Nella
produzione
pittorica
legata
alla
corte
borbonica
compresa
tra
l’arrivo
di Carlo
e la
traumatica
perdita
del
Regno
nel
1860, un
posto
rilevante
occupa
la
ritrattistica[1],
per
lungo
tempo
genere
poco
considerato
dagli
studi
storico-artistici[2].
Se
quella
settecentesca
ha
comunque
goduto
di
attenzione
per la
presenza
di
grandi
personalità
nel
cruciale
passaggio
da una
figuratività
di
stampo
tardo
barocco
e
rococò,
rappresentata
da
artisti
quali
Molinaretto,
Solimena,
Bonito,
Bardellino,
ad una
sensibilità
neoclassica
con la
venuta
di
artisti
stranieri
quali
Mengs,
Füger,
Tischbein,
Kauffmann[3],
è
certamente
quella
ottocentesca
ad
essere
stata
maggiormente
trascurata.
L’avveduta
politica
culturale
di Maria
Carolina[4],
nata in
un
particolare,
felice e
irripetibile
momento
storico,
viene a
interrompersi
alla
fine del
diciottesimo
secolo
per via
delle
contingenze
storiche
e non
avrà mai
un degno
seguito,
a causa
della
mancanza
di
un’analoga
sensibilità
artistica
da parte
dei
committenti
discendenti.
La
presenza
decennale
dei
napoleonidi
incide
poi,
irrimediabilmente,
sulla
produzione
artistica
locale
e, nello
specifico,
su
quella
legata
alla
ritrattistica[5].
Al
suo
ritorno
a
Napoli,
Ferdinando[6],
oramai
più
anziano,
divenuto
vedovo e
confortato
dall’amore
per una
donna
più
giovane[7],
deve
ripristinare
visivamente
il culto
verso la
propria
persona
che in
quegli
anni era
stato
forzatamente
cancellato
e
comunicare
così ai
propri
sudditi
di
essere
in grado
di
difenderli
da nuovi
invasori.
Senza
più al
suo
fianco
la colta
Maria
Carolina,
egli
capisce
che la
propria
immagine
necessita
di
essere
rimodernata
e
aggiornata
senza
tralasciare
le più
recenti
novità.
Ferdinando
non può
dunque
ignorare
quei
modelli
francesi
che si
erano
imposti
durante
la sua
assenza,
conscio
del loro
potere
comunicativo:
dimostrando
così un
consapevole
gusto
artistico,
si
ispirerà
proprio
alle
effigi
dei
nemici,
molte
delle
quali
ammassate
nella
Reggia
di
Portici[8],
non
disprezzando,
inoltre,
di
avvalersi
del
talento
di
alcuni
artisti
legati
all’entourage
napoleonico.
Come
Louis
Nicolas
Lemasle[9],
tra i
preferiti
da
Murat,
autore
nel 1824
dell’elegante
dipinto
che,
rievocando
il
matrimonio
della
figlia
del
principe
Francesco,
Maria
Carolina,
con il
Duca di
Berry,
celebra
sontuosamente
la
ritrovata
corte
borbonica,
memore
della
lezione
di David[10].
Per
ritrovare
una
piena
legittimazione
figurativa,
Ferdinando
si
rivolge
dunque a
quella
stessa
pittura
che
aveva
celebrato
la fine
dell’Ancien
Régime,
con la
Rivoluzione
prima e
l’arrivo
dei
napoleonidi
poi,
espressione
di quel
mondo
che
aveva
voluto
la sua
detronizzazione
e che
dal
1806,
con
l’arrivo
di Wicar
all’Accademia,
aveva
segnato
le nuove
generazioni
di
artisti
meridionali.
Egli
intuisce
che, nel
recuperarla,
deve
adattarla
a sé,
innestandovi
atmosfere
ed
elementi
più
consoni
alla sua
Restaurazione,
cercando
dunque
una
mediazione
con la
pittura
celebrativa
neoclassica
di fine
Settecento,
che
aveva
accolto
col
tramite
della
moglie
negli
anni
Ottanta
del
secolo
passato.
Il
primo
ritratto
realizzato
dopo il
ritorno
sul
trono è
da
individuare
in
quello
firmato
da
Giuseppe
Cammarano[11]
nel 1815[12]
(fig.
1).
L’artista
siciliano,
che per
la
famiglia
Murat
aveva
dipinto
almeno
due
ritratti
muliebri,
entrambi
ambientati
all’aria
aperta[13],
aveva
ricevuto
nel 1812
l’incarico
di
decorare
le volte
di due
sale
all’interno
del
Palazzo
Reale di
Caserta,
commissione
che
vedrà
rinnovarsi
col
ritorno
del
Borbone
e per
cui
lavorerà
sino al
1818[14].
Egli
raffigura
Ferdinando,
appena
rientrato
a
Napoli,
in alta
uniforme
colma di
onorificenze[15],
pronto a
difendere
il suo
regno,
come
mostra
la spada
legata
ai
bianchi
pantaloni,
mentre
ostenta
sicurezza,
come
suggerisce
il
braccio
poggiato
su di
una
colonna
in
marmo,
sulla
quale è
posta
una
statua
bronzea
della
Giustizia.
L’influenza
della
ritrattistica
napoleonica
è
evidente
non solo
nella
posa del
re, che
sembra
richiamare
quella
del
Murat
raffigurato
da
Schmidt
appena
l’anno
precedente[16],
ma anche
nella
veduta
del
golfo
sullo
sfondo;
meno
consueta
nei
ritratti
borbonici
precedenti,
tale
presenza
diverrà
invece
ricorrente,
almeno
per i
primi
anni
della
Restaurazione,
fino a
quando
cioè si
avverte
la
necessità
di
ristabilire
visivamente
la
relazione
con il
proprio
territorio.
Non ha
dunque
avuto
dubbi,
Ferdinando,
su quale
artista
scegliere
per la
sua
prima
raffigurazione
da
sovrano
“restaurato”:
un
pittore
siciliano,
dunque
regnicolo,
che,
avendo
lavorato
per i
francesi,
ben
conosceva
le
novità
della
ritrattistica
neoclassica
imperiale,
stemperata
però da
un’inclinazione
coloristica
tardosettecentesca;
un
artista,
inoltre,
che ben
sapeva
relazionare
i propri
effigiati
con lo
sfondo
paesaggistico,
dote,
quest’ultima,
utile
per il
sovrano
alla
ricerca
di un
ristabilimento
visivo
con
Napoli e
il suo
golfo.
Eloquente
variante
a questo
modello,
è quella
offerta
da un
altro
pittore
operante
alla
corte
murattiana
fino al
1815, e
cioè il
savoiardo
Jacques
Berger[17].
Richiesto
a Napoli
nel 1808
dall’allora
Direttore
dell’Accademia[18],
Jean-Baptiste
Wicar,
che gli
affida
la
cattedra
di
pittura
di
storia,
come
Cammarano
è dal
1812 nel
cantiere
della
Reggia
di
Caserta
per
realizzare
un
dipinto
da
destinare
alla
volta
della
Sala di
Astrea e
raffigurante
Il
Trionfo
della
Giustizia,
colmo di
riferimenti
alla
committente
Carolina
Murat,
che
completerà
soltanto
nel 1815[19].
Col
ritorno
dei
Borbone,
viene
temporaneamente
allontanato
dall’Accademia,
per
essere
reintegrato
nel
1816,
anno al
quale
risalirebbero
almeno
tre
ritratti
di
membri
della
famiglia
reale:
quelli
di Maria
Cristina,
figlia
di
Ferdinando,
e di suo
marito,
Carlo
Felice
di
Savoia,
re di
Sardegna[20];
e quello
della
neoconsorte,
Lucia
Migliaccio[21].
Il
ritratto
del
sovrano
risale
invece
al 1818,
realizzato
con ogni
evidenza
in
occasione
del
decreto
di
riordinamento
della
Real
Marina,
come
indicano
i fogli
posti
sullo
scrittoio[22]
(fig.
2).
Berger
inquadra
l’arcigna
figura
del
sovrano
in una
scena
analoga
a quelle
ideate
per la
figlia
ed il
genero,
circondandola
dunque
di
tendaggi
e di
tessuti;
eludendo
lo
sfondo
panoramico,
perviene
ad
un’elegante
composizione
d’interni,
marcata
dalla
forte
tendenza
disegnativa,
come
dimostra
l’attenzione
alla
resa
dell’arredo
intagliato.
La
parabola
artistica
del
pittore
dall’inconfondibile
atmosfera
rarefatta
diviene
particolarmente
significativa
del
passaggio
dal
potere
murattiano
a quello
borbonico:
fortemente
voluto
dal
primo,
cacciato
e poi
riammesso
dal
secondo,
diverrà
di
quest’ultimo
ritrattista
di punta
e figura
di
spicco
all’interno
dell’Accademia,
fino
alla
morte,
nel
1822.
Berger
non è di
certo
l’unico
artista
ad aver
attratto
l’interesse
sia dei
napoleonidi
che dei
Borbone,
come
dimostra
la
chiamata
a Napoli
nel 1818
di
Vincenzo
Camuccini[23],
il
principale
esponente
del
Neoclassicismo
romano,
che
ritrae
Ferdinando
a figura
intera
con
l’abito
da
Cavaliere
dell’Ordine
di San
Gennaro[24]
(fig.
3). In
questo
caso,
più che
alla
ritrattistica
napoleonica,
Camuccini
sembra
aver
tenuto
presente
il
ritratto
che
Füger
fece del
Marchese
di
Gallo,
Marzo
Mastrilli,
nel 1790[25]:
da qui
potrebbe
aver
desunto
la
veduta
scorciata
dal
basso,
la
presenza
di un
edificio
classicheggiante
sulla
sinistra,
nonché
lo
studio
del
mantello
scarlatto.
Alla
visione
laica
del
pittore
tedesco,
dichiarata
dalle
statue
di
Imeneo e
del
Genio
della
Storia,
l’artista
romano
contrappone
quella
fortemente
cristiana
del
sovrano
devoto:
il re,
infatti,
indica
la vista
oltre il
balcone
del
Palazzo
Reale
napoletano,
questa
volta
non sul
mare ma
sullo
slargo
d’ingresso,
dove
appare
la
chiesa
di San
Francesco
di
Paola,
che egli
sta
facendo
erigere
come
ex voto
in segno
di
ringraziamento
per
essere
ritornato
sul
trono[26].
Diversamente
da
Cammarano
e da
Berger,
che
avevano
lavorato
alla
corte
napoletana
durante
il
Decennio
e dunque
ben
conoscevano
il
ritratto
murattiano,
Camuccini
“restaura”
un’immagine
trionfante
del
recente
passato
borbonico,
rifacendosi
ad uno
dei
padri
del
Neoclassicismo.
Tuttavia,
per
quello
della
moglie
morganatica
di
Ferdinando,
di
destinazione
privata,
sceglie
invece
soluzioni
più
aggiornate,
volte a
valorizzare
l’abito
della
donna e
l’arredo
stile
Impero[27]
(fig.
4).
Dopo la
morte di
Ferdinando[28],
il
figlio
Francesco
farà
realizzare
una
serie di
quadri
di
memoria,
“di
felice
ricordanza”,
al
pittore
Salvatore
Fergola[29],
che
illustrano
alcuni
episodi
nella
vita del
sovrano
scomparso,
per lo
più
legati
al
momento
del suo
ritorno
sul
trono
napoletano[30].
Francesco
commissionerà,
inoltre,
un
ritratto
postumo
della
madre,
morta a
Vienna
nel
1814,
nel
quale la
figura
della
sovrana
austriaca
viene
calata
all’interno
di
un’iconografia
pienamente
rispondente
alle
nuove
istanze
figurative[31]
(fig.
6): a
realizzarlo,
è il
giovane
Filippo
Marsigli[32],
allievo
di Wicar
e fine
conoscitore
della
pittura
alla
Gérard,
che
otterrà
la
cattedra
di
pittura
storica
nel
1833. È
di tutta
evidenza
l’esplicita
citazione
di uno
dei
capolavori
della
ritrattistica
di epoca
murattiana,
forse il
più
bello
tra i
tanti
raffiguranti
Carolina
Bonaparte,
e cioè
quello
firmato
da
Ingres[33]
(fig. 5)
in
quello
stesso
1814 che
vede la
morte di
Maria
Carolina
d’Asburgo
e che
precede
di poco
la
sconfitta
dei
napoleonidi.
Chissà
se la
fiera
regina
austriaca
avrebbe
gradito
un
omaggio
del
genere,
un
ritratto
ricalcato
su
quello
della
sua
usurpatrice.
Sta di
fatto
che
Marsigli,
probabilmente
al
seguito
di
Ingres
durante
il
viaggio
di
quest’ultimo
a Napoli
per
conoscere
la
Murat,
appare
comunque
conscio
della
differenza
di
cultura
e di
temperamento
delle
due
“Caroline”,
e, pur
citando
il
dipinto
napoleonico,
sembra
pronto a
capovolgerlo,
come un
positivo/negativo.
E non
soltanto
per
l’abito
nero che
cede qui
il passo
ad uno
perlaceo,
ma per
l’atmosfera
che si
registra:
se il
grande
artista
francese
sembra
presagire
la fine
di
un’epoca
nei toni
chiaroscurali,
il
pittore
di
Portici,
per
contro,
nel
celebrare
la
sovrana
scomparsa,
punta
sui toni
chiari,
quasi
abbaglianti,
scelti
per
ricordarne
la
luminosa
presenza.
Ma è
senz’altro
nella
resa
generale
che
emerge
la
differenza
tra i
due
modelli:
la
moderna
“macchia
nera”
creata
dal
maestro
di
Montauban
al
centro
di un
interno
borghese
non
viene
eguagliata
qui da
Marsigli,
che si
limita
“manieristicamente”
a
rifarsi
ai
maestri
francesi,
Wicar e
Ingres,
senza
inventare
nulla di
nuovo.
L’interesse
per le
arti,
come
dimostrano
i
ritratti
postumi
dei
genitori,
caratterizzerà
la breve
monarchia
di
Francesco
I[34]
e della
sua
seconda
moglie,
Maria
Isabella
di
Spagna[35]:
succeduto
al padre
nel
1825, il
pingue
sovrano
ne
confermerà
sostanzialmente
le
scelte
culturali,
promuovendo
la
produzione
artistica
nel
Regno
con
l’istituzione
delle
Biennali
Borboniche[36];
la sua
paffuta
consorte
amerà
circondarsi
di
giovani
pittori
cui
accordare
il
proprio
sostegno,
dedicandosi
in prima
persona,
e con
buoni
risultati,
alla
pittura
di
paesaggio[37].
Svantaggiati
dunque
da un
aspetto
poco
felice e
da corpi
grassocci,
i due
sovrani
appaiono,
nei loro
ritratti,
un po’
buffi,
poco
carismatici
ed
eleganti,
nonostante
gli
sforzi
dei
pittori
coinvolti
di
compensare
tali
deficit
estetici
con
ricercati
preziosismi
e
sfarzose
composizioni[38].
A
cominciare
da
Giuseppe
Cammarano,
che nel
1820
realizza
il
grande
ritratto
di
famiglia
dell’allora
principe
Francesco[39],
pallido
epigono
della
celebre
tela
realizzata
circa
quarant’anni
prima da
Angelika
Kauffmann[40].
Nell’affollata
composizione
–
compaiono
nel
grande
quadro
ben otto
figli
assieme
ai due
genitori[41]
– il
pittore
sembra
smorzare
quella
naturalezza
e quella
profondità
psicologica
che
invece
caratterizzano
i bei
ritratti
singoli
realizzati
come
modelli
di base[42]
(figg.
7-9).
Proveniente
da una
famiglia
di
commedianti,
ed egli
stesso
attore,
Cammarano
ingabbia
le
figure
in pose
e
atteggiamenti
marcatamente
teatrali,
ben poco
realistici,
disponendole
nello
spazio
al fine
di
creare
un’ascensione
piramidale,
“doppiata”
sullo
sfondo
dalla
sagoma
del
Vesuvio[43].
Meglio
farà, il
pittore,
in un
ritratto
singolo,
nel
quale
esalta
la
figura
di
Francesco
tramite
il
ricorso
a
consolidati
espedienti
accademici,
come
l’attento
disegno
delle
mani e
l’illuminazione
teatrale[44]
(fig.
10),
tanto da
venir
replicato
qualche
anno
dopo da
Giuseppe
Martorelli[45]
(fig.
11).
Appena
asceso
al
potere,
dopo la
morte
del
padre,
Francesco
commissiona
al belga
Pieter
Van
Hanselaere[46],
già
pittore
di
corte, i
ritratti
ufficiali
dei due
coniugi
seduti
sul
trono[47]
(fig.
12).
Forte
della
sua
formazione
in terra
fiamminga,
l’artista
colpisce
per la
minuziosa
descrizione
delle
stoffe,
dei
tendaggi
e del
trono
intagliato
su cui
siede la
coppia
reale.
La sua
presenza
testimonia,
inoltre,
l’interesse
nei
confronti
di
artisti
stranieri
da parte
della
corte
borbonica,
che
proprio
in
quegli
anni
accoglie
le
novità,
soprattutto
della
pittura
di
paesaggio,
introdotte
da nomi
quali
Turner,
Pitloo,
Corot,
Ščedrin,
Dahl e
altri.
Sarà
tuttavia
un
napoletano
come
Carlo De
Falco[48],
allievo
di
Costanzo
Angelini,
a
realizzare
le
immagini
più
importanti
e
rappresentative
dei
sovrani,
e cioè i
due
ritratti
a figura
intera
completati
nel 1829
ed
esposti
con
successo
alla
seconda
Esposizione
di Belle
Arti nel
1830[49]
(figg.
13-14);
successo
che gli
consentirà
di
divenire
pittore
di
corte,
ruolo
che
manterrà
fino al
1860. De
Falco,
formatosi
con Van
Hanselaere,
parte
proprio
dai due
ritratti
realizzati
da
quest’ultimo,
di cui
ripropone
la
monumentalità
e la
preziosità,
per
aggiornarli,
non solo
scegliendo
di
raffigurare
la
coppia
in piedi
dinanzi
al
trono,
accentuando
così il
senso di
verticalità
dell’immagine,
ma
soprattutto
giungendo
ad una
straordinaria
capacità
di resa
materica
dei
tessuti
e dei
tappeti,
che
presuppone
un
interesse
per il
realismo
e un
allontanamento
dalla
tecnica
accademica
dello
sfumato.
Francesco
e Maria
Isabella
affidano
dunque
la loro
immagine
ai più
notevoli
talenti
neoclassici
del
Regno,
come il
maturo
Cammarano
e il
giovane
De
Falco,
dimostrando
di
apprezzare
non
soltanto
una
rappresentazione
accademica
e
convenzionale,
ma di
gradire
anche le
novità
di una
pittura
maggiormente
sensibile
al dato
reale e
alla sua
raffigurazione
oggettiva.
Sarà
comunque
un
artista
straniero
a
conseguire
il
risultato
più alto
dell’intera
iconografia
della
coppia,
quel
Vicente
López y
Portaña[50]
i cui
rapporti
con la
corte
napoletana
sono
assicurati
dalle
due
principesse
Luisa
Carlotta
e Maria
Cristina,
andate
in sposa
a
consanguinei
di casa
Borbone
di
Spagna,
e da lui
più
volte
ritratte.
Proprio
in
occasione
del
viaggio
in
Spagna
dei
sovrani
napoletani,
per il
matrimonio
di Maria
Cristina
con
Ferdinando
VII,
l’artista
realizza
due
ritratti[51]
nei
quali è
possibile
cogliere
un’intensità
diversa,
più
profonda,
di
quella
vista
sin qui,
così
come
un’attenzione
maggiore
alla
resa
psicologica.
Giunto
negli
ultimi
mesi di
vita,
Francesco
I appare
notevolmente
invecchiato,
con i
capelli
radi,
quasi
calvo, e
oramai
appoggiato
al
bastone,
su cui
grava
tutto il
suo peso
(fig.
15);
lontanissimo,
irriconoscibile,
quel
lontano
e
grazioso
bambino
biondo
ritratto
con
sapienza
dalla Le
Brun
quarant’anni
prima[52].
Ma è
un’immagine,
questa,
di
straordinaria
veridicità,
moderna
quanto
quella
della
regina,
quasi
“strabordante”
nel
vestito
di
velluto,
nobilitata
dalla
spettacolare
resa del
diadema
e delle
maniche
merlettate
(fig.
16).
Contrariamente
ai
ritrattisti
della
corte
napoletana,
alla
costante
ricerca
di
offuscare
e
mitigare
i
difetti
fisici
dei
sovrani,
calandoli
all’interno
di
composizioni
sfarzose,
López
sceglie
di
puntare
invece
proprio
su tali
difetti,
non solo
dichiarandoli
esplicitamente
ma
addirittura
sottolineandone
il
drammatico
portato.
Conferendo
allo
stanco
Francesco
l’aspetto
di un
maestoso
monarca
al
tramonto
e a sua
moglie
quello
di
un’elegante
e
austera
regina,
la
salvifica
mano del
maestro
spagnolo
riabilita
così,
in
extremis,
i corpi
sgraziati
dei due
coniugi.
Maria
Isabella,
ritratta
da
bambina
dal
maestro
di
López,
Francisco
Goya,
nel
celebre
gruppo
di
famiglia
di Carlo
IV, mai
più
avrebbe
incontrato
sulla
sua
strada,
da
principessa
prima,
da
regina
poi, da
regina
madre
infine,
un così
dotato
ritrattista.
Negli
anni
della
vedovanza
alla
corte
del
figlio
Ferdinando
II, una
serie di
miniature
la
ritrarranno
serena
mentre
invecchia
circondata
dagli
oggetti
più
cari: la
più
interessante
è quella
realizzata
da Emile
Bernard,
Chevalier
de
Guérard,
in cui è
ancora
ravvisabile
il
ricordo
dei
modelli
napoleonici[53]
(fig.
17). In
particolare,
l’artista
tedesco
sembra
qui
ricalcare
nell’iconografia
il
ritratto
postumo
di Maria
Carolina
eseguito
da
Filippo
Marsigli:
il
taglio
della
scena,
il gioco
della
tenda
che
lascia
intravedere
sulla
sinistra
il
Vesuvio,
la
presenza
di un
busto
sulla
destra,
persino
la
scelta
di un
abito
chiaro.
Rispetto
però al
ritratto
della
suocera
tanto da
lei
diversa,
qui
Maria
Isabella
siede
orgogliosa
accanto
al
ritratto
in marmo
del
giovane
rampollo,
alla
stregua
di
un’altra
celebre
madre,
quella
Letizia
Ramolino
Bonaparte
raffigurata
spesso
accanto
al busto
del
figlio
Napoleone[54].
È
ovviamente
tra gli
artisti
gravitanti
attorno
ai suoi
genitori,
che
vanno
ricercati
i primi
ritrattisti
del
futuro
Ferdinando
II[55].
A
raffigurare
il
giovane
rampollo
nei
primi
anni di
vita,
oltre al
fidato
Cammarano,
che si
occupa
di lui
almeno
una
volta
per il
grande
ritratto
di
famiglia
del
1820,
sono
infatti
alcuni
artisti
francesi
accolti
alla
corte
borbonica
e attivi
proprio
tra il
secondo
e il
terzo
decennio
del
secolo:
come
Joseph
Léon
Copinet[56],
che lo
ritrae
all’aria
aperta
in un
contesto
già
pienamente
romantico,
non
lontano
dai
ritratti
dei
figli di
Murat
realizzati
da
Rolland[57]
(fig.
18); e
come
Joseph
Franque[58],
che lo
raffigura
giovane
Lanciere
a
cavallo,
mentre
incede
sicuro
su
alture
polverose,
su di un
modello
che
l’artista
aveva
sperimentato
proprio
per il
re
francese.
Se
il
ricordo
delle
opere
d’età
murattiana
è dunque
ancora
vivo
nelle
rappresentazioni
del
giovane
Ferdinando,
un
modello
più
sobrio e
scarno
s’imporrà
già a
partire
dal
1825,
anno
dell’ascesa
al trono
di suo
padre e
della
propria
acquisizione
del
titolo
di duca
di
Calabria,
qualifica
spettante
appunto
all’erede:
quello
che
resterà
sostanzialmente
invariato
nel
corso di
trent’anni
di
potere,
costituito
da
un’iconografia
ripetitiva,
che vede
il
sovrano
sempre
in
divisa e
in pose
identiche,
e
servito
da uno
stile
accademico
che non
accenna
a
rinnovarsi.
Ferdinando
affida
la
propria
immagine
ad una
schiera
di
artisti
meridionali
presenti
nelle
varie
Biennali
espositive,
nati e
formatisi
all’interno
del
Regno, e
legati
dunque
all’Accademia
e agli
insegnamenti
di
Wicar,
Berger,
Franque,
vale a
dire la
passata
generazione
che ha
rivoluzionato
la scena
artistica
del sud
Italia.
Tra i
più
interessanti,
vi è
certamente
Giuseppe
Bonolis[59],
forse
l’unico
allievo
di
Franque
a
proseguire
le
ricerche
sul
vero,
tanto da
fondare
una
Scuola
privata
in
aperta
polemica
con i
metodi
d’insegnamento
del Real
Istituto.
In virtù
di
questi
interessi,
si
specializza
nella
ritrattistica,
pervenendo,
certamente
assieme
a
Gaetano
Forte[60],
ai
risultati
più
notevoli
in
questo
campo
dall’inizio
della
Restaurazione,
come il
ritratto
del
principe
di
Fondi,
che gli
fa
ottenere
premi e
attenzione
da parte
della
corte
nel
1835. E
proprio
a tale
periodo
dovrebbe
risalire
quello
del re,
per il
quale
focalizza
l’attenzione
sulla
riproduzione
fisionomica,
come
dimostra
la resa
del
viso,
poco
“migliorato”
nei suoi
tratti e
nei suoi
difetti,
qui anzi
dichiarati,
e quella
della
mano
destra,
così
differente
da
quelle
viste in
tanti
ritratti
del
nonno e
del
padre,
poggiata
sulla
cartina
del
Regno[61]
(fig.
19).
Traspare,
dagli
occhi di
Ferdinando,
non solo
la sua
abituale
fierezza
ma anche
il peso
del
gravoso
compito
che ha
sulle
sue
giovani
spalle:
è,
questo,
forse
l’unico
ritratto,
nella
lunga
galleria
delle
immagini
del re,
a
soffermarsi
sulla
sua
psicologia.
L’attitudine
del
Bonolis
è
d’altronde
rara tra
i suoi
colleghi,
che
generalmente
si
limitano
a
raffigurare
Ferdinando
senza
sforzi
interpretativi,
restituendone
un’immagine
di fiero
e
impettito
sovrano:
basti
guardare,
ad
esempio,
ritratti
successivi,
come
quello
di F.
Martorelli[62]
(fig.
20) o di
Giovanni
Salomone[63]
(fig.
21), per
rendersi
conto,
seppur
nella
diversità
di
approccio,
di
quanto
la
figura
del re
sia
oramai
iconica,
e
“ripetuta”
in
maniera
quasi
serigrafica
da
artisti
senza
particolare
ispirazione.
Quella
di
Ferdinando
II è
dunque
una
ritrattistica
caratterizzata
da una
sostanziale
coerenza
stilistica
e
iconografica,
che
mette da
parte i
preziosismi
che
avevano
contraddistinto
le
immagini
di
Francesco
I.
Marcata
dalle
ripetizioni,
quasi
ossessive,
di gesti
e di
pose,
essa non
persegue
altro
obiettivo
che
assolvere
la
propria
iconica
funzione,
rifuggendo
qualsiasi
ambizione
artistica,
nella
sua
ostentata
parsimonia
e nella
sua
ricercata
mediocrità[64].
Anche se
lunga
appena
quattro
anni,
più
variegata
è invece
l’immagine
della
prima
moglie,
Maria
Cristina[65],
che,
ritratta
giovanissima
nell’originaria
corte
sabauda
dal
piemontese
Luigi
Bernero[66]
e
arrivata
a Napoli
appena
ventenne
nel
1832,
conoscerà
sia il
tocco
sensuale
del
siciliano
Giuseppe
Patania[67]
e del
suo
allievo
Giuseppe
Navarra[68],
che
quello
più
convenzionale
di
pittori
campani.
I
ritratti
ufficiali
vengono
affidati
al De
Falco[69],
che
costruisce
l’immagine
di una
giovane
e
composta
regina
tramite
modelli
studiati
per
farne
risaltare
la
personalità.
Il
prototipo
andrebbe
ravvisato
nell’unico
dipinto
che la
ritrae
in piedi
a figura
intera e
che la
inquadra
diligentemente
in una
tipica
iconografia
regia,
con
tanto di
drappi,
colonna,
veduta,
mappa
geografica
e busto
del
consorte
(fig.
22).
Sempre
all’ambito
del De
Falco,
potrebbe
essere
ascritto
anche un
ritratto
di
ignoto
nel
quale la
regina
siede
con
grazia,
adornata
con un
abito
chiaro,
e con
uno
sfondo
molto
scarno,
quasi
monacale[70],
volto a
rispecchiare
l’animo
della
pia
donna
(fig.
23).
Dopo la
prematura
morte
nel
1836,
vengono
a
diffondersi
effigi e
immaginette
devozionali
per
consolare
la
commozione
popolare
per la
perdita
della
regina
santa in
vita,
che già
il 10
luglio
1859
viene
proclamata
venerabile.
Sono
rappresentazioni
senza
particolare
rilievo
artistico,
convenzionali,
create
allo
scopo di
veicolare
le
eroiche
virtù
della
sovrana
venuta
da
Torino,
spirata
nel dare
alla
luce il
futuro
erede al
trono,
come
quella
di
Filippo
Marsigli[71],
chiamato
ancora
una
volta a
celebrare
e a
trasfigurare,
come
desidera
chi la
piange,
l’ennesima
sovrana
morta e
rimpianta
(fig.
24).
L’impronta
di De
Falco
contraddistingue
anche la
scarna
iconografia
della
seconda
moglie
del re,
Maria
Teresa[72],
cresciuta
nella
corte
asburgica
e
ritratta
da
glorie
della
pittura
romantica
locale
come
Moritz
Michael
Daffinger[73]
e Johann
Ender[74].
L’immagine
della
nuova
regina
viene
creata
nel
periodo
immediatamente
successivo
al suo
arrivo a
Napoli
nel
1837, ed
è quella
presente
nella
tela
conservata
presso
l’Accademia
di Belle
Arti di
Napoli,
replicata
più
volte[75],
in cui è
ritratta
in un
elegante
abito
bianco
con un
doppio
filo di
perle e
una
lunga
piuma
che
scende
tra i
capelli
(fig.
25). Un
modello,
dunque,
molto
simile a
quello
creato
per
Maria
Cristina.
Non
lontano
da
questo
ritratto,
è quello
decisamente
più
frivolo,
nel
quale la
Regina
sfoggia
un
elegante
abito di
velluto
rosso
con il
Castel
dell’Ovo
sullo
sfondo,
opera
dello
sconosciuto
Francesco
Torr[76]
(fig.
26).
Donna
austera
e
schiva,
sempre
soggetta
al
confronto
con la
predecessora,
non ama
farsi
raffigurare
e questo
spiega
solo in
parte
l’esigua
presenza
di suoi
ritratti,
risalenti
tutti
per lo
più agli
anni
della
giovinezza[77].
Durante
i circa
trent’anni
di regno
ferdinandeo,
le
soluzioni
più
interessanti
relative
all’iconografia
della
famiglia
reale
verranno
non dai
ritratti
cosiddetti
ufficiali,
bensì da
quelli
realizzati
negli
interni
dei
saloni
degli
sfarzosi
palazzi
reali o
all’aria
aperta,
durante
l’esercizio
dell’esibizione
del
potere.
La prima
tipologia,
ideale
per
comunicare
un senso
domestico,
intimo
del
carattere
degli
effigiati,
viene a
diffondersi
già
negli
anni
Venti[78].
Si va
dai
nipotini,
gli
ultimi
figli di
Francesco
I,
ripresi
in un
acquerello
di
Raffaele
D’Auria[79]
mentre
danno
prova di
precoce
virtuosismo
musicale
in una
composizione
irrigidita
(fig.
27),
alla
cara
nonnina,
Maria
Isabella,
immersa
nella
solitudine
del
salotto
biedermeier
nel
suggestivo
dipinto
di
Vincenzo
Abbati[80]
(fig.
28). È,
senza
dubbio,
Maria
Cristina,
dedita
alla
preghiera
e alla
vita
contemplativa,
il
personaggio
più
adatto a
questo
tipo di
composizione.
E così
la
ritrae
nel 1834
il De
Falco,
mentre
volge
gentile
lo
sguardo
all’osservatore
distogliendolo
brevemente
dalla
lettura
in
un’elegante,
azzurra
sala
della
Reggia
di
Napoli[81]
(fig.
29).
Intenta
a
scrivere,
la
riprende
poi
Louis
Nicolas
Lemasle[82],
in
compagnia
del
consorte
Ferdinando
e del
cognato
Carlo,
in un
salottino
con
vista
sul
golfo,
mentre
un
maggiordomo
incede
sulla
sinistra
per
servire
bevande
calde
(fig.
30). È
dunque
la
compiaciuta
quotidianità,
spogliata
di ogni
fronzolo,
a
caratterizzare
questo
tipo di
produzione
con la
quale i
Borbone
amano
farsi
raffigurare
privatamente,
tanto
più
rispondente
al vero
quanto
lontana
dall’aura
celebrativa
e
fasulla
dei
ritratti
ufficiali.
Di
origine
straniera,
la
tipologia
del
ritratto
d’interni
“privato”
verrà
tuttavia
tralasciata
dal re
nel
corso
degli
anni
’40, per
cedere
il passo
ad una
pittura
d’esterni,
“pubblica”,
a
carattere
celebrativo
e
documentaristico[83].
Rifiutando
nettamente
i
ritratti
in forma
allegorica
o calati
in
determinati
contesti
storici,
Ferdinando
preferisce
il
paesaggio
di
composizione
che
celebri
episodi
contemporanei
della
vita del
Regno,
trattando
avvenimenti
di
cronaca
come
veri e
propri
eventi
storici,
dalle
parate
militari
ai
tornei
cavallereschi,
dall’inaugurazione
di ponti
e
ferrovie
alla
visita
del
Papa,
fino
agli
eventi
catastrofici,
come il
terremoto
di
Melfi.
Al
centro
di
tutto,
vi è
sempre
il
sovrano
rigoroso
e
paterno.
Già in
voga con
i suoi
predecessori,
che nel
tempo
hanno
potuto
contare
sull’apporto
di
grandi
paesaggisti
narratori
– Claude
Joseph
Vernet
per
Carlo,
Antonio
Joli e
Jacob
Phillipp
Hackert
per
Ferdinando
IV,
Heinrich
Schmidt
per
Murat –
questo
genere
viene
commissionato
da
Ferdinando
II non
soltanto
ad
artisti
già al
servizio
di suo
padre,
come
Salvatore
Fergola,
Pasquale
Mattej[84],
Giovanni
Cobianchi[85],
ma anche
a
personalità
più
innovative,
come
Nicola e
Filippo
Palizzi.
Un’opera
di
Fergola
come
Il
torneo
dato da
Ferdinando
II
davanti
alla
reggia[86]
ben
riassume
questo
genere
di
composizione,
che mira
a
coniugare
veduta
paesaggistica
e
cronaca
illustrata,
nel
tentativo
di
aggiornare
un
genere
autocelebrativo
richiesto
dal
sovrano
in anni
di
particolare
spinta
reazionaria.
Ma
la vera
novità
dell’iconografia
borbonica
dell’età
di
Ferdinando
II è
l’introduzione
del
ritratto
fotografico
nella
seconda
metà
degli
anni
Cinquanta,
grazie
agli
interventi
del duca
Borgia
di
Varona[87]
prima e
del
francese
Adolphe
Bernoud[88]
poi. A
squassare
l’ambiente
ovattato
della
corte è
dunque
l’arrivo
di un
mezzo
all’avanguardia
che ci
permette
di
conoscere
le
effettive
fattezze
della
famiglia
reale[89].
La
dimensione
fredda e
distaccata
dei
ritratti
ufficiali
cede qui
il passo
ad
un’atmosfera
intima,
quasi
casalinga,
così
come la
nota
figura
del
rigido
sovrano
a quella
di un
protettivo
padre di
famiglia
che, pur
seguitando
a farsi
ritrarre
in
divisa,
si
rivela
stanco e
malato,
con uno
sguardo
meno
severo
di
quelli
abitualmente
mostrati
nei
dipinti.
La
fotografia
registra
senza
filtri
il suo
corpo
grasso,
l’aspetto
sofferente
negli
ultimi
mesi di
vita,
persino
il suo
cadavere
il
giorno
della
morte. E
assieme
a lui,
ritroviamo
la
moglie
Maria
Teresa,
una
donnetta
pallida
e
triste,
che
sarebbe
stato
arduo
anche
per il
più
grande
artista
dei suoi
tempi
ritrarre
in
maniera
regale,
nonché i
giovani
principi,
divertiti
dal
mezzo,
dei
quali
non sono
note,
incredibilmente,
figurazioni
pittoriche.
È
con
l’iconografia
dell’ultima
coppia
reale
che il
contrasto
tra la
vecchia
pittura
accademica
e il
moderno
mezzo di
riproduzione
diventa
clamoroso.
Brevissimo
è il
periodo
del
regno di
Francesco
II[90]
e di
Maria
Sofia di
Baviera[91],
meno di
due
anni,
tanto
che le
uniche
raffigurazioni
si
riducono
ai soli
ritratti
ufficiali,
eseguiti
seguendo
pedissequamente
i
dettami
precedenti
e
riproponendo
canoni
iconografici
e
cromatici
oramai
non al
passo
coi
tempi
con
quanto
avviene
nelle
altre
corti
europee.
Le tele
rimasteci,
realizzate
in
fretta,
in
maniera
spiccia,
senza
slanci
creativi,
comunicano
ancora
oggi un
senso di
raffazzonato,
di
sbrigativo,
di
provvisorio.
Forse
soltanto
quelle
realizzate
da
Giuseppe
Isè[92]
possono
dirsi
degne di
tal
nome,
nel loro
pervicace
rifarsi
al
modello
di
riferimento
del
ritratto
francese
alla
Rigaud
dei
primissimi
del
Settecento
a figura
intera e
in abiti
da
incoronazione
(fig.
31). Ciò
è
evidente
in
particolar
modo
nella
veduta
scorciata
dal
basso,
dalla
ridondanza
dei
drappeggi
e dalla
caratteristica
posa
della
gamba
destra
aggettante
in
avanti e
del
braccio
destro
appoggiato
al
bastone,
come
aveva
ben
illustrato
a suo
tempo
Louis
XIV. I
restanti
ritratti[93],
come
quelli
realizzati
dal
pittore
di
corte,
Camillo
Guerra[94],
e altri
di
autori
molto
minori
non
ancora
identificati[95]
(figg.
32-33),
sono
esangui
dipinti
che
nulla
aggiungono
alla
modesta
galleria
dei
giovani
sovrani.
Se il
ritratto
pittorico
ha lo
scopo di
migliorare
e
abbellire
il
giovane
e
impacciato
Francesco,
conferendogli
autorità
laddove
nelle
fotografie
emerge
in
maniera
vivida
la sua
timidezza,
ciò
certamente
non può
dirsi
nel caso
della di
per sé
già
bellissima
Maria
Sofia,
non
ricompensata
da
un’adeguata
iconografia
pittorica[96].
Questo è
d’altronde
uno dei
segni
più
evidenti
della
mediocrità
della
scena
artistica
gravitante
attorno
alla
famiglia
reale,
non in
grado
cioè di
rendere
lo
splendore
di un
soggetto
che
avrebbe
fatto la
felicità
di tanti
pittori
in altri
periodi
e in
altri
contesti.
Niente
di
quanto
avviene
fuori
dal
circuito
dell’Accademia
trapela
in
questi
ritratti,
neanche
una
lontana
eco
delle
ricerche
di
quegli
artisti
che
guardano
alle
esperienze
di paesi
oltre i
confini
del
Regno,
alla
Toscana
e alla
Francia,
come
Morelli,
Palizzi,
Cammarano,
Toma,
Altamura,
compromessi
d’altronde
da
scelte
politiche
di
avversione
alla
corona.
[1] Fondamentali testi teorici per l’approccio allo studio di questo genere, sono: E. Castelnuovo, Il significato del ritratto pittorico nella società, in Storia d’Italia, V. I documenti, 2, Einaudi, Torino 1973, pp. 1033-1094; J.L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002; É. Pommier, Il ritratto. Storia e teorie dal Rinascimento all’Età dei Lumi, Einaudi, Torino 2003. Sul ritratto di corte, si veda in particolar modo: S. Perreau, Hyacinthe Rigaud, le peintre des rois, Les Nouvelles Presses du Languedoc, Montpellier 2004. Per uno sguardo più generico sull’argomento: S. Bern, F. Ferrand, Portraits de cour, Éditions du Chêne, Paris 2012.
[2] Quello dell’iconografia della dinastia dei Borbone di Napoli è a tutt’oggi un aspetto ancora poco studiato. Lavoro seminale è certamente la storica mostra curata da Ferdinando Bologna e Gino Doria nel 1954, nel cui catalogo diversi ritratti vengono per la prima volta scandagliati e, soprattutto, sottoposti ad una prima assegnazione a precisi artisti gravitanti attorno alla Corte napoletana. Cfr. Mostra del ritratto storico napoletano, catalogo della mostra (Napoli, ottobre-novembre 1954) a cura di G. Doria, F. Bologna, Ente provinciale per il turismo, Napoli 1954. Bisognerà tuttavia attendere il 1979 per incontrare un primo, fondamentale, saggio sulla ritrattistica borbonica, quello di Steffi Röttgen, all’interno del catalogo della mostra Civiltà del '700, voluta da Raffaello Causa e punto di partenza per tutti i lavori a seguire su questa scia: S. Röttgen, Iconografia borbonica, in Civiltà del '700 a Napoli 1734-1799, catalogo della mostra (Napoli-Caserta, dicembre 1979 – ottobre 1980), Centro Di, Firenze 1979, vol. II, pp. 387-405. Quello della Röttgen è, tuttavia, da considerare un lavoro solo parziale poiché, in conformità alla linea dettata dai lavori per la mostra, gli anni trattati abbracciano il periodo che corre dall’avvento di Carlo sul trono di Napoli alla fine del ’700. Le successive occasioni di approfondimento sono affidate esclusivamente a cataloghi di mostre, e alle relative schede delle singole opere. Su quelle ottocentesche, fondamentale è il lavoro che idealmente si riallaccia all’esposizione del ’79, Civiltà dell’Ottocento. Le arti a Napoli dai Borbone ai Savoia, catalogo della mostra (Napoli-Caserta, 25 ottobre 1997 – 26 aprile 1998), Electa Napoli, Napoli 1997. L’anno successivo, un interessante contributo “regionale” è quello che compare in I Borbone in Sicilia (1734-1860), catalogo della mostra (Catania, 24 aprile – 7 giugno 1998) a cura di E. Iachello, Maimone, Catania 1998. Un’occasione sprecata da un punto di vista scientifico sono le mostre organizzate dall’Associazione Campania 2000 in diversi siti della regione allo scopo di porre in luce il ritrovato interesse per la casa dei Borbone, come ad esempio quella allestita presso il Real Sito di San Leucio: Album di famiglia. Iconografia borbonica, catalogo della mostra (giugno 2000 – aprile 2001) a cura di R.M. Selvaggi, Associazione Culturale Campania 2000, Arti Grafiche Sud, Napoli 2000. Un decisivo apporto chiarificatore è stato tentato in occasione di un’altra rilevante mostra tenutasi a Caserta tra la fine del 2004 e i primi mesi del 2005: Casa di Re. Un secolo di storia alla Reggia di Caserta 1752-1860, catalogo della mostra (Caserta, 8 dicembre 2004 – 13 marzo 2005) a cura di R. Cioffi, Skira, Milano 2004. In occasione di un’esposizione relativa allo studio dei gioielli e dei preziosi legati alla famiglia reale, ci si è poi tornati ad occupare di ritratti borbonici, tralasciando tuttavia gli aspetti stilistici e formali: Gioielli Regali. Ori, smalti, coralli e pietre preziose nel Palazzo Reale di Caserta tra XVIII e XX secolo, catalogo della mostra (Caserta, 7 giugno – 30 ottobre 2005) a cura di V. De Martini, Skira, Milano 2005. L’esposizione più recente nella quale sono comparsi alcuni ritratti è Neoclassiche compostezze. Il gusto per l’antico nel real palazzo di Caserta, catalogo della mostra (Caserta, 21 dicembre 2011 – 25 marzo 2012) a cura di P.R. David, V. de Martini, L. Bellofatto, A. Fiadino, S. Villari, in «Siti reali e territorio. Storia restauro valorizzazione», 1, marzo 2012, Quaderni della Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Caserta e Benevento, Artemide, Roma 2012. Al di fuori dei cataloghi di mostre, l’unico contributo di reale interesse è stato un recente lavoro sulle sovrane borboniche che ha consentito un approfondimento anche della loro iconografia in pittura: All’ombra della corte. Donne e potere nella Napoli borbonica (1734-1860), a cura di M. Mafrici, Fridericiana Editrice Universitaria, Napoli 2010.
[3] Sul passaggio ad una nuova sensibilità artistica nelle scelte della corte borbonica agli inizi degli anni Ottanta del Settecento, si rimanda a F. Mazzocca, Un’officina internazionale: artisti stranieri alla corte di Ferdinando IV e Maria Carolina, in Casa di Re …, 2004, pp. 121-128.
[4] Maria Karoline Luise Josepha Johanna Antonia von Österreich (1752-1814), tredicesima figlia di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e di Francesco I (1708-1765), diviene regina consorte di Napoli e di Sicilia sposando Ferdinando IV nel 1768, all’età di sedici anni. Sulla sua iconografia, si vedano: S. Röttgen, Iconografia borbonica …, 1979, pp. 402-403; I. Cecere, L’immagine delle regine di Napoli nel Settecento: Maria Amalia e Maria Carolina, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 194-202.
[5] Il modello francese, di chiara ascendenza neoclassica, prevede solitamente l’effigiato a figura intera, riccamente abbigliato, circondato da arredo in stile impero, spesso ripreso con alle spalle una veduta del Golfo di Napoli e del Vesuvio, elementi geografici caratterizzanti del Regno conquistato. Tanti sono i ritratti di questo tipo, segnati da un’attenzione al dato psicologico, eseguiti da Gérard, Wicar, Descamps, Rolland, Calliano, Ingres. Su questo argomento, vedasi O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat. Storia di una collezione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2008.
[6] Ferdinando Antonio Pasquale Giovanni Nepomuceno Serafino Gennaro Benedetto di Borbone (Napoli, 12 gennaio 1751 – Napoli, 4 gennaio 1825), terzo figlio maschio di Carlo di Borbone (1716-1788) e di Maria Amalia di Sassonia (1724-1760), ad appena otto anni, nel 1759, diviene sovrano del Regno di Napoli col nome di Ferdinando IV, e di Sicilia, con quello di Ferdinando III. Dopo l’unione dei due Regni, nel 1816 acquisisce il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie. Molto vasta è la sua iconografia, che spazia da Liani a Mengs, da Bardellino alla Kauffmann. Vedasi, in proposito, S. Röttgen, Iconografia borbonica …, 1979, p. 401.
[7] Lucia Migliaccio (Siracusa, 19 luglio 1770 – Napoli, 26 aprile 1826), duchessa di Floridia, vedova di Benedetto Grifeo, principe di Partanna, sposa in seconde nozze Ferdinando di Borbone il 27 novembre 1814, neanche tre mesi dopo la morte di Maria Carolina. Sulla sua scarna iconografia, vedasi A. Di Benedetto, Le sovrane della seconda Restaurazione, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 213-216.
[8] Sull’interesse da parte di Ferdinando I nei riguardi della pittura francese, vedasi quanto scrive L. Martorelli, in La Reggia di Portici nell’Ottocento. Arredi e trasformazioni in epoca neoclassica, in La Reggia di Portici nelle collezioni d’arte tra Sette e Ottocento, Elio De Rosa, Napoli 1998, p. 27.
[9] Lemasle (1788-1870), giunto da Parigi a Napoli nel 1815, ritrae alcuni momenti della vita privata dei membri di casa Murat, come la visita agli scavi di Ercolano dei giovani figli. Negli anni Venti, sarà molto legato al principe di Salerno, Leopoldo (1790-1851), sedicesimo figlio di Ferdinando I e appassionato d’arte, che ritrarrà, ad esempio, in una visita all’Accademia di Francia. Al Musée Condé sono presenti diverse opere realizzate dall’artista e appartenute al principe di Salerno, ereditate poi dal genero, il duca d’Aumale. Parte della collezione finì in un’asta londinese, un’altra confluì al Museo di Chantilly. Nel 1824 avrebbe eseguito anche un ritratto del re, finito poi al Museo di Angers. Sulla vita dell’artista, si veda L. Martorelli, ad vocem Lemasle, Louis Nicolas, in L’arte in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, Electa, Milano 1991, vol. II, pp. 880-881. Del pittore, sottolineando la portata di modernità sugli sviluppi futuri della pittura a Napoli, è tornata recentemente ad occuparsene R. Cioffi, L’onda lunga del Decennio francese nella pittura napoletana dell’Ottocento. Note su Giuseppe Cammarano, Nicolas Lemasle e Vincenzo Abbati, in “Confronto”, n.s., Paparo, Napoli 2013, pp. 263-271.
[10] 1822-23, Napoli, Museo di Capodimonte. Sul dipinto, vedasi la scheda di M. Mormone, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 444, n. 17.13. Citando esplicitamente Le Sacre de Napoléon di David, Lemasle raffigura, con memoria fotografica, la cerimonia avvenuta il 25 aprile 1816 nella Cappella Palatina del Palazzo Reale di Napoli. Al centro del dipinto, si distinguono il re, Ferdinando I, il figlio Francesco e la nuora, Maria Isabella, mentre assistono al matrimonio della primogenita dell’erede, Carolina Fernanda Luisa, con il duca di Berry. Tra i tanti invitati e dignitari di corte, si riconoscono anche alcuni artisti legati all’Accademia, come Costanzo Angelini, Joseph Franque, Vincenzo Abbati, e lo stesso Lemasle. Su questo, R. Cioffi, L’onda lunga …, 2013, pp. 263-271.
[11] Sull’artista nativo di Sciacca (1766-1850), vedasi R. Cioffi, ad vocem Cammarano, Giuseppe, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 727-728. Sull’importanza nella scena artistica napoletana di Cammarano, vedasi F. Mendia, Sugli sviluppi del neoclassicismo a Napoli: Giuseppe Cammarano pittore, decoratore, e pittore figurista nei teatri reali, in “Bollettino d’arte”, 74-75, luglio-ottobre 1992, pp. 31-64. E, più recentemente, R. Cioffi, L’onda lunga …, 2013, pp. 263-271.
[12] 1815, Caserta, Palazzo Reale. Firmato e datato, il dipinto, comparso nelle mostre Album di famiglia e Gioielli Regali, non ha mai goduto di studi approfonditi. Attualmente, è esposto nelle retrostanze della Reggia di Caserta.
[13] Sono quello della nipote di Gioacchino, Clotilde Jeanne (1809), e quello della moglie, la regina Carolina (1813); ambedue le donne sono colte a leggere, la prima con lo sfondo del Vesuvio, la seconda con alle spalle una collina e un fiume. Il primo ritratto, firmato e datato, attualmente al Palazzo Reale di Caserta, è stato identificato da Luisa Martorelli in La Reggia di Portici nell’Ottocento …, 1998, pp. 27, 31, n. 36. Per una completa lettura dell’opera, si veda O. Scognamiglio, in Casa di Re …, 2004, p. 305, n. 4.37, e I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 141, 198. In relazione con questo dipinto, Scognamiglio cita un Ritratto di generale murattiano con la moglie e il figlio, ora alla Bibliothèque Marmottan di Boulogne-Billancourt, e ritenuto in precedenza opera di Descamps. Oltre alle affinità cromatiche e formali, l’attribuzione a Cammarano di questo triplice ritratto è condivisibile, non solo perché il pittore sembra qui anticipare quella teatralità dei gesti che caratterizzerà il Ritratto della famiglia di Francesco I nel 1820, ma anche perché confermerebbe la particolare predilezione dell’artista siciliano nel ritrarre all’aria aperta. O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, p. 198. Il secondo ritratto, firmato e datato, attualmente al Museo Napoleonico di Roma, in virtù delle dimensioni ridotte e di un’atmosfera di particolare intimità, è da ritenersi di destinazione privata e non dunque di committenza pubblica e ufficiale. Vedasi, al riguardo, O. Scognamiglio, in Casa di Re …, 2004, p. 306, n. 4.44.
[14] Sulla decorazione del pittore all’interno della Reggia di Caserta, si rimanda ad A. Di Benedetto, La quadreria dei re: promozione, gusto e celebrazione al palazzo reale di Caserta da Ferdinando I a Francesco II, in Casa di Re …, 2004, pp. 217-234, in part. pp. 218-220. E, più di recente, R. Cioffi, L’onda lunga …, 2013, pp. 263-271.
[15] Sul riconoscimento delle onorificenze e delle insegne regali, vedasi R. Pastorelli, Medaglistica e monetazione dal 1799 al 1860, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 241-255; G. Damiano, La distinzione dei re, in Gioielli Regali …, 2005, pp. 139-140.
[16] Sul dipinto, attualmente al Palazzo Reale di Caserta, vedasi O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 215-216.
[17] Nato a Chambery (1754-1822) e formatosi all’Accademia di Torino con Laurent Pécheux, si trasferisce nel 1784 a Roma, dove conosce la grande pittura davidiana e realizza diverse opere a carattere storico e mitologico. Cfr. L. Soravia, ad vocem Berger, Giacomo, in L’arte in Italia ..., 1991, p. 688; E. Taglialatela, ad vocem Berger, Giacomo, in La Pittura Napoletana dell’Ottocento, a cura di F.C. Greco, M. Picone Petrusa, I. Valente, Pironti, Napoli 1993, p. 100.
[18] Per qualsiasi riferimento all’Accademia di Belle Arti di Napoli, fondamentale è il testo di C. Lorenzetti, Due secoli di vita artistica nell’Italia Meridionale: l’Accademia di Belle Arti in Napoli 1752-1952, Le Monnier, Firenze 1952.
[19] Sul dipinto e sui riferimenti alla committente Carolina Murat, vedasi R. Cioffi, Rappresentazioni simboliche di Gioacchino Murat, re di Napoli: i miti di Marte e Astrea nella decorazione della Reggia di Caserta, in Les maisons de l’Empereur. Residenze di corte in Italia nell’età napoleonica, Atti del convegno (Lucca, 23-24 gennaio 2004), a cura di F. Ceccarelli, G. D’Amia, in «Rivista Napoleonica», 10/2004-11/2005, pp. 213-228. Sulla presenza di Berger nella Napoli murattiana, vedasi O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 216-218, 220.
[20] Entrambi di notevoli dimensioni – misurano infatti cm 220 x 142 – sono tutt’oggi nel Castello Ducale di Aglié. Sui due dipinti, poco apprezzati nell’ambiente artistico torinese del periodo, vedasi S. Pinto, Dalla Rivoluzione alla Restaurazione. Gli ex allievi dell’Accademia Reale: Berger, Revelli, Bonsignore, in Arte di corte a Torino da Carlo Emanuele III a Carlo Felice, a cura di S. Pinto, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1987, p. 110, figg. pp. 290-291. Nel 2001 sono stati studiati più approfonditamente in Il Castello di Aglié. Gli Appartamenti e le Collezioni, a cura di D. Biancolini, E. Gabrielli, Celid, Torino 2001, pp. 35, 90, nn. 107-108.
[21] Oggi disperso, il dipinto, che avrebbe dovuto ritrarre la duchessa a grandezza naturale e in abito bianco da sposa, viene citato da Salvatore Di Giacomo nel suo lavoro su Ferdinando del 1923, in cui lo considera «di minor valore artistico del quadro di Camuccini, ma più interessante dal punto di vista storico e pel costume». S. Di Giacomo, Re Nasone di profilo. Ferdinando IV e il suo ultimo amore, a cura di P. Di Meglio, Imagaenaria, Ischia 2005, pp. 198-200.
[22] 1818, Napoli, Museo di San Martino. Il dipinto, attualmente nei depositi del museo, proveniente dagli uffici della Marina, è stato recentemente attribuito al Berger da Luisa Martorelli. Sul foglio, è chiaramente visibile la scritta: “Ordinanze Generali della Real Marina del Regno delle Due Sicilie. Primo Ottobre 1818”.
[23] Oltre che per i Murat, Camuccini (1771-1844) riceve commissioni anche da Napoleone, per il quale realizza due grandi tele, ora a Capodimonte. Nel 1826 verrà chiamato da Francesco I a riordinare la galleria di pittura del Real Museo. Sulla sua vita e sull’opera, si vedano: A. Zanella, ad vocem Camuccini, Vincenzo, in La pittura in Italia …, 1991, p. 730; L. Verdone, Vincenzo Camuccini pittore neoclassico, Edilazio, Roma 2005.
[24] 1820, Napoli, Palazzo Reale. Sull’opera, vedasi Vincenzo Camuccini (1771-1844). Bozzetti e disegni dallo studio dell’artista, catalogo della mostra (Roma, 27 ottobre – 31 dicembre 1978) a cura di G. Piantoni De Angelis, De Luca, Roma 1978, p. 94, n. 203. Camuccini avrebbe realizzato un’altra opera per il sovrano, che lo raffigura ai piedi della statua della Giustizia mentre mostra il nuovo Codice Civile tra i suoi ministri e alcune coefore. Vedasi in proposito Dall’Aspromonte a Porta Pia. I Borbone, Pio IX e Garibaldi. Memorabilia delle collezioni Carafa Jacobini, Ruffo di Calabria ed altre raccolte, catalogo della mostra (Scilla, 24 febbraio – 15 marzo 2011; Ariccia, 26 marzo – 1 maggio 2011) a cura di M. Carafa Jacobini, S. Marra, F. Petrucci, Gangemi, Roma 2010, p. 40, n. 22.
[25] Il quadro, esposto al Museo di San Martino di Napoli, venne realizzato nel 1790 dal pittore tedesco (1751-1818) in occasione delle nozze delle principesse reali Maria Teresa e Maria Luisa con gli arciduchi d’Austria Francesco e Ferdinando, unioni che avrebbero dovuto rinsaldare l’alleanza politica tra i Borbone di Napoli e gli Asburgo di Lorena. Il successo dell’operazione diplomatica era dovuto in gran parte proprio al Mastrilli (1753-1833), ambasciatore del Regno di Napoli a Vienna, qui ritratto in maniera trionfante, avvolto dal mantello rosso trapunto di gigli dorati dell’Ordine di San Gennaro, istituito da Carlo di Borbone nel 1738. Cfr. R. Pancheri, in Il Neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova, catalogo della mostra (Milano, 2 marzo – 28 luglio 2002) a cura di F. Mazzocca, E. Colle, A. Morandotti, S. Susinno, Skira, Milano 2002, pp. 485-486, n. IX.11.
[26] Progettata dallo svizzero Pietro Bianchi (1787-1849), la chiesa verrà inaugurata soltanto nel 1836 da Ferdinando II. Camuccini realizzerà, per un ciclo di opere sulla vita del santo, il dipinto principale raffigurante San Francesco di Paola resuscita il giovane Alessandro, tra il 1830 e il 1835.
[27] 1820, Napoli, Museo Duca di Martina. Sul ritratto, vedasi L. Verdone, Vincenzo Camuccini …, 2005, p. 73. Il dipinto è stato restaurato e riportato nel 2008 all’interno della villa neoclassica progettata da Antonio Niccolini sulla collina del Vomero, attuale museo di maioliche e di ceramiche. Si veda, Lucia Migliaccio duchessa di Floridia. Il dipinto di Vincenzo Camuccini, a cura di L. Martorelli, Electa Napoli, Napoli 2008. In una lettera del 1° dicembre 1819, Camuccini scrive al fratello Pietro dei problemi che incontra nel realizzare il dipinto, dovuti in gran parte alla poca pazienza dimostrata dalla duchessa durante le sessioni di lavoro. Vedasi, C. Falconieri, Vita di Vincenzo Camuccini e pochi studi sulla pittura contemporanea, Stab. poligrafico italiano, Roma 1875, pp. 138-139, riportato di recente in A. Di Benedetto, Le sovrane …, 2010, p. 213. Alcune copie e bozzetti sono sparsi sul mercato antiquario e nei musei, come il Calvet di Avignone, che ne conserva una versione ridotta. Oltre a questo di Camuccini e a quello disperso di Berger, un altro ritratto potrebbe raffigurare l’ultima moglie di Ferdinando: quello presente nella camera da letto del Museo Praz, che il critico e collezionista romano aveva attribuito a Costanzo Angelini, nonostante sul verso del dipinto sia riportato “Ritratto di Lady Hamilton di Angelica Kaufmann”, cfr. Museo Mario Praz. Inventario topografico delle opere esposte, a cura di P. Rosazza Ferraris, Storia e Letteratura, Roma 2008, p. 155, n. cat. 369. Sull’attribuzione del quadro ad Angelini e sul presunto riconoscimento della Migliaccio nei tratti del volto della donna raffigurata, sono state avanzate delle perplessità: Le stanze della memoria. Vedute di ambienti, ritratti in interni e scene di conversazione dalla collezione Praz: dipinti ed acquarelli, 1776-1870, catalogo della mostra (Napoli, 4 giugno – 3 luglio 1998) a cura di S. Susinno, E. di Majo, Mondadori-De Luca, Milano-Roma 1988, p. 117, n. 4. Sul pittore Angelini (1760-1853), già ritrattista sia della regina Maria Carolina agli inizi del secolo, che di Giuseppe Bonaparte, di Gioacchino Murat e di sua moglie Carolina, vedasi R. Cioffi, ad vocem Angelini, Costanzo, in L’arte in Italia ..., 1991, p. 665.
[28] Gli ultimi anni di vita di Ferdinando sono caratterizzati da una copiosa produzione di intimi ritratti, per lo più miniature, che descrivono il suo volto ormai anziano e stanco, come l’acquerello su carta di Raffaele Giovine (1822) che lo ritrae, su uno sfondo di lavagna, di profilo in curiosi abiti borghesi e con il cilindro. Cfr. R. Middione, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 262, n. 12.9.
[29] Fergola (1799-1874), figlio del pittore hackertiano Luigi, è dal 1819 fotoreporter ufficiale del principe Francesco. Si rimanda a L. Martorelli, ad vocem Fergola, Salvatore, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 820-821.
[30] Vedasi A. Di Benedetto, La quadreria dei re …, 2004, p. 222.
[31] Post 1815, Caserta, Palazzo Reale. Il dipinto, menzionato nel «Diario di Roma» n. 41, del 23 maggio 1826, p. 4, viene ricordato nel 1997 da S. Susinno in Napoli e Roma: la formazione artistica nella «capitale universale delle arti», in Civiltà dell’Ottocento. Cultura e Società, 1997, pp. 83-91. L’opera, un tempo presente a Capodimonte, fu poi trasferita a Caserta assieme ad altri ritratti dei membri della famiglia reale. Vedasi in proposito, L. Martino, Arredi e decorazioni nella reggia di Capodimonte dai Borbone ai Savoia, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 30. Il ritratto è stato esposto nella mostra La Reggia e le Regine (28 novembre 2009 – 10 gennaio 2010), a cura della Collezione Tirelli Costumi, accanto all’abito originale appartenuto a Maria Carolina.
[32] Sulla vita di Marsigli (1790-1867), si rimanda ad A. Porzio, ad vocem Marsigli, Filippo, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 906-907; G. D’Alessio, ad vocem Marsigli, Filippo, in La Pittura Napoletana …, 1993, p. 142. Il pittore ha lavorato, giovanissimo, per lo storico e antiquario francese Aubin-Louis Millin de Grandmaison (1759-1818), dal 1812 a Napoli: ha infatti eseguito alcuni rilievi di monumenti funebri medievali presenti nelle chiese napoletane di San Giovanni a Carbonara e Donnaregina. Cfr. G. Toscano, Millin et «l’ecole» napolitaine de peinture et de sculpture, in Voyages et conscience patrimoniale. Aubin-Louis Millin 1759-1818 entre France et Italie, a cura di A.M. D’Achille, A. Iacobini, M. Preti-Hamard, M. Righetti, G. Toscano, Campisano 2011, pp. 387-411.
[33] Attualmente in collezione privata, il quadro, un tempo scomparso dopo la caduta dei napoleonidi, venne ritrovato da Mario Praz, che non riconobbe nelle fattezze della donna effigiata quelle di Carolina Murat. Vedasi, M. Praz, La filosofia dell’arredamento: i mutamenti nel gusto della decorazione interna attraverso i secoli dall’antica Roma ai nostri tempi, Longanesi, Milano 1964, p. 195. Carolina è ritratta da Ingres esattamente nello stesso studiolo che compare anche in un quadro del 1810 di Charles de Clarac. Sull’ambientazione e sulla genesi dell’opera, si rimanda a O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 163, 179-183; O. Scognamiglio, Carolina Murat, in All’ombra della corte …, 2010, p. 210. Sul rapporto del pittore con i committenti sovrani di Napoli, vedasi G. Vigne, Ingres e la Corte di Napoli, in Civiltà dell’Ottocento. Cultura e Società …, 1997, pp. 79-82.
[34] Francesco Gennaro Giuseppe Saverio Giovanni Battista di Borbone (Napoli, 19 agosto 1877 – Napoli, 8 novembre 1830). Se da bambino la sua immagine fu affidata a personalità quali la Kauffmann, la Vigée e Hackert, gli anni della crescita sono documentati da una serie di miniature che tra la fine del secolo e l’inizio del nuovo vengono riprodotte costantemente. È sorprendente notare come le sembianze del giovane principe mutino nel corso di pochissimi anni, e le fattezze del giovinetto biondino cedano il passo a quelle di un corpulento e sempre più grassoccio omuncolo, dai caratteristici basettoni detti favoriti.
[35] Sulla biografia della seconda moglie di Francesco I, María Isabel de Borbón y Borbón-Parma (Madrid, 6 luglio 1789 – Portici, 13 settembre 1848), figlia di Carlo IV di Spagna (1748-1819) e di Maria Luisa di Parma (1751-1819), vedasi S. de Majo, Maria Isabella, la “Regina Madre”, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 149-156. Sull’iconografia, si rimanda ad A. Di Benedetto, Le sovrane …, 2010, pp. 216-218. La prima consorte, Maria Klementine Josepha Johanna Fidelis (Poggio Imperiale, 24 aprile 1777 – Napoli, 15 novembre 1801), sposata nel 1797 e ritratta soprattutto dall’austriaco Joseph Hickel, muore agli inizi del secolo. Non viene dunque presa in considerazione in questo lavoro.
[36] Vedasi, a tal proposito, C. Napoli, Le Biennali Borboniche. Le esposizioni di Belle Arti nel Real Museo Borbonico 1826-1859, Catalogart, Genova 2009.
[37] Spinta alla pittura dalla madre Maria Luisa di Borbone, l’Infanta verrà nominata accademica benemerita il 1° luglio 1802, cinque giorni prima di compiere tredici anni e di sposare per procura il cugino napoletano Francesco. Sul rapporto dell’Infanta con la pittura e sui suoi primi ritratti spagnoli, vedasi C. González López, Maria Isabella di Borbone Spagna, in Napoli 1836. Le stanze della Regina Madre, catalogo della mostra (Roma, 21 novembre 2008 – 29 marzo 2009) a cura di P. Rosazza Ferraris, De Luca, Roma 2008, pp. 7-11. Sull’attività di pittrice e sui rapporti con il proprio maestro dal 1833 al 1838, il tedesco Carl Wilhelm Goetzloff, si veda P. Rosazza Ferraris, Napoli Biedermeier, in Napoli 1836 …, 2008, pp. 13-26. Alcune notevoli vedute realizzate dalla sovrana sono alle pp. 60-62, nn. 16 e 17.
[38] Le infelici silhouette della coppia reale vengono accentuate, al di fuori dei ritratti ufficiali, in altri tipi di composizioni, come quella di ambientazione storico-allegorica di Nicola De Laurentiis, dal sapore camucciniano, nota col nome Le Province napoletane al cospetto di Francesco I. 1828, Napoli, Museo di Capodimonte. Napier ha parlato a tal proposito di «a subject, in which it would have been hopeless to disguise the deformity of the Sovereign, and the infelicity of his government». F. Napier, Notes on modern painting at Naples, John W. Parker & Son West Strand, London 1855, p. 16. Sull’opera, si vedano: A. Porzio, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 462, n. 17.40; A. Di Benedetto, La quadreria dei re …, 2004, p. 222. Sull’artista teatino (1783-1832), vedasi L. Martorelli, ad vocem De Laurentiis, Nicola, in L’arte in Italia …, 1991, p. 793.
[39] 1820, Napoli, Museo di Capodimonte. Cfr. F. Bologna, G. Doria, in Mostra del ritratto …, 1954, pp. 67-68, n. 105; A. Porzio, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 469-470, n. 17.51. Di grande interesse è il disegno preparatorio firmato e datato 1819, nel quale si nota una maggiore freschezza e un’idea alquanto diversa. Cfr. R. Muzii, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 369, 372, n. 16.18. Così le applicazioni successive, come ad esempio il disegno a matita di Gennaro Maldarelli in cui un giovane e aitante Francesco rende omaggio al busto del padre attorniato dai figli. Cfr. U. Bile, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 380, n. 16.35. Tale composizione è ripresa poi, seppur con alcune differenze, da Giovine per un vaso miniato attorno al 1823 che fa pendant con uno analogo nel quale figura Ferdinando in carne e ossa attorniato dalla famiglia di Francesco, dalle sembianze molto più realistiche rispetto al precedente. Cfr. L. Arbace, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 95, n. 2.31.
[40] Sul celebre ritratto della Kauffmann, realizzato nel 1783 ed esposto al Museo di Capodimonte, proprio di fronte a quello di Cammarano, vedasi Angelika Kauffmann 1741-1807 Retrospektive, catalogo della mostra (Düsseldorf, 15 dicembre 1998 – 24 gennaio 1999), a cura di B. Baumgärtel, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern-Ruit 1998, pp. 276-285.
[41] Si riconoscono, da sinistra a destra: Maria Isabella, seduta, con in braccio la piccola Maria Amalia (n. 1818); Maria Antonietta (n. 1814); Luisa Carlotta (n. 1804) abbracciata alla sorella Maria Cristina (n. 1806); Ferdinando (n. 1810), duca delle Puglie, l’erede, cui viene affidato il compito di incidere la dedica al nonno; Antonio Pasquale (n. 1816), conte di Lecce, nell’atto di cingere il busto del re con una ghirlanda di fiori, retto dal padre Francesco, ancora duca di Calabria; Carlo Ferdinando (n. 1811), principe di Capua, con un cilindro simile a quello che indossa il re Ferdinando nella miniatura di Giovine, cinto al fratello minore Leopoldo (n. 1813), conte di Siracusa. All’appello manca la primogenita di Francesco, Carolina Ferdinanda Luisa (1798-1870), avuta dalla prima moglie, Maria Clementina, e andata in sposa, come abbiamo visto con Lemasle, nel 1816 al Duca di Berry (1783-1820), assassinato a Parigi nell’anno di realizzazione del ritratto. Dopo il 1820, la coppia reale avrebbe avuto altri quattro figli.
[42] I dieci ritratti singoli sono attualmente tutti esposti nella Reggia di Caserta.
[43] Molti, in effetti, i detrattori dell’opera, a cominciare dal velenoso Lord Francis Napier, che la descrive di «incomparable ugliness» e realizzata da un «bad painter of royaly and Olympus». F. Napier, Notes on …, 1855, p. 13. Esattamente un secolo dopo, Ferdinando Bologna e Gino Doria ne daranno un giudizio divertito e inequivocabile: «Non è un bel quadro, anzi è decisamente un brutto quadro, la bruttezza crescendo in proporzione geometrica con la vastità della tela. In formato ridotto sembrerebbero meno offensive le mostruose gambe del principe Francesco, con quegli altri attributi. […] Ma come immaginare un quadro più divertente di questo, documento solenne di spirito di famiglia, negazione insolente di ogni verità o verosimiglianza storica? Che mirabili invenzioni nel raggruppamento e negli atteggiamenti dei vari componenti la troupe! E quali stupefacenti particolari, come la fodera di seta del cappello a staio sullo scalino, o le dita a salsiccia del principe, o l’orlo ricamato dei pudichi calzoncini!». F. Bologna, G. Doria, in Mostra del ritratto …, 1954, pp. 67-68. Seppur qui anche lo sfondo naturalistico non sia dei più efficaci, nel 1826 Camuccini assumerà, controvoglia, la direzione della Scuola di Paesaggio, ruolo che manterrà fino al 1827, anno nel quale otterrà la cattedra di disegno. Oltre all’autocelebrazione della famiglia, e alla venerazione del sovrano ritratto nel busto, topos della ritrattistica neoclassica, è qui presente anche un’esaltazione delle Arti, nel riferimento al busto canoviano. Vedasi, in proposito, quanto scrive L. Martorelli, in La Reggia di Portici …, 1998, p. 28.
[44] 1825, Capua, Museo Campano. Cfr. A.M. Romano, in Album di famiglia …, 2000, p. 57, n. d.1.
[45] 1828, Caserta, Palazzo Reale. Firmato e datato, il dipinto, comparso di recente nella mostra Neoclassiche compostezze, è inedito agli studi.
[46] Nato a Gand (1786-1862), allievo di David a Parigi, viene nominato da Ferdinando I pittore di corte.
[47] 1826, Caserta, Palazzo Reale. Presenti nelle mostre Gioielli Regali e Neoclassiche compostezze, entrambe ospitate all’interno della Reggia di Caserta, le due enormi tele (cm 320 x 247) sono sostanzialmente inedite agli studi. Si rimanda a: A. Porzio, La quadreria di Palazzo Reale nell’Ottocento. Inventari e museografia, Arte tipografica, Napoli 1999, pp. 214-215; C. Napoli, Le Biennali …, 2009, p. 24. Sulla presenza del trono, in legno intagliato e dorato: G. Narciso, in Neoclassiche compostezze …, 2012, p. 87, n. 50.
[48] Sulla vita del pittore (1798-1882), così determinante per la ritrattistica borbonica, si vedano: R. Cioffi, ad vocem De Falco, Carlo, in L’arte in Italia ..., 1991, p. 790; M.R. Guglielmelli, ad vocem De Falco, Carlo, in La Pittura Napoletana …, 1993, pp. 116-117.
[49] 1829, Caserta, Palazzo Reale. Cfr. A.M. Romano, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 472-473, n. 17.54; M.C. Minopoli, in Casa di re …, 2004, p. 308, n. 5.4.
[50] Sul grande pittore valenciano (1772-1850), vedasi J.L. Díez García, Vicente López (1772-1850). I. Vida y obra, Fundación Arte Hispánico, Madrid 1999.
[51] 1830, Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. Partiti da Napoli il 20 settembre 1829, i due sovrani arrivano a Madrid l’11 dicembre. Vi rimangono quattro mesi per poi ritornare nel Regno il 14 aprile 1830. L’esecuzione dei dipinti sarebbe dunque iniziata in loro presenza e l’elaborazione sarebbe continuata anche nei mesi successivi alla loro partenza. Sui ritratti e sulle altre versioni, vedasi J.L. Díez García, Vicente López (1772-1850). II. Catálogo razonado, Fundación Arte Hispánico, Madrid 1999, p. 97.
[52] Il riferimento è al ritratto che la pittrice francese aveva realizzato nel 1790 e oggi esposto al Museo di Capodimonte di Napoli.
[53] 1833, Napoli, Museo di San Martino. Sul minuscolo ritratto (2,18 x 1,59), olio su tela, realizzato dal miniaturista tedesco (nato a Düsseldorf e morto a Napoli nel 1836), vedasi R. Pastorelli, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 476, n. 17.59.
[54] Sul celebre ritratto di Gérard, replicato da Pierre-Edmond Martin, si rimanda a O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 34, 80, n.111.
[55] Robusto, tendente alla pinguedine, Ferdinando Carlo Maria di Borbone (Palermo, 12 gennaio 1810 – Caserta, 22 maggio 1859), salito sul trono a soli vent’anni nel 1830, viene raffigurato sempre in atteggiamento serioso e dispotico, sia in pittura tramite una serie di tele di non eccelso livello e dalle convenzionali iconografie, sia in scultura con una messe di busti e di monumenti pubblici, fino alla fotografia che accoglie interessato anche a corte e che cristallizza il suo sguardo serioso ma già stanco e sofferente per i dolori fisici. In tutte le opere pittoriche che lo ritraggono sovrano, egli indossa sempre ed esclusivamente divise militari, da Lanciere o da Ammiraglio di Marina, come monito verso i propri sudditi in anni tormentati e di continue rivolte. Sull’iconografia di Ferdinando, rimando a G. Brevetti, Il Re Bomba e l’eclissi della natura. Una lettura iconografica delle raffigurazioni di Ferdinando II, in Per la conoscenza dei Beni Culturali. V. Ricerche del Dottorato in Metodologie conoscitive per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali, in corso di pubblicazione
[56] 1820 circa, Roma, Collezione privata. Il dipinto è comparso di recente nella mostra Dall’Aspromonte …, 2010, pp. 25, 38, n. 10. In questa sede, viene fatto notare che il piccolo Ferdinando ha al collo il Toson d’Oro, che risulta essergli stato conferito nel 1820, dunque all’età di dieci anni. Tuttavia, egli sembra, sia nell’aspetto generale che nel vestitino che indossa, dimostrare meno di dieci anni. Inoltre, nel dipinto di Cammarano, realizzato proprio nel 1820, appare ben più maturo che in questo ritratto. Per tali ragioni, l’opera di Copinet (1796-1846) potrebbe essere stata realizzata tra il 1815, anno del ritorno della famiglia a Napoli, e il 1820.
[57] In particolare, quelli di Luciano e Luisa. Si veda O. Scognamiglio, Dal palais de l’Elysée …, 2004, p. 303, n. 4.28.
[58] 1828, Collezione privata. Sul ritratto equestre di Murat, in realtà bozzetto conservato presso la Malmaison, vedasi O. Scognamiglio, in Casa di Re …, 2004, p. 306, n. 4.45. Sul pittore (1774-1833), L. Soravia, ad vocem Franque, Joseph, in L’arte in Italia …, 1991, p. 835.
[59] Sull’artista teramano (1800-1851), vedasi L. Martorelli, ad vocem Bonolis, Giuseppe, in L’arte in Italia ..., 1991, p. 706. Sull’attività teorica, vedasi G. Bonolis, Dell’arte pittorica. Opera postuma, Tip. Federico Vitale, Napoli 1851.
[60] Il salernitano Forte (1790-1871) è il campione del virtuosismo realistico, come dimostra il ritratto del Duca di Roccaromana, vincitore nel 1835 della medaglia d’oro all’Esposizione Borbonica. Sul pittore, vedasi L. Martorelli, ad vocem Forte, Gaetano, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 831-832.
[61] 1835 circa, Caserta, Palazzo Reale. Apparso nella mostra Neoclassiche compostezze, il dipinto firmato è inedito agli studi. Interessante, a tal proposito, sarebbe porlo in relazione con gli altri ritratti dello stesso autore.
[62] 1844, Caserta, Palazzo Reale. Apparso nelle mostre Album di famiglia e Gioielli Regali, è opera di un autore ancora oggi misconosciuto.
[63] 1851, Caserta, Palazzo Reale. Come il ritratto di Bonolis, anche questo è apparso nella mostra Neoclassiche compostezze ed è inedito agli studi. Firmato, è apparso alla Biennale Borbonica del 1851. L’artista napoletano (1806-1877), ritrattista di molti dignitari di corte, dal 1855, diverrà professore di Disegno elementare nelle Scuole per l’Ornato Dipinto. Vedasi C. Lorenzetti, L’Accademia …, 1952, pp. 115, 129.
[64] Nonostante il sovrano si interessi attivamente alla produzione artistica del Regno, come ricorda Napier: «His patronage has not been marked by great munificence or profound thought; he has never sought to emulate the prodigality of Hermitage and Versailles, or the learned creations of Munich and Berlin; but he is a purchaser of pictures, and it may be presumed that he can appreciate what he purchases». F. Napier, Notes …., 1855, p. 149. Per contro, una ricchissima produzione di disegni, vignette satiriche, immagini di propaganda antiborbonica fiorirà in gran parte dell’Europa, svillaneggiando il grasso e autoritario sovrano con irriverenti ed estrose caricature. A tal proposito, vedasi B. Schneider, Sulle barricate con Arlecchino e Pulcinella, in H. Daumier, Il ritorno dei barbari. Europei e “selvaggi” nella caricatura, a cura di A. Stoll, Mazzotta, Milano 1987, pp. 159-167 e relative schede, pp. 169-175.
[65] Maria Cristina Carlotta Giuseppina Gaetana Elisa di Savoia (Cagliari, 14 novembre 1812 – Napoli, 31 gennaio 1836), figlia di Vittorio Emanuele I (1759-1824) e di Maria Teresa d’Asburgo-Este (1773-1832), è universalmente nota come la Regina Santa, virtuosa e morigerata in vita, miracolosa e venerata dopo la morte. La sua immagine desumibile dalle arti figurative non fa che confermare tale condizione, persino nei ritratti apparentemente più frivoli della giovinezza, quelli in cui è raffigurata in abiti sfarzosi, con preziosi monili indosso e all’interno di usuali apparati scenografici. È infatti nel suo sguardo e nelle pose gentili che vanno colte le sue alte virtù, che contrastano d’altronde non poco con il burbero e a tratti rozzo aspetto del consorte. È quasi inutile ricordare poi la messe di ritrattini devozionali e immaginette religiose create subito dopo la morte e fioccate per il resto del secolo. Sulla vita della sovrana, vedasi R. De Lorenzo, Una piemontese a Napoli: Maria Cristina di Savoia, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 157-167. Sulla sua iconografia, vedasi nello stesso volume A. Di Benedetto, Le sovrane …, 2010, pp. 218-219.
[66] Sul celebre ritratto della famiglia di Vittorio, realizzato nel 1817 dal torinese Bernero (1775-1848), ora al Castello di Racconigi, vedasi, Arte a di Corte a Torino …, 1987, p. 286.
[67] 1834, Trapani, Museo regionale Agostino Pepoli. Nella stessa sede, sono presenti anche i ritratti di Giovan Battista Fardella, ministro di Francesco I e di Ferdinando II, del 1838, e di Vincenzo Fardella, tra gli animatori dei moti insurrezionali siciliani, del 1848. Sul ritrattista palermitano (1780-1852), vedasi I. Bruno, Giuseppe Patania, pittore dell’Ottocento, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1993.
[68] 1835 circa, Napoli, Museo di Capodimonte.
[69] 1834, Caserta, Palazzo Reale.
[70] 1836 circa, Caserta, Palazzo Reale.
[71] 1850 circa, Caserta, Palazzo Reale.
[72] Maria Theresia Isabella d’Asburgo-Teschen (Vienna, 31 luglio 1816 – Albano, 8 agosto 1867), Arciduchessa d’Austria, primogenita dell’Arciduca Karl Ludwig (1771-1847) e della Principessa protestante Henriette Alexandrine von Nassau-Weilburg (1797-1829), il 9 gennaio 1837, all’età di vent’anni, sposa Ferdinando II, per prendere il posto della venerata Maria Cristina. A quell’uomo tanto adorato sia in vita che dopo la morte diede dodici figli e fino all’ultimo tentò di brigare affinché il diritto dinastico premiasse uno dei suoi ragazzi, e non l’erede legittimo, il figliastro Francesco. Per indole ed educazione, non amava la vita di corte né tantomeno essere ritratta. Non è un caso, infatti, che di lei si possiedano soprattutto immagini giovanili – create tra Vienna e Napoli – mentre della maturità si registra soltanto una certa quantità di fotografie nelle quali mostra un costante atteggiamento passivo e compassato, sempre seduta e poco serena in volto. È forse questa la caratteristica principale dell’intera iconografia di Maria Teresa, vale a dire proprio siffatta immagine di donna poco appariscente, quasi in contrasto con il ruolo di sovrana che aveva da ricoprire. Una sorta di ricorrente understatement che viene, paradossalmente, esaltato ed evidenziato dal mezzo fotografico. Per una breve biografia, vedasi L. Guidi, Una regina dal carattere “altiero ed insolente”: Maria Teresa d’Asburgo-Lorena, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 169-176.
[73] Daffinger (1790-1849), il più celebre ritrattista austriaco dell’Ottocento, è stato allievo di Füger e al servizio degli Asburgo per molti anni.
[74] Ender (1793-1854) è stato a lungo professore all’Accademia di Vienna dal 1829 al 1850.
[75] 1837, Capua, Museo Campano.
[76] 1837, Caserta, Palazzo Reale. Comparso nella mostra Gioielli Regali, è datato e firmato dallo sconosciuto Francesco Torr, del quale sono intuibili le capacità
[77] Fatta eccezione per un ritratto realizzato da Gennaro Ruo, sempre su modello di De Falco, in cui appare molto più matura, bisognerà aspettare, per rivederla, quelli fotografici della fine degli anni Cinquanta. 1850 circa, Trieste, Castello di Miramare. Sul napoletano Ruo (1812-1884), vicino al Bonolis e professore nella sua Scuola tra il 1848 e il 1849, vedasi L. Soravia, ad vocem Ruo, Gennaro, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 1001-1002.
[78] Anche alla corte borbonica si diffonde un genere molto in voga nell’aristocrazia e nell’alta borghesia del periodo. Vedasi Le stanze della memoria …, 1988.
[79] 1830, Caserta, Palazzo Reale. Ripresi all’interno di una sala del palazzo di Capodimonte, sono presenti, da sinistra a destra, gli ultimi figli di Francesco e di Maria Isabella: Teresa Cristina (n. 1822), futura imperatrice del Brasile; Maria Carolina (n. 1820) con l’arpa minore; Maria Antonietta (n. 1814) con l’arpa grande; il più piccolo, Francesco di Paola (n. 1827), conte di Trapani, con un cavalluccio di legno; Maria Amalia (1818) al pianoforte; Luigi (1824), conte di Aquila, con una sciaboletta. Cfr. F. Bologna, G. Doria, in Mostra del ritratto …, 1954, p. 70, n. 110; R. Muzii, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 380-381, n. 16.36. Sull’artista napoletano (1799-1859), si veda L. Martorelli, ad vocem D’Auria, Raffaele, in L’arte in Italia …, 1991, p. 787.
[80] 1836, Roma, Museo Praz. Cfr. P. Rosazza Ferraris, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, pp. 475, 477, n. 17.58. La stessa autrice, più recentemente, ha individuato il luogo di realizzazione, grazie alla veduta dal balcone, nell’ex Villa Gallo allo Scudillo, poi Villa Regina Isabella, e in seguito Villa del Balzo, appartenuta in seguito agli eredi del secondo marito della sovrana, Francesco del Balzo. Sempre in questa sede, si è filologicamente ricostruito il salottino di Maria Isabella, rinvenendo ed esponendo molti oggetti presenti nel dipinto, come i dipinti di Gonsalvo Carelli e Louis Paréz, e i tavolini di ebanisti napoletani, tutti in gran parte provenienti da collezioni private. Vedasi, inoltre, Le stanze della Regina Madre …, 2008, p. 28, n.1 e segg.
[81] 1834, Napoli, Palazzo Reale. Cfr. A. Porzio, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 470-472, n. 17.53.
[82] 1835 circa, Londra, collezione privata. Attribuito a Lemasle nel 1997 da Annalisa Porzio, il dipinto sarebbe ambientato, secondo la stessa, all’interno di una delle sale del Palazzo Reale di Napoli, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 444-446, n. 17.15. Recentemente, Rosanna Cioffi ha avanzato l’ipotesi che possa invece trattarsi, per le dimensioni ridotte della sala e per la prospettiva del Vesuvio intuibile dalla veduta sulla sinistra, di un ambiente di Palazzo Salerno, allora attuale sede della Real Marina. In favore di tale tesi concorrerebbe inoltre la presenza sulla destra del fratello di Ferdinando, Carlo, a quel tempo ammiraglio maggiore. Vedasi R. Cioffi, L'onda lunga …, 2013, pp. 263-271. Presso il Musée Condé di Chantilly, è conservato un dipinto di Lemasle intitolato Le marquis de Saint-Clair, e datato al 1816, quasi uguale a questo. Scomparsi Maria Cristina e il principe Carlo, restano identici il maggiordomo sulla sinistra e il personaggio al centro della scena; quest’ultimo ora indica ad un uomo seduto al posto della regina dei fogli sul tavolo, nella chiara intenzione di dettargli qualcosa da scrivere. Anche la stanza e la disposizione di mobili e oggetti è la stessa, tranne il quadro sullo sfondo: in quello di collezione privata, con Ferdinando II, è una marina; in quello del Condé, invece, è un ritratto. Probabilmente i due dipinti, di uguali dimensioni (cm 98 x 124), erano assieme nella collezione del principe di Salerno e, una volta smembrata, un pezzo finì al Musée Condé, e l’altro all’asta londinese, dove presumibilmente è stato comprato nel 1979; in seguito, nel marzo 2006, è stato battuto ad un’asta da Sotheby’s per 52800£.
[83] Sull’interesse del sovrano nei riguardi di questo genere di pittura si rimanda ad A. Di Benedetto, La quadreria dei re …, 2004, pp. 222-223.
[84] Su Mattej (1813-1879), vedasi L. Martorelli, ad vocem Mattej, Pasquale, in L’arte in Italia …, 1991, p. 912.
[85] Su Cobianchi (documentato dal 1814 al 1847), vedasi A. Porzio, ad vocem Cobianchi, Giovanni, in L’arte in Italia …, 1991, pp. 764-765.
[86] 1847, Caserta, Palazzo Reale. Vedasi, al riguardo, L. D’Angelo, in Casa di Re …, 2004, pp. 311-312, n. 5.16.
[87] Sul primo autore di ritratti fotografici dei Borbone delle Due Sicilie, vedasi U. Di Pace, C. di Somma, Ritratti della famiglia reale dei Borboni delle Due Sicilie e della famiglia reale del Grandiuca di Toscana fatti dal Cavaliere di Compagnia di S.A.R. l’Infante D. Sebastiano Gabriele di Spagna Sig. D. Francesco Borgia di Varona, in Sicof ’83 Sezione culturale, diretta da L. Colombo, Milano 1983.
[88] Sul fotografo lionese (1820-1889), si veda Alphonse Bernoud, a cura di G. Fanelli, B. Mazza, Pagliai, Firenze 2012.
[89] Sul rapporto con la fotografia dei Borbone delle Due Sicilie, rimando a G. Brevetti, Lo sguardo reale. Appunti sulla fotografia borbonica, in Per la conoscenza dei Beni Culturali. IV. Ricerche del dottorato in Metodologie conoscitive per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali 2007-2011, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2011, pp. 181-192.
[90] Francesco d’Assisi Maria Leopoldo (Napoli, 16 gennaio 1836 – Arco, 27 dicembre 1894), ultimo Re delle Due Sicilie, nasce dalla breve unione tra il dispotico padre Ferdinando e la pia madre Maria Cristina. Per tutta la sua vita avrebbe oscillato tra questi due poli opposti, quello del comando risoluto e dispotico da una parte e quello della vita contemplativa e religiosa dall’altra, verso cui era maggiormente orientato. Anche nell’aspetto, Francesco era più somigliante alla madre, della quale pareva riprendere lo sguardo sommesso e l’atteggiamento timido e gentile, diversissimo da quello del padre, che era al contrario spavaldo e arrogante. Sia nelle fonti letterarie che in pittura che, raramente, in scultura e fino alla fotografia l’immagine di Francesco è sostanzialmente coerente e unitaria. I suoi capelli neri, i baffetti, gli occhi chiari dall’espressione triste, una certa rigidità nel porsi come soggetto da ritrarre divengono caratteristiche peculiari esteriori di un animo intrinsecamente chiuso e discreto e la vicinanza con l’avvenente e fotogenica consorte non fa che acuire tali imperfezioni, che fanno risultare nel complesso un po’ buffa e goffa la sua figura.
[91] Marie Sophie Amalie von Wittelsbach (Possenhofen, 4 ottobre 1841 – Monaco di Baviera, 19 gennaio 1925), ultima Regina del Regno delle Due Sicilie, è stata certamente la più bella e la più ammirata tra tutte le sovrane borboniche. Di indole vivace e avventurosa, educata in maniera libera e moderna, ha vissuto una vita straordinaria, piena di eventi, nonché lunga e movimentata. Tutte le fonti concordano nel descriverla come una donna di estrema bellezza e dal fascino magnetico, virtù queste che cozzavano non poco con la poca avvenenza e la rigidità del marito Francesco. Si veda L. Guidi, La Regina-soldato: Maria Sofia di Baviera, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 177-187.
[92] 1859, Napoli, Museo di San Martino. Isé (1840 ca.-1867), formatosi con Guerra, morirà precocemente.
[93] Vedasi, ad esempio, quelli conservati nel Museo Campano di Capua. Cfr. L. Bellofatto, in Album di famiglia …, 2000, pp. 70-73.
[94] 1860, Collezione privata. Cfr. M. Pisani, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 514, n. 17.118. Definiti «due ritrattini, buttati giù alla brava» in F. Bologna, G. Doria, Mostra del ritratto …, 1954, p. 175, nn. 124, 125. Sul Guerra (1797-1874), si vedano: A. Porzio, ad vocem Guerra, Camillo, in L’arte in Italia …, 1991, p. 864; G. D’Alessio, ad vocem Guerra, Camillo, in La Pittura Napoletana …, 1993, p. 133.
[95] 1859, Caserta, Palazzo Reale.
[96] Un breve accenno all’iconografia è in A. Di Benedetto, Le sovrane …, 2010, p. 221.
[97] Joseph Karl Stieler (1781-1858), allievo di Gérard e autore, tra gli altri, del celeberrimo ritratto di Beethoven, realizza quest’opera nel 1854, anno in cui Sissi diviene Imperatrice d’Austria. Ciò spiegherebbe la sua assenza in tale ritratto e la “necessità” di esaltarne i fratelli in una composizione gradevole e aggraziata.
[98] Winterhalter (1805-1873), il più celebre ritrattista delle corti europee di metà Ottocento, raffigura Eugenia di Francia, Elisabetta d’Austria e la regina Vittoria
[99] Cfr. P. Fardella, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 514, n. 17.117. pp. 514-515.