Al secondo piano del Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas” di Palermo, in un ambiente degli originali locali, già Casa dei Padri Oratoriani, inteso stanza ex Andò, richiama l’attenzione un soffitto ligneo a cassettone, scandito da quadrelle con cornici e rosette centrali in argento meccato, con al centro un dipinto su tela (cm 156 x 156), dal taglio ottagonale, con finta cornice a rosette, dove giganteggiano due figure maschili, ammantate all’antica, che le iscrizioni sulle aureole “S. SIMON” e “SÃTUS TADEUS” qualificano come i due apostoli, seduti a discettare sui Vangeli. Nell’angolo di destra è rappresentata in scala una risoluta figura di badessa benedettina, che, in ginocchio, impugna con la destra il bacolo e stringe nella mano sinistra il libro della regula. I due indizi forniti dal dipinto – l’identità dei santi e l’abito benedettino della monaca – escludendo l’originaria collocazione del soffitto nell’ex casa filippina, rimandano alla piccola chiesa che sotto quel titolo insisteva nel plesso monastico della Martorana, gestito proprio da suore benedettine, dal quale certamente accusa la provenienza.
Per tutta la vicenda relativa alla dismissione, mi sono avvalso dell’attenta ricostruzione operata da Giovanni Cardamone, relativa alle fasi storiche che hanno accompagnato il monastero normanno, legato alla chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio fino alla riconversione post-unitaria a scuola di architettura.[1] L’autore, all’oscuro dell’esistenza del soffitto e del dipinto, oggetto della mia scoperta, dedica un intero paragrafo alla chiesetta di S. Simone «che secondo alcuni sarebbe stata innalzata a fundamentis per volere dell’arcivescovo di Palermo Simone Beccadelli di Bologna; secondo altri, invece, darebbe stata molto più semplicemente impiantata all’interno di una costruzione preesistente». Di sicuro la rifunzionalizzazione va fatta ricadere nel periodo in cui l’arcivescovo governò la chiesa palermitana (1445-1465), stimolata dalla sua personale devozione verso il santo di cui portava il nome e garantita dalla presenza nel monastero di diverse monache appartenenti alla stessa famiglia, che motivano l’interesse del prelato per la crescita spirituale e più concretamente materiale di quella comunità.
Infatti, nel 1451 il Senato palermitano intercedeva presso il sovrano Alfonso il Magnanimo affinché le rendite legate alla chiesa dell’Ammiraglio, fino ad allora percepite dal Ciantro della Cappella Palatina, venissero assegnate al monastero della Martorana per lavori di manutenzione della chiesa principale e per interventi sul tetto della chiesa di S. Simone, in comunicazione con quella dell’Ammiraglio. Un rimando di provvedimento, promulgato nel 1433 dal sovrano, decretava la separazione della chiesa dell’Ammiraglio dalla Cappella di S. Pietro nel regio palazzo, seguito nel 1554 da un altro che concedeva definitivamente la chiesa della Martorana alle monache che la detenevano.[2]
Fatta questa necessaria premessa, riportiamo l’attenzione sul trasferimento del soffitto ligneo, oggetto, per via del dipinto contenuto, di questa ricerca. Sempre il Cardamone pubblica il verbale stilato il 15 maggio 1870 dal delegato dell’Intendenza di Finanza, in presenza di Antonino Salinas, direttore del Museo Nazionale di Palermo, e del sacerdote rettore della chiesa, dove viene fatta una descrizione del Parlatorio: «È diviso dalla Chiesa da un’antiporta con vetrina e bussola […] la volta è in legname e quadrelli dorati, in centro un quadro in tela di S. Simone e Giuda. Questo corpo mette nell’atrio esterno ossia Chiostro che gira intorno alla chiesa con portico a due arcate che immette nella casa del Rettore».[3] Sette anni dopo Giuseppe Patricolo,[4] relazionando sulla chiesa della Martorana, riteneva che il soffitto ligneo, al centro del quale era dipinto un quadro dei SS. Simone e Giuda Taddeo, che al suo tempo si trovava nel “parlatorio delle monache”, provenisse dalla stessa chiesa. Ancora Cardamone precisa che Patricolo non si riferiva al “parlatorio grande” bensì al piccolo parlatorio che verrà demolito qualche anno dopo la pubblicazione del suo saggio. Si trattava del cosiddetto “parlatorio dell’abbadessa”, dove si concertavano gli affari, i testamenti e i contratti di ogni genere.
Le notizie pertinenti al soffitto ligneo riferite dal Patricolo fanno chiarezza sull’originaria collocazione di esso nella chiesetta di S. Simone e, dopo l’abbattimento di questa, del passaggio nel “parlatorio dell’abbadessa” ed infine il suo trasferimento al Museo Nazionale subito dopo il 1877, come lascia intendere la presenza del Salinas durante le operazioni di demolizione del suo contenitore per dare visibilità al lato meridionale della chiesa normanna. Ricordiamo che l’abolizione della chiesetta di S. Simone comportò la dedicazione, nella chiesa dell’Ammiraglio, di un altare ai SS. Simone e Giuda Taddeo nella cappella che tuttora ospita il pannello musivo raffigurante Cristo che incorona Ruggero e la commissione di un dipinto, ascrivibile, a mio avviso, a Gaspare e Leonardo Bazzano, che cronologicamente si allinea al periodo (1588-92) nel quale la chiesa venne allungata e rifunzionalizzati gli ambienti monastici, che comportarono la collocazione del soffitto ligneo nel “parlatorio della abbadessa”. Non è da escludere che proprio la figura della monaca inginocchiata ai piedi dei due santi sia la committente del dipinto e che sia la stessa ad avere dato il nome al “parlatorio della abbadessa”. Ricordiamo con le parole del Cardamone, che «lo scopo della nuova fondazione sarà stato quello di rinnovare gli obblighi assunti dalle monache verso Pagano de Parisio nel 1195 e, al tempo stesso, di accrescere il culto del Santo Apostolo». Dispiace che sulla tela non figuri il nome della badessa che le congiunture, inerenti alla riqualificazione della chiesa di San Simone da parte dell’arcivescovo Simone Beccadelli Bologna, suggeriscono trattarsi di un’esponente della famiglia patrizia, il cui ramo femminile a quel tempo affollava il monastero, quasi un feudo dei Bologna, di cui dà conto il Mongitore.[5]
Nel dipinto inedito che raffigura i SS. Simone e Giuda Taddeo, realizzato a tempera su tela, applicato al soffitto ligneo cassettonato, si coglie subito l’intonazione umanistica nella posa composta e dignitosa dei due santi, assimilati a due magistrati seduti e intenti, libri alla mano, a dibattere dialetticamente. L’ambientazione è spoglia all’interno di un ambiente non definito, violato soltanto in alto dall’incombente nuvola, segno emblematico dell’ispirazione divina. La caratterizzazione dei volti è frutto di un processo di sintesi che vuol essere incisivo, atto a favorire l’osservazione dal basso, data la collocazione nel soffitto; di contro la definizione delle figure ed il disegno dei panneggi risulta incisivo nel modellato dalle forme angolose: levigate come pezzi di oreficeria nelle parti emergenti, contrapposte alle pieghe rotte e cave. Appare evidente come tale trattamento strutturale privilegi il gioco della luce sulle sfaccettature metalliche delle stoffe dai toni squillanti rosso-verde marcio/giallo-amaranto, con i graduali passaggi cromatici dalle zone esposte a quelle in ombra, queste ultime ottenute con un fare disegnativo a tratteggio e a reticolo, con un procedimento da pagina miniata, avvalorato dall’uso della tempera.
L’opera, che per richiami stilistici e per l’alta qualità d’esecuzione, mi suggerisce il nome di Riccardo Quartararo, si configura di capitale importanza nel percorso, peraltro lacunoso, del pittore. Scelta obbligata per l’attribuzione al pittore del nostro dipinto è l’accostamento all’opera certa dei SS. Pietro e Paolo del 1494, che in comune col nostro evidenzia quella caratterizzazione “ferrarese” restituita dalla metallica cesellatura dei panneggi che, definendo i volumi, cattura nei suoi anfratti la luce restituendola in infiniti bagliori. Come nel dipinto dell’Abatellis, le figure dei santi, benché seduti, con un taglio impennato svettano in primo piano, evidenziando «molta corrispondenza di realismo, di grado di sviluppo, di energico disegno, di gusto profondo nel colore […] e soprattutto di un generale ed ammirabile effetto, ben diverso da quello delle opere degli altri pittori indigeni di quel tempo»,[6] per dirla col Di Marzo, che così si pronunciava a proposito della contestata S. Cecilia del Diocesano di Palermo, che il recente restauro[7] rimette in discussione con dei punti a favore, a mio avviso, di un definitivo riconoscimento autografo. Concorda con l’attribuzione il realismo espressivo del volto di S. Simone, rapportato a quello di S. Pietro, ottenuto marcando le orbite oculari ed il carattere introspettivo presente in tutti e quattro i santi. Ma ribadisco che l’elemento più probante è il ritmo, sostenuto senza cedevolezze dell’armatura vestiaria, quel «disegno costruttivo nuovo» di cui parla la Pugliatti,[8] il cui nerbo incisivo ed armonico si può facilmente cogliere, per contrasto, confrontando i nostri santi con S. Pietro e S. Paolo nei rispettivi pannelli del polittico del Purgatorio a Ciminna, oramai concordemente assegnato a Nicolò de Pettineo.[9] Quivi il disegno dei panneggi, senza un rigore logico, realizza cascami prolissi e aggrovigliati, che assumono un carattere meramente decorativo. Va notata, inoltre, nel dipinto in questione una particolare finezza espressiva nel trattamento morbido dei volti, ottenuta anche attraverso la filamentosa resa della barba nel S. Simone o alla capigliatura sfrangiata sul viso di Taddeo, espedienti riscontrabili puntualmente nel S. Pietro della tavola del 1494 e nell’Incoronazione della Vergine dell’Abatellis,[10] opere verso le quali questa si configura come ponte intermedio di collegamento.
Ed a proposito è innegabile la rispondenza, nel S. Simone, del risvolto del mantello e del trattamento della veste, che, nelle stesse tinte e con gli stessi espedienti luministici, ricalca quelli del Cristo nella Incoronazione, mentre la destra di Taddeo dà la mano a quella del Cristo della Croce dipinta di Enna,[11] e il mantello di Taddeo eguaglia la soffice modulazione di quello di S. Rosalia , ultima opera incompiuta, forse per la morte improvvisa del pittore, ma opera certa (nelle parti autografe) assieme al dipinto dei SS. Pietro e Paolo, ai quali la tela del Museo archeologico si attaglia e, nello stesso tempo, si avvicina a quelle opere messe in discussione dalla critica.
Penso che la lettura del Quartararo vada fatta tenendo in considerazione il sostrato levantino di stampo tardo gotico che è alla base della cultura espressiva del pittore (non è così stramba l’ipotesi del Di Marzo che ipotizzava per il Quartararo il ruolo di aiuto nella stesura del Trionfo della Morte dell’Ospedale Grande) e che spiega la sua congenialità nel recepire il credo ferrarese assimilato assieme alla cultura mantegnesca-padovana proprio nei luoghi d’origine. Quivi il Quartararo si sarebbe spinto attorno al 1493, dopo il soggiorno lavorativo napoletano, secondo una brillante e recente proposta di Vincenzo Abbate,[12] che quasi documenta questo suo viaggio al Nord al seguito degli appoggi e protezioni dell’influente famiglia dei Ventimiglia, imparentata con Eleonora d’Aragona, moglie del duca Ercole I d’Este. E cade giusta l’osservazione della Pugliatti,[13] che sostiene che la formazione ferrarese il nostro non può averla recepita dallo Scacco, arrivato troppo tardi nel Meridione per poterlo influenzare e, aggiungo io, con quella intensità con la quale tale cultura è stata assimilata.
Ad orientare verso una datazione della tela dei SS. Simone e Giuda Taddeo allo scadere del XV secolo è la possibile contiguità con altra decorazione di soffitto ligneo, che il Quartararo disegnava in quel torno di tempo per la progettazione da affidare ai carpentieri: nel settembre del 1494 egli disegna il soffitto a lacunari per il coro della chiesa di S. Caterina all’Olivella e il 24 ottobre 1495 i pittori Vincenzo de Intendi e Nicolò de Catania s’impegnano a dipingere per la stessa chiesa dieci quadri simili agli altri quadri forse realizzati dal Quartararo.[14]
Inevitabilmente l’acquisizione del dipinto, qui inserito nel catalogo del pittore di Sciacca, rimette in discussione tutte le opere che gravitano attorno al suo nome, ponendo nuovi interrogativi ai quali mi sono proposto di rispondere in un saggio, che si è andato sviluppando, quasi di rimando, attorno ai dipinti esaminati e che mi riprometto di trattare in una seconda stesura.
Il taglio qui dato al saggio di mera comunicazione della scoperta dell’inedito dipinto raffigurante i SS. Simone e Giuda Taddeo non ha consentito di citare nel testo, perché non direttamente attinente, l’ampia bibliografia prodotta dagli studiosi sul percorso artistico del Quartararo, di cui invece ho tenuto conto nella rivisitazione del pittore:
- M.G. Paolini, Note sulla pittura palermitana tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, in “Bollettino d’Arte”, n. 11, aprile-giugno 1959, pp. 122-140;
- A. Condorelli, Paolo da Sanleocadio, in “Commentarii”, 1963, pp. 134-150 e 246-253;
- F. Meli, Regesto dei documenti editi ed inediti su Riccardo Quartararo, in “Arte antica e moderna”, VIII, 1965, pp. 376-384;
- R. Delogu, La Galleria Regionale della Sicilia, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1977, pp. 37-41;
- M. Andaloro, Riccardo Quartararo dalla Sicilia a Napoli, in “Annuario dell’Istituto di Storia dell’Arte”, 1977, pp. 81-124;
- F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Società napoletana di Storia Patria, Napoli 1977, pp. 165-169; 204-214; 237-239;
- P. Santucci, Su Riccardo Quartararo, il percorso di un maestro mediterraneo nell’ambito della civiltà aragonese, in “Dialoghi di Storia dell’Arte”, n. 2, maggio 1996, pp. 32-57.
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* Desidero ringraziare la Direzione del Museo Archeologico Regionale di Palermo “Antonino Salinas”, nella persona della dott.ssa Francesca Spatafora, che ha accettato la collaborazione esterna di chi scrive per l’individuazione e lo studio dell’opera in questione, mettendo a disposizione le foto relative al dipinto dopo il restauro. Ringrazio il restauratore Carmelo Calvagna, che ha chiarito le varie fasi del recupero del dipinto, informandomi dell’espediente messo in atto che rende possibile il distacco della tela dal soffitto ligneo per una fruizione autonoma. Ringrazio infine, per avere reso facile l’accesso all’archivio durante il momento critico della ristrutturazione del plesso museale, la dott.ssa Lucina Gandolfo e la dott.ssa Alessandra Carrubba. Altrettanto motivo di riconoscenza esprimo per la Direzione della Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, che gentilmente mi ha fornito le foto delle opere del Quartararo presenti in quella raccolta ed il premuroso tramite di Salvatore Pagano.
1 G. Cardamone, La Scuola di Architettura di Palermo nella Casa Martorana, Sellerio, Palermo 2012, pp. 138-149.
2 Ivi, pp. 135-136.
3 Ivi, p. 145.
4 G. Patricolo, La Chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio in Palermo e le sue antiche adiacenze,in “Archivio Storico Siciliano”, n.s., a. III, fasc. II, 1877, parte I, p. 148.
5 A. Mongitore, Dell’Istoria Sagra […] Badesse di questo monastero della Martorana, ff. 125-128, cit. in G. Cardamone, La Scuola di Architettura…,p. 139.
6 G. Di Marzo, La Pittura in Palermo nel Rinascimento. Storia e documenti, Reber, Palermo 1899, p. 184.
7 Ringrazio Mauro Sebastianelli per i chiarimenti e per avermi mostrato le varie fasi del restauro della S. Cecilia del Museo Diocesano.
8 T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento in Sicilia. La Sicilia occidentale 1484-1557, Electa Napoli, Napoli 1998, p. 31.
9 Per la genesi attributiva del polittico cfr. A. Tantillo Mignosi, in IX Mostra di Opere d’Arte restaurate, Soprintendenza alle Gallerie ed opere d’arte della Sicilia Palermo, Palermo 1974, scheda n. 24, pp. 89-94; T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento…,pp. 47-55.
10 Volutamente soprassiedo sull’attribuzione dell’opera assai controversa con completa bibliografia T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento…, 1998,pp. 31-35. La studiosa ne nega categoricamente l’autografia, dalla quale con rammarico dissento, con la promessa di ritornare sulla questione.
11 La completa disamina dell’opera è in C. Guastella, in Opere d’arte dal XII e XVII secolo. Interventi di restauro ed acquisizioni culturali, Arti Grafiche Siciliane, Palermo 1987, scheda n. 6, pp. 47-57, che la stessa riferisce a “Cerchia di Riccardo Quartararo”; T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento…,p. 45 la esclude dal catalogo del pittore.
12 V. Abbate, Castelbuono: il mecenatismo artistico dei Ventimiglia nel secondo Quattrocento e una ipotesi per il percorso di Riccardo Quartararo, in Alla corte dei Ventimiglia. Storia e committenza artistica, atti del convegno di studi (Geraci Siculo-Gangi, 27-28 giugno 2009) a cura di G. Antista, Arianna, Geraci Siculo, 2009, pp. 141-149.
13 T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento…, p. 31, nota 65.
14 G. Di Marzo, La Pittura in Palermo…, p. 192, nota 1.