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...Sezione: Archeologia Subacquea

Il relitto del Campese.
Un caso emblematico degli anni Ottanta


Elmo corinzio del VII-VI sec a.C. dal relitto del Campese, Giglio (Germania, collezione privata) (da: P. Pomey ed altri, La navigation dans l'Antiquité, Aix-en-Provence, 1997, p. 53)

di Paola Rendini e Flavia Zisa


Il presente intervento è frutto dello scambio d’opinioni che da anni esiste per lo studio del relitto del Campese, tra Paola Rendini, archeologo della Soprintendenza Archeologica per la Toscana, e Flavia Zisa, come collaboratore archeologo esterno dello stesso Istituto.

In questa occasione andremo a sottolineare alcune caratteristiche rappresentate da un relitto, la cui storia, dalla individuazione al recupero del carico presenta risvolti molto particolari e complessi, risolti grazie all’impegno dell’archeologo inglese Mensun Bound, il quale, a vent’anni dalla scoperta occasionale del relitto (1961), individua (1981) il sito e soprattutto ripercorre a ritroso le tracce lasciate dai rinvenimenti fortuiti. Grazie infatti a questa operazione investigativa è stato possibile restituire alla comunità scientifica la documentazione sulla nave arcaica più antica rivenuta nel mediterraneo.

Ma andiamo per ordine.

Le indagini iniziano nel 1981, quando Bound, allora archeologo subacqueo presso il Lincoln College di Oxford, individuò in Inghilterra, nelle mani di un privato, il frammento di un’ansa di anfora etrusca che, a detta del proprietario, proveniva da un relitto trovato circa venti anni prima all’Isola del Giglio, e recuperato durante una stagione estiva di immersioni.

Bound entrò quindi in contatto a Londra con Reg Vallintine, proprietario dal 1961, di una scuola di immersione a Giglio Porto che aveva operato proprio nelle acque prospicienti la Baia del Campese e che, già nel 1961 aveva segnalato alle autorità la presenza di un relitto antico.

Durante questo primo contatto, Vallintine mostrò all’archeologo inglese tre fotografie scattate 20 anni prima: nella prima fotografia, Bound individuò un’anfora etrusca e un’ anfora fenicio-punica; la seconda foto ritraeva una signora con due kantharoi etruschi nelle mani; nella terza, veniva mostrato un elemento importantissimo, che permise al Bound di datare l’intero contesto: un kothon corinzio di fine VII sec. a.C.

Fu quindi chiaro che si era in presenza di una nave, etrusca o greca, del 600 circa a.C.: il più antico relitto di periodo arcaico fino ad allora rinvenuto.

Nonostante il relitto fosse stato saccheggiato per molti anni, la profondità in cui esso giaceva, oltre 50 m. (quindi tale da scoraggiare molti subacquei) rappresentò per Bound la speranza di poter ancora recuperare gran parte del materiale attraverso la pianificazione di un intervento tecnico e scientifico.

Un primo punto va qui sottolineato, cioè il fatto che il ritrovamento del relitto, tra gli anni ‘60 e i primi anni ‘80 venne sottostimato e non compreso nella sua importanza: il trafugamento dei reperti, recuperati in via privata e come attività sportiva da turisti in vacanza sull’isola, avvenne infatti in maniera inconsapevole o parzialmente consapevole. Bound iniziò quindi ad occuparsi del problema sapendo di aver già perso parte della documentazione.

Fu per questo che l’indagine prese subito due direzioni: da una parte, recuperare il trafugato per quanto possibile, dall’altra, avviare una ricerca sistematica con le autorità competenti di territorio, e quindi iniziando una serie di campagne di scavo subacqueo con la soprintendenza archeologica per la toscana.

La prima direzione, cioè il recupero degli oggetti dispersi, doveva servire a contenere il danno della dispersione del contesto. che avrebbe minato fortemente quella che sarebbe stata la comprensione finale del relitto.

Il recupero della documentazione dispersa rivelò subito l’insufficienza del sistema legislativo e cioè la mancanza di strumenti legislativi per far fronte ai problemi di recupero. Le cose, infatti, dovettero procedere in via privata: attraverso una lunga operazione investigativa Bound riuscì a rintracciare personalmente molti di quei turisti che avevano partecipato alla spoliazione del relitto; il recupero di questi oggetti nelle mani di privati sparsi per tutta Europa poteva basarsi solo sulla capacità di persuasione dell’archeologo e sulla sensibilità del possessore circa l’importanza che un documento archeologico riveste quando esso viene associato e restituito al proprio contesto e alla comunità scientifica.

Molte delle persone che avevano partecipato alle immersioni nei 20 anni tra il 1961 e il 1981 erano ormai irreperibili, trasferite in altri paesi; alcuni erano morti, altri avevano cambiato nome e luoghi di residenza, altri nuovi possessori avevano acquisito i reperti in via ereditaria. Per entrare in contatto con quanti più possibile, Bound si servì persino degli strumenti televisivi: dopo un documentario mandato in onda dalla BBC,nel 1983 una signora inglese spontaneamente si mise in contatto con Bound e restituì allo Stato Italiano quello che lei aveva ingenuamente definito come pomo di porta etrusca, un aryballos laconico, inviandolo dentro un pacchetto postale per raccomandata all’attenzione del prof. Nicosia, Soprintendente archeologo per la Toscana.

Questa prima fase della storia del recupero ci mostra quindi il modo con cui, operando su un background culturale che aveva sottostimato per 20 anni l’importanza del relitto, sia stato necessario adottare strumenti di recupero alternativi a quelli di legge, che in questo caso specifico risultavano insufficienti o inapplicabili. In tutto questo, gioca un ruolo importante la figura dell’istruttore subacqueo Vallintine e della sua collaborazione privata alle ricerche di Bound; la sua presenza, nella storia del recupero del relitto, può quindi essere considerata come una variabile di fortuna, visto l’atteggiamento positivo verso la ricerca e il recupero del materiale. Non sempre tra coloro che conoscono siti o modalità di recupero di giacimenti di reperti archeologici sottomarini è facile superare una barriera di sospettosità o di paura per le conseguenze di loro rivelazioni a posteriori.

L’indagine investigativa di Bound, degna della più tipica tradizione poliziesca britannica, portò in quegli anni alla scoperta più clamorosa del relitto gigliese: l’esistenza di un elmo corinzio.

Di tutti i reperti rinvenuti dalla nave, il più spettacolare è un elmo corinzio ricavato da un’unica lamina di bronzo e decorato con incisioni di serpenti, cinghiali ed elementi floreali. L’elmo, trovato nel 1961 e trasportato in Germania, fu individuato da Bound dopo tre anni di ricerche; al Bound fu permesso di vederlo, di disegnarlo, di fotografarlo e di restituirne almeno la conoscenza (foto e disegni) alla comunità scientifica. L’elmo si trova attualmente, come al momento dell’indagine, presso una cassetta di sicurezza di una banca tedesca.

Nel frattempo, nel 1982 inizia quella che possiamo definire come seconda fase, cioè l’indagine scientifica con strumenti legislativi a disposizione.

Dopo un primo saggio di accertamento, nel 1983 vengono avviate campagne regolari di scavo subacqueo condotte fino al 1985, ed effettuate con concessione ministeriale ai sensi della legge 1089 del 1939. Le campagne vengono condotte sotto forma di compartecipazione e di sponsorizzazione internazionale: il gruppo è formato dalla Oxford University (tramite la diretta approvazione del direttore prof. John Boardman), da vari sponsors internazionali (World Ship Trust; Expeditions Council) e la partecipazione di volontari e di studenti.

Considerato l’imponente impegno finanziario delle campagne di scavo (ricordiamo che il relitto si trovava a 50 metri di profondità e ciò impegnava un notevole numero di partecipanti per circa due mesi all’anno) la Soprintendenza Archeologica per la Toscana concorda di assumere l’onere del restauro dei reperti, anche in considerazione della alta specializzazione acquisita nel frattempo dalla propria struttura e dalle eccezionali esperienze di restauro problematico di reperti di recupero sottomarino (ricordiamo che il Centro di Restauro di Firenze è stato autore del restauro dei Bronzi di Riace, dell’anfora argentea da Baratti e di molti altri reperti ceramici e metallici).

Al concessionario restava ovviamente l’onere di provvedere ai primi interventi di conservazione e restauro immediatamente successivi al recupero, come previsto dalla legge.

Fra il 1982 e il 1986 si costituisce così un gruppo di lavoro multidisciplinare capace di affrontare in loco tutte le fasi necessarie, dal recupero sottomarino al restauro dei singoli reperti; le operazioni vengono seguite dalla Soprintendenza Toscana e vengono condotte pensando alla destinazione finale di fruizione pubblica e turistica; si passa quindi dall’analisi e pubblicazione scientifica, all’organizzazione di una prima mostra di presentazione preliminare (non essendo disponibile una sede museale vicina al sito di ritrovamento viene temporaneamente allestita nel 1993 una mostra al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, “Un mercante greco in Occidente”, dove resta fino al 1997.

Finalmente si passa alla collocazione definitiva dell’intero complesso in una prestigiosa istituzione museale, la Fortezza Spagnola di Porto S. Stefano, dove è allestita una mostra permanente sull’archeologia subacquea del territorio, con il contributo della Locale Amministrazione Comunale di Monte Argentario, (GR).

La realizzazione dell’intero progetto si è quindi avvalsa dell’impiego di una struttura specializzata nelle varie competenze e ricorrendo all’applicazione di strumenti legislativi noti e di nuove opportunità e forme di sponsorizzazione; il progetto rappresenta infatti uno dei primi casi di applicazione dei criteri di sponsorizzazione straniera in Italia. Ciò ha permesso di sviluppare e seguire interamente in loco tutte le fasi necessarie affinché, una volta esaurito l’iter preliminare, l’intero relitto venisse restituito alla fruizione pubblica.

Ma veniamo adesso ad un punto di osservazione che sarebbe opportuno rilanciare proprio in questa sessione di lavoro: il caso dell’elmo corinzio.

In un primo momento, l’elmo non fu riconosciuto come tale o come oggetto di pregio; successivamente, il reperto fu segnalato con dati di provenienza errati; infine, fu attribuito al relitto Gigliese dal Bound, che ne ha fornito gli elementi di attuale ubicazione alla Soprintendenza, la quale a sua volta ha informato il Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri, per il recupero ufficiale.

Il problema risiede nel fatto che l’elmo è conservato in una caveau di sicurezza presso una banca tedesca; nonostante nel frattempo siano intervenute le leggi comunitarie, che favoriscono il rientro delle opere trafugate nel paese d’origine, non conoscendo l’entità originaria del giacimento, prima dello scavo ufficiale, manca l’elemento giuridico probante un’azione di trafugamento e quindi il presupposto per la pratica di restituzione. In questa sede siamo tenuti ad un doveroso riserbo sulla preziosa attività investigativa da tempo svolta dal Nucleo Tutela dei Carabinieri.

Ci si chiede se, in questo consesso, possano giungere suggerimenti per risolvere il problema in altra via. L’attuale possessore (indebito, ma da tempo possessore e per altro committente dell’intervento di restauro) potrebbe desistere dall’ipotesi della restituzione del reperto, nel timore di essere accusato di indebita appropriazione di un oggetto. D’altra parte, solo lui può garantire, con la propria testimonianza, che l’oggetto proviene dall’Italia. Ricordiamo infatti che l’attuale possessore potrà sempre affermare che le foto con l’elmo, prodotte dal Bound allo Stato Italiano, siano state scattate durante una sua immersione in Grecia o altrove e non al Giglio. Quindi, in questo caso, risulta importante trovare una forma che rassicuri il possessore, inducendolo ad una collaborazione serena con le autorità italiane e alla restituzione allo Stato di un documento, così rilevante per noi e per lui invece difficilmente vendibile, quindi godibile.

Veniamo adesso all’ultimo punto: la possibilità di riacquisire i reperti grazie alla pubblicità data dai mass-media come forma di appello per la sensibilizzazione del pubblico ai problemi e alla salvaguardia dei beni culturali; abbiamo citato, nel caso del Giglio, un significativo precedente di successo rappresentato da quanto accaduto all’indomani di un servizio della BBC sul relitto, quando giunse alla Soprintendenza, dall’Inghilterra, un pacchetto postale con un aryballos laconico. Su questa direzione occorrerebbe insistere, adottando verso gli eventuali possessori quella stessa formula di persuasione che abbiamo auspicato, come detto prima, per il caso dell’elmo.

Per concludere, tra le forme involontarie di collaborazione rientrano inoltre i recuperi occasionali (l’ultimo, riferito ad un lingotto di piombo, data al 4 Ottobre del 2000): questi ultimi recuperi dimostrano l’esistenza di altri elementi del carico antico, non solo a grande profondità, ma anche a media profondità e quindi ad un livello raggiungibile da sommozzatori sportivi di normale preparazione. L’episodio ripropone quindi la necessità di continuare l’indagine a grande profondità, non attuabile se non con un supporto tecnologico adeguato e in linea con i nuovi indirizzi che prevedono forme di co-sponsorizzazione di più soggetti pubblici e privati.


Paola Rendini - Flavia Zisa

Per saperne di più:
Cristofani M., Un mercante greco-orientale nel Tirreno: analisi del relitto del Giglio, VIII Rassegna di Archeologia subacquea di Giardini Naxos, 22-24 ottobre 1993; Id., Etruscan routes out of Italy. Novità sul commercio etrusco arcaico : dal relitto del Giglio al contratto di Pech Maho. In : J. Swaddling, S. Walker, P. Roberts (dir.), Italy and Europe : economic relations 700 BC - AD 50 (BM Occ. Papers 97), London 1995, 131-137.

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