teCLa :: Rivista #8

in questo numero contributi di Giuliana Tomasella, Giulio Brevetti, Almerinda Di Benedetto, Edoardo Dotto, Valentina Di Fazio.

codice DOI:10.4413/BREVETTI - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Tra-Volti dalla Restaurazione. La ritrattistica dei Borbone delle Due Sicilie da Ferdinando I a Francesco II di Giulio Brevetti

 

Nella produzione pittorica legata alla corte borbonica compresa tra l’arrivo di Carlo e la traumatica perdita del Regno nel 1860, un posto rilevante occupa la ritrattistica[1], per lungo tempo genere poco considerato dagli studi storico-artistici[2]. Se quella settecentesca ha comunque goduto di attenzione per la presenza di grandi personalità nel cruciale passaggio da una figuratività di stampo tardo barocco e rococò, rappresentata da artisti quali Molinaretto, Solimena, Bonito, Bardellino, ad una sensibilità neoclassica con la venuta di artisti stranieri quali Mengs, Füger, Tischbein, Kauffmann[3], è certamente quella ottocentesca ad essere stata maggiormente trascurata. L’avveduta politica culturale di Maria Carolina[4], nata in un particolare, felice e irripetibile momento storico, viene a interrompersi alla fine del diciottesimo secolo per via delle contingenze storiche e non avrà mai un degno seguito, a causa della mancanza di un’analoga sensibilità artistica da parte dei committenti discendenti. La presenza decennale dei napoleonidi incide poi, irrimediabilmente, sulla produzione artistica locale e, nello specifico, su quella legata alla ritrattistica[5].

Al suo ritorno a Napoli, Ferdinando[6], oramai più anziano, divenuto vedovo e confortato dall’amore per una donna più giovane[7], deve ripristinare visivamente il culto verso la propria persona che in quegli anni era stato forzatamente cancellato e comunicare così ai propri sudditi di essere in grado di difenderli da nuovi invasori. Senza più al suo fianco la colta Maria Carolina, egli capisce che la propria immagine necessita di essere rimodernata e aggiornata senza tralasciare le più recenti novità. Ferdinando non può dunque ignorare quei modelli francesi che si erano imposti durante la sua assenza, conscio del loro potere comunicativo: dimostrando così un consapevole gusto artistico, si ispirerà proprio alle effigi dei nemici, molte delle quali ammassate nella Reggia di Portici[8], non disprezzando, inoltre, di avvalersi del talento di alcuni artisti legati all’entourage napoleonico. Come Louis Nicolas Lemasle[9], tra i preferiti da Murat, autore nel 1824 dell’elegante dipinto che, rievocando il matrimonio della figlia del principe Francesco, Maria Carolina, con il Duca di Berry, celebra sontuosamente la ritrovata corte borbonica, memore della lezione di David[10].

Per ritrovare una piena legittimazione figurativa, Ferdinando si rivolge dunque a quella stessa pittura che aveva celebrato la fine dell’Ancien Régime, con la Rivoluzione prima e l’arrivo dei napoleonidi poi, espressione di quel mondo che aveva voluto la sua detronizzazione e che dal 1806, con l’arrivo di Wicar all’Accademia, aveva segnato le nuove generazioni di artisti meridionali. Egli intuisce che, nel recuperarla, deve adattarla a sé, innestandovi atmosfere ed elementi più consoni alla sua Restaurazione, cercando dunque una mediazione con la pittura celebrativa neoclassica di fine Settecento, che aveva accolto col tramite della moglie negli anni Ottanta del secolo passato.

Il primo ritratto realizzato dopo il ritorno sul trono è da individuare in quello firmato da Giuseppe Cammarano[11] nel 1815[12] (fig. 1). L’artista siciliano, che per la famiglia Murat aveva dipinto almeno due ritratti muliebri, entrambi ambientati all’aria aperta[13], aveva ricevuto nel 1812 l’incarico di decorare le volte di due sale all’interno del Palazzo Reale di Caserta, commissione che vedrà rinnovarsi col ritorno del Borbone e per cui lavorerà sino al 1818[14]. Egli raffigura Ferdinando, appena rientrato a Napoli, in alta uniforme colma di onorificenze[15], pronto a difendere il suo regno, come mostra la spada legata ai bianchi pantaloni, mentre ostenta sicurezza, come suggerisce il braccio poggiato su di una colonna in marmo, sulla quale è posta una statua bronzea della Giustizia. L’influenza della ritrattistica napoleonica è evidente non solo nella posa del re, che sembra richiamare quella del Murat raffigurato da Schmidt appena l’anno precedente[16], ma anche nella veduta del golfo sullo sfondo; meno consueta nei ritratti borbonici precedenti, tale presenza diverrà invece ricorrente, almeno per i primi anni della Restaurazione, fino a quando cioè si avverte la necessità di ristabilire visivamente la relazione con il proprio territorio. Non ha dunque avuto dubbi, Ferdinando, su quale artista scegliere per la sua prima raffigurazione da sovrano “restaurato”: un pittore siciliano, dunque regnicolo, che, avendo lavorato per i francesi, ben conosceva le novità della ritrattistica neoclassica imperiale, stemperata però da un’inclinazione coloristica tardosettecentesca; un artista, inoltre, che ben sapeva relazionare i propri effigiati con lo sfondo paesaggistico, dote, quest’ultima, utile per il sovrano alla ricerca di un ristabilimento visivo con Napoli e il suo golfo.   

Eloquente variante a questo modello, è quella offerta da un altro pittore operante alla corte murattiana fino al 1815, e cioè il savoiardo Jacques Berger[17]. Richiesto a Napoli nel 1808 dall’allora Direttore dell’Accademia[18], Jean-Baptiste Wicar, che gli affida la cattedra di pittura di storia, come Cammarano è dal 1812 nel cantiere della Reggia di Caserta per realizzare un dipinto da destinare alla volta della Sala di Astrea e raffigurante Il Trionfo della Giustizia, colmo di riferimenti alla committente Carolina Murat, che completerà soltanto nel 1815[19]. Col ritorno dei Borbone, viene temporaneamente allontanato dall’Accademia, per essere reintegrato nel 1816, anno al quale risalirebbero almeno tre ritratti di membri della famiglia reale: quelli di Maria Cristina, figlia di Ferdinando, e di suo marito, Carlo Felice di Savoia, re di Sardegna[20]; e quello della neoconsorte, Lucia Migliaccio[21]. Il ritratto del sovrano risale invece al 1818, realizzato con ogni evidenza in occasione del decreto di riordinamento della Real Marina, come indicano i fogli posti sullo scrittoio[22] (fig. 2). Berger inquadra l’arcigna figura del sovrano in una scena analoga a quelle ideate per la figlia ed il genero, circondandola dunque di tendaggi e di tessuti; eludendo lo sfondo panoramico, perviene ad un’elegante composizione d’interni, marcata dalla forte tendenza disegnativa, come dimostra l’attenzione alla resa dell’arredo intagliato. La parabola artistica del pittore dall’inconfondibile atmosfera rarefatta diviene particolarmente significativa del passaggio dal potere murattiano a quello borbonico: fortemente voluto dal primo, cacciato e poi riammesso dal secondo, diverrà di quest’ultimo ritrattista di punta e figura di spicco all’interno dell’Accademia, fino alla morte, nel 1822.  

Berger non è di certo l’unico artista ad aver attratto l’interesse sia dei napoleonidi che dei Borbone, come dimostra la chiamata a Napoli nel 1818 di Vincenzo Camuccini[23], il principale esponente del Neoclassicismo romano, che ritrae Ferdinando a figura intera con l’abito da Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro[24] (fig. 3). In questo caso, più che alla ritrattistica napoleonica, Camuccini sembra aver tenuto presente il ritratto che Füger fece del Marchese di Gallo, Marzo Mastrilli, nel 1790[25]: da qui potrebbe aver desunto la veduta scorciata dal basso, la presenza di un edificio classicheggiante sulla sinistra, nonché lo studio del mantello scarlatto. Alla visione laica del pittore tedesco, dichiarata dalle statue di Imeneo e del Genio della Storia, l’artista romano contrappone quella fortemente cristiana del sovrano devoto: il re, infatti, indica la vista oltre il balcone del Palazzo Reale napoletano, questa volta non sul mare ma sullo slargo d’ingresso, dove appare la chiesa di San Francesco di Paola, che egli sta facendo erigere come ex voto in segno di ringraziamento per essere ritornato sul trono[26]. Diversamente da Cammarano e da Berger, che avevano lavorato alla corte napoletana durante il Decennio e dunque ben conoscevano il ritratto murattiano, Camuccini “restaura” un’immagine trionfante del recente passato borbonico, rifacendosi ad uno dei padri del Neoclassicismo. Tuttavia, per quello della moglie morganatica di Ferdinando, di destinazione privata, sceglie invece soluzioni più aggiornate, volte a valorizzare l’abito della donna e l’arredo stile Impero[27] (fig. 4).

Dopo la morte di Ferdinando[28], il figlio Francesco farà realizzare una serie di quadri di memoria, “di felice ricordanza”, al pittore Salvatore Fergola[29], che illustrano alcuni episodi nella vita del sovrano scomparso, per lo più legati al momento del suo ritorno sul trono napoletano[30]. Francesco commissionerà, inoltre, un ritratto postumo della madre, morta a Vienna nel 1814, nel quale la figura della sovrana austriaca viene calata all’interno di un’iconografia pienamente rispondente alle nuove istanze figurative[31] (fig. 6): a realizzarlo, è il giovane Filippo Marsigli[32], allievo di Wicar e fine conoscitore della pittura alla Gérard, che otterrà la cattedra di pittura storica nel 1833. È di tutta evidenza l’esplicita citazione di uno dei capolavori della ritrattistica di epoca murattiana, forse il più bello tra i tanti raffiguranti Carolina Bonaparte, e cioè quello firmato da Ingres[33] (fig. 5) in quello stesso 1814 che vede la morte di Maria Carolina d’Asburgo e che precede di poco la sconfitta dei napoleonidi. Chissà se la fiera regina austriaca avrebbe gradito un omaggio del genere, un ritratto ricalcato su quello della sua usurpatrice. Sta di fatto che Marsigli, probabilmente al seguito di Ingres durante il viaggio di quest’ultimo a Napoli per conoscere la Murat, appare comunque conscio della differenza di cultura e di temperamento delle due “Caroline”, e, pur citando il dipinto napoleonico, sembra pronto a capovolgerlo, come un positivo/negativo. E non soltanto per l’abito nero che cede qui il passo ad uno perlaceo, ma per l’atmosfera che si registra: se il grande artista francese sembra presagire la fine di un’epoca nei toni chiaroscurali, il pittore di Portici, per contro, nel celebrare la sovrana scomparsa, punta sui toni chiari, quasi abbaglianti, scelti per ricordarne la luminosa presenza. Ma è senz’altro nella resa generale che emerge la differenza tra i due modelli: la moderna “macchia nera” creata dal maestro di Montauban al centro di un interno borghese non viene eguagliata qui da Marsigli, che si limita “manieristicamente” a rifarsi ai maestri francesi, Wicar e Ingres, senza inventare nulla di nuovo.

L’interesse per le arti, come dimostrano i ritratti postumi dei genitori, caratterizzerà la breve monarchia di Francesco I[34] e della sua seconda moglie, Maria Isabella di Spagna[35]: succeduto al padre nel 1825, il pingue sovrano ne confermerà sostanzialmente le scelte culturali, promuovendo la produzione artistica nel Regno con l’istituzione delle Biennali Borboniche[36]; la sua paffuta consorte amerà circondarsi di giovani pittori cui accordare il proprio sostegno, dedicandosi in prima persona, e con buoni risultati, alla pittura di paesaggio[37]. Svantaggiati dunque da un aspetto poco felice e da corpi grassocci, i due sovrani appaiono, nei loro ritratti, un po’ buffi, poco carismatici ed eleganti, nonostante gli sforzi dei pittori coinvolti di compensare tali deficit estetici con ricercati preziosismi e sfarzose composizioni[38].

A cominciare da Giuseppe Cammarano, che nel 1820 realizza il grande ritratto di famiglia dell’allora principe Francesco[39], pallido epigono della celebre tela realizzata circa quarant’anni prima da Angelika Kauffmann[40]. Nell’affollata composizione – compaiono nel grande quadro ben otto figli assieme ai due genitori[41] – il pittore sembra smorzare quella naturalezza e quella profondità psicologica che invece caratterizzano i bei ritratti singoli realizzati come modelli di base[42] (figg. 7-9). Proveniente da una famiglia di commedianti, ed egli stesso attore, Cammarano ingabbia le figure in pose e atteggiamenti marcatamente teatrali, ben poco realistici, disponendole nello spazio al fine di creare un’ascensione piramidale, “doppiata” sullo sfondo dalla sagoma del Vesuvio[43]. Meglio farà, il pittore, in un ritratto singolo, nel quale esalta la figura di Francesco tramite il ricorso a consolidati espedienti accademici, come l’attento disegno delle mani e l’illuminazione teatrale[44] (fig. 10), tanto da venir replicato qualche anno dopo da Giuseppe Martorelli[45] (fig. 11).

Appena asceso al potere, dopo la morte del padre, Francesco commissiona al belga Pieter Van Hanselaere[46], già pittore di corte, i ritratti ufficiali dei due coniugi seduti sul trono[47] (fig. 12). Forte della sua formazione in terra fiamminga, l’artista colpisce per la minuziosa descrizione delle stoffe, dei tendaggi e del trono intagliato su cui siede la coppia reale. La sua presenza testimonia, inoltre, l’interesse nei confronti di artisti stranieri da parte della corte borbonica, che proprio in quegli anni accoglie le novità, soprattutto della pittura di paesaggio, introdotte da nomi quali Turner, Pitloo, Corot, Ščedrin, Dahl e altri. Sarà tuttavia un napoletano come Carlo De Falco[48], allievo di Costanzo Angelini, a realizzare le immagini più importanti e rappresentative dei sovrani, e cioè i due ritratti a figura intera completati nel 1829 ed esposti con successo alla seconda Esposizione di Belle Arti nel 1830[49] (figg. 13-14); successo che gli consentirà di divenire pittore di corte, ruolo che manterrà fino al 1860. De Falco, formatosi con Van Hanselaere, parte proprio dai due ritratti realizzati da quest’ultimo, di cui ripropone la monumentalità e la preziosità, per aggiornarli, non solo scegliendo di raffigurare la coppia in piedi dinanzi al trono, accentuando così il senso di verticalità dell’immagine, ma soprattutto giungendo ad una straordinaria capacità di resa materica dei tessuti e dei tappeti, che presuppone un interesse per il realismo e un allontanamento dalla tecnica accademica dello sfumato.

Francesco e Maria Isabella affidano dunque la loro immagine ai più notevoli talenti neoclassici del Regno, come il maturo Cammarano e il giovane De Falco, dimostrando di apprezzare non soltanto una rappresentazione accademica e convenzionale, ma di gradire anche le novità di una pittura maggiormente sensibile al dato reale e alla sua raffigurazione oggettiva. Sarà comunque un artista straniero a conseguire il risultato più alto dell’intera iconografia della coppia, quel Vicente López y Portaña[50] i cui rapporti con la corte napoletana sono assicurati dalle due principesse Luisa Carlotta e Maria Cristina, andate in sposa a consanguinei di casa Borbone di Spagna, e da lui più volte ritratte. Proprio in occasione del viaggio in Spagna dei sovrani napoletani, per il matrimonio di Maria Cristina con Ferdinando VII, l’artista realizza due ritratti[51] nei quali è possibile cogliere un’intensità diversa, più profonda, di quella vista sin qui, così come un’attenzione maggiore alla resa psicologica. Giunto negli ultimi mesi di vita, Francesco I appare notevolmente invecchiato, con i capelli radi, quasi calvo, e oramai appoggiato al bastone, su cui grava tutto il suo peso (fig. 15); lontanissimo, irriconoscibile, quel lontano e grazioso bambino biondo ritratto con sapienza dalla Le Brun quarant’anni prima[52]. Ma è un’immagine, questa, di straordinaria veridicità, moderna quanto quella della regina, quasi “strabordante” nel vestito di velluto, nobilitata dalla spettacolare resa del diadema e delle maniche merlettate (fig. 16). Contrariamente ai ritrattisti della corte napoletana, alla costante ricerca di offuscare e mitigare i difetti fisici dei sovrani, calandoli all’interno di composizioni sfarzose, López sceglie di puntare invece proprio su tali difetti, non solo dichiarandoli esplicitamente ma addirittura sottolineandone il drammatico portato. Conferendo allo stanco Francesco l’aspetto di un maestoso monarca al tramonto e a sua moglie quello di un’elegante e austera regina, la salvifica mano del maestro spagnolo riabilita così, in extremis, i corpi sgraziati dei due coniugi.  

Maria Isabella, ritratta da bambina dal maestro di López, Francisco Goya, nel celebre gruppo di famiglia di Carlo IV, mai più avrebbe incontrato sulla sua strada, da principessa prima, da regina poi, da regina madre infine, un così dotato ritrattista. Negli anni della vedovanza alla corte del figlio Ferdinando II, una serie di miniature la ritrarranno serena mentre invecchia circondata dagli oggetti più cari: la più interessante è quella realizzata da Emile Bernard, Chevalier de Guérard, in cui è ancora ravvisabile il ricordo dei modelli napoleonici[53] (fig. 17). In particolare, l’artista tedesco sembra qui ricalcare nell’iconografia il ritratto postumo di Maria Carolina eseguito da Filippo Marsigli: il taglio della scena, il gioco della tenda che lascia intravedere sulla sinistra il Vesuvio, la presenza di un busto sulla destra, persino la scelta di un abito chiaro. Rispetto però al ritratto della suocera tanto da lei diversa, qui Maria Isabella siede orgogliosa accanto al ritratto in marmo del giovane rampollo, alla stregua di un’altra celebre madre, quella Letizia Ramolino Bonaparte raffigurata spesso accanto al busto del figlio Napoleone[54].

È ovviamente tra gli artisti gravitanti attorno ai suoi genitori, che vanno ricercati i primi ritrattisti del futuro Ferdinando II[55]. A raffigurare il giovane rampollo nei primi anni di vita, oltre al fidato Cammarano, che si occupa di lui almeno una volta per il grande ritratto di famiglia del 1820, sono infatti alcuni artisti francesi accolti alla corte borbonica e attivi proprio tra il secondo e il terzo decennio del secolo: come Joseph Léon Copinet[56], che lo ritrae all’aria aperta in un contesto già pienamente romantico, non lontano dai ritratti dei figli di Murat realizzati da Rolland[57] (fig. 18); e come Joseph Franque[58], che lo raffigura giovane Lanciere a cavallo, mentre incede sicuro su alture polverose, su di un modello che l’artista aveva sperimentato proprio per il re francese.

Se il ricordo delle opere d’età murattiana è dunque ancora vivo nelle rappresentazioni del giovane Ferdinando, un modello più sobrio e scarno s’imporrà già a partire dal 1825, anno dell’ascesa al trono di suo padre e della propria acquisizione del titolo di duca di Calabria, qualifica spettante appunto all’erede: quello che resterà sostanzialmente invariato nel corso di trent’anni di potere, costituito da un’iconografia ripetitiva, che vede il sovrano sempre in divisa e in pose identiche, e servito da uno stile accademico che non accenna a rinnovarsi. Ferdinando affida la propria immagine ad una schiera di artisti meridionali presenti nelle varie Biennali espositive, nati e formatisi all’interno del Regno, e legati dunque all’Accademia e agli insegnamenti di Wicar, Berger, Franque, vale a dire la passata generazione che ha rivoluzionato la scena artistica del sud Italia. 

Tra i più interessanti, vi è certamente Giuseppe Bonolis[59], forse l’unico allievo di Franque a proseguire le ricerche sul vero, tanto da fondare una Scuola privata in aperta polemica con i metodi d’insegnamento del Real Istituto. In virtù di questi interessi, si specializza nella ritrattistica, pervenendo, certamente assieme a Gaetano Forte[60], ai risultati più notevoli in questo campo dall’inizio della Restaurazione, come il ritratto del principe di Fondi, che gli fa ottenere premi e attenzione da parte della corte nel 1835. E proprio a tale periodo dovrebbe risalire quello del re, per il quale focalizza l’attenzione sulla riproduzione fisionomica, come dimostra la resa del viso, poco “migliorato” nei suoi tratti e nei suoi difetti, qui anzi dichiarati, e quella della mano destra, così differente da quelle viste in tanti ritratti del nonno e del padre, poggiata sulla cartina del Regno[61] (fig. 19). Traspare, dagli occhi di Ferdinando, non solo la sua abituale fierezza ma anche il peso del gravoso compito che ha sulle sue giovani spalle: è, questo, forse l’unico ritratto, nella lunga galleria delle immagini del re, a soffermarsi sulla sua psicologia. L’attitudine del Bonolis è d’altronde rara tra i suoi colleghi, che generalmente si limitano a raffigurare Ferdinando senza sforzi interpretativi, restituendone un’immagine di fiero e impettito sovrano: basti guardare, ad esempio, ritratti successivi, come quello di F. Martorelli[62] (fig. 20) o di Giovanni Salomone[63] (fig. 21), per rendersi conto, seppur nella diversità di approccio, di quanto la figura del re sia oramai iconica, e “ripetuta” in maniera quasi serigrafica da artisti senza particolare ispirazione.

Quella di Ferdinando II è dunque una ritrattistica caratterizzata da una sostanziale coerenza stilistica e iconografica, che mette da parte i preziosismi che avevano contraddistinto le immagini di Francesco I. Marcata dalle ripetizioni, quasi ossessive, di gesti e di pose, essa non persegue altro obiettivo che assolvere la propria iconica funzione, rifuggendo qualsiasi ambizione artistica, nella sua ostentata parsimonia e nella sua ricercata mediocrità[64].  

Anche se lunga appena quattro anni, più variegata è invece l’immagine della prima moglie, Maria Cristina[65], che, ritratta giovanissima nell’originaria corte sabauda dal piemontese Luigi Bernero[66] e arrivata a Napoli appena ventenne nel 1832, conoscerà sia il tocco sensuale del siciliano Giuseppe Patania[67] e del suo allievo Giuseppe Navarra[68], che quello più convenzionale di pittori campani. I ritratti ufficiali vengono affidati al De Falco[69], che costruisce l’immagine di una giovane e composta regina tramite modelli studiati per farne risaltare la personalità. Il prototipo andrebbe ravvisato nell’unico dipinto che la ritrae in piedi a figura intera e che la inquadra diligentemente in una tipica iconografia regia, con tanto di drappi, colonna, veduta, mappa geografica e busto del consorte (fig. 22). Sempre all’ambito del De Falco, potrebbe essere ascritto anche un ritratto di ignoto nel quale la regina siede con grazia, adornata con un abito chiaro, e con uno sfondo molto scarno, quasi monacale[70], volto a rispecchiare l’animo della pia donna (fig. 23). Dopo la prematura morte nel 1836, vengono a diffondersi effigi e immaginette devozionali per consolare la commozione popolare per la perdita della regina santa in vita, che già il 10 luglio 1859 viene proclamata venerabile. Sono rappresentazioni senza particolare rilievo artistico, convenzionali, create allo scopo di veicolare le eroiche virtù della sovrana venuta da Torino, spirata nel dare alla luce il futuro erede al trono, come quella di Filippo Marsigli[71], chiamato ancora una volta a celebrare e a trasfigurare, come desidera chi la piange, l’ennesima sovrana morta e rimpianta (fig. 24).

L’impronta di De Falco contraddistingue anche la scarna iconografia della seconda moglie del re, Maria Teresa[72], cresciuta nella corte asburgica e ritratta da glorie della pittura romantica locale come Moritz Michael Daffinger[73] e Johann Ender[74]. L’immagine della nuova regina viene creata nel periodo immediatamente successivo al suo arrivo a Napoli nel 1837, ed è quella presente nella tela conservata presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, replicata più volte[75], in cui è ritratta in un elegante abito bianco con un doppio filo di perle e una lunga piuma che scende tra i capelli (fig. 25). Un modello, dunque, molto simile a quello creato per Maria Cristina. Non lontano da questo ritratto, è quello decisamente più frivolo, nel quale la Regina sfoggia un elegante abito di velluto rosso con il Castel dell’Ovo sullo sfondo,  opera dello sconosciuto Francesco Torr[76] (fig. 26). Donna austera e schiva, sempre soggetta al confronto con la predecessora, non ama farsi raffigurare e questo spiega solo in parte l’esigua presenza di suoi ritratti, risalenti tutti per lo più agli anni della giovinezza[77].

Durante i circa trent’anni di regno ferdinandeo, le soluzioni più interessanti relative all’iconografia della famiglia reale verranno non dai ritratti cosiddetti ufficiali, bensì da quelli realizzati negli interni dei saloni degli sfarzosi palazzi reali o all’aria aperta, durante l’esercizio dell’esibizione del potere. La prima tipologia, ideale per comunicare un senso domestico, intimo del carattere degli effigiati, viene a diffondersi già negli anni Venti[78]. Si va dai nipotini, gli ultimi figli di Francesco I, ripresi in un acquerello di Raffaele D’Auria[79] mentre danno prova di precoce virtuosismo musicale in una composizione irrigidita (fig. 27), alla cara nonnina, Maria Isabella, immersa nella solitudine del salotto biedermeier nel suggestivo dipinto di Vincenzo Abbati[80] (fig. 28). È, senza dubbio, Maria Cristina, dedita alla preghiera e alla vita contemplativa, il personaggio più adatto a questo tipo di composizione. E così la ritrae nel 1834 il De Falco, mentre volge gentile lo sguardo all’osservatore distogliendolo brevemente dalla lettura in un’elegante, azzurra sala della Reggia di Napoli[81] (fig. 29). Intenta a scrivere, la riprende poi Louis Nicolas Lemasle[82], in compagnia del consorte Ferdinando e del cognato Carlo, in un salottino con vista sul golfo, mentre un maggiordomo incede sulla sinistra per servire bevande calde (fig.  30). È dunque la compiaciuta quotidianità, spogliata di ogni fronzolo, a caratterizzare questo tipo di produzione con la quale i Borbone amano farsi raffigurare privatamente, tanto più rispondente al vero quanto lontana dall’aura celebrativa e fasulla dei ritratti ufficiali.

Di origine straniera, la tipologia del ritratto d’interni “privato” verrà tuttavia tralasciata dal re nel corso degli anni ’40, per cedere il passo ad una pittura d’esterni, “pubblica”, a carattere celebrativo e documentaristico[83]. Rifiutando nettamente i ritratti in forma allegorica o calati in determinati contesti storici, Ferdinando preferisce il paesaggio di composizione che celebri episodi contemporanei della vita del Regno, trattando avvenimenti di cronaca come veri e propri eventi storici, dalle parate militari ai tornei cavallereschi, dall’inaugurazione di ponti e ferrovie alla visita del Papa, fino agli eventi catastrofici, come il terremoto di Melfi. Al centro di tutto, vi è sempre il sovrano rigoroso e paterno. Già in voga con i suoi predecessori, che nel tempo hanno potuto contare sull’apporto di grandi paesaggisti narratori – Claude Joseph Vernet per Carlo, Antonio Joli e Jacob Phillipp Hackert per Ferdinando IV, Heinrich Schmidt per Murat – questo genere viene commissionato da Ferdinando II non soltanto ad artisti già al servizio di suo padre, come Salvatore Fergola, Pasquale Mattej[84], Giovanni Cobianchi[85], ma anche a personalità più innovative, come Nicola e Filippo Palizzi. Un’opera di Fergola come Il torneo dato da Ferdinando II davanti alla reggia[86] ben riassume questo genere di composizione, che mira a coniugare veduta paesaggistica e cronaca illustrata, nel tentativo di aggiornare un genere autocelebrativo richiesto dal sovrano in anni di particolare spinta reazionaria.

Ma la vera novità dell’iconografia borbonica dell’età di Ferdinando II è l’introduzione del ritratto fotografico nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie agli interventi del duca Borgia di Varona[87] prima e del francese Adolphe Bernoud[88] poi. A squassare l’ambiente ovattato della corte è dunque l’arrivo di un mezzo all’avanguardia che ci permette di conoscere le effettive fattezze della famiglia reale[89]. La dimensione fredda e distaccata dei ritratti ufficiali cede qui il passo ad un’atmosfera intima, quasi casalinga, così come la nota figura del rigido sovrano a quella di un protettivo padre di famiglia che, pur seguitando a farsi ritrarre in divisa, si rivela stanco e malato, con uno sguardo meno severo di quelli abitualmente mostrati nei dipinti. La fotografia registra senza filtri il suo corpo grasso, l’aspetto sofferente negli ultimi mesi di vita, persino il suo cadavere il giorno della morte. E assieme a lui, ritroviamo la moglie Maria Teresa, una donnetta pallida e triste, che sarebbe stato arduo anche per il più grande artista dei suoi tempi ritrarre in maniera regale, nonché i giovani principi, divertiti dal mezzo, dei quali non sono note, incredibilmente, figurazioni pittoriche.

È con l’iconografia dell’ultima coppia reale che il contrasto tra la vecchia pittura accademica e il moderno mezzo di riproduzione diventa clamoroso. Brevissimo è il periodo del regno di Francesco II[90] e di Maria Sofia di Baviera[91], meno di due anni, tanto che le uniche raffigurazioni si riducono ai soli ritratti ufficiali, eseguiti seguendo pedissequamente i dettami precedenti e riproponendo canoni iconografici e cromatici oramai non al passo coi tempi con quanto avviene nelle altre corti europee. Le tele rimasteci, realizzate in fretta, in maniera spiccia, senza slanci creativi, comunicano ancora oggi un senso di raffazzonato, di sbrigativo, di provvisorio. Forse soltanto quelle realizzate da Giuseppe Isè[92] possono dirsi degne di tal nome, nel loro pervicace rifarsi al modello di riferimento del ritratto francese alla Rigaud dei primissimi del Settecento a figura intera e in abiti da incoronazione (fig. 31). Ciò è evidente in particolar modo nella veduta scorciata dal basso, dalla ridondanza dei drappeggi e dalla caratteristica posa della gamba destra aggettante in avanti e del braccio destro appoggiato al bastone, come aveva ben illustrato a suo tempo Louis XIV. I restanti ritratti[93], come quelli realizzati dal pittore di corte, Camillo Guerra[94], e altri di autori molto minori non ancora identificati[95] (figg. 32-33), sono esangui dipinti che nulla aggiungono alla modesta galleria dei giovani sovrani.

            Se il ritratto pittorico ha lo scopo di migliorare e abbellire il giovane e impacciato Francesco, conferendogli autorità laddove nelle fotografie emerge in maniera vivida la sua timidezza, ciò certamente non può dirsi nel caso della di per sé già bellissima Maria Sofia, non ricompensata da un’adeguata iconografia pittorica[96]. Questo è d’altronde uno dei segni più evidenti della mediocrità della scena artistica gravitante attorno alla famiglia reale, non in grado cioè di rendere lo splendore di un soggetto che avrebbe fatto la felicità di tanti pittori in altri periodi e in altri contesti. Niente di quanto avviene fuori dal circuito dell’Accademia trapela in questi ritratti, neanche una lontana eco delle ricerche di quegli artisti che guardano alle esperienze di paesi oltre i confini del Regno, alla Toscana e alla Francia, come Morelli, Palizzi, Cammarano, Toma, Altamura, compromessi d’altronde da scelte politiche di avversione alla corona.

L’immagine pittorica di Maria Sofia risulta perciò sacrificante, quasi castrante per lei che era cresciuta nell’incantata e allegra corte bavarese, imprigionata ora nei triti e tristi modelli iconografici in voga a Caserta. Che differenza, tra il simpatico e a tratti kitsch – tipico bavarese – gruppo di fratelli eseguito da Stieler[97] nel 1854 e i ritratti che solo quattro anni dopo tenteranno di riprenderne le gentili fattezze realizzati nella corte partenopea! E quanto lontana è la sorella Sissi, ritratta in quegli anni dal re della ritrattistica europea, Franz Xaver Winterhalter[98]! Mai emersi fedelmente nei dipinti napoletani, lo spirito indomito e la beltà di Maria Sofia trasudano dalle tantissime fotografie realizzate tra Monaco, Napoli e Roma, nelle quali può farsi ritrarre senza impedimenti e come meglio desidera. Soltanto una volta fuori dall’opprimente clima culturale della corte, durante l’esilio romano, verrà ritratta da un suo conterraneo, August Heinrich Riedel[99], assorta nei propri pensieri, calata finalmente in un ambiente caldo e sensuale. Tutto sembra parlare del suo animo e dei suoi sentimenti, tutto partecipa alla passionalità e al turbamento interiore di una sovrana detronizzata, figura di eroina romantica come poche nella Storia dell’Italia del Mezzogiorno, a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo


[1] Fondamentali testi teorici per l’approccio allo studio di questo genere, sono: E. Castelnuovo, Il significato del ritratto pittorico nella società, in Storia d’Italia, V. I documenti, 2, Einaudi, Torino 1973, pp. 1033-1094; J.L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002; É. Pommier, Il ritratto. Storia e teorie dal Rinascimento all’Età dei Lumi, Einaudi, Torino 2003. Sul ritratto di corte, si veda in particolar modo: S. Perreau, Hyacinthe Rigaud, le peintre des rois, Les Nouvelles Presses du Languedoc, Montpellier 2004. Per uno sguardo più generico sull’argomento: S. Bern, F. Ferrand, Portraits de cour, Éditions du Chêne, Paris 2012.

[2] Quello dell’iconografia della dinastia dei Borbone di Napoli è a tutt’oggi un aspetto ancora poco studiato. Lavoro seminale è certamente la storica mostra curata da Ferdinando Bologna e Gino Doria nel 1954, nel cui catalogo diversi ritratti vengono per la prima volta scandagliati e, soprattutto, sottoposti ad una prima assegnazione a precisi artisti gravitanti attorno alla Corte napoletana. Cfr. Mostra del ritratto storico napoletano, catalogo della mostra (Napoli, ottobre-novembre 1954) a cura di G. Doria, F. Bologna, Ente provinciale per il turismo, Napoli 1954. Bisognerà tuttavia attendere il 1979 per incontrare un primo, fondamentale, saggio sulla ritrattistica borbonica, quello di Steffi Röttgen, all’interno del catalogo della mostra Civiltà del '700, voluta da Raffaello Causa e punto di partenza per tutti i lavori a seguire su questa scia: S. Röttgen, Iconografia borbonica, in Civiltà del '700 a Napoli 1734-1799, catalogo della mostra (Napoli-Caserta, dicembre 1979 – ottobre 1980), Centro Di, Firenze 1979, vol. II, pp. 387-405. Quello della Röttgen è, tuttavia, da considerare un lavoro solo parziale poiché, in conformità alla linea dettata dai lavori per la mostra, gli anni trattati abbracciano il periodo che corre dall’avvento di Carlo sul trono di Napoli alla fine del ’700. Le successive occasioni di approfondimento sono affidate esclusivamente a cataloghi di mostre, e alle relative schede delle singole opere. Su quelle ottocentesche, fondamentale è il lavoro che idealmente si riallaccia all’esposizione del ’79, Civiltà dell’Ottocento. Le arti a Napoli dai Borbone ai Savoia, catalogo della mostra (Napoli-Caserta, 25 ottobre 1997 – 26 aprile 1998), Electa Napoli, Napoli 1997. L’anno successivo, un interessante contributo “regionale” è quello che compare in I Borbone in Sicilia (1734-1860), catalogo della mostra (Catania, 24 aprile – 7 giugno 1998) a cura di E. Iachello, Maimone, Catania 1998. Un’occasione sprecata da un punto di vista scientifico sono le mostre organizzate dall’Associazione Campania 2000 in diversi siti della regione allo scopo di porre in luce il ritrovato interesse per la casa dei Borbone, come ad esempio quella allestita presso il Real Sito di San Leucio: Album di famiglia. Iconografia borbonica, catalogo della mostra (giugno 2000 – aprile 2001) a cura di R.M. Selvaggi, Associazione Culturale Campania 2000, Arti Grafiche Sud, Napoli 2000. Un decisivo apporto chiarificatore è stato tentato in occasione di un’altra rilevante mostra tenutasi a Caserta tra la fine del 2004 e i primi mesi del 2005: Casa di Re. Un secolo di storia alla Reggia di Caserta 1752-1860, catalogo della mostra (Caserta, 8 dicembre 2004 – 13 marzo 2005) a cura di R. Cioffi, Skira, Milano 2004. In occasione di un’esposizione relativa allo studio dei gioielli e dei preziosi legati alla famiglia reale, ci si è poi tornati ad occupare di ritratti borbonici, tralasciando tuttavia gli aspetti stilistici e formali: Gioielli Regali. Ori, smalti, coralli e pietre preziose nel Palazzo Reale di Caserta tra XVIII e XX secolo, catalogo della mostra (Caserta, 7 giugno – 30 ottobre 2005) a cura di V. De Martini, Skira, Milano 2005. L’esposizione più recente nella quale sono comparsi alcuni ritratti è Neoclassiche compostezze. Il gusto per l’antico nel real palazzo di Caserta, catalogo della mostra (Caserta, 21 dicembre 2011 – 25 marzo 2012) a cura di P.R. David, V. de Martini, L. Bellofatto, A. Fiadino, S. Villari, in «Siti reali e territorio. Storia restauro valorizzazione», 1, marzo 2012, Quaderni della Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Caserta e Benevento, Artemide, Roma 2012. Al di fuori dei cataloghi di mostre, l’unico contributo di reale interesse è stato un recente lavoro sulle sovrane borboniche che ha consentito un approfondimento anche della loro iconografia in pittura: All’ombra della corte. Donne e potere nella Napoli borbonica (1734-1860), a cura di M. Mafrici, Fridericiana Editrice Universitaria, Napoli 2010.

[3] Sul passaggio ad una nuova sensibilità artistica nelle scelte della corte borbonica agli inizi degli anni Ottanta del Settecento, si rimanda a F. Mazzocca, Un’officina internazionale: artisti stranieri alla corte di Ferdinando IV e Maria Carolina, in Casa di Re …, 2004, pp. 121-128.

[4] Maria Karoline Luise Josepha Johanna Antonia von Österreich (1752-1814), tredicesima figlia di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e di Francesco I (1708-1765), diviene regina consorte di Napoli e di Sicilia sposando Ferdinando IV nel 1768, all’età di sedici anni. Sulla sua iconografia, si vedano: S. Röttgen, Iconografia borbonica …, 1979, pp. 402-403; I. Cecere, L’immagine delle regine di Napoli nel Settecento: Maria Amalia e Maria Carolina, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 194-202.

[5] Il modello francese, di chiara ascendenza neoclassica, prevede solitamente l’effigiato a figura intera, riccamente abbigliato, circondato da arredo in stile impero, spesso ripreso con alle spalle una veduta del Golfo di Napoli e del Vesuvio, elementi geografici caratterizzanti del Regno conquistato. Tanti sono i ritratti di questo tipo, segnati da un’attenzione al dato psicologico, eseguiti da Gérard, Wicar, Descamps, Rolland, Calliano, Ingres. Su questo argomento, vedasi O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat. Storia di una collezione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2008.

[6] Ferdinando Antonio Pasquale Giovanni Nepomuceno Serafino Gennaro Benedetto di Borbone (Napoli, 12 gennaio 1751 – Napoli, 4 gennaio 1825), terzo figlio maschio di Carlo di Borbone (1716-1788) e di Maria Amalia di Sassonia (1724-1760), ad appena otto anni, nel 1759, diviene sovrano del Regno di Napoli col nome di Ferdinando IV, e di Sicilia, con quello di Ferdinando III. Dopo l’unione dei due Regni, nel 1816 acquisisce il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie. Molto vasta è la sua iconografia, che spazia da Liani a Mengs, da Bardellino alla Kauffmann. Vedasi, in proposito, S. Röttgen, Iconografia borbonica …, 1979, p. 401.

[7] Lucia Migliaccio (Siracusa, 19 luglio 1770 – Napoli, 26 aprile 1826), duchessa di Floridia, vedova di Benedetto Grifeo, principe di Partanna, sposa in seconde nozze Ferdinando di Borbone il 27 novembre 1814, neanche tre mesi dopo la morte di Maria Carolina. Sulla sua scarna iconografia, vedasi A. Di Benedetto, Le sovrane della seconda Restaurazione, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 213-216.

[8] Sull’interesse da parte di Ferdinando I nei riguardi della pittura francese, vedasi quanto scrive L. Martorelli, in La Reggia di Portici nell’Ottocento. Arredi e trasformazioni in epoca neoclassica, in La Reggia di Portici nelle collezioni d’arte tra Sette e Ottocento, Elio De Rosa, Napoli 1998, p. 27.

[9] Lemasle (1788-1870), giunto da Parigi a Napoli nel 1815, ritrae alcuni momenti della vita privata dei membri di casa Murat, come la visita agli scavi di Ercolano dei giovani figli. Negli anni Venti, sarà molto legato al principe di Salerno, Leopoldo (1790-1851), sedicesimo figlio di Ferdinando I e appassionato d’arte, che ritrarrà, ad esempio, in una visita all’Accademia di Francia. Al Musée Condé sono presenti diverse opere realizzate dall’artista e appartenute al principe di Salerno, ereditate poi dal genero, il duca d’Aumale. Parte della collezione finì in un’asta londinese, un’altra confluì al Museo di Chantilly. Nel 1824 avrebbe eseguito anche un ritratto del re, finito poi al Museo di Angers. Sulla vita dell’artista, si veda L. Martorelli, ad vocem Lemasle, Louis Nicolas, in L’arte in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, Electa, Milano 1991, vol. II, pp. 880-881. Del pittore, sottolineando la portata di modernità sugli sviluppi futuri della pittura a Napoli, è tornata recentemente ad occuparsene R. Cioffi, L’onda lunga del Decennio francese nella pittura napoletana dell’Ottocento. Note su Giuseppe Cammarano, Nicolas Lemasle e Vincenzo Abbati, in “Confronto”, n.s., Paparo, Napoli 2013, pp. 263-271.

[10] 1822-23, Napoli, Museo di Capodimonte. Sul dipinto, vedasi la scheda di M. Mormone, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 444, n. 17.13. Citando esplicitamente Le Sacre de Napoléon di David, Lemasle raffigura, con memoria fotografica, la cerimonia avvenuta il 25 aprile 1816 nella Cappella Palatina del Palazzo Reale di Napoli. Al centro del dipinto, si distinguono il re, Ferdinando I, il figlio Francesco e la nuora, Maria Isabella, mentre assistono al matrimonio della primogenita dell’erede, Carolina Fernanda Luisa, con il duca di Berry. Tra i tanti invitati e dignitari di corte, si riconoscono anche alcuni artisti legati all’Accademia, come Costanzo Angelini, Joseph Franque, Vincenzo Abbati, e lo stesso Lemasle. Su questo, R. Cioffi, L’onda lunga …, 2013, pp. 263-271.

[11] Sull’artista nativo di Sciacca (1766-1850), vedasi R. Cioffi, ad vocem Cammarano, Giuseppe, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 727-728. Sull’importanza nella scena artistica napoletana di Cammarano, vedasi F. Mendia, Sugli sviluppi del neoclassicismo a Napoli: Giuseppe Cammarano pittore, decoratore, e pittore figurista nei teatri reali, in “Bollettino d’arte”, 74-75, luglio-ottobre 1992, pp. 31-64. E, più recentemente, R. Cioffi, L’onda lunga …, 2013, pp. 263-271.

[12] 1815, Caserta, Palazzo Reale. Firmato e datato, il dipinto, comparso nelle mostre Album di famiglia e Gioielli Regali, non ha mai goduto di studi approfonditi. Attualmente, è esposto nelle retrostanze della Reggia di Caserta.

[13] Sono quello della nipote di Gioacchino, Clotilde Jeanne (1809), e quello della moglie, la regina Carolina (1813); ambedue le donne sono colte a leggere, la prima con lo sfondo del Vesuvio, la seconda con alle spalle una collina e un fiume. Il primo ritratto, firmato e datato, attualmente al Palazzo Reale di Caserta, è stato identificato da Luisa Martorelli in La Reggia di Portici nell’Ottocento …, 1998, pp. 27, 31, n. 36. Per una completa lettura dell’opera, si veda O. Scognamiglio, in Casa di Re …, 2004, p. 305, n. 4.37, e I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 141, 198. In relazione con questo dipinto, Scognamiglio cita un Ritratto di generale murattiano con la moglie e il figlio, ora alla Bibliothèque Marmottan di Boulogne-Billancourt, e ritenuto in precedenza opera di Descamps. Oltre alle affinità cromatiche e formali, l’attribuzione a Cammarano di questo triplice ritratto è condivisibile, non solo perché il pittore sembra qui anticipare quella teatralità dei gesti che caratterizzerà il Ritratto della famiglia di Francesco I nel 1820, ma anche perché confermerebbe la particolare predilezione dell’artista siciliano nel ritrarre all’aria aperta. O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, p. 198. Il secondo ritratto, firmato e datato, attualmente al Museo Napoleonico di Roma, in virtù delle dimensioni ridotte e di un’atmosfera di particolare intimità, è da ritenersi di destinazione privata e non dunque di committenza pubblica e ufficiale. Vedasi, al riguardo, O. Scognamiglio, in Casa di Re …, 2004, p. 306, n. 4.44.

[14] Sulla decorazione del pittore all’interno della Reggia di Caserta, si rimanda ad A. Di Benedetto, La quadreria dei re: promozione, gusto e celebrazione al palazzo reale di Caserta da Ferdinando I a Francesco II, in Casa di Re …, 2004, pp. 217-234, in part. pp. 218-220. E, più di recente, R. Cioffi, L’onda lunga …, 2013, pp. 263-271.

[15] Sul riconoscimento delle onorificenze e delle insegne regali, vedasi R. Pastorelli, Medaglistica e monetazione dal 1799 al 1860, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 241-255; G. Damiano, La distinzione dei re, in Gioielli Regali …, 2005, pp. 139-140.

[16] Sul dipinto, attualmente al Palazzo Reale di Caserta, vedasi O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 215-216.

[17] Nato a Chambery (1754-1822) e formatosi all’Accademia di Torino con Laurent Pécheux, si trasferisce nel 1784 a Roma, dove conosce la grande pittura davidiana e realizza diverse opere a carattere storico e mitologico. Cfr. L. Soravia, ad vocem Berger, Giacomo, in L’arte in Italia ..., 1991, p. 688; E. Taglialatela, ad vocem Berger, Giacomo, in La Pittura Napoletana dell’Ottocento, a cura di F.C. Greco, M. Picone Petrusa, I. Valente, Pironti, Napoli 1993, p. 100.

[18] Per qualsiasi riferimento all’Accademia di Belle Arti di Napoli, fondamentale è il testo di C. Lorenzetti, Due secoli di vita artistica nell’Italia Meridionale: l’Accademia di Belle Arti in Napoli 1752-1952, Le Monnier, Firenze 1952.

[19] Sul dipinto e sui riferimenti alla committente Carolina Murat, vedasi R. Cioffi, Rappresentazioni simboliche di Gioacchino Murat, re di Napoli: i miti di Marte e Astrea nella decorazione della Reggia di Caserta, in Les maisons de l’Empereur. Residenze di corte in Italia nell’età napoleonica, Atti del convegno (Lucca, 23-24 gennaio 2004), a cura di F. Ceccarelli, G. D’Amia, in «Rivista Napoleonica», 10/2004-11/2005, pp. 213-228. Sulla presenza di Berger nella Napoli murattiana, vedasi O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 216-218, 220.

[20] Entrambi di notevoli dimensioni – misurano infatti cm 220 x 142 – sono tutt’oggi nel Castello Ducale di Aglié. Sui due dipinti, poco apprezzati nell’ambiente artistico torinese del periodo, vedasi S. Pinto, Dalla Rivoluzione alla Restaurazione. Gli ex allievi dell’Accademia Reale: Berger, Revelli, Bonsignore, in Arte di corte a Torino da Carlo Emanuele III a Carlo Felice, a cura di S. Pinto, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1987, p. 110, figg. pp. 290-291. Nel 2001 sono stati studiati più approfonditamente in Il Castello di Aglié. Gli Appartamenti e le Collezioni, a cura di D. Biancolini, E. Gabrielli, Celid, Torino 2001, pp. 35, 90, nn. 107-108.   

[21] Oggi disperso, il dipinto, che avrebbe dovuto ritrarre la duchessa a grandezza naturale e in abito bianco da sposa, viene citato da Salvatore Di Giacomo nel suo lavoro su Ferdinando del 1923, in cui lo considera «di minor valore artistico del quadro di Camuccini, ma più interessante dal punto di vista storico e pel costume». S. Di Giacomo, Re Nasone di profilo. Ferdinando IV e il suo ultimo amore, a cura di P. Di Meglio, Imagaenaria, Ischia 2005, pp. 198-200.

[22] 1818, Napoli, Museo di San Martino. Il dipinto, attualmente nei depositi del museo, proveniente dagli uffici della Marina, è stato recentemente attribuito al Berger da Luisa Martorelli. Sul foglio, è chiaramente visibile la scritta: “Ordinanze Generali della Real Marina del Regno delle Due Sicilie. Primo Ottobre 1818”.

[23] Oltre che per i Murat, Camuccini (1771-1844) riceve commissioni anche da Napoleone, per il quale realizza due grandi tele, ora a Capodimonte. Nel 1826 verrà chiamato da Francesco I a riordinare la galleria di pittura del Real Museo. Sulla sua vita e sull’opera, si vedano: A. Zanella, ad vocem Camuccini, Vincenzo, in La pittura in Italia …, 1991, p. 730; L. Verdone, Vincenzo Camuccini pittore neoclassico, Edilazio, Roma 2005.

[24] 1820, Napoli, Palazzo Reale. Sull’opera, vedasi Vincenzo Camuccini (1771-1844). Bozzetti e disegni dallo studio dell’artista, catalogo della mostra (Roma, 27 ottobre – 31 dicembre 1978) a cura di G. Piantoni De Angelis, De Luca, Roma 1978, p. 94, n. 203. Camuccini avrebbe realizzato un’altra opera per il sovrano, che lo raffigura ai piedi della statua della Giustizia mentre mostra il nuovo Codice Civile tra i suoi ministri e alcune coefore. Vedasi in proposito Dall’Aspromonte a Porta Pia. I Borbone, Pio IX e Garibaldi. Memorabilia delle collezioni Carafa Jacobini, Ruffo di Calabria ed altre raccolte, catalogo della mostra (Scilla, 24 febbraio – 15 marzo 2011; Ariccia, 26 marzo – 1 maggio 2011) a cura di M. Carafa Jacobini, S. Marra, F. Petrucci, Gangemi, Roma 2010, p. 40, n. 22.

[25] Il quadro, esposto al Museo di San Martino di Napoli, venne realizzato nel 1790 dal pittore tedesco (1751-1818) in occasione delle nozze delle principesse reali Maria Teresa e Maria Luisa con gli arciduchi d’Austria Francesco e Ferdinando, unioni che avrebbero dovuto rinsaldare l’alleanza politica tra i Borbone di Napoli e gli Asburgo di Lorena. Il successo dell’operazione diplomatica era dovuto in gran parte proprio al Mastrilli (1753-1833), ambasciatore del Regno di Napoli a Vienna, qui ritratto in maniera trionfante, avvolto dal mantello rosso trapunto di gigli dorati dell’Ordine di San Gennaro, istituito da Carlo di Borbone nel 1738. Cfr. R. Pancheri, in Il Neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova, catalogo della mostra (Milano, 2 marzo – 28 luglio 2002) a cura di F. Mazzocca, E. Colle, A. Morandotti, S. Susinno, Skira, Milano 2002, pp. 485-486, n. IX.11. 

[26] Progettata dallo svizzero Pietro Bianchi (1787-1849), la chiesa verrà inaugurata soltanto nel 1836 da Ferdinando II. Camuccini realizzerà, per un ciclo di opere sulla vita del santo, il dipinto principale raffigurante San Francesco di Paola resuscita il giovane Alessandro, tra il 1830 e il 1835.

[27] 1820, Napoli, Museo Duca di Martina. Sul ritratto, vedasi L. Verdone, Vincenzo Camuccini …, 2005, p. 73. Il dipinto è stato restaurato e riportato nel 2008 all’interno della villa neoclassica progettata da Antonio Niccolini sulla collina del Vomero, attuale museo di maioliche e di ceramiche. Si veda, Lucia Migliaccio duchessa di Floridia. Il dipinto di Vincenzo Camuccini, a cura di L. Martorelli, Electa Napoli, Napoli 2008. In una lettera del 1° dicembre 1819, Camuccini scrive al fratello Pietro dei problemi che incontra nel realizzare il dipinto, dovuti in gran parte alla poca pazienza dimostrata dalla duchessa durante le sessioni di lavoro. Vedasi, C. Falconieri, Vita di Vincenzo Camuccini e pochi studi sulla pittura contemporanea, Stab. poligrafico italiano, Roma 1875, pp. 138-139, riportato di recente in A. Di Benedetto, Le sovrane …, 2010, p. 213. Alcune copie e bozzetti sono sparsi sul mercato antiquario e nei musei, come il Calvet di Avignone, che ne conserva una versione ridotta. Oltre a questo di Camuccini e a quello disperso di Berger, un altro ritratto potrebbe raffigurare l’ultima moglie di Ferdinando: quello presente nella camera da letto del Museo Praz, che il critico e collezionista romano aveva attribuito a Costanzo Angelini, nonostante sul verso del dipinto sia riportato “Ritratto di Lady Hamilton di Angelica Kaufmann”, cfr. Museo Mario Praz. Inventario topografico delle opere esposte, a cura di P. Rosazza Ferraris, Storia e Letteratura, Roma 2008, p. 155, n. cat. 369. Sull’attribuzione del quadro ad Angelini e sul presunto riconoscimento della Migliaccio nei tratti del volto della donna raffigurata, sono state avanzate delle perplessità: Le stanze della memoria. Vedute di ambienti, ritratti in interni e scene di conversazione dalla collezione Praz: dipinti ed acquarelli, 1776-1870, catalogo della mostra (Napoli, 4 giugno – 3 luglio 1998) a cura di S. Susinno, E. di Majo, Mondadori-De Luca, Milano-Roma 1988, p. 117, n. 4. Sul pittore Angelini (1760-1853), già ritrattista sia della regina Maria Carolina agli inizi del secolo, che di Giuseppe Bonaparte, di Gioacchino Murat e di sua moglie Carolina, vedasi R. Cioffi, ad vocem Angelini, Costanzo, in L’arte in Italia ..., 1991, p. 665.

[28] Gli ultimi anni di vita di Ferdinando sono caratterizzati da una copiosa produzione di intimi ritratti, per lo più miniature, che descrivono il suo volto ormai anziano e stanco, come l’acquerello su carta di Raffaele Giovine (1822) che lo ritrae, su uno sfondo di lavagna, di profilo in curiosi abiti borghesi e con il cilindro. Cfr. R. Middione, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 262, n. 12.9.

[29] Fergola (1799-1874), figlio del pittore hackertiano Luigi, è dal 1819 fotoreporter ufficiale del principe Francesco. Si rimanda a L. Martorelli, ad vocem Fergola, Salvatore, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 820-821.

[30] Vedasi A. Di Benedetto, La quadreria dei re …, 2004, p. 222.

[31] Post 1815, Caserta, Palazzo Reale. Il dipinto, menzionato nel «Diario di Roma» n. 41, del 23 maggio 1826, p. 4, viene ricordato nel 1997 da S. Susinno in Napoli e Roma: la formazione artistica nella «capitale universale delle arti», in Civiltà dell’Ottocento. Cultura e Società, 1997, pp. 83-91. L’opera, un tempo presente a Capodimonte, fu poi trasferita a Caserta assieme ad altri ritratti dei membri della famiglia reale. Vedasi in proposito, L. Martino, Arredi e decorazioni nella reggia di Capodimonte dai Borbone ai Savoia, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 30. Il ritratto è stato esposto nella mostra La Reggia e le Regine (28 novembre 2009 – 10 gennaio 2010), a cura della Collezione Tirelli Costumi, accanto all’abito originale appartenuto a Maria Carolina.

[32] Sulla vita di Marsigli (1790-1867), si rimanda ad A. Porzio, ad vocem Marsigli, Filippo, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 906-907; G. D’Alessio, ad vocem Marsigli, Filippo, in La Pittura Napoletana …, 1993, p. 142. Il pittore ha lavorato, giovanissimo, per lo storico e antiquario francese Aubin-Louis Millin de Grandmaison (1759-1818), dal 1812 a Napoli: ha infatti eseguito alcuni rilievi di monumenti funebri medievali presenti nelle chiese napoletane di San Giovanni a Carbonara e Donnaregina. Cfr. G. Toscano, Millin et «l’ecole» napolitaine de peinture et de sculpture, in Voyages et conscience patrimoniale. Aubin-Louis Millin 1759-1818 entre France et Italie, a cura di A.M. D’Achille, A. Iacobini, M. Preti-Hamard, M. Righetti, G. Toscano, Campisano 2011, pp. 387-411.

[33] Attualmente in collezione privata, il quadro, un tempo scomparso dopo la caduta dei napoleonidi, venne ritrovato da Mario Praz, che non riconobbe nelle fattezze della donna effigiata quelle di Carolina Murat. Vedasi, M. Praz, La filosofia dell’arredamento: i mutamenti nel gusto della decorazione interna attraverso i secoli dall’antica Roma ai nostri tempi, Longanesi, Milano 1964, p. 195. Carolina è ritratta da Ingres esattamente nello stesso studiolo che compare anche in un quadro del 1810 di Charles de Clarac. Sull’ambientazione e sulla genesi dell’opera, si rimanda a O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 163, 179-183; O. Scognamiglio, Carolina Murat, in All’ombra della corte …, 2010, p. 210. Sul rapporto del pittore con i committenti sovrani di Napoli, vedasi G. Vigne, Ingres e la Corte di Napoli, in Civiltà dell’Ottocento. Cultura e Società …, 1997, pp. 79-82.

[34] Francesco Gennaro Giuseppe Saverio Giovanni Battista di Borbone (Napoli, 19 agosto 1877 – Napoli, 8 novembre 1830). Se da bambino la sua immagine fu affidata a personalità quali la Kauffmann, la Vigée e Hackert, gli anni della crescita sono documentati da una serie di miniature che tra la fine del secolo e l’inizio del nuovo vengono riprodotte costantemente. È sorprendente notare come le sembianze del giovane principe mutino nel corso di pochissimi anni, e le fattezze del giovinetto biondino cedano il passo a quelle di un corpulento e sempre più grassoccio omuncolo, dai caratteristici basettoni detti favoriti.

[35] Sulla biografia della seconda moglie di Francesco I, María Isabel de Borbón y Borbón-Parma (Madrid, 6 luglio 1789 – Portici, 13 settembre 1848), figlia di Carlo IV di Spagna (1748-1819) e di Maria Luisa di Parma (1751-1819), vedasi S. de Majo, Maria Isabella, la “Regina Madre”, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 149-156. Sull’iconografia, si rimanda ad A. Di Benedetto, Le sovrane …, 2010, pp. 216-218. La prima consorte, Maria Klementine Josepha Johanna Fidelis (Poggio Imperiale, 24 aprile 1777 – Napoli, 15 novembre 1801), sposata nel 1797 e ritratta soprattutto dall’austriaco Joseph Hickel, muore agli inizi del secolo. Non viene dunque presa in considerazione in questo lavoro.

[36] Vedasi, a tal proposito, C. Napoli, Le Biennali Borboniche. Le esposizioni di Belle Arti nel Real Museo Borbonico 1826-1859, Catalogart, Genova 2009.

[37] Spinta alla pittura dalla madre Maria Luisa di Borbone, l’Infanta verrà nominata accademica benemerita il 1° luglio 1802, cinque giorni prima di compiere tredici anni e di sposare per procura il cugino napoletano Francesco. Sul rapporto dell’Infanta con la pittura e sui suoi primi ritratti spagnoli, vedasi C. González López, Maria Isabella di Borbone Spagna, in Napoli 1836. Le stanze della Regina Madre, catalogo della mostra (Roma, 21 novembre 2008 – 29 marzo 2009) a cura di P. Rosazza Ferraris, De Luca, Roma 2008, pp. 7-11. Sull’attività di pittrice e sui rapporti con il proprio maestro dal 1833 al 1838, il tedesco Carl Wilhelm Goetzloff, si veda P. Rosazza Ferraris, Napoli Biedermeier, in Napoli 1836 …, 2008, pp. 13-26. Alcune notevoli vedute realizzate dalla sovrana sono alle pp. 60-62, nn. 16 e 17.

[38] Le infelici silhouette della coppia reale vengono accentuate, al di fuori dei ritratti ufficiali, in altri tipi di composizioni, come quella di ambientazione storico-allegorica di Nicola De Laurentiis, dal sapore camucciniano, nota col nome Le Province napoletane al cospetto di Francesco I. 1828, Napoli, Museo di Capodimonte. Napier ha parlato a tal proposito di «a subject, in which it would have been hopeless to disguise the deformity of the Sovereign, and the infelicity of his government». F. Napier, Notes on modern painting at Naples, John W. Parker & Son West Strand, London 1855, p. 16. Sull’opera, si vedano: A. Porzio, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 462, n. 17.40; A. Di Benedetto, La quadreria dei re …, 2004, p. 222. Sull’artista teatino (1783-1832), vedasi L. Martorelli, ad vocem De Laurentiis, Nicola, in L’arte in Italia …, 1991, p. 793.

[39] 1820, Napoli, Museo di Capodimonte. Cfr. F. Bologna, G. Doria, in Mostra del ritratto …, 1954, pp. 67-68, n. 105; A. Porzio, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 469-470, n. 17.51. Di grande interesse è il disegno preparatorio firmato e datato 1819, nel quale si nota una maggiore freschezza e un’idea alquanto diversa. Cfr. R. Muzii, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 369, 372, n. 16.18. Così le applicazioni successive, come ad esempio il disegno a matita di Gennaro Maldarelli in cui un giovane e aitante Francesco rende omaggio al busto del padre attorniato dai figli. Cfr. U. Bile, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 380, n. 16.35. Tale composizione è ripresa poi, seppur con alcune differenze, da Giovine per un vaso miniato attorno al 1823 che fa pendant con uno analogo nel quale figura Ferdinando in carne e ossa attorniato dalla famiglia di Francesco, dalle sembianze molto più realistiche rispetto al precedente. Cfr. L. Arbace, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 95, n. 2.31.

[40] Sul celebre ritratto della Kauffmann, realizzato nel 1783 ed esposto al Museo di Capodimonte, proprio di fronte a quello di Cammarano, vedasi Angelika Kauffmann 1741-1807 Retrospektive, catalogo della mostra (Düsseldorf, 15 dicembre 1998 – 24 gennaio 1999), a cura di B. Baumgärtel, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern-Ruit 1998, pp. 276-285.

[41] Si riconoscono, da sinistra a destra: Maria Isabella, seduta, con in braccio la piccola Maria Amalia (n. 1818); Maria Antonietta (n. 1814); Luisa Carlotta (n. 1804) abbracciata alla sorella Maria Cristina (n. 1806); Ferdinando (n. 1810), duca delle Puglie, l’erede, cui viene affidato il compito di incidere la dedica al nonno; Antonio Pasquale (n. 1816), conte di Lecce, nell’atto di cingere il busto del re con una ghirlanda di fiori, retto dal padre Francesco, ancora duca di Calabria; Carlo Ferdinando (n. 1811), principe di Capua, con un cilindro simile a quello che indossa il re Ferdinando nella miniatura di Giovine, cinto al fratello minore Leopoldo (n. 1813), conte di Siracusa. All’appello manca la primogenita di Francesco, Carolina Ferdinanda Luisa (1798-1870), avuta dalla prima moglie, Maria Clementina, e andata in sposa, come abbiamo visto con Lemasle, nel 1816 al Duca di Berry (1783-1820), assassinato a Parigi nell’anno di realizzazione del ritratto. Dopo il 1820, la coppia reale avrebbe avuto altri quattro figli.

[42] I dieci ritratti singoli sono attualmente tutti esposti nella Reggia di Caserta.

[43] Molti, in effetti, i detrattori dell’opera, a cominciare dal velenoso Lord Francis Napier, che la descrive di «incomparable ugliness» e realizzata da un «bad painter of royaly and Olympus». F. Napier, Notes on …, 1855, p. 13. Esattamente un secolo dopo, Ferdinando Bologna e Gino Doria ne daranno un giudizio divertito e inequivocabile: «Non è un bel quadro, anzi è decisamente un brutto quadro, la bruttezza crescendo in proporzione geometrica con la vastità della tela. In formato ridotto sembrerebbero meno offensive le mostruose gambe del principe Francesco, con quegli altri attributi. […] Ma come immaginare un quadro più divertente di questo, documento solenne di spirito di famiglia, negazione insolente di ogni verità o verosimiglianza storica? Che mirabili invenzioni nel raggruppamento e negli atteggiamenti dei vari componenti la troupe! E quali stupefacenti particolari, come la fodera di seta del cappello a staio sullo scalino, o le dita a salsiccia del principe, o l’orlo ricamato dei pudichi calzoncini!». F. Bologna, G. Doria, in Mostra del ritratto …, 1954, pp. 67-68. Seppur qui anche lo sfondo naturalistico non sia dei più efficaci, nel 1826 Camuccini assumerà, controvoglia, la direzione della Scuola di Paesaggio, ruolo che manterrà fino al 1827, anno nel quale otterrà la cattedra di disegno. Oltre all’autocelebrazione della famiglia, e alla venerazione del sovrano ritratto nel busto, topos della ritrattistica neoclassica, è qui presente anche un’esaltazione delle Arti, nel riferimento al busto canoviano. Vedasi, in proposito, quanto scrive L. Martorelli, in La Reggia di Portici …, 1998, p. 28.

[44] 1825, Capua, Museo Campano. Cfr. A.M. Romano, in Album di famiglia …, 2000, p. 57, n. d.1.

[45] 1828, Caserta, Palazzo Reale. Firmato e datato, il dipinto, comparso di recente nella mostra Neoclassiche compostezze, è inedito agli studi.

[46] Nato a Gand (1786-1862), allievo di David a Parigi, viene nominato da Ferdinando I pittore di corte. 

[47] 1826, Caserta, Palazzo Reale. Presenti nelle mostre Gioielli Regali e Neoclassiche compostezze, entrambe ospitate all’interno della Reggia di Caserta, le due enormi tele (cm 320 x 247) sono sostanzialmente inedite agli studi. Si rimanda a: A. Porzio, La quadreria di Palazzo Reale nell’Ottocento. Inventari e museografia, Arte tipografica, Napoli 1999, pp. 214-215; C. Napoli, Le Biennali …, 2009, p. 24. Sulla presenza del trono, in legno intagliato e dorato: G. Narciso, in Neoclassiche compostezze …, 2012, p. 87, n. 50.

[48] Sulla vita del pittore (1798-1882), così determinante per la ritrattistica borbonica, si vedano: R. Cioffi, ad vocem De Falco, Carlo, in L’arte in Italia ..., 1991, p. 790; M.R. Guglielmelli, ad vocem De Falco, Carlo, in La Pittura Napoletana …, 1993, pp. 116-117.

[49] 1829, Caserta, Palazzo Reale. Cfr. A.M. Romano, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 472-473, n. 17.54; M.C. Minopoli, in Casa di re …, 2004, p. 308, n. 5.4.

[50] Sul grande pittore valenciano (1772-1850), vedasi J.L. Díez García, Vicente López (1772-1850). I. Vida y obra, Fundación Arte Hispánico, Madrid 1999.

[51] 1830, Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. Partiti da Napoli il 20 settembre 1829, i due sovrani arrivano a Madrid l’11 dicembre. Vi rimangono quattro mesi per poi ritornare nel Regno il 14 aprile 1830. L’esecuzione dei dipinti sarebbe dunque iniziata in loro presenza e l’elaborazione sarebbe continuata anche nei mesi successivi alla loro partenza. Sui ritratti e sulle altre versioni, vedasi J.L. Díez García, Vicente López (1772-1850). II. Catálogo razonado, Fundación Arte Hispánico, Madrid 1999, p. 97.

[52] Il riferimento è al ritratto che la pittrice francese aveva realizzato nel 1790 e oggi esposto al Museo di Capodimonte di Napoli.

[53] 1833, Napoli, Museo di San Martino. Sul minuscolo ritratto (2,18 x 1,59), olio su tela, realizzato dal miniaturista tedesco (nato a Düsseldorf e morto a Napoli nel 1836), vedasi R. Pastorelli, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 476, n. 17.59.

[54] Sul celebre ritratto di Gérard, replicato da Pierre-Edmond Martin, si rimanda a O. Scognamiglio, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat …, 2008, pp. 34, 80, n.111.

[55] Robusto, tendente alla pinguedine, Ferdinando Carlo Maria di Borbone (Palermo, 12 gennaio 1810 – Caserta, 22 maggio 1859), salito sul trono a soli vent’anni nel 1830, viene raffigurato sempre in atteggiamento serioso e dispotico, sia in pittura tramite una serie di tele di non eccelso livello e dalle convenzionali iconografie, sia in scultura con una messe di busti e di monumenti pubblici, fino alla fotografia che accoglie interessato anche a corte e che cristallizza il suo sguardo serioso ma già stanco e sofferente per i dolori fisici. In tutte le opere pittoriche che lo ritraggono sovrano, egli indossa sempre ed esclusivamente divise militari, da Lanciere o da Ammiraglio di Marina, come monito verso i propri sudditi in anni tormentati e di continue rivolte. Sull’iconografia di Ferdinando, rimando a G. Brevetti, Il Re Bomba e l’eclissi della natura. Una lettura iconografica delle raffigurazioni di Ferdinando II, in Per la conoscenza dei Beni Culturali. V. Ricerche del Dottorato in Metodologie conoscitive per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali, in corso di pubblicazione

[56] 1820 circa, Roma, Collezione privata. Il dipinto è comparso di recente nella mostra Dall’Aspromonte …, 2010, pp. 25, 38, n. 10. In questa sede, viene fatto notare che il piccolo Ferdinando ha al collo il Toson d’Oro, che risulta essergli stato conferito nel 1820, dunque all’età di dieci anni. Tuttavia, egli sembra, sia nell’aspetto generale che nel vestitino che indossa, dimostrare meno di dieci anni. Inoltre, nel dipinto di Cammarano, realizzato proprio nel 1820, appare ben più maturo che in questo ritratto. Per tali ragioni, l’opera di Copinet (1796-1846) potrebbe essere stata realizzata tra il 1815, anno del ritorno della famiglia a Napoli, e il 1820.

[57] In particolare, quelli di Luciano e Luisa. Si veda O. Scognamiglio, Dal palais de l’Elysée …, 2004, p. 303, n. 4.28.

[58] 1828, Collezione privata. Sul ritratto equestre di Murat, in realtà bozzetto conservato presso la Malmaison, vedasi O. Scognamiglio, in Casa di Re …, 2004, p. 306, n. 4.45. Sul pittore (1774-1833), L. Soravia, ad vocem Franque, Joseph, in L’arte in Italia …, 1991, p. 835.

[59] Sull’artista teramano (1800-1851), vedasi L. Martorelli, ad vocem Bonolis, Giuseppe, in L’arte in Italia ..., 1991, p. 706. Sull’attività teorica, vedasi G. Bonolis, Dell’arte pittorica. Opera postuma, Tip. Federico Vitale, Napoli 1851.

[60] Il salernitano Forte (1790-1871) è il campione del virtuosismo realistico, come dimostra il ritratto del Duca di Roccaromana, vincitore nel 1835 della medaglia d’oro all’Esposizione Borbonica. Sul pittore, vedasi L. Martorelli, ad vocem Forte, Gaetano, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 831-832.

[61] 1835 circa, Caserta, Palazzo Reale. Apparso nella mostra Neoclassiche compostezze, il dipinto firmato è inedito agli studi. Interessante, a tal proposito, sarebbe porlo in relazione con gli altri ritratti dello stesso autore.

[62] 1844, Caserta, Palazzo Reale. Apparso nelle mostre Album di famiglia e Gioielli Regali, è opera di un autore ancora oggi misconosciuto.

[63] 1851, Caserta, Palazzo Reale. Come il ritratto di Bonolis, anche questo è apparso nella mostra Neoclassiche compostezze ed è inedito agli studi. Firmato, è apparso alla Biennale Borbonica del 1851. L’artista napoletano (1806-1877), ritrattista di molti dignitari di corte, dal 1855, diverrà professore di Disegno elementare nelle Scuole per l’Ornato Dipinto. Vedasi C. Lorenzetti, L’Accademia …, 1952, pp. 115, 129.

[64] Nonostante il sovrano si interessi attivamente alla produzione artistica del Regno, come ricorda Napier: «His patronage has not been marked by great munificence or profound thought; he has never sought to emulate the prodigality of Hermitage and Versailles, or the learned creations of Munich and Berlin; but he is a purchaser of pictures, and it may be presumed that he can appreciate what he purchases». F. Napier, Notes …., 1855, p. 149. Per contro, una ricchissima produzione di disegni, vignette satiriche, immagini di propaganda antiborbonica fiorirà in gran parte dell’Europa, svillaneggiando il grasso e autoritario sovrano con irriverenti ed estrose caricature. A tal proposito, vedasi B. Schneider, Sulle barricate con Arlecchino e Pulcinella, in H. Daumier, Il ritorno dei barbari. Europei e “selvaggi” nella caricatura, a cura di A. Stoll, Mazzotta, Milano 1987,  pp. 159-167 e relative schede, pp. 169-175.

[65] Maria Cristina Carlotta Giuseppina Gaetana Elisa di Savoia (Cagliari, 14 novembre 1812 – Napoli, 31 gennaio 1836), figlia di Vittorio Emanuele I (1759-1824) e di Maria Teresa d’Asburgo-Este (1773-1832), è universalmente nota come la Regina Santa, virtuosa e morigerata in vita, miracolosa e venerata dopo la morte. La sua immagine desumibile dalle arti figurative non fa che confermare tale condizione, persino nei ritratti apparentemente più frivoli della giovinezza, quelli in cui è raffigurata in abiti sfarzosi, con preziosi monili indosso e all’interno di usuali apparati scenografici. È infatti nel suo sguardo e nelle pose gentili che vanno colte le sue alte virtù, che contrastano d’altronde non poco con il burbero e a tratti rozzo aspetto del consorte. È quasi inutile ricordare poi la messe di ritrattini devozionali e immaginette religiose create subito dopo la morte e fioccate per il resto del secolo. Sulla vita della sovrana, vedasi R. De Lorenzo, Una piemontese a Napoli: Maria Cristina di Savoia, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 157-167. Sulla sua iconografia, vedasi nello stesso volume A. Di Benedetto, Le sovrane …, 2010, pp. 218-219.

[66] Sul celebre ritratto della famiglia di Vittorio, realizzato nel 1817 dal torinese Bernero (1775-1848), ora al Castello di Racconigi, vedasi, Arte a di Corte a Torino …, 1987, p. 286.

[67] 1834, Trapani, Museo regionale Agostino Pepoli. Nella stessa sede, sono presenti anche i ritratti di Giovan Battista Fardella, ministro di Francesco I e di Ferdinando II, del 1838, e di Vincenzo Fardella, tra gli animatori dei moti insurrezionali siciliani, del 1848. Sul ritrattista palermitano (1780-1852), vedasi I. Bruno, Giuseppe Patania, pittore dell’Ottocento, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1993.

[68] 1835 circa, Napoli, Museo di Capodimonte.

[69] 1834, Caserta, Palazzo Reale.

[70] 1836 circa, Caserta, Palazzo Reale.

[71] 1850 circa, Caserta, Palazzo Reale.

[72] Maria Theresia Isabella d’Asburgo-Teschen (Vienna, 31 luglio 1816 – Albano, 8 agosto 1867), Arciduchessa d’Austria, primogenita dell’Arciduca Karl Ludwig (1771-1847) e della Principessa protestante Henriette Alexandrine von Nassau-Weilburg (1797-1829), il 9 gennaio 1837, all’età di vent’anni, sposa Ferdinando II, per prendere il posto della venerata Maria Cristina. A quell’uomo tanto adorato sia in vita che dopo la morte diede dodici figli e fino all’ultimo tentò di brigare affinché il diritto dinastico premiasse uno dei suoi ragazzi, e non l’erede legittimo, il figliastro Francesco. Per indole ed educazione, non amava la vita di corte né tantomeno essere ritratta. Non è un caso, infatti, che di lei si possiedano soprattutto immagini giovanili – create tra Vienna e Napoli – mentre della maturità si registra soltanto una certa quantità di fotografie nelle quali mostra un costante atteggiamento passivo e compassato, sempre seduta e poco serena in volto. È forse questa la caratteristica principale dell’intera iconografia di Maria Teresa, vale a dire proprio siffatta immagine di donna poco appariscente, quasi in contrasto con il ruolo di sovrana che aveva da ricoprire. Una sorta di ricorrente understatement che viene, paradossalmente, esaltato ed evidenziato dal mezzo fotografico. Per una breve biografia, vedasi L. Guidi, Una regina dal carattere “altiero ed insolente”: Maria Teresa d’Asburgo-Lorena, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 169-176.

[73] Daffinger (1790-1849), il più celebre ritrattista austriaco dell’Ottocento, è stato allievo di Füger e al servizio degli Asburgo per molti anni.

[74] Ender (1793-1854) è stato a lungo professore all’Accademia di Vienna dal 1829 al 1850.

[75] 1837, Capua, Museo Campano.

[76] 1837, Caserta, Palazzo Reale. Comparso nella mostra Gioielli Regali, è datato e firmato dallo sconosciuto Francesco Torr, del quale sono intuibili le capacità

[77] Fatta eccezione per un ritratto realizzato da Gennaro Ruo, sempre su modello di De Falco, in cui appare molto più matura, bisognerà aspettare, per rivederla, quelli fotografici della fine degli anni Cinquanta. 1850 circa, Trieste, Castello di Miramare. Sul napoletano Ruo (1812-1884), vicino al Bonolis e professore nella sua Scuola tra il 1848 e il 1849, vedasi L. Soravia, ad vocem Ruo, Gennaro, in L’arte in Italia ..., 1991, pp. 1001-1002.

[78] Anche alla corte borbonica si diffonde un genere molto in voga nell’aristocrazia e nell’alta borghesia del periodo. Vedasi Le stanze della memoria …, 1988.

[79] 1830, Caserta, Palazzo Reale. Ripresi all’interno di una sala del palazzo di Capodimonte, sono presenti, da sinistra a destra, gli ultimi figli di Francesco e di Maria Isabella: Teresa Cristina (n. 1822), futura imperatrice del Brasile; Maria Carolina (n. 1820) con l’arpa minore; Maria Antonietta (n. 1814) con l’arpa grande; il più piccolo, Francesco di Paola (n. 1827), conte di Trapani, con un cavalluccio di legno; Maria Amalia (1818) al pianoforte; Luigi (1824), conte di Aquila, con una sciaboletta. Cfr. F. Bologna, G. Doria, in Mostra del ritratto …, 1954, p. 70, n. 110; R. Muzii, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 380-381, n. 16.36. Sull’artista napoletano (1799-1859), si veda L. Martorelli, ad vocem D’Auria, Raffaele, in L’arte in Italia …, 1991, p. 787.

[80] 1836, Roma, Museo Praz. Cfr. P. Rosazza Ferraris, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, pp. 475, 477, n. 17.58. La stessa autrice, più recentemente, ha individuato il luogo di realizzazione, grazie alla veduta dal balcone, nell’ex Villa Gallo allo Scudillo, poi Villa Regina Isabella, e in seguito Villa del Balzo, appartenuta in seguito agli eredi del secondo marito della sovrana, Francesco del Balzo. Sempre in questa sede, si è filologicamente ricostruito il salottino di Maria Isabella, rinvenendo ed esponendo molti oggetti presenti nel dipinto, come i dipinti di Gonsalvo Carelli e Louis Paréz, e i tavolini di ebanisti napoletani, tutti in gran parte provenienti da collezioni private. Vedasi, inoltre, Le stanze della Regina Madre …, 2008, p. 28, n.1 e segg.

[81] 1834, Napoli, Palazzo Reale. Cfr. A. Porzio, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 470-472, n. 17.53.

[82] 1835 circa, Londra, collezione privata. Attribuito a Lemasle nel 1997 da Annalisa Porzio, il dipinto sarebbe ambientato, secondo la stessa, all’interno di una delle sale del Palazzo Reale di Napoli, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, pp. 444-446, n. 17.15. Recentemente, Rosanna Cioffi ha avanzato l’ipotesi che possa invece trattarsi, per le dimensioni ridotte della sala e per la prospettiva del Vesuvio intuibile dalla veduta sulla sinistra, di un ambiente di Palazzo Salerno, allora attuale sede della Real Marina. In favore di tale tesi concorrerebbe inoltre la presenza sulla destra del fratello di Ferdinando, Carlo, a quel tempo ammiraglio maggiore. Vedasi R. Cioffi, L'onda lunga …, 2013, pp. 263-271. Presso il Musée Condé di Chantilly, è conservato un dipinto di Lemasle intitolato Le marquis de Saint-Clair, e datato al 1816, quasi uguale a questo. Scomparsi Maria Cristina e il principe Carlo, restano identici il maggiordomo sulla sinistra e il personaggio al centro della scena; quest’ultimo ora indica ad un uomo seduto al posto della regina dei fogli sul tavolo, nella chiara intenzione di dettargli qualcosa da scrivere. Anche la stanza e la disposizione di mobili e oggetti è la stessa, tranne il quadro sullo sfondo: in quello di collezione privata, con Ferdinando II, è una marina; in quello del Condé, invece, è un ritratto. Probabilmente i due dipinti, di uguali dimensioni (cm 98 x 124), erano assieme nella collezione del principe di Salerno e, una volta smembrata, un pezzo finì al Musée Condé, e l’altro all’asta londinese, dove presumibilmente è stato comprato nel 1979; in seguito, nel marzo 2006, è stato battuto ad un’asta da Sotheby’s per 52800£.

[83] Sull’interesse del sovrano nei riguardi di questo genere di pittura si rimanda ad A. Di Benedetto, La quadreria dei re …, 2004, pp. 222-223.

[84] Su Mattej (1813-1879), vedasi L. Martorelli, ad vocem Mattej, Pasquale, in L’arte in Italia …, 1991, p. 912.

[85] Su Cobianchi (documentato dal 1814 al 1847), vedasi A.  Porzio, ad vocem Cobianchi, Giovanni, in L’arte in Italia …, 1991, pp. 764-765.

[86] 1847, Caserta, Palazzo Reale. Vedasi, al riguardo, L. D’Angelo, in Casa di Re …, 2004, pp. 311-312, n. 5.16.

[87] Sul primo autore di ritratti fotografici dei Borbone delle Due Sicilie, vedasi U. Di Pace, C. di Somma, Ritratti della famiglia reale dei Borboni delle Due Sicilie e della famiglia reale del Grandiuca di Toscana fatti dal Cavaliere di Compagnia di S.A.R. l’Infante D. Sebastiano Gabriele di Spagna Sig. D. Francesco Borgia di Varona, in Sicof ’83 Sezione culturale, diretta da L. Colombo, Milano 1983.

[88] Sul fotografo lionese (1820-1889), si veda Alphonse Bernoud, a cura di G. Fanelli, B. Mazza, Pagliai, Firenze 2012.

[89] Sul rapporto con la fotografia dei Borbone delle Due Sicilie, rimando a G. Brevetti, Lo sguardo reale. Appunti sulla fotografia borbonica, in Per la conoscenza dei Beni Culturali. IV. Ricerche del dottorato in Metodologie conoscitive per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali 2007-2011, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2011, pp. 181-192.

[90] Francesco d’Assisi Maria Leopoldo (Napoli, 16 gennaio 1836 – Arco, 27 dicembre 1894), ultimo Re delle Due Sicilie, nasce dalla breve unione tra il dispotico padre Ferdinando e la pia madre Maria Cristina. Per tutta la sua vita avrebbe oscillato tra questi due poli opposti, quello del comando risoluto e dispotico da una parte e quello della vita contemplativa e religiosa dall’altra, verso cui era maggiormente orientato. Anche nell’aspetto, Francesco era più somigliante alla madre, della quale pareva riprendere lo sguardo sommesso e l’atteggiamento timido e gentile, diversissimo da quello del padre, che era al contrario spavaldo e arrogante. Sia nelle fonti letterarie che in pittura che, raramente, in scultura e fino alla fotografia l’immagine di Francesco è sostanzialmente coerente e unitaria. I suoi capelli neri, i baffetti, gli occhi chiari dall’espressione triste, una certa rigidità nel porsi come soggetto da ritrarre divengono caratteristiche peculiari esteriori di un animo intrinsecamente chiuso e discreto e la vicinanza con l’avvenente e fotogenica consorte non fa che acuire tali imperfezioni, che fanno risultare nel complesso un po’ buffa e goffa la sua figura.

[91] Marie Sophie Amalie von Wittelsbach (Possenhofen, 4 ottobre 1841 – Monaco di Baviera, 19 gennaio 1925), ultima Regina del Regno delle Due Sicilie, è stata certamente la più bella e la più ammirata tra tutte le sovrane borboniche. Di indole vivace e avventurosa, educata in maniera libera e moderna, ha vissuto una vita straordinaria, piena di eventi, nonché lunga e movimentata. Tutte le fonti concordano nel descriverla come una donna di estrema bellezza e dal fascino magnetico, virtù queste che cozzavano non poco con la poca avvenenza e la rigidità del marito Francesco. Si veda L. Guidi, La Regina-soldato: Maria Sofia di Baviera, in All’ombra della corte …, 2010, pp. 177-187.

[92] 1859, Napoli, Museo di San Martino. Isé (1840 ca.-1867), formatosi con Guerra, morirà precocemente.

[93] Vedasi, ad esempio, quelli conservati nel Museo Campano di Capua. Cfr. L. Bellofatto, in Album di famiglia …, 2000, pp. 70-73.

[94] 1860, Collezione privata. Cfr. M. Pisani, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 514, n. 17.118. Definiti «due ritrattini, buttati giù alla brava» in F. Bologna, G. Doria, Mostra del ritratto …, 1954, p. 175, nn. 124, 125. Sul Guerra (1797-1874), si vedano: A. Porzio, ad vocem Guerra, Camillo, in L’arte in Italia …, 1991, p. 864; G. D’Alessio, ad vocem Guerra, Camillo, in La Pittura Napoletana …, 1993, p. 133.

[95] 1859, Caserta, Palazzo Reale.

[96] Un breve accenno all’iconografia è in A. Di Benedetto, Le sovrane …, 2010, p. 221.

[97] Joseph Karl Stieler (1781-1858), allievo di Gérard e autore, tra gli altri, del celeberrimo ritratto di Beethoven, realizza quest’opera nel 1854, anno in cui Sissi diviene Imperatrice d’Austria. Ciò spiegherebbe la sua assenza in tale ritratto e la “necessità” di esaltarne i fratelli in una composizione gradevole e aggraziata.

[98] Winterhalter (1805-1873), il più celebre ritrattista delle corti europee di metà Ottocento, raffigura Eugenia di Francia, Elisabetta d’Austria e la regina Vittoria

[99] Cfr. P. Fardella, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative …, 1997, p. 514, n. 17.117. pp. 514-515.

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Temi di Critica - numero 8

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