenti
relativi a contenitori di uso domestico o a vernice nera,
consentono di avanzare qualche ipotesi sul periodo di tempo di
utilizzazione dell'impianto, ma, ovviamente, solo lo scavo del
sito consentirebbe di acquisire dati sicuri relativi alla
cronologia ed alla sua importanza nelle diverse età. Parimenti,
allo stato attuale non si può con certezza stabilire in quali
tipici contenitori venisse venduto il prodotto lavorato in
questo stabilimento nelle diverse epoche (21).
I più antichi frammenti di anfore raccolti in superficie sono
della fine del IV, inizi del III sec. a.C., pochi i greci,
numerosi i punici (fig.
11 nn. 1 14). Si distinguono, infatti, frammenti di
anfore puniche del tipo Manà B 3 (fig.
11 nn. 1 3; fig.
13 n. 2); Mañà C1 e 2 (fig.
11 nn. 4 9; fig.
13 nn. 3 e 4) e anfore «a sigaro», Mañà D, con due
diversi tipi di orli (fig.
11 nn. 10 11; fig.
13 n. 1) (22).
Indicano probabilmente una importanza dell'impianto punico nel
III sec. a.C., sino alla conquista romana. Trova così, in
qualche modo, ulteriore sostegno la tesi di chi, ridimensionando
per l'età più antica il ruolo dei punici in occidente nella
preparazione del garum, ritiene che sia soprattutto nel
III sec. a.C., sotto i Barcidi, che questa industria sia stata
praticata dai cartaginesi su vasta scala (23).
Frammenti di anfore greco italiche del III sec. a.C.,
qualcuno con bollo rettangolare illegibile sulle anse, sono
presenti a S. Vito, ma non è, ovviamente, possibile
determinarne il contenuto (fig.
11 nn. 15 22; fig.
13 n. 5) (24).
Non mancano orli di vinarie italiche del II I sec.
a.C. (fig.
11 nn. 23 26; fig.
13 n. 6) (25),
ma in numero più limitato e ciò potrebbe riflettere un calo
nella produzione, conseguente ai dissesti della conquista
romana. Si riscontrano anche anfore Dressel 2 5 (fig.
11 nn. 27 29; fig.
13 n. 7) dalle anse bifidi della fine del I sec. a.C., inizi
del secolo successivo (26).
È interessante osservare che alcuni orli di anfore Dressel 7 9
(fig.
12 n. 1; fig.
13 n. 8) del I sec. d.C. raccolti sul posto sono in una
caratteristica argilla giallina, con qualche raro incluso di
color marrone scuro, di provenienza spagnola (27).
O indicano una improbabile riutilizzazione a S. Vito di
contenitori per salsa di pesce spagnola, o si spiegano
supponendo che in questo stabilimento avrebbero potuto essere
venduti anche prodotti più pregiati di produzione non locale.
In conseguenza di un elevato numero di cocci di anfore del II
sec. d.C., si può forse supporre un incremento nella produzione
dell'impianto in questa età. Le anfore sono del tipo c.d.
tripolitano, soprattutto delle prime due fondamentali forme:
tripolitana I (fig.
12 nn. 2 3; 12; fig.
13 n. 9); e II (fig.
12 nn. 4 7) (28).
Si osserva, pure, un elevato numero di frammenti di un rigo di
anforetta di presunta provenienza africana, dalle anse a doppia
nervatura, di dimensioni contenute e dall'orlo stretto, che può
aver contenuto solo liquidi (fig.
12 nn. 16; 20; 21; fig.
13 n. 13) (29).
Nel III sec. d.C. appaiono le anfore c.d. africane nei due tipi,
grande e piccolo (fig.
12 nn. 8 11; fig.
13 n. 10) (30).
La presenza nello stabilimento di S. Vito di entrambi i tipi
sembra confermare l'ipotesi che ambedue, oltre che per olio,
potessero essere utilizzati per prodotti a base di pesce. In
questo secolo sono pure presenti frammenti di anfore dalle anse
rilevate dei tipi I e II di Marzamemi (fig.
12 nn. 13 15; fig.
13 nn. 11 e 12) (31).
Dopo la grande crisi del III sec. d.C., la scarsezza di
frammenti degli inizi del IV sec. potrebbe indicare un
rallentamento dell'attività in questa età, ma nei secoli
successivi sembra che l'impianto abbia continuato a produrre,
almeno fino all'arrivo degli arabi (fig.
12 nn. 17 19; fig.
13 n. 14) (32).
In conclusione l'antichità e la continuità nel tempo sembrano
essere alcuni dei dati più interessanti che valgono a
differenziare l'impianto di S. Vito dagli altri che, in genere,
si ritengono utilizzati solo dal I sec. a.C. fino al III sec.
d.C.
La scoperta a S. Vito di un impianto per la lavorazione del
pesce potrebbe indurre a vedere in esso una conferma diretta di
antiche congetture formulate sull'ubicazione di Cetaria,
cittadina menzionata nelle fonti, soprattutto romane, lungo
questo tratto della costa siciliana (33).
In realtà, la leggerezza in base alla quale, soprattutto in
questi ultimi anni, sono state proposte identificazioni di siti
della Sicilia antica suggerisce cautela (34).
Non è certo la scoperta dello stabilimento di S. Vito
sufficiente per indurre ad affermare con sicurezza che colà
fosse ubicata Cetaria, soprattutto in considerazione del
fatto che nella Sicilia nord occidentale questi
stabilimenti, come subito vedremo, furono più comuni di quanto
finora non si sia creduto. Inoltre nell'unico passo antico che
contiene un preciso riferimento topografico (35),
Cetaria è indicata tra la foce del fiume Iato e Palermo
e, quindi, se non si tratta di un errore, innanzitutto dovrebbe
essere ricercata in questo tratto di costa e non nei pressi di
S. Vito.
Ciò nonostante, se Cetaria risultasse essere ubicata nei
pressi di S. Vito il centro abitato non dovrebbe essere
ricercato nelle immediate adiacenze dello stabilimento, ma nelle
vicinanze dell'insenatura ove è ubicato l'attuale paese, anche
se, forse, in posizione alquanto elevata. È recente, infatti,
la notizia del rinvenimento di una catacomba paleocristiana nei
pressi della cinquecentesca chiesa fortezza e di una
necropoli antica alle spalle del paese.
Già, fin dal 1977, un altro antico impianto per la lavorazione
del pesce era stato riconosciuto da un turista in vacanza
nell'isola di Levanzo che ne aveva dato notizia in un breve
articolo, rimasto a molti sconosciuto (36).
In considerazione dell'interesse del rinvenimento, che può
essere considerato il primo del genere in Italia, e dalla sua
scarsa conoscenza appare opportuno ripresentare il rilievo
dell'impianto effettuato in quella occasione (fig.
14).
Nella lingua di terra che si protende verso oriente a nord di
Cala Minnola (fig.
15) sono state rinvenute almeno otto grandi vasche,
allineate all'incirca nord sud verso il mare, tutte di
dimensioni diverse (37),
di forma quadrangolare, rivestite in cocciopesto e con gli
spigoli arrotondati (fig.
16). In realtà sembra che un'altra fila di vasche si
estenda ad oriente, parallelamente alla serie rinvenuta nel
1977. Le vasche sono state in parte scavate sul fondo roccioso e
si presume che in origine fossero profonde circa 80 90 cm.
Non sono state riscontrate intorno tracce di altre costruzioni e
i numerosi frammenti fittili circostanti sono stati
genericamente assegnati all'età romana, soprattutto alla prima
età imperiale.
A giudicare dall'unica foto presentata dei frammenti, sembra
possibile riconoscere un'ansa di un'anfora punica Mañá D e
frammenti di orli di un'anfora vinaria italica, di una
Dressel 7 9 e di un'anfora tripolitana I. Sembra, quindi,
che nel III e nel I sec. a.C., nel I e II sec. d.C. questo
impianto sia stato in funzione. Ma è probabile che, come a S.
Vito, lo stabilimento sia stato in attività per un periodo di
tempo ancora più lungo. Le vicende economiche, infatti, che
determinarono il fiorire e la decadenza di questi due impianti
per la lavorazione del pesce, tra di loro tanto vicini,
dovrebbero essere state le medesime in entrambi i siti.
Con il sopraggiungere del medioevo le fabbriche antiche per la
lavorazione del pesce, cadendo lentamente in disuso la
produzione del garum, si trasformarono in impianti assai
simili alle moderne tonnare, che sono spesso ubicate negli
stessi luoghi degli antichi stabilimenti (38).
Talvolta, però, come a Levanzo, le condizioni di insicurezza
dei periodi di crisi e l'isolamento del sito avranno contribuito
a spezzare quel filo di continuità che lega il passato al
presente. Così l'impianto di Cala Minnola, diversamente da
quello di S. Vito, potrebbe essere stato abbandonato in un
momento ancora imprecisato.
Palermo, gennaio 1982
|
© Gianfranco Purpura |
Note:
1 Resti di
pesci di grandi dimensioni provengono dalla Grotta dell'Uzzo tra
Scopello e S. Vito Lo Capo e sono databili a partire dalla metà
del VII millennio a.C. (DURANTE, Nota preliminare sull'ittiofauna
e sullo sfruttamento delle risorse marine, Sic. Arch., 42, 1980,
65 e s.). Gusci di conchiglie, raccolte per scopo alimentare, si
riscontrano nel paleolitico siciliano. Giovanni Mannino mi
informa che in questa età sono presenti due specie di patelle,
la ferruginea e la caerulea, oltre al trochus.
Nel neolitico, alla sensibile diminuzione delle specie sopra
citate, corrisponde la presenza del cardium, usato per decorare
la ceramica. II murex, invece, in piccole quantità è
sempre presente, così come il conus, il dentalium,
la ciprea, usati per scopi ornamentali. Frequenti, poi,
sono le offerte di pesci nelle necropoli puniche e greche della
Sicilia. Nella necropoli punica di Palermo, ad esempio, in tombe
del V, IV e III sec. a.C. sono state rinvenute lische di
saraghi, cerniole, labridi, deposte sui c.d. piatti da pesce
(TAMBURELLO, Palermo antica IV, Sic. Arch., 39,
1979, 54; CAMERATA SCOVAZZO, CASTELLANA, Palermo Necropoli
punica: Scavi 1980, BCA Sicilia, li, 1981, 133 e fig.
17; TAMBURELLO, Palermo punico romana: la lavorazione
del legno e dei prodotti vegetali, Sic. Arch., 45, 1981, 35 e
s.).
2 ETIENNE, A
propos du « garum sociorum », Latomus, 29, 1970,
298. Sulla pesca nel mondo antico cfr. soprattutto RHODE, Thynnorum
captura quanti fuerit apud veteres momenti, Jahrbücher f.
class. philologie, Suppl. XVIII, 1890, 1 ss. Si veda pure
STOCKLE, PWRE, Suppl. IV, 456 ss., v. Fischereigewerbe;
LAFAYE, DS, IV, 1, 489 ss., v. piscatio. Sulla pesca
nella Sicilia antica cfr. HOLM, St. della Sic. ant., I, Torino,
1896, 91 nt. 103; PACE, Arte e civ. della Sic. ant., I, Città
di Castello, 1935, 402 ss.
3 Frequenti
sono nei sicelioti Epicarmo ed Archestrato i riferimenti a pesci
ed a pietanze a base di pesce. La cucina antica prestava grande
attenzione ai luoghi di provenienza dei diversi prodotti e molto
apprezzato era il gusto del pesce siciliano, pescato nel mare
che i sicelioti dicevano dolce per questa ragione (ATENEO, XII,
518), e, quindi, poco gradito era l'uso locale di coprire il
sapore del pesce con salsa o mescolandovi formaggio, come ancor
oggi si usa in alcune tradizionali ricette siciliane. PLATONE
nel Gorgia (518 b) fa citare da Socrate un tal Mithaicos,
autore di un trattato sulla cucina siceliota, e, oltre
Archestrato di Gela, diversi autori di trattati di cucina greca,
nella quale larga parte aveva il pesce, citati da Ateneo, erano
del meridione d'Italia.
4 Sulle
murene cfr. ATENEO I, 4 c; PLIN., Nat. hist. IX, 169;
QUINT. VI, 3, 80; MACROBIO, III, 15, 7. II gambero è menzionato
in Sofrone ed Epicarmo, citati da ATENEO (III, 106; VII, 286 e
306). II gambero di Catania era tanto importante per l'economia
cittadina da apparire sulle sue monete. II termine greco (kàmmaros),
come molti altri vocaboli relativi a pesci ed attrezzi per la
pesca, sopravvive nel dialetto siciliano (àmmaru). Cfr.
GRASSI PRIVITERA, Etim. sirac., St. glott. it. IX, 105 ss. Sulle
conchiglie cfr. ATENEO I, 4 c; PLIN. XXXII, 150. Le sardelle di
Lipari sono menzionate in ATENEO I, 4 c.
5 Sulla
pesca del pesce spada cfr. STRABONE I, 2, 24. COLUMBA, I porti
della Sicilia, Roma, 1906, 79; PACE, op. cit., I, 404. Sulla
pesca del pesce rondine cfr. PAUSANIA V, 25, 3. PACE, op. cit.,
I, 403. Sulla pesca del tonno in Sicilia si veda ELIANO, Anim.
hist. XV, 5 6; ATENEO V, 44.
6 Sullo
stabilimento di Pachino cfr. ATENEO I, 4 c; SOLINO V, 6. Esso
era probabilmente ubicato a Marzamemi o a Capo Passero, ove
esistono ancor oggi delle tonnare. È noto che in questa zona
giacciono numerosi carichi antichi e sembra che vi sia una
relazione tra l'ubicazione degli antichi stabilimenti per la
lavorazione del pesce e i relitti di navi, naufragate nei pressi
(fig. 1). Sullo stabilimento di Tindari si veda ATENEO VII, 302.
Da COLUMBA e PACE (l.c.) la tonnara di Tindari è indicata ad
Oliveri e ricordata come ancora funzionante in EDRISI (AMARI,
Bibl. arabo sic., I, Torino Roma, 1880, 67).
L'esistenza di un impianto per la lavorazione del tonno a Cefalù
è desunta da ARCHESTRATO, cit. in ATENEO VII, 302. Lo stagno
naturale, ricco di pesci, citato da PLINIO (XXXII, 16) al
castello di Eloro e corrispondente all'attuale palude di
Vendicari, non ha niente a che fare con fabbriche per la vendita
o la lavorazione del pesce. Su Cetaria e la sua incerta
ubicazione cfr. infra nt. 35. Anche la città di Hykkara
prendeva la sua denominazione da certi pesci Hykai (forse
alici, acciughe), pescati nei dintorni e anche lì poteva
esservi uno stabilimento per la lavorazione del pesce. Cfr. HOLM,
op. cit., I, 136. Questo ipotetico impianto avrebbe potuto
essere, allora, ubicato in località Baglio di Carini, ove si
riscontra l'esistenza di numerosi frammenti fittili antichi e
medioevali. Sulle monete di Solunto si veda MINì, Le monete
della Sicilia antica, Palermo, 1979, 401 ss.; HOLM, op. cit.,
III, 2, 135 nt. 251; PACE, op. cit., I, 404. L'impianto
di Solunto è ancora menzionato in EDRISI (AMARI, op. cit., I,
129) e forse è da identificare con la tonnara di Solanto o con
quella di S. Elia, entrambe in funzione fino a qualche tempo fa.
7 Si ritiene
che la macerazione del garum non produca la putrefazione
dei suoi ingredienti, ma si tratti di un processo di
autodigestione del pesce attraverso la diastasi del proprio tubo
digestivo, in presenza di un antisettico (il sale) che impedisce
la putrefazione. A questa autolisi si aggiunge una certa
fermentazione microbica che provoca una maturazione del
prodotto, simile a quella del formaggio. In Vietnam esiste
ancora oggi un prodotto simile detto nuoc mam e pare
che una salsa del genere sia in uso anche in Turchia ed in
qualche altro luogo del Mediterraneo. Sul garum cfr.
KOHLER, Tàrichos ou recherches sur 1'hist. et les antiquités
des pécheries de la Russie Méridionale, Mém. de I'acad. imp.
des sciences de St. Petersbourg, VI, 1, 1832, 347 ss.; 394 ss.;
BESNIER, DS, IV, 2, 1023, v. salsamentum;
ZAHN, PWRE, VII, 1, 481 ss., v. garum; MOREL,. DS,
li, 2, 1459, v. garum; MONOD, GRIMAL, Sur la
veritable nature du garum, REA, 54, 1952, 27 ss.;
BALIF, Un estudio sovre el garum, AEA, 26, 1953, 183 ss.;
JARDIN, Garum et sauces de poisson de I'antiquité, RSL,
27, 1961, 70 ss.; PONSICH, TARRADELL, Garum et
industries de salaison dans le Mediterranee Occ., Paris, 1965;
ZEVI, Appunti sulle anfore romane, Arch. Class. XVIII, 1966,
229 ss.; FOUCHER, Note sur l'industrie et le commerce des salsamenta
et du garum, Actes du 93e Congrès Nat. des societès
savantes (Tours, 1968), Paris, 1970, 17 ss.; ETIENNE, op. cit.,
297 ss.; SANQUER, GALLIOU, Garum, sel et salaisons en
Armorique gallo romaine, Gallia, 1972, 199 ss.
8 ETIENNE,
op. cit., 311.
9 ZEVI,
TCHERNIA, Amph. de Byzacène au bas empire, Antiquites
africaines, III, 1969, 173 ss.; PANELLA, in Ostia III, 1973,
Roma, 560 ss.; ID., Annotazioni in margine alle stratigrafie
delle terme ostiensi del nuotatore, Rech. sur les amph. rom.,
Suppl. aux MEFRA, 10, Roma, 1972, 88 ss.; ID., Anfore della
Tripolitania a Pompei, Instr. dom. ad Erc. e Pompei, Roma, 1977,
144 ss.
10 AUSONIO,
XX, 1; GREGORIO DI TOURS, St. dei Franchi IV, 43. BLASQUEZ, La
crisi del siglo 111 en Hispania y Mauretania Tingitana, Hispania,
XXVIII, 1968, 5 ss.; ETIENNE, op. cit., 309 ss. II garum
è ancora menzionato in un diploma dell'abbazia di Corbie
(Francia) del 29 aprile 716. Cfr. FOUCHER, op. cit., 18 nt. 1.
11 Così
era chiamata una città in Palestina, una borgata del delta del
Nilo, un insediamento in Sicilia, un gruppo di isolette in
Tripolitania.
12
Esistevano almeno tre gradi di salatura. II salato poteva essere
consumato così come era o dissalato in acqua dolce o di mare (PLUTARCO,
Quaest. conv. I, 9, 1. Cfr. BESNIER, Op. cit., 1025). La
presentazione era assai varia: in fette, pezzi triangolari,
quadrangolari o cubici. I filetti di tonno salati e seccati,
somiglianti ad assicelle di quercia, detti melàndrya (PLIN.
IX, 48), furono probabilmente le uova del tonno, ancor oggi così
confezionate. Di recente a Corinto sono stati ritrovati in
anfore puniche del V sec. a.C. (KAUFMANN, Corinth 1978, Hesperia,
48, 2, 1979, 117) numerosi resti di pezzi quadrangolari di pesci
(tonno e pagello) che confermano questo tipo di presentazione
del salato. Le anfore puniche di Corinto sembrano essere almeno
di due tipi: Mañá A 3 4 ed anfore c.d. «a sigaro» (Mañá
D). Cfr. MA?A, Sobre la tipologia de las ànforas púnicas,
Cronica del Congr. Arqueol. del Sudeste, Cartagena, VI, 1951,
203 ss. (= in Inform. Arqueol., Barcelona, 14, 1974, 1 ss. con
una nota di PASCUAL GUASCH). II salato è distinto dagli antichi
in grasso e magro. II tonno non sembra che venisse conservato
anche sott'olio.
13
Aristotele, Anim. hist. VIII, 12 ss.; ESCHILO, Pers. 424:
TEOCRITO III, 25 e s.; ELIANO, Anim. Hist., IX, 42; XV,
5; FILOSTRATO, Imagines I, 12; OPPIANO, Halieut.
IV, 504 ss.; 636 ss.; LAFAYE, op. cit., 491; RHODE, op. cit., 42
SS.
14 Una
scena del genere era rappresentata in un mosaico del museo di
Susa (LAFAYE, op, cit., fig. 5689). Se, quindi, probabilmente,
esisteva già nell'antichità una «camera della morte», non
sempre sembra che ad essa si accompagnasse un sofisticato
impianto di reti fisse, simile a quello delle moderne tonnare,
che tuttavia già appare in Oppiano, che parla di porte,
vestiboli, percorsi obbligati. L'uso di numerosi termini di
origine araba potrebbe riflettere uno sviluppo di quest'ultimo
sistema soprattutto nell'età intermedia. Cfr. RHODE, op. cit.,
42 ss.
15 Sugli
stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce cfr. KOHLER,
op. cit., 347 ss.; 394 ss.; MESQUITO DE FIGUEREIDO, Ruines d'antiques
établissements à salaisons sur le littoral sud de Portugal,
Bulletin hispanique, 1906, 109 ss.; PELLATI, 1 monumenti del
Portogallo romano, Historia, V., 1931, 214 ss.; TARRADELL,
Marruecos antiguos, La industria de salazon del pescado,
Zephirus, XI, 133 ss.; ID., Lixus, Tetuan, 1962, 40 e 51 ss.;
PONSICH, TARRADELL, Garum et industries de salaison,
cit.; DOMERGUE, La campagne de fouilles 1966 à Bolonia (Cadiz),X
Congr. Nac. de Arqueol., Saragoza, 1969, 442 ss.; MARTIN, SERRES,
La factoria pesquera de Punta del Arsenal y otros restos romanos
de Jàvea (Alitante) , Valencia, 1970, 207 ss.; SANQUER, GALLIOU,
Garum, sel et salaisons, cit., 199 ss. e la bibliografia cit. in
questi lavori.
16 PLINIO
(IX, 92) narra che a Carteia un polpo era solito passare
dal mare in uno di questi bacini per gustare il salato.
17 Cfr.,
ad es., GIANFROTTA, POMEY, L'arch. sottom., Milano, 1981, 321
ss.
18 In Sic.
Arch. 24 25, 1974, 58 ss. ho avanzato l'ipotesi
dell'esistenza di uno stabilimento per la lavorazione del pesce
nei dintorni di Terrasini. In Sic. Arch., 28 29, 1975, 80
rilevavo la presenza di un muro antico di buona fattura, nei
pressi del mare e dell'antica tonnara di Trabia, e di numerosi
frammenti di anfore e di ceramica a vernice nera.
19 La
scoperta è stata casualmente compiuta nell'agosto del 1981, nel
corso di una mia breve permanenza estiva in questa località. I
rilievi e le foto sono di Giovanni Mannino, che qui desidero
ringraziare per l'ampia collaborazione data.
20 Le
dimensioni delle vasche sono m. 1,80 x 1,85; 2,00 x 1,85; 1,50 x
1,85. Allo stato attuale non è possibile stabilire la loro
originaria profondità, poichè come in molti casi simili, in
parte erano ricavate scavando il piano della campagna, in parte
si ergevano in elevato e in quelle vasche oggi affioranti a S.
Vito il bordo superiore è ovviamente andato distrutto. Si può
solo ipotizzare una profondità di una ottantina di centimetri.
Le sedici vasche di Cotta sono di m. 0,80 x 0,80; 1,80 x
1,80; 1,80 x 0,80 e 1,80 x 0,60. Le vasche di Lixus,
ben 147 bacini, relativi ad una decina di diversi stabilimenti
vicini, ma tutti senza impianto di riscaldamento, hanno
dimensioni assai varie, ma in genere di m. 3,20 x 1,50;
2,00 x 2,00; 2,20 x 1,00; 2,20 x 1,50. Le quantità di
sale e di pesce, utilizzate in questi impianti, possono essere
calcolate sulla base delle dimensioni delle vasche e, talvolta,
sono davvero considerevoli. Cfr. PONSICH, TARRADELL, op. cit.,
83; ETIENNE, op. cit., 307 ss.
21 La
determinazione dei tipi caratteristici di contenitori nei quali
veniva venduto ed esportato il prodotto delle diverse fabbriche
antiche nelle diverse epoche potrebbe consentire di acquisire
importanti risultati per la storia degli scambi economici e
commerciali nel mondo antico. Purtroppo, il fatto che spesso sia
stata data notizia di opifici antichi senza indicare il tipo di
contenitori utilizzati o prodotti è sintomatico della scarsa
cura che gli archeologi fino ad un passato non troppo lontano
hanno dedicato a questo tipo di dati.
22 Anfore
c.d. «a sigaro» piene di lische di pesce tagliato a pezzi sono
state ritrovate a Corinto (KAUFMANN, op, cit., 117 ss.). Sulle
anfore puniche, oltre a CINTÀS, Céramique punique, Tunis,
1950), cfr. MAÑ?, op. cit., 203 ss.; ALMAGRO, La necropolis de
Ampurias, Barcellona, 1953, I, 398 ss.; CULICAN, The phoen. punic
pottery, Motya 1955, Pap. Brit. School Rome, 26, 1958, 21 ss.;
PASCUAL GUASCH, Las anforas punicas, CRIS, Revista de la Mar,
Barcellona, 95, 1966, 13 ss.; PONSICH, AIfarerias de epoca
fenicia y punito mauritania en Kouass (Marruecos), Papeles
lab. de arqueol. Valencia, 4, 1968, 1 ss.; PASCUAL GUASCH, Un
nuevo tipo de anfora punita, AEA, 42, 1969, 12 ss.; SOLIER, Céramiques
puniques sur le littoral du Languedoc, St. Benoit, li,
Bordighera, 1972, 128 ss.; PASCUAL GUASCH, Underwater arch. in
Andalusia, IJNA, 2, 1973, 107 ss.; JONES EISEMAN, Amphoras from
the Ponticello shipwreck (Calabria), IJNA, 1973, 2, 13 ss.
23
ETIENNE, op. cit., 311.
24 Sulle
anfore greco italiche cfr. BENOIT, Typ. et ep. amph., RSL,
23, 1957, 247 ss.; BELTRAN LLORIS, Las amphoras romanas en
Espana, Saragoza, 1970, 338 ss. Di recente su queste anfore cfr.
DE LUCA DE MARCO, Le anfore comm. delle necropoli di Spina,
MEFRA, 91, 1979, 2, 585 e s. Assai frequenti in Sicilia, si
suppone che queste anfore siano di produzione locale. Rinvenute
a Terrasini (Sic. Arch., 24 25, 1974, 49 ss.) e in molti
altri luoghi siciliani, costituivano il carico principale del
relitto di Capistello (Sic. Arch., 39, 1979, 7 ss.).
25 Sulle
vinarie italiche cfr. LAMBOGLIA, Sulla cronologia delle anfore
rom. di età repubblicana, RSL, XXI, 1955, 241 ss.; BELTRAN
LLORIS, op. cit., 301 ss. Numerosissimi sono i relitti siciliani
nei quali è presente questo tipo di anfora: ad es. il relitto
della Triscina (Selinunte) e di Cala Gadir (Pantelleria). Cfr.
Sic. Arch., 28 29, 1975, 64 ss.
26 Sulle
anfore Dressel 2 5 cfr ZEVI, Appunti sulle anfore rom.,
Arch. Class., cit., 214, ss.; BELTRAN LLORIS, op. cit., 348;
ZEVI, TCHERNIA, Amph. vin. de Campanie et de Tarraconaise à
Ostie, Rech. sur les amph. rom., Suppl. aux MEFRA, 10, Roma,
1972, 35 ss.; PANELLA, Annotazioni in margine alle
stratigrafie delle terme ostiensi, cit., 72 nt. 3. Queste anfore
appaiono sul relitto Drammont D, studiato da JONCHERAY (Cahiers
d'Arch. sub., II, 1973, 21 ss.). Sulla presenza di esse in
Sicilia cfr. Sic. Arch., 35, 1977, 57.
27 Sulle
anfore Dressel 7 9 cfr. ZEVI, op. cit., 229 ss.; BELTRAN
LLORIS, op. cit., 463 ss. Numerosi sono i relitti con anfore di
questo tipo (fig.
1). II più attentamente studiato è quello di Port Vendres
II (Archeonautica, II, 1979). II relitto di Terrasini
trasportava questo tipo di anfore di provenienza spagnola (Sic.
Arch., 24 25, 1974, 45 ss.).
28 Sulle
anfore «tripolitane» cfr. PANELLA, in Ostia 111, Roma, 1973,
560 ss.; ID., Annotazioni, cit., 78 ss.; ID., Anfore della
Tripolitania, cit., 144 ss. Sulla presenza di esse in Sicilia
cfr. Sic. Arch., 28 29, 1975, 82 e s. e Sic. Arch., 35,
1977, 57.
29 Cfr.
PANELLA, in Ostia 11, Roma, 1970, fig. 523; GIANFROTTA, Arch.
sott'acqua, BA, 10, 1981, 74 fig. 16. Esemplari più tardi in
The Athenian Agorà, Pottery of rom. period, V, Prìnceton,
1959, tav. 16; 28; 31; 32; URSALOVIC, Esplor. e preserv. arch.
sottom. nella Croazia, Zagreb, 1974, 140 nn. 146 149.
30 Sulle
anfore «africane» cfr. ZEVI, TCHERNIA, op. cit., 173 ss.;
PANELLA, Annotazioni, cit., 88 ss., II relitto di Annaba
(Algeria), conteneva anfore «africane» con striscioline di
piombo avvolte intorn alle anse, che indicavano una provenienza
del contenuto da diverse officinae. LEQUEMENT (Etiquettes
de plomb sur des amphores d'Afrique, MEFRA, 1975, 2, 667 ss.) ha
supposto che queste officine fossero industrie africane per la
lavorazione del pesce. Anche queste anfore sono frequenti in
Sicilia. Cfr., ad es., Sic. Arch., 28 29, 1975, 81 ss.;
Sic. Arch., 30, 1976, 25 ss. e Sic. Arch., 35, 1977, 57.
31 PANELLA,
Annotazioni, cit., 89 ss.; The Athenian Agorà, cit.,
tav. 28, 29 e 31; URSALOVIC, op. cit., 139 nn. 122 e 123.
32 Cfr.
JONCHERAY, La navire de Bataiguier (Cannes), Archeologia,
1975, 45, in cui appaiono anfore con orli simili in un relitto
saraceno del X sec.
33 CIC., Verr.
III, 103; PLIN. Nat. Hist. III, 91; TOLOMEO, Geogr.
Ili, 4. Sull'ubicazione di Cetaria cfr. HOLM (op. cit.,
1, 91 nt. 103; 190; II, 482 nt. 5), che la identifica con
Tonnara, dalle parti di Isola delle Femmine e PACE (op. cit., I,
309 e 404) che afferma che essa fu una stazione itineraria nel
Golfo di Castellammare, accettando quanto già sostenuto da
AMICO, Diz. topografico della Sicilia, I, Palermo, 1855, 323, v.
Cetaria; COLUMBA, op. cit., 57 e ZIEGLER, PWRE, XI, 1,
360, v. Ketaria.
34
Cfr. MANNI, Geogr. fis. e polit. della Sicilia antica, Roma,
1981.
35 II
geografo TOLOMEO (III, 4) menziona Cetaria come un luogo
della costa siciliana tra Panormo ed il fiume Bathys. HOLM (op.
cit., I, 84 ss.) ha identificato il Bathys con l'odierno fiume
Jato, che scorre ad occidente di Partinico. In un precedente
articolo (PURPURA, II relitto di Terrasini, Sic. Arch., 2525,
1974, 58 ss.) indicavo ipoteticamente una ubicazione di Cetaria
nei dintorni di Terrasini, ove esistono almeno due siti costieri
antichi, finora pressochè sconosciuti, che potrebbero aver
avuto in antico questa denominazione. Uno in località S.
Cataldo alla foce del torrente Nocella era nel medioevo lo scalo
marittimo di Partinico, detto Ar Rukn (l'angolo), cfr.
D'ANGELO, Insed. medioev. nel territorio circostante
Castellammare del Golfo, Arch. Mediev., IV, 1977, 344. L'altro,
dotato persino di un antico molo semisommerso, nei dintorni
della Torre Molinazzo era nell'età intermedia lo scalo
marittimo di Cinisi. In mancanza di elementi più consistenti
l'ubicazione di Cetaria è comunque destinata a rimanere
incerta.
36
BERGONZONI, Una industria romana nelle isole
Egadi, Antiqua, 7, 1977, 26 ss.
37 La
vasca 2 misura m 3 x 3,20 x 60, ma probabilmente non è la più
grande.
38 Agli
inizi dell'ottocento le principali tonnare della Sicilia nord occidentale
erano: Cefalù, Lupa, Trabia, S. Nicolò, Solanto, S. Elia, S.
Giorgio di Palermo, Arinella, Vergine Maria, Mondello, Capaci,
Sicciara, Ursa, Magazzenazzi, Carini, Castellammare, Trapani,
Scopello, S. Vito, Bonagia, Cofano, S. Giuliano, Formica e
Favignana. Sulle tonnare medioevali e moderne cfr., soprattutto,
LA MANTIA, Le tonnare in Sicilia, Palermo, 1901. Notizie
sull'esistenza di questi stabilimenti nelle diverse epoche si
ricavano inoltre da EDRISI, op. cit.; LUCA DE BARBERIIS,
Liber de secretiis, a cura di MAZZARESE FARDELLA, Milano,
1966; Relazione sulle tonnare della costa da Mondello a Mazara
del 1576, in BAVIERA ALBANESE, In Sicilia nel sec. XVI:
verso una rivoluzione industriale?, Caltanissetta Roma,
1974, 159 ss.; FAZELLO, De rebus siculis, dec. I,
Catania, 1749, 352; Manoscritto sulle tonnare del marchese di
Villabianca in Biblioteca Comunale di Palermo (Ms. Qq E 97, fol.
56 64); D'AMICO, Osservazioni pratiche intorno alla pesca,
corso e cammino dei tonni, Messina, 1816 (in appendice
Relazione istorica e descrizione di tutte le tonnare di
Sicilia); DENTICI, Le feriae tonnitiarum et
cannamelarum, Tommaso Natale, 1976, 576. Alcune delle
tonnare medioevali non erano più in funzione già nei secoli
successivi, come forse la tonnara normanna menzionata in un
documento del 1176 e sita «in insula quae dicitur
Fimi, prope portum Galli». Cfr. PIRRI, Sicilia sacra, I,
Palermo, 1733, 454.
Oggi potrebbe ancora essere salvata almeno parte del grande
patrimonio costituito dalle tonnare che erano in funzione sino a
qualche anno fa. Le attrezzature, le ancore, le grandi barche,
costruite con legname particolare e secondo tecniche navali
peculiari, lentamente si disfanno in locali non più mantenuti
in efficienza o, addirittura, vengono disperse. La minaccia poi
della speculazione edilizia a scopo turistico incombe su di
alcuni di questi impianti o ha avuto già concreta attuazione.
Certamente tra qualche anno delle antiche tonnare siciliane non
resteranno che ruderi, simili a quelli studiati in questo
articolo.
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