Nel 2007 Bruno Foucart, nella prefazione al testo di Emmanuelle Amiot-Saulnier dal titolo La peinture religieuse en France 1873-1879, ribadisce, a distanza di vent’anni dal suo fondamentale lavoro sull’arte sacra, il valore di quest’ultima come «l’un des fondamentaux des tout regards réconcilié avec un XIXè siècle accepté et désiré dans la totalité de ses postulations, fussent-elles apparemment contradictoires»[1]. Sdoganato in Francia, in Italia questo importante e cospicuo segmento è ancora oggi in buona parte negletto, nonostante l’ormai quarantennale percorso di riabilitazione dell’arte del secolo XIX da parte della critica, e la meritoria attenzione a quella ‘Accademia’ a lungo ignorata o segnalata come ciarpame antiquario. Una considerazione che cresce in misura esponenziale se si passa in rassegna la produzione postunitaria di area meridionale[2]. Salva l’attenzione al nume Morelli, i contributi sono limitati a sporadici e pioneristici interventi, circoscritti a commesse ecclesiastiche di qualche peso, e manca dunque un’organica bibliografia critica di riferimento. Allo stato degli studi s’impone dunque una sollecitazione delle ricerche in questa direzione che prenda in considerazione soprattutto le misconosciute storie regionali, puntando a ricomporre un tassello importante per la lettura dell’articolato mosaico storico-artistico del secolo in questione. Si deve inoltre considerare che per molti degli artisti, conosciuti sul mercato nazionale e internazionale attraverso la produzione laica, quella sacra occupa comunque una buona fetta dell’impegno professionale, e si lega spesso a incarichi ottenuti attraverso un giro di committenza di conveniente prestigio per la carriera di ciascuno di essi, alimentando un filone ricchissimo se pur disomogeneo nelle proposte.
Prendendo
in esame
il vasto
corpus
di opere
del
quarantennio
successivo
all’unificazione,
converrà
comunque
tenere
presenti
due
assunti:
il primo
è che,
nonostante
le nuove
indicazioni
della
cultura
artistica,
la
produzione
a
carattere
devozionale
realizzata
secondo
la
pratica
tradizionale
ha vita
lunga,
soprattutto
nell’ex
Regno
delle
Due
Sicilie,
dove la
prevedibile
interruzione
del
florido
circuito
arte-culto
giunge
in
ritardo
rispetto
al
contesto
nazionale.
Il
secondo
riguarda
la forte
influenza
esercitata
dagli
indirizzi
suggeriti
dal
magistero
morelliano
lungo un
quarantennio
di
storia
artistica,
la cui
ricezione
appare
però
spesso
incostante
e
talvolta
anche
superficiale.
Bisognerà
quindi
operare
una
distinzione
tra
quegli
artisti
comunque
legati a
un
morellismo
di
‘emulazione’,
e quelli
che
proveranno,
al
contrario,
a
svincolare
la
pittura
sacra
dall’eco
lunga
della
formula
purista
e
nazarena.
Ma la
chiave
di
lettura
di molte
opere
può
essere
trovata,
nel caso
di
quelle
che
rivelano
una
buona
qualità
formale,
ancora
nei
rapporti
degli
artisti
con i
suggerimenti
della
cultura
internazionale,
e nei
contatti
e scambi
intercorsi
con la
migliore
produzione
accademica
europea
tardo
ottocentesca.
Sono
esemplari,
rispetto
a tali
premesse,
gli
interventi
ordinati
per la
Basilica
pontificia
di San
Sossio a
Frattamaggiore
– attivo
centro
dell’entroterra
napoletano
– e
realizzati
in un
arco di
tempo
molto
ampio,
tra il
1873 e
il 1895,
per i
quali
vennero
reclutati
gli
artisti
più
attivi
sul
fronte
della
produzione
sacra.
Così
come
oggi si
presenta,
lo
spazio
della
Cappella
dedicata
a San
Sossio,
completato
tra il
1892 e
il 1895
nel
corso
dei
restauri
alla
basilica
partiti
nel
1891,
rispecchia
a pieno
la
cultura
eclettica
fin de
siècle,
con un
efficace
campionario
artistico
della
coeva
produzione
meridionale.
Tutto
l’ambiente
è
informato
al gusto
neobarocco,
esaltato
dalle
tempere
di
Gaetano
D’Agostino
negli
spicchi
della
cupola,
dall’altare
policromo
e dalla
profusione
di marmi
pregiati
con
capitelli
in oro,
e di
stucchi
preziosi
che
servono
ad
enfatizzare
le
grandi
tele
poste
sull’altare
e sulle
pareti
laterali,
dove
sono
anche le
teche
che
ospitano
le
reliquie
dei
santi
Severino
e Sossio,
traslate
in
Basilica
nel 1807[3].
I
pittori
che
firmarono
i
dipinti,
Federico
Maldarelli
da
Napoli,
Gaetano
D’Agostino
da
Salerno
e
Saverio
Altamura
da
Foggia,
sono
portavoci
di un
comune
background
culturale,
vicini
per
formazione
e legati
tutti,
per
quanto
in
misura
diversa,
dall’ammirazione
o
dall’emulazione
per
Domenico
Morelli.
Tuttavia
nel caso
di
Maldarelli,
che
firma
l’opera
più
antica
posta
sull’altare,
La
sepoltura
di San
Sossio
martire,
datata
al 1873
perché
commissionata
per il
primo
allestimento
della
cappella,
è il
ricorso
ai
moduli
formali
d’Oltralpe,
come
vedremo,
a
costituire
il
fertile
repertorio
per la
costruzione
della
solenne
rappresentazione.
L’autore
sceglie
«il
momento,
quando
son resi
gli
ultimi
onori al
corpo
del
santo,
vestito
dei suoi
abiti
sacerdotali,
e
disteso
nella
sua
nicchia
con una
riga di
sangue
al collo
che
mostra
come la
testa
sia
staccata
dal
busto: i
fedeli
pregano,
ed il
fossore
è lì
pronto a
chiudere
la
nicchia
colla
sua
lapide
di
marmo»[4].
L’accurata
descrizione,
pubblicata
a
distanza
di
vent’anni
dall’esecuzione
del
quadro
dall’anonimo
articolista
nel 1892
in
occasione
della
nuova
sistemazione
nella
cappella
ricostruita,
è carica
di
valenze
emotive
e
alimenta
ancora
nel
lettore
la forte
suggestione
popolare
esercitata
dalla
storia
del
martire.
È un
dipinto
di
grande
impatto
visivo,
questo
del
Maldarelli,
che
catapulta
l’artista
napoletano
fuori
dalla
produzione
sacra
corrente,
la quale
solo
qualche
anno
prima,
nel
1870,
aveva
trovato
nuovi
stimoli
nell’Esposizione
di arte
cristiana
a Roma
promossa
dalla
politica
culturale
di Pio
IX, che
intendeva
rilanciare
l’arte
religiosa
prima
che gli
eventi
precipitassero
con la
Breccia
di Porta
Pia.
In
questi
anni
Maldarelli,
nato nel
’26 e
figlio
di
Gennaro
pittore
di corte
di
scarse
capacità
artistiche
ma tra i
più
favoriti
dell’entourage
borbonico,
è
all’apice
della
carriera.
Nel 1870
è stato
eletto
vicepresidente
al Primo
Congresso
Artistico
italiano
di Belle
Arti a
Parma;
quindi
diventa
membro
del
Consiglio
direttivo
dell’Accademia
di Belle
Arti di
Napoli
durante
la
presidenza
Morelli,
che
Federico
affiancherà
in
qualità
di
ispettore
onorario
anche
nei
lavori
per la
Pinacoteca
di
Capodimonte,
di cui
Morelli
è il
Direttore
responsabile.
Oltre ai
riscontri
sul
mercato
italiano,
le opere
di
Maldarelli
raccolgono
grande
successo
all’estero,
come
attestano
le
partecipazioni
alle
Esposizioni
di
Parigi e
di
Berlino,
e la
commissione
di
numerosi
quadri
da parte
di
collezionisti
tedeschi
e
inglesi,
documentati
dal
carteggio
dell’artista
conservato
presso
l’archivio
dell’Accademia
napoletana[5].
I suoi
dipinti
più
richiesti
sono
quelli
di gusto
neopompeiano,
secondo
il
fortunato
filone
inaugurato
proprio
da
Domenico
Morelli
nel 1861
all’Esposizione
nazionale
di
Firenze,
e già
prima di
lui da
Jean-Léon
Gerôme e
Thomas
Couture.
Ed è
proprio
la
pittura
dei
pompiers
quella
nella
quale si
devono
rintracciare
le
coordinate
del
nostro
dipinto.
Maldarelli
ebbe
modo,
infatti,
di
confrontarsi
in più
occasioni
con
l’ambiente
francese,
come si
evince
dal
carteggio
già
menzionato;
durante
un
soggiorno
a Parigi
nel ’66,
con la
partecipazione
all’Esposizione
universale
organizzata
nella
capitale
francese
nel ’67,
poi al
Salon
del
1880,
dove
espose
due
dipinti,
L’assomption
e La
Sortie
du Bain.
E già
prima a
Roma,
durante
gli anni
del
Pensionato
vinto
assieme
a
Morelli
tra il
’49 e il
‘55,
quando
fu in
contatto
con quel
giro
culturale
che
legava
gli
artisti
provenienti
da tutta
Italia
ad
alcuni
dei
futuri
pompiers
in
soggiorno
di
studio
nella
capitale
universale
delle
arti.
Qui nel
1854
William-Adolphe
Bouguereau
aveva
portato
a
termine
Il corpo
di Santa
Cecilia
condotto
nelle
catacombe,
potente
traduzione
dell’episodio
del
trasporto
della
martire
in San
Callisto,
distrutto
nel 2003
nell’incendio
del
Museo di
Lùneville.
Il
dipinto
aveva
colpito
già
Morelli,
che ne
aveva
tratto
un
bozzetto
d’ispirazione
per la
prova di
pensionato
del ’55,
per la
quale
poi
realizzò,
com’è
noto, la
celebre
tela con
Gli
iconoclasti,
presentata
all’Esposizione
borbonica
a fianco
alla
Santa
Gliceria
che
converte
e
battezza
il suo
carceriere
del
Maldarelli,
un
soggetto
legato
anch’esso
alla
persecuzione
cristiana,
ma di
impostazione
ancora
tutta
neoclassica.
Il tema
della
catacomba
era
stato
già
adoperato
dal
maestro
nel
Neofita
cristiano,
anche
questo
un
saggio
di
pensionato,
pregno
di
misticismo
cattolico,
al cui
giro
culturale
appartiene
anche il
dipinto
di
Maldarelli
La
comunione
di Santa
Vittoria
nelle
catacombe,
memore
del già
citato
dipinto
di
Bouguereau.
La
pittura
sacra di
Morelli
si
sarebbe
evoluta
tuttavia
verso
una resa
formale
diversa,
non
finita,
alimentata
dalla
fede
profonda
e
nutrita
in
seguito
di umori
orientalisti.
Dimensioni
che non
appartengono
al
Nostro.
Ancora a
distanza
di
vent’anni,
Maldarelli,
legato
anch’egli
intimamente
al credo
cristiano,
resta
ancorato
al
modello
accademico
tardo
neoclassico,
che da
scolastico
agli
esordi
della
carriera
(si veda
la tela
con Gesù
in casa
di Marta
e Maria,
parte di
un ciclo
per
Ferdinando
II
destinato
alla
chiesa
di
Sant’Antonio
da
Padova a
Caserta)
diviene
maturo e
raffinato
nelle
prove
più
accurate,
conservando
comunque
la
stessa
definizione
maniacale
delle
figure e
delle
cose
rappresentate;
come nel
caso
della
pala di
Frattamaggiore,
quando,
pur con
qualche
umore
caravaggesco,
si
mescola
a
memorie
rinascimentali,
secondo
una
linea
che da
Gerôme
risale
al
grande
maestro
di
Montauban,
Jean-Auguste
Dominique
Ingres,
autore
nel 1820
della
celebre
e
‘rivoluzionaria’
Consegna
delle
chiavi
del
Paradiso
a San
Pietro
per la
chiesa
della Ss.
Trinità
dei
Monti a
Roma,
divenuta
fonte di
ispirazione
per
tanti
artisti
impegnati
nella
produzione
sacra di
quegli
anni[6].
Un’opera
che
Maldarelli
aveva
mostrato
di
conoscere
già al
tempo
della
tela con
la
Comunione
di Santa
Vittoria,
nella
quale
aveva
citato
la
figura
dell’apostolo
a mani
giunte.
La
sepoltura
di San
Sossio è
recensita
e
apprezzata
dalla
critica
nazionale
e
internazionale
come
«uno dei
suoi
quadri
meglio
riusciti
che
conferma
la sua
bella
riputazione»[7]
e ancora
nel 1900
sarà
presentata
all’Esposizione
di
Berlino,
riscuotendo
nuovi
consensi.
L’opera
aveva
donato a
Maldarelli
una
notevole
fama,
consentendogli
di
divenire
richiestissimo
dalla
committenza
ecclesiastica.
Tuttavia
quest’aspetto
della
sua
produzione
ebbe
esiti
discontinui,
più
felici
quando
l’artista
perseguì
ancora
gli
indirizzi
pompier
(le due
grandi
tele
realizzate
nel 1889
per la
cappella
della
Casa
ducale
di
Casalnuovo
nella
chiesa
dei SS.
Severino
e Sossio
a
Napoli,
La
Visitazione
e La
Presentazione
di Maria
al
tempio[8]),
meno
brillanti
in opere
nate da
commesse
pure di
grande
prestigio,
come la
pala
neosettecentesca
con la
Vergine
col
bambino
e santi,
portata
a
termine
nel 1888
per il
Santuario
di
Pompei,
dove
Maldarelli
dipinse
anche la
Santa
Caterina
da Siena
che
riceve
le
stimmate
e
ottenne
il
delicato
incarico
del
restauro
della
preziosissima
Madonna
del
Rosario
posta
sull’altare
del
tempio
mariano.
Come
abbiamo
già
accennato,
circa
vent’anni
dopo la
realizzazione
del
dipinto
di
Maldarelli,
la
Cappella
è
sottoposta
a lavori
di
ampliamento,
poiché
si pensa
di
creare
un
ambiente
più
idoneo
all’accoglienza
delle
preziose
reliquie.
Per la
decorazione
della
cupola
la
scelta
ricade
su
Gaetano
D’Agostino,
accorsatissimo
pittore
di
origini
salernitane.
L’artista
ha già
lavorato
con
successo
in
numerose
chiese
della
Campania,
collaborando
con
Morelli
e il
genero
di
questi,
il
siciliano
Paolo
Vetri,
strenuo
sostenitore
della
rinascita
della
decorazione
a fresco
e
attivissimo
in
numerose
chiese
dell’Italia
meridionale.
A Napoli
si
devono
al
pennello
del
salernitano
gli
interventi
nella
splendida
chiesa
barocca
del Gesù
vecchio,
dove nel
1887,
proprio
sotto la
direzione
del
maestro,
affianca
Paolo
Vetri e
il
romano
Vincenzo
Paliotti
negli
interventi
per il
transetto
e per la
cappella
di S.
Ignazio
di
Loyola.
In
questa
impresa,
analoga
a quella
replicata
anche
l’anno
successivo
nella
concattedrale
di
Castellammare
di
Stabia a
fianco
del
Paliotti,
D’Agostino
appare
assai
vicino
al
maestro
napoletano,
nelle
figure
degli
apostoli
nei
sottarchi,
che
rievocano
il gusto
neobizantino
della
Cappella
Nunziante
a
Napoli,
decorata
da
Morelli
nel ’59,
e nei
peducci
della
cupola
con gli
evangelisti,
mutuati
secondo
un
modello
ricorrente
nella
pittura
di
Morelli
e in
quella
del
Vetri.
Un
modello
che
torna
anche
nella
chiesa
di Gesù
e Maria
sempre a
Napoli,
dove
D’Agostino
decora
la
cappella
dedicata
ai santi
Pietro,
Paolo e
Andrea.
L’adesione
alla
pittura
di
Morelli
resta
tuttavia
di
superficie,
come si
evince
anche
dalla
grande
pala
commissionata
al
D’Agostino
dalla
potente
arciconfraternita
dell’Opera
di San
Giuseppe
vestire
i nudi
per la
chiesa
omonima
a
Napoli,
nella
quale
l’artista
aveva
già
realizzato
la
decorazione
degli
interni[9].
Nel
Transito
di San
Giuseppe,
firmato
e datato
al 1888,
il
tentato
realismo
della
raffigurazione
del
santo
nel
trapasso
alla
morte
cede al
pietismo
di
convenzione
nella
figura
del
Cristo e
cerca
l’aggiornamento
del
modello
settecentesco
nei
dettagli
decorativi
– le
rose
sparse
sulla
scalea –
desunti
dal
moderno
repertorio
devozionale
del
Morelli
(si
pensi
all’elegante
e
raffinata
Madonna
dalla
scala
d’oro
realizzata
dal
Maestro
nel 1875
per
Pasquale
Villari).
Privi di
grinta
sono gli
interventi
del
salernitano
per il
Cappellone
di
Frattamaggiore.
Nella
Gloria
di San
Sossio e
nell’Esaltazione
della
Croce
D’Agostino
squaderna
un
repertorio
d’occasione,
con un
impegno
che
appare
assai
meno
convinto
anche
della
pur
discutibile
traduzione
iperrealista
adottata
qualche
anno più
tardi
nel
grande
affresco
documentario
posto
nella
controfacciata
del
Duomo di
Nola,
tempio
riedificato
in forme
neorinascimentali
subito
dopo
l’incendio
del 1891
che il
pittore
salernitano
rievoca
con la
forza
del
racconto
e della
suggestione
popolare.
[1] B. Foucart, Une peinture toujours ressuscitée, Préface in E. Amiot-Saulnier, La Peinture religieuse en France 1873-1879, Musée d’Orsay, Paris 2007, p. 6. Per Foucart si veda B. Foucart, Le renouveau de la peinture religieuse en France (1800-1860), Arthéna, Paris 1987.
[2] Nel 2008 Caterina Bon Valsassina ha provato a fare il punto sulla situazione degli studi in questo ambito di ricerca, fermando però al 1870 il margine entro il quale ancora oggi continua
ad orientarsi l’azione della critica, a partire dai saggi di Giovanna Capitelli pubblicati nella collana a cura di C. Sisi, L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Si vedano C. Bon Valsassina, La pittura sacra in Italia nell’Ottocento: una proposta di classificazione, in La pittura di storia in Italia 1785-1870. Ricerche, quesiti, proposte, a cura di G. Capitelli e C. Mazzarelli, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (MI) 2008, pp. 211-223; G. Capitelli, Quadri da altare: pittura sacra a destinazione pubblica, in C. Sisi (a cura di), L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Il Neoclassicismo (1789-1815), Electa, Milano 2005, pp. 41-52; La pittura religiosa, in C. Sisi, L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Il romanticismo (1815-1848), Electa, Milano 2006, pp. 43-55; La pittura sacra, in C. Sisi, L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Il realismo (1849-1870), Electa, Milano 2007, pp. 47-60.
[3] Si veda a questo riguardo P. Saviano, San Sossio, in Bicentenario della traslazione dei corpi dei santi Sossio e Severino da Napoli a Frattamaggiore, pubblicazione promossa dall’Istituto di Studi Atellani e dalla Basilica Pontificia di San Sossio, Tip. Cirillo, Frattamaggiore 2007, p. 14.
[4] Cfr. “L’Illustrazione popolare”, vol. XXIX, n. 15, 10 aprile 1892, pp. 242-243.
[5] Cfr. Archivio storico dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, serie Professori, sottoserie fascicoli personali, fascicolo 79, Maldarelli Federico. Per informazioni di carattere generale sulla vita del pittore si veda R. Dinoia, Maldarelli Federico, ad vocem in Dizionario biografico degli italiani, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Roma 2007, vol. 68; e I. Valente, Maldarelli Federico, ad vocem in Dizionario biografico degli artisti, in F. C. Greco, M. Picone Petrusa, I. Valente, La pittura napoletana dell’Ottocento, Tullio Pironti editore, Napoli 1993. La figura di Maldarelli attende tuttavia ancora una completa ricostruzione critica.
[6] La tela aveva suscitato più di uno sconcerto nella critica contemporanea per le figure «pétrifiés», così lontane dalla grazia preraffaellita dei nazareni. Ma, come ebbe a dire Foucart, «Ingres réinvente un Raphaël qui, par-delà Masaccio et Giotto, le vrais Préraphaélites selon Ingres, assumerait l’heritage paléo-chrétien». Cfr. B. Foucart, Le renoveau de la peinture religieuse en France (1800-1860), Arthéna, Paris 1987. La tela fu sostituita, com’è noto, da una copia nel 1841 e trasferita nella sede attuale, il Museo di Montauban, in Francia.
[7] Cfr. “L’Illustrazione popolare”, 1892, p. 242.
[8] Cfr. L. Giusti, Chiesa dei Santi Severino e Sossio, in Napoli sacra, 6° itinerario, Elio De Rosa editore, Napoli 1994, pp. 376-377.
[9] La mano del D’Agostino è documentata dalle carte conservate presso l’archivio dell’Arciconfraternita e dai mandati di pagamento, poiché oggi, a seguito di prolungate infiltrazioni d’acqua, le pitture sono quasi del tutto illeggibili.
[10] Cfr. La patria, l’arte, la donna. Francesco Saverio Altamura e la pittura dell’Ottocento in Italia, a cura di C. Farese Sperken, L. Martorelli, F. Picca, Claudio Grenzi editore, Foggia 2012.
[11] Va ricordato a questo proposito il pioneristico contributo di Christine Farese Sperken sul ciclo di tele realizzato da Altamura nella Chiesa parrocchiale di Castrignano de’ Greci in provincia di Lecce. Si veda C. Farese Sperken, Francesco Saverio Altamura a Castrignano de’ Greci: un aspetto della pittura religiosa del tardo Ottocento, in “Bollettino d’arte”, n. 15, luglio-settembre 1982, pp. 115-126.
[12] La notizia è in B. Longo, Guida del santuario e della nuova Pompei, Scuola tipografica editrice Bartolo Longo, Pompei 1896, p 72.
[13] Nella stessa esposizione Altamura presentò anche il dipinto Festa di carnevale al tempo di Girolamo Savonarola. Cfr. Exposition universelle internationale de 1878 à Paris. Catalogue officiel publié par le commissariat général, Tome 1, Imprimerie Nationale, Paris 1878, p. 223, nn. 3 e 4, Jésus, lié, écoute la lecture du jugement qui le condamne; Le Carnaval à Florence au temps de Gèrome Savonarole. Il dipinto con Gesù era stato già esposto alla Promotrice napoletana del 1877, mentre il Carnevale all’Esposizione nazionale di Napoli dello stesso anno. Tra il ’77 e il ’78 la carriera altalenante di Altamura attraversò un periodo ricco di rinnovata proposizione, come acutamente intuì la Lorenzetti, dando alla luce La monacazione di Maria Spinelli, «dipinto con vigore singolare», e l’«eccezionale» Où va se nicher l’amour, di atmosfere ‘tomiane’. Cfr. C. Lorenzetti, Francesco Saverio Altamura, in “Japigia”, a. VIII, fasc. II, 1837, p. 221.
[14] Tra questi Edoardo Dalbono, Camillo Miola, Edoardo Tofano, Gustavo Nacciarone, autori, con Morelli e Altamura delle otto tele collocate lungo la navata centrale.
[15] Cfr. Les Beaux-Arts à l’Exposition Universelle de 1878 par M. C. Blanc de l’Académie Française et de l’Académie des Beaux-Arts, professeur d’Estétique au Collège de France, Librarie Renouard, Paris 1878, p. 317.
[16] L’iscrizione posta sulla cornice recita: «Matteo Schilizzi donava alla chiesa di Valle di Pompei questo dipinto di Saverio Altamura in memoria filiale di Fanny Bougleux – Giugno 1887». Schilizzi, trasferitosi a Napoli da Livorno fu committente facoltoso e originale, noto soprattutto per il faraonico ed eclettico Mausoleo posto sulla collina di Posillipo e commissionato all’architetto Alfonso Guerra. Cfr. G. Alisio, Architettura dell’800 a Napoli: il mausoleo Schilizzi, in Scritti di Storia dell’Arte in onore di Raffaello Causa, Electa Napoli, Napoli 1988; .A. Di Benedetto, Artisti della decorazione, pittura e scultura dell’eclettismo nei palazzi napoletani fin de siècle, Electa Napoli, Napoli 2006, p. 31.
[17] Cfr. F. S. Altamura, Vita ed Arte, Napoli 1896, ripubblicata in S. Altamura, pittore-patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica, nei documenti, a cura di M. Simone, prefazione di B. Molajoli, Studio Editoriale Dauno, Foggia 1965.