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in questo numero contributi di Mario Alberto Pavone, Priscilla Manfren, Giada Centazzo, Michele Sbacchi, Laura Pellicelli.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Leonora Carrington e Remedios Varo. Due artiste surrealiste tra Europa e Messico di Giada Centazzo

Hay en México dos artistas admirables, dos hechiceras hechizadas: jamás han oído las voces del elogio o reprobación de escuelas y partidos… Insensibles a la moral social, a la estética y al precio, Leonora Carrington y Remedios Varo atraviesan nuestra ciudad con un aire de indecible y suprema distracción. ¿A dónde van? Adonde las llaman imaginación y pasión.

Octavio Paz[1]

Nelle vibranti parole del premio Nobel per la Letteratura Octavio Paz – che fu loro amico nel Messico degli anni ’50 – si risolve brillantemente tutta la singolare parabola umana ed artistica di Leonora Carrington e Remedios Varo, pittrici europee per nascita, latinoamericane per adozione, surrealiste loro malgrado.
Nate in famiglie altolocate, conservatrici e ultracattoliche, figlie di padri ambiziosi e madri repressive, Leonora Carrington (Lancaster 1917 – Città del Messico 2011) e Remedios Varo (Anglès 1908 – Città del Messico 1963) crescono con una spiccata immaginazione che nutre fin dall’adolescenza i loro primi cimenti artistici, in aperta reazione alle costrizione di classe e di genere loro imposte. Entrambe sono attratte dal mitico e dal mistico, dal soprannaturale e dallo spirituale.
Nonostante la disapprovazione delle rispettive famiglie di provenienza, le due giovani ricevono una solida formazione accademica in istituzioni di prestigio. Carrington si forma a Londra prima alla Chelsea School of Art e poi nel 1935 presso la neonata Accademia londinese del purista Amedée Ozanfant[2]. Varo invece si diploma alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di San Fernando a Madrid, la stessa in cui studia Salvador Dalì[3]. Ambedue le artiste fin dagli esordi sono però istintivamente attratte dalle avanguardie parigine e dalle più rivoluzionarie correnti dell’arte contemporanea. In particolare le affascina il surrealismo con cui si sentono istintivamente in consonanza e sulla cui falsariga orientano le loro prime opere giovanili.
Per una serie di coincidenze fortuite, ben presto Leonora e Remedios si ritrovano catapultate nel cuore pulsante degli eventi, in quella Parigi tanto sognata, al seguito di due dei fondatori del movimento surrealista.
Carrington incontra l’eclettico Max Ernst nel 1937, in occasione di una sua personale alla Mayor Gallery di Londra, curata da Roland Penrose[4]. Aveva già scoperto ed amato le opere di Ernst nel volume di Herbert Read Surrealism del 1936, regalatole dalla madre. Contro il parere dei familiari, quello stesso anno Carrington abbandona l’Inghilterra per trasferirsi nel di lui appartamento parigino in rue Jacob, divenendone la compagna.
Remedios Varo conosce invece il ‘grande inquisitore’, il poeta Bejamin Péret, nel 1936 durante la Guerra Civile Spagnola a cui il francese era accorso per sostenere i repubblicani al fianco delle Brigate Internazionali[5]. Varo e Péret, divenuti amanti, scampano alle violenze franchiste riparando su suolo francese.
Giunte a Parigi sul finire degli anni Trenta, al fianco di due delle più prominenti figure del gruppo surrealista, Carrington e Varo gravitano nell’orbita di Breton, nel ruolo iconico di muse e amanti, femmes enfants, conformandosi perfettamente ai più comuni clichés della donna che sono al cuore della poetica del movimento e dell’immaginario degli artisti uomini[6].
Parallelamente si dedicano però intensamente ad una propria attività pittorica, alla ricerca di un’identità creativa autonoma. L’analisi delle loro opere giovanili molto sembra rivelare del complesso rapporto con gli aderenti del movimento, ma soprattutto della loro personalità artistica in divenire. Più disinvolta e sicura Leonora, con una personalità spiccata. Decisamente defilata ed incerta, Remedios.
Fin dagli esordi Leonora Carrigton dimostra una propria autonomia ed una certa resistenza a lasciarsi imbrigliare nel ruolo che i surrealisti vorrebbero cucirle addosso. Nelle tele degli anni trascorsi appartata con Ernst nel Midi, a Saint-Martin-d’Ardèche[7], proprio come accade nei suoi coevi racconti gotici, si ravvisa già una visione coerente, con un marcato senso dell’humor, un tratto di ironia dissacrante unito ad una forte coscienza di sé. Ne sono dimostrazione opere come l’autoritratto ed il ritratto del compagno realizzati in questi anni.
In Autoportrait à l’auberge du cheval d’Aube (1936), Carrington è seduta, al centro di una stanza vuota. Accanto a lei è raffigurata una laida iena. Alle sue spalle, appeso al muro, troviamo invece un grazioso cavallo a dondolo bianco. Sulla parete di fondo si apre una finestra che affaccia su uno scorcio di verde smeraldo: ben visibile attraverso di essa, un poderoso cavallo bianco libero è al galoppo. L’interno scorciato – che inevitabilmente rimanda, con la sua finestratura sul fondo, a quella pittura Quattrocentesca tanto amata da Carrington e scoperta durante un soggiorno fiorentino[8] – ci pare asfittico e claustrofobico, come le dimore dove Leonora è cresciuta. Il carattere accogliente e sicuro dello spazio domestico è contraddetto decisamente dall’irruzione dell’animale selvatico, la iena, con la sua energia ferina. Per contrasto l’ambiente esterno sembra il centro dell’attrazione. Su di esso si convogliano le fughe dell’impianto prospettico quanto l’attenzione delle figure in scena. È ad esso che anela il cavallo a dondolo sopra la testa di Carrington. Il cavalluccio è si un oggetto immoto ed inanimato, ma sembra pronto a prendere vita. Osserva il cavallo vero, libero nella natura. Pronto ad imitarlo. Appare evidente come in questa tela due siano i centri focali di sviluppo: da un lato la coppia Leonora/iena; dall’altra il binomio cavallo libero/cavallo a dondolo. La prima diade, orientata in direzione dell’osservatore mentre la seconda rivolta con il corpo e lo sguardo nella direzione opposta, verso l’infinito. Attraverso questo stringente sistema di mirroring tra i soggetti del quadro, Carrington sembra inscenare una complessa rappresentazione di sé, alludendo alla propria controversa condizione identitaria. La iena – la stessa che appare nel suo racconto La debutante (1937) incluso da Breton nell’Antologie de l’humor noire nel 1956 – con i prominenti capezzoli e il volto umano, è l’incarnazione della dimensione più pulsionale, dell’istintualità più profonda e controversa, materializzazione di una femminilità animalesca. Questa bestia così connotata sessualmente, contrasta con la tenuta androgina da fantino di Leonora che può essere letta come disruptive performance of gender[9] rinviando ad un’ambiguità od incertezza del proprio genere. Ma la iena può essere anche considerata come un simbolo della propria passione artistica, un’energia liberatoria che l’ha portata ad evadere dal castrante ambiente domestico, come il cavallo bianco è un chiaro rimando alla cultura celtica, a quella dea-guerriera Epona, le cui gesta la nanny irlandese di Carrington cantava da piccola nella nursery[10].
Denso di significati e simboli ci appare anche il ritratto di Max Ernst realizzato nel 1940 e che molte affinità possiede con opere coeve dell’artista di Colonia, quali La toilette de la mariée (1941) e The Anti-pope (1943). Portrait of Max Ernst (1940), ci mostra l’artista tedesco di profilo, canuto e con occhio brillante, il naso aquilino, mentre sta andando incontro ad una trasmutazione zoomorfa. Indossa un bizzarro mantello rosso piumato e sembra avere una coda di sirena o di rondine[11]. Ai piedi porta calzari gialli a righe. Avanza in una terra ghiacciata rilucente, sovrastata da uno sfondo di cielo iridescente. Regge una lanterna sferica di vetro, all’interno della quale – in un liquido verde viscoso – intravediamo un cavalluccio nero in un galoppo trattenuto. Dietro di lui riconosciamo un possente cavallo bianco, completamente congelato. Ernst è ritratto come uno sciamano – in un chiaro riferimento al suo avatar, o animale totemico, Loplop the Bird Superior – con i calzari che ricordano zampe d’uccello e il mantello che sembra un piumaggio. Quest’opera è stata alternativamente letta come celebrazione dell’amante saggio che ha guidato Carrington fuori dalle pastoie della sua vita borghese o come rappresentazione del senso di limitazione creativa e imprigionamento che l’artista britannica iniziava a provare negli ultimi anni della loro relazione amorosa[12].
Visivamente, come risulta da queste tele prese in analisi, l’universo di Carrington ci appare dunque possedere già una propria coerenza interna ed un’autenticità ed originalità notevoli, come dimostrato ad esempio dal ricorrere insistito della figura del cavallo, soggetto assai caro all’artista in questa fase e presente anche in altre opere di questo periodo.
Per contro, i coevi lavori di Remedios Varo risultano decisamente più incoerenti, eterogenei e non ancora dotati di un’individualità precisa. Varo sperimenta tecniche e temi, mutuandoli spesso e volentieri dagli artisti uomini del movimento. Atmosfere asettiche alla de Chirico e incongruenze ludiche à la Magritte caratterizzano ad esempio l’enigmatico El agente doble, del 1934, una tela molto evocativa del livello di adesione e interiorizzazione del surrealismo raggiunto da Remedios. In un ambiente cubico, asettico e claustrofobico, si dispongono elementi apparentemente incongrui. Una figura ermafrodita, con una grossa ape sulla schiena, se ne sta col viso schiacciato contro la parete sinistra. Alle sue spalle una superficie muraria interrotta solo da una minuscola finestrella attraverso la quale si allunga una mano gommosa che regge un ovoide codato. Da una grossa crepa nel pavimento compare l’apice di una testa e strani filamenti serpeggianti. Sulla parete di fondo aggettano misteriose entità globulari – forse seni, forse occhi. La stanza sembra non avere vie di fuga, poiché anche l’apertura del fondo è stretta, impervia: semplicemente impraticabile. Inquietudine, straniamento, inintelliggibilità: questo quadro è già nella cifra del miglior surrealismo francese. Ne Las almas de los montes (1938), Varo applica la tecnica del fumage – recentissima scoperta dell’austriaco Wolfgang Paalen – che le ispira corpose nubi addensate intorno ad aguzze montagne da cui spuntano sinistre teste umane. Nello stesso modo è composto il paesaggio urbano futuribile Modernidad (1936). Titeres vegetales (1938), è invece una variazione creata a partire dallo sgocciolamento della cera su una lamina di triplay, eleggendo il caso a principio compositivo. La pur consistente produzione artistica della pittrice spagnola in questi anni manca però palesemente di coerenza interna: benché già siano presenti ed identificabili alcuni vocaboli iconografici che ritroveremo nella produzione matura, le tele sembrano quasi non appartenere nemmeno alla stessa mano. Forse intimidita dalle personalità maschili che la circondano, appiattita nel ruolo di amante e musa di Péret, sua propaggine, Remedios sembra esitare nel ruolo di pupilla. Come se priva di una identità propria e definita all’interno del gruppo surrealista, Varo non possedesse ancora uno stile riconoscibile, né una linea tematica originale.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Leonora Carrington e Remedios Varo si troveranno di fronte ad una svolta drammatica. Abbandonata la Francia sotto la minaccia nazista, Leonora giunge in Spagna dove viene internata per un anno in un manicomio e sottoposta ad elettroshok farmacologico. Scampata alla segregazione, nel 1942 ripara in Messico. Anche Remedios Varo, in fuga con Péret, dopo l’estenuante cattività marsigliese a Villa Air-Belle con altri surrealisti[13], riesce a lasciare l’Europa e a trovare asilo politico in terra messicana.

Il Messico che accoglie Leonora Carrington e Remedios Varo – come molti altri europei, esuli per motivi politici, scampati alla Guerra Civile Spagnola e al secondo conflitto mondiale – è un paese modernizzatosi dopo le sanguinose vicende della Rivoluzione.
Artisticamente, il Messico del periodo tra le due guerre non è più solo la nazione del muralismo. I tres grandes – Rivera, Orozco e Siqueiros – hanno già scritto le più importanti pagine di questo movimento, cantore del nazionalismo e dell’anticolonialismo messicano. Dopo aver esaltato le gesta rivoluzionarie, celebrato l’indipendenza e la costituzione di uno stato equo e all’avanguardia, recuperando la cultura e le tradizioni pre-colombiane e la storia della mesoamerica arcaica, i muralisti sono diventati artisti di Stato, eroi della conservazione. Primo fra tutti quel Diego Rivera, uomo simbolo del Messico post-rivoluzionario, ora allineato a uno stalinismo di regime sempre più solido. Il tramonto del muralismo – con le sue componenti di mexicanidad e machismo – vede l’affermazione di nuove correnti artistiche e movimenti di respiro smaccatamente modernista. Gli echi dell’arte europea contemporanea, rafforzati dagli intensi flussi migratori del corso degli anni ’20 e ’30, hanno lentamente penetrato la società messicana, portando in superficie un sentire più cosmopolita e internazionale.
È ciò che ritroviamo nelle tele di pittori e artisti del cosiddetto realismo magico – sorta di surrealismo spontaneo precedente alla venuta di Breton nel 1938 e alla successiva esposizione alla Galleria di Ines Amor – di Antonio Ruiz, Augustin Lazo, Orozco Romero, Guillermo Meza, Carlos Mérida, negli scatti del fotografo Manuel Alvarez Bravo, nelle poesie degli estridentisti come Maples Arce. Ma anche nei quadri intimisti di piccolo formato di Maria Izquierdo e Frida Kahlo[14]. Un sottobosco artistico vivo e pulsante, che nella persona di Rufino Tamayo troverà l’iniziatore di quella ruptura degli anni ’50 che è la base dell’arte messicana contemporanea. È in questo particolare ambiente – il paese surrealista par excellence decantato da Breton ed Artaud che aveva già accolto altri surrealisti, tra cui Wolfgang Paalen con la moglie Alice Rahon, animatori della rivista Dyn[15] – che giungono Varo e Carrington.

Nei loro occasionali incontri a Parigi, sul finire degli anni Trenta, quando entrambe presenziavano silenziose ed iconiche alle riunioni dei surrealisti, Leonora Carrington e Remedios Varo non avrebbero mai potuto immaginare di diventare un giorno le migliori amiche. Le loro strade, come le loro vite, erano trascorse parallele, tra mille assonanze. Una volta giunte in Messico, Leonora e Remedios, divennero complici nella ricerca artistica come nella vita.
In quanto esuli in Messico, straniere ed estranee per la loro provenienza, origine e cultura, le due pittrici si trovano escluse dal contesto locale proprio come dalla cultura europea contemporanea. Rimangono decisamente appartate rispetto alla realtà artistica locale, non frequentando per esempio il circolo riunito intorno a Diego Rivera e Frida Kahlo. Altrettanto distanti diventano anche i surrealisti kosher, come li chiama Carrington, esiliati a New York.
A Colonia Roma, il quartiere di stranieri alla periferia di Città del Messico che diventa la loro casa, Leonora e Remedios costruiscono un tessuto di relazioni che compensa al senso profondo di sradicamento che vivono. Insieme all’amica fotografa Kati Horna creano un’allegra comunità di surrealisti, cui fanno parte anche i pittori messicani Gunther Gerzso e Agustin Lazo. Se Leonora Carrington sposa il fotoreporter ungherese Chiki Weisz dal quale avrà due figli[16], Remedios Varo, dopo la fine del matrimonio con Benjamin Péret, trova la serenità accanto ad un esule australiano, Walter Gruen[17]. In contrasto con l’immaginario del movimento surrealista e l’ideale dell’amour fou bretoniano, è proprio nella serenità coniugale e nella maternità che Varo e Carrington trovano le energie per la loro attività artistica.
Dopo essersi affrancate dalle pagine complesse e dolorose del loro passato, smarcatesi dal soffocante ambiente parigino, Varo e Carrington entrano nella fase matura del loro itinerario e trovano l’una nell’altra l’appoggio necessario alla realizzazione piena della loro creatività. Già nel corso degli anni ’50, infatti, superando i retaggi di machismo e mexicanidad del muralismo ancora imperante, riusciranno entrambe ad ottenere un importante riconoscimento di pubblico e di critica entro i confini messicani. Consenso che culminerò addirittura negli anni ’60 con delle commesse per la realizzazione di murales in luoghi pubblici, a fianco di nomi importanti dell’arte messicana come Juan O’Gorman e Carlos Merida[18].

Nei lunghi ed assolati pomeriggi messicani, le due amiche usano trascorrere la maggior parte del tempo insieme, tra chiacchiere ed esperimenti culinari. Più intenso diviene negli anni il legame affettivo che le lega, più radicali le differenze tra le loro opere. Remedios Varo da un lato – con la sua pittura cristallina, luminosissima, precisa e meditata – Leonora Carrington dall’altro – con un approccio più viscerale, visionario e istintivo. Linea e colore, ragione e sentimento.
Per Carrington, lo studio dal vero e l’accuratezza del disegno – il principale insegnamento di Ozanfant – sono sacrificati all’istinto. Sappiamo che Leonora predilige l’uso della tempera all’uovo, innanzitutto perché le garantisce un impasto confacente alla sua pennellata rapida e nervosa e colori lucenti, brillanti; ma anche per le affinità che la preparazione del pigmento – proprio come era per i maestri italiani da lei apprezzati – richiama sia al lavoro nel laboratorio alchemico che alla cucina, le sue grandi passioni. La palette di Carrington è caleidoscopica, con colori accesi, violenti, spesso anche per gli accostamenti arditi scelti, quasi espressionistici. Le pennellate di Leonora sono disinvolte, libere, imprecise[19]. Anche Varo approda a una tecnica propria, con un colore a resina che ben si presta al suo lavoro certosino e che ha nella tavola il supporto d’elezione. La sua tavolozza è molto più limitata di quella di Carrington, prediligendo colori caldi, soprattutto nei toni del rosso e del giallo, ma anche chiari e naturali come il verde e l’azzurro: i colori della terra e del cielo. A volte Varo opta per il monocromatico o per nuance di colore. Sempre e comunque le sue sono tonalità molto luminose e traslucenti. Il tocco è assai minuzioso, accurato. Partendo da schizzi preliminari ben meditati, Remedios lavora come un miniatore, con pennellate studiate, che tendono a valorizzare il disegno sottostante[20]. Essendo una persona posata, meditabonda, Varo trova un rifugio nel perfezionismo della sua tecnica[21].
Ciò che è importante sottolineare è che entrambe le artiste, nella fase della maturità e dunque dopo essere giunte in Messico, si emancipano completamente dall’esempio dei pittori surrealisti conosciuti in gioventù. Il rapporto con il surrealismo, a livello di prassi, per entrambe, riguarda più il contenuto che la forma, soprattutto nel caso di Varo. Decalcomanie, grattage, fumage ed altre tecniche automatiche, assumono un valore strumentale, mentre la surrealtà prende forma nei temi e nei modi di inscenare i soggetti. Le loro opere possiedono ormai un vernacolo proprio ed indipendente.
Pur nelle differenze marcate, di tecnica e stile, molte sono le affinità che legano Leonora Carrington e Remedios Varo. I temi, le figure, il cifrario fantastico, ma anche le fonti di ispirazione sono comuni. In primis, i primitivi fiamminghi.
Essendo il maestro dell’invenzione grottesca e della fantasia allucinata, è inevitabile che Bosch diventi un riferimento importante per entrambe, anche se elaborato in maniera assai differente. L’incontro folgorante di Carrington con Bosch avviene in età già adulta, durante la breve e drammatica permanenza di Leonora in Spagna. Bosch incrocia perfettamente il sentire di Carrington: il suo gusto per il grottesco, l’inclinazione allo humor nero, l’atteggiamento visionario. Lo dimostra un’opera come The Temptation of St. Anthony (1947), ripreso dall’omonima tela. Leonora mutua molteplici elementi della composizione da Bosch, tra cui la posizione seduta dell’eremita, in un lembo di terra, circondato dall’acqua. Ma soprattutto i salti di scala e l’attenzione ossessiva ai dettagli con cui crea figurette intente in attività arcane[22]. Il bestiario assurdo della pittrice inglese prende spunto proprio da quello di Bosch, sempre popolato da un fantasmagorico caravanserraglio. Anche l’amore per gli esseri ibridi, zoomorfi, dai corpi fantastici che sembrano usciti dal trittico de Il giardino di delizie del Prado hanno la stessa matrice. Ma soprattutto è Bosch che ispira a Carrington l’idea della compresenza nelle sue tele di visione del vicino e del lontano, di fusione del microscopico e del macroscopico, proprio come li vediamo in Chiki Your Country (1945) o in Les distractions de Dagobert (1945). Con il maestro nordico Leonora condivide infine il gusto per i banchetti crapulonici, per i festini dionisiaci dove si disvelano gli appetiti animaleschi dell’uomo[23]. Carrington si impossessa quindi pienamente dello spirito più allucinato e demoniaco delle visioni di Bosch che percepisce come perfettamente affini con il suo modo di sentire.
Ma Bosch è artista che solletica anche l’immaginazione di Varo fin dalla tenera età, quando bambina era condotta dal padre al Prado. Remedios ne reinterpreta la lezione differentemente da Leonora, facendo proprio tutto il ricco patrimonio di soluzioni bizzarre ed invenzioni fantasmagoriche, epurandolo dal macabro senso del grottesco che lo caratterizza. In alcuni casi le citazioni di particolari dell’opera di Bosch si fanno piuttosto palesi. È soprattutto nella progettazione delle macchine volanti ibride e zoomorfe e degli altri strani mezzi di locomozione che popolano le sue tele che Varo evoca Bosch: è il caso ad esempio del vascello fantastico del Pilota explorador (1960) che rimanda alle Tentazioni di Sant’Antonio. Ma anche alla testa che sbuca improvvisamente dal posto più impensato in Visita inesperada (1958) citazione palese di un disegno preparatorio di Bosch per la sua Nave dei folli[24] conservato a Vienna. Molte delle figure volanti di Varo, ibride e fantastiche, sembrano uscite da un quadro del genio olandese. Col pittore quattrocentesco, tanto amato dai suoi conterranei, Remedios condivide inoltre l’ossessione per i dettagli e l’accuratezza del disegno.

Altro punto di riferimento imprescindibile per entrambe le artiste sono i maestri del Rinascimento italiano, gli stessi che Carrington ha potuto studiare da vicino nel suo soggiorno a Firenze e Varo ha invece potuto vedere nei musei di Parigi e Madrid.
Come è già accaduto per altri surrealisti figurativi – come Dalì o Magritte – anche per Varo e Carrington, la pittura dei primitivi italiani è il punto di partenza essenziale per la messa in scacco della pittura retinica.
Per l’orchestrazione delle sue ampie scene, in cui abilmente coniuga più focali tra gli opposti antitetici – micro e macroscopico – Carrington si rifà apertamente a pittori come il Sassetta, Matteo di Giovanni o Francesco di Giorgio che ha scoperti durante un precoce soggiorno fiorentino[25]. Leonora è affascinata dall’ideale, tutto rinascimentale, dell’ut pictura poesis oraziano, che ha avuto nei cassoni dipinti con i racconti morali e nelle predelle con storie dei santi i suoi massimi esempi. La pittrice inglese è affascinata dalla pittura rinascimentale italiana proprio per la sua intrinseca qualità narrativa, che offre la possibilità di dispiegare ampie pagine di historiae anche in spazi angusti. È proprio ai modi d’impaginazione tipici dell’arte trecentesca e quattrocentesca che Carrington attinge a piene mani. In The House Opposite (1945) – dove articola interno ed esterno senza soluzione di continuità, utilizzando le pareti ‘sfondate’ per creare molteplici scomparti a diverse profondità, componendo così una scena interdipendente proprio come avviene in molte opere giottesche e post-giottesche – lo schema compositivo richiama alla mente La nascita di Giovanni Battista di Matteo di Giovanni e la Vita di San Francesco del Sassetta – ma con esiti tra l’illusionismo fiabesco e l’irreale.
Orchestrazione delle luci, attenzione al dettaglio, impaginazione delle figure entro spazi architettonici ben scorciati, riconducono invece l’opera di Varo alla pittura di Antonello da Messina, come accade ad esempio per Armonia (1956), che fa pensare al San Girolamo nello studio della National Gallery.
Come parte integrante della sua eredità spagnola, Remedios Varo non manca di integrare nella sua pittura l’esempio di Goya e di El Greco. Pur stemperando e di molto il tono di satira grottesca, riprende alcune invenzioni linguistiche di Goya, cui l’avvicina ovviamente il talento bozzettistico. Il Personaje alato e cornuto del 1958 riecheggia le incisioni con figure mostruose del maestro spagnolo dei Disastri della guerra (1817)[26]. Il motivo dei panneggi avvolgenti e drappi svolazzanti, molto presente nelle tele della pittrice spagnola, è invece direttamente desunto dall’amato El Greco, con cui Varo sente un’affinità particolare dovuta anche agli echi tra le loro biografie: entrambi esuli che trovano fortuna in terra straniera.

Ma ad unire più di tutto l’opera di Leonora Carrington e Remedios Varo, è la comune volontà di declinare la propria arte in temi e generi tradizionalmente appartenuti alla pittura maschile o che hanno lungamente visto la donna protagonista estatica, oggetto alla mercè dello sguardo altrui, per darne una rilettura personale e certamente irriverente, non rinunciando mai a confrontarsi con una riscrittura ironica ed antiretorica del femminile.
E proprio come proposto dalla filosofa e psicanalista belga Luce Irigaray nei suoi saggi, Varo e Carrington sembrano aver adottato la strategia di mimicry, per inserirsi nel discorso enunciativo, tutto maschile (sul femminile), per sgretolarlo, sovvertirlo, metterlo in scacco, dall’interno, giocando con i suoi stessi mezzi.

È ormai comune opinione della critica che l’autoritratto rappresenti il genere d’elezione nella produzione delle cosiddette surrealiste di seconda generazione e l’opera di Leonora Carrington e Remedios Varo in tal senso non fa eccezione. Le pittrici surrealiste fanno del loro corpo la loro tela trasformandolo in terreno di esplorazione continua della liminalità tra categorie antinomiche – reale/immaginario, sogno/veglia, interno/esterno, uomo/donna, soggetto/oggetto, singolare/plurale – e del loro travalicamento in senso surrealista. Attraverso l’autoritratto, re-impossessandosi dell’immagine del proprio corpo, le donne surrealiste hanno così riscritto un tropo culturalmente connotato, disvelandone aspetti equivoci, inquietanti. Sovente la rappresentazione mette in scena anche palesemente la dialettica esistente tra la Donna e le donne, tra natura e cultura, tra sessualità anatomica ed identità di genere, problematizzandola con le armi della retorica – quali l’ironia e l’humor – come per gli altri ambiti della loro vita.
The Giantess/Baby Giant (1950 ca.) eseguita da Leonora Carrington nei mesi precedenti alla nascita del secondogenito Gabriel è da molti letta come un autoritratto, una rappresentazione di sé come latrice di una nuova vita. Ciò che deve essere rilevato in quest’opera è la capacità di Carrington di reinterpretare il tema della procreazione associandolo a quello dell’alchimia, appropriandosi quindi di un immaginario maschile fortemente connotato e riproponendolo in termini nuovi e personali in relazione ad un’esperienza prettamente femminile. L’immagine proposta da Leonora, infatti, è quella della custode dell’uovo alchemico, simbolo di creazione. La poderosa creatura si innalza verso il cielo, stagliandosi contro l’azzurro turchino; ma ha i piedi saldamente ancorati al terreno della vallata abitata che ricorda certi paesaggi di Brueghel[27]. Proprio come nelle pagine in cui Swift narra dei viaggi di Gulliver, così ritroviamo un popolo minuscolo che invano tenta di scacciare il mostro. Dal pesante mantello di broccato bianco aperto sul davanti si intravedono glifi ricamati dal significato misterico. Il capo della gigantessa è incorniciato da capelli ramati che cingono un viso pallido e aggraziato mentre le mani candide e minuscole proteggono un uovo screziato. Le messi dorate cosi come l’uovo sono richiami al tema della fertilità ma ci sono altri riferimenti. Mentre un mondo di piccoli uomini inferociti accerchia la mostruosità, gli animali sembrano in simbiosi con essa. Carrington ci mostra pertanto in questa tela una totale adesione con l’alterità. C’è un’assunzione deliberata di uno status di Altro che è però in empatia con il mondo naturale, abbracciando e ribaltando i comuni stereotipi sull’accordo sinistro tra la donna e le arcane forze naturali.
Molte delle tele di Remedios Varo possono essere intese come autoritratti. Il ricorso frequente ad una fisionomica caratteristica – il volto a forma di cuore dai grandi occhi sognanti – è un primo indizio. In altre opere l’artista dissimula la propria identità attraverso l’elaborazione di personaggi ibridi. Nell’olio Creación de las aves (1957), Varo raffigura una donna-uccello, dalla testa di gufo, seduta ad un tavolo da lavoro, intenta a disegnare con tratti rapidi degli uccelli su un foglio di carta bianca. Tutto ciò che la circonda è magico: i colori sono distillati da un alambicco che è in collegamento con l’esterno tramite una finestra circolare sullo sfondo. Con la mano sinistra invece la creatrice impugna una lente d’ingrandimento che catalizzando un raggio stellare, trasferisce energia ai disegni, i quali prendono vita. Degli uccellini appena disegnati, infatti, si librano in aria ed escono dalla finestra. La creatrice è un’alchimista, intesa nella sua capacità di fondere la propria arte con le forze della natura per creare la vita, trasformando la materia inerte in entità pulsante. Come ricorda Georgiana M.M. Colvile, il gufo è per Remedios Varo una sorta di animale totemico, di emblema personale, insieme al gatto[28]. Simbolo presso molte civiltà antiche, tra cui gli egizi, di saggezza e chiaroveggenza (per via della visione notturna), il gufo è anche legato, nell’accezione junghiana, alla trascendenza[29].
Spesso le donne surrealiste, nell’inscenamento di se stesse si sono avvalse di intermediari, di personaggi fittizi, di alterego come mezzo proiettivo con cui costruire una propria identità rinnovata. Questa strategia, che Miwon Kwon ha definita come self-Othering, ovvero ‘farsi altro’, si chiarisce nella logica proiettiva femminile. Laddove l’uomo ha nella donna il proprio Altro su cui investire aspetti di sé ambivalenti o fantasmatici – come avviene ad esempio nelle opere di Dalì o Bellmer – la donna costruisce delle identità terze con finalità proiettiva. L’individuazione meditata di un bestiario esprimerebbe inoltre la volontà delle artiste surrealiste di ricollegarsi ad epoche pre-storiche, precedenti alla civilizzazione, quando in società primitive come quella celtica ad esempio, esisteva un sistema matriarcale in cui la religione consisteva nel culto di una divinità femminile, una dea (Great Goddess) e non di un dio al maschile (God). Queste divinità femminili – come ampiamente illustrato da Robert Graves nel suo studio sui miti europei The White Goddess (1948) – spesso andavano incontro a metamorfosi o trasformazioni assumendo fattezze animali. La scelta di animali-simbolo assume dunque un valore speciale.

La pittura di interni è altro genere in cui Carrington e Varo danno corpo al loro immaginario. Come afferma la studiosa marxista Lilian S. Robinson in Sex, Class and Culture (1985)[30] – la pittura d’interni celebra le donne come perfette icone muliebri o filiali totalmente conformi al loro sesso, ambientate in degli scrigni densi di simbolismo che le custodiscono ed imprigionano. Nell’immobilità dello spazio domestico, l’uomo sembra proiettare il proprio desiderio di cristallizzare l’elemento femminile percepito come destabilizzante. Fissando ciò che è monoliticamente considerato ordine naturale, determinato e senza tempo, l’interior costituisce una sorta di forma apotropaica, un sigillo ad eterna garanzia del potere maschile. Nella logica transitiva patriarcale, la donna si deve identificare con la casa, essere incarnazione del domestico. Ha nella casa la propria naturale sistemazione e viene identificata con essa e con tutto ciò che in essa ha luogo. Non c’è possibilità fuori da questa logica stringente. La casa determina il ruolo sociale della donna e il suo spazio vitale: l’accudimento dell’ambiente domestico che deve essere preservato. Come si suol dire, safe as houses ovvero accogliente e sicura, porto cui fare ritorno, ad uso e consumo dell’uomo quindi, perché la casa è imago mundi.
Un’equazione questa, che le artiste surrealiste hanno messo profondamente in discussione, inscenando tutto un nuovo modo di (in)abitare lo spazio domestico, un modo spesso disturbante e destabilizzante per l’uomo, facendo della casa una realtà anamorfica, capace di far coesistere contemporaneamente due condizioni oppositive e contrastanti: il familiare (homely) e lo straniante (l’uncanny).
In tal senso, la soluzione più ricorrente nell’opera di Varo e Carrington è quella della casa infestata, abitata da presenze magiche o oscure – che però della donna sono complici – luogo dell’esperimento alchemico, della magia, del Sabba. Questo modo di raffigurare il domestico pone inoltre l’attenzione su cosa accade nella casa quando l’uomo è essente, su ciò che l’uomo non sa, ciò che non vede. Se la casa è metafora della donna e del femminile, quello che le artiste surrealiste propongono è un ribaltamento radicale, un’immagine di sé inquietante, destabilizzante di un femminile che sfugge al controllo, animato da forze impreviste, proprio come accade per la dimora. È ciò che ci appare in tele come Visita inesperada (1958) di Varo o in Night Nursery Everything (1947) di Leonora Carrington.
Custode del focolare domestico, la donna è sovente ritratta tra le mura di casa mentre cucina e cuce, attività rassicuranti che consolidano l’immaginario legato al suo ruolo, che assicurano la continuità e la stabilità sociale. Nell’opera di Leonora e Remedios, però, sono proprio queste attività e questi spazi, tipicamente femminili, destinati ad essere sovvertiti e sovversivi. Da luogo di oppressione e reclusione femminile, la casa diviene quindi luogo segreto ove, all’oscuro degli uomini, si compie qualcosa di magico. Pensiamo ad esempio ad opere come The House Opposite (1947) di Carrington. In quest’ultima tela (fig. 9), la pittrice inglese rappresenta simultanei accadimenti che hanno luogo in stanze e anticamere dello stesso edificio e di quello vicino. Gli ambienti sono in contatto tra loro, senza soluzione di continuità spaziale e pertanto temporale. Le figure femminili, guizzanti e affusolate, si spostano da un luogo all’altro mentre vanno incontro a delle trasformazioni che le rende zoomorfe, antropomorfe, fitomorfe. È un universo tutto femminile, ginocentrico quello qui rappresentato. Da teatro dell’accudimento della prole e di servizio reso al marito, la casa diviene così centro propulsore di tutta una vita segreta e magica, in cui si compiono arcani rituali. È questo il potere sovversivo del domestico. Carrington fa della cucina il sito eletto del Sabba, ove collocare addirittura il calderone, trasformandola così in laboratorio alchemico dove compiere esperimenti. La cucina in Carrington non è più luogo di oppressione della donna, in cui essa è relegata e annichilita, ma luogo ove il femminile ha la sua massima possibilità di realizzazione, e questo sembra possibile in una dinamica di sorellanza con altre donne.
Lo stesso discorso può essere fatto nella pittura di Remedios Varo per quanto riguarda il cucito. L’antica pratica del cucire diventa, per l’artista catalana, attività tramite la quale suggerire una sorta di liberazione femminile. Donne che cuciono popolano molti quadri di genere, soprattutto nella tradizione fiamminga. Esse sono ritratte nell’interno ovattato dei loro boudoirs, chine sui lavori d’ago, concentrate a dare punti per il corredo proprio o altrui. Il cucire è sovente visto dunque come simbolo della continuità, della tradizione, emblema di un destino di genere[31].
Attività consona alla necessità della donna, freudianamente parlando, di costruire vesti ed orpelli capaci di camuffare e oscurare all’occhio maschile la grave mancanza del fallo, il cucito è inteso come trompe l’oeil, come inganno, dissimulazione del difetto del proprio sesso. Varo trasforma questa complicità mortificante in termini positivi. Le donne delle opere di Remedios, infatti, tessono trame, ordiscono e l’oggetto del loro tramare sono loro stesse, le loro vite. O per meglio dire un’alternativa di vita. Ecco allora che il cucito, l’emblema dell’immobilismo a cui la donna è costretta, diviene rivalsa e possibilità di riuscita ad esempio in Tejedora roja (1956) o in La tejedora de Verona (1956). Trasfigurando in termini positivi l’immagine delle parche, la filatrice di Varo tesse il proprio anelito di libertà. Dalle sue veloci mani che sferruzzano, si anima una figura che spicca il volo e che contrasta fortemente con la condizione di isolamento e solitudine dell’ambiente in cui è inserita[32]. Un mezzo convenzionale come il cucito, diviene il tramite per un messaggio di anticonvenzionalità. Varo sovverte la concezione stereotipata della donna come quella dello spazio domestico a lei associato, trasformandolo in luogo di scoperta trascendente e di creazione magica. Ed ecco che l’assunzione dei tradizionali ruoli femminili, delle attività domestiche diviene mascherata, mascheramento intenzionale, consapevole e irriverente, proprio come ipotizzato nei suoi scritti da Luce Irigaray.

Varo e Carrington non mancano poi di declinare il loro tocco dissacrante e femminile, anche nella natura morta. L’olio su tela di Remedios Varo dal titolo Naturaleza muerta resucitando(1963) ha un carattere assai provocatorio. Una tavola riccamente imbandita, all’interno di un salone di sapore vagamente romanico, prende vita. Il titolo è ironico. Varo riprende tutti gli stilemi tipici della pittura fiamminga di questo genere e non solo. Ma ecco che le stoviglie e la frutta sembrano essere prese in un turbine energetico e gravitano a spirale intorno alla fiamma della poderosa candela centrale che sembra stare per trascinare presto nel mulinello anche i lembi della tovaglia, come in una seduta spiritica[33]. Anche nel quadro AB EO QUOD (1956) di Leonora Carrington, la natura morta ‘mistica’[34] sembra assai vivificata dalla presenza di farfalle che si librano nell’aria insieme ad altri insetti, mentre luminoso risplende nel desco il candido uovo alchemico, che giganteggia tra un calice di vino ed un grappolo d’uva, pronto da un momento all’altro a schiudersi e lasciar uscire l’omuncolo androgino.
La still life sembra genere storicamente atto a dare sfogo alla volontà dell’uomo di immortale i propri beni terreni: beni che possono essere posseduti, scambiati, consumati. Mettendo in quadro la proprietà privata, la merce, la ricchezza, in accattivante trompe l’oeil, con una precisione epidermica ed un’ossessione veristica totale, l’uomo celebra se stesso, il suo potere, la sua capacità di dominio della realtà. Più o meno velatamente la natura morta non è quindi esente da logiche di genere, proprio come accade per la pittura di interni. Ciò che viene effigiato sulla tela, non solo appartiene all’universo domestico, ma è spesso il prodotto del lavoro della donna o ad esso concernente; a prescindere che si tratti di ceste di frutta, vasi di fiori, pietanze gustose, preziose tovaglie. Per proprietà transitiva, se l’uomo possiede ciò che la donna dispone per lui, possiede quindi la donna che le ha disposte. Non stupisce dunque che le donne surrealiste si siano appropriate di questo genere mettendolo al servizio delle loro rivendicazioni, sconfessando i luoghi comuni maschili. Ed ecco che trasformano una realtà eminentemente femminile, il domestico, in qualcosa di perturbante, disturbante ed alieno, a tratti minaccioso per l’identità dell’uomo.
È interessante notare che Varo e Carrington – come risulta dai loro interni e dalle nature morte – restituiscano al lavoro della donna un valore magico, un tratto di unicità. Il loro interesse per le dottrine esoteriche si declina sempre nel quotidiano[35]. Si tratta di una ricerca ermetica condotta nell’ambito più improprio ed inaspettato, ovvero nel contesto domestico. Leonora e Remedios creano pertanto un linguaggio visuale e verbale adatto a ciò e riprendono in tal senso la tradizione delle fiabe, delle favole, per trasmettere e codificare il sapere occulto e sovversivo dissimulandolo.

Nel dispiegarsi della loro opera, Remedios Varo e Leonora Carrington hanno declinato in maniera irriverente e nuova alcuni aspetti del femminile nei diversi generi in cui si sono cimentate, sovvertendo, come si è precedentemente illustrato, luoghi comuni e clichés storicamente legati all’essere donna. Nella loro personale ri-scrittura del canone surrealista, rispetto a quella densa fenomenologia che ha nel femminile il nucleo pulsante della propria poetica, è sicuramente nel tema dell’alchimia e della magia che le due artiste surrealiste hanno proposto le immagini più forti, più rivoluzionarie. In particolare è soprattutto la rilettura dell’argomento alchemico, smarcato dalla logica surrealista di Breton e compagni[36], che diviene metafora non solo della condizione della donna ma anche della creazione artistica al femminile.
Giocando sul tema della donna come strega, maga o fattucchiera, con il suo legame speciale e malefico con il mondo animale, con la natura, il dialogo esclusivo e pericoloso con la dimensione ferina, Remedios Varo e Leonora Carrington hanno costruito un universo femminile potente, includente, ecumenico. Ed è proprio nell’ambito del contesto messicano che questa opportunità si rende possibile.
Come si è accennato in precedenza, l’opera di Leonora Carrington e di Remedios Varo è pressoché esente da contaminazioni di arte, folklore e cultura messicana. In contrasto però, non si può negare tutta un’influenza, che potremo definire come indiretta, dell’ambiente messicano sulla loro arte. Si direbbe che è l’atmosfera particolare del Messico a ispirarle, come dichiarato dalle stesse due artiste. Carrington ricorda un avvertimento particolare una volta attraversata la frontiera ed entrata in quel paese dalle tradizioni ancestrali, con una storia di sangue, violenza, magia e scienza[37]. Le antiche vestigia Incas e Maya, i retaggi della cultura mesoamericana ancora percepibili, il sincretismo religioso dei messicani, la convivenza di modernità e tradizione, quella sintesi degli opposti – vita e morte, giorno e notte, magia e scienza, naturale ed antropico, divino e terreno – così profondamente insito nella società messicana, quella naturale surrealtà tanto decantata da Breton, è una koinè perfetta per solleticare l’immaginazione di queste due artiste, con la loro naturale inclinazione per l’occulto, il magico, il misterico.
Remedios e Leonora frequentano abitualmente il coloratissimo mercato di Sonora per acquistare spezie e pozioni, si rivolgono con curiosità ai guaritori locali; ammirano le pratiche cultuali messicane come il suggestivo Giorno dei Morti[38]. La loro passione giovanile per la magia bianca, l’occultismo, l’alchimia, la stregoneria, i tarocchi aveva trovato già delle conferme nella passione dei surrealisti per questi temi.
Le due donne cominciano ben presto, nei loro incontri quotidiani, a esplorare le più disparate fonti di sapere occulto. Le teorie degli esoteristi russi Georg Ouspensky ed Hélèna Blavastsky, la teologia medievale di Meister Eckhart, i Sufi, le varie leggende legate al Sacro Graal, la geometria pitagorica sacra, la psicologia junghiana, I Ching[39]. Ma anche gli scritti di Marsilio Ficino, Tommaso Campanella e Giordano Bruno, pensatori rivoluzionari che hanno poi ispirato i pittori del Rinascimento tanto cari alle due donne. Tutte queste dottrine diventano fonti da cui attingere, in un sincretismo vorace ed onnivoro.
Leonora Carrington ricorda come una folgorazione la lettura dell’opera di Robert Graves The White Goddess: a Historical Grammar of Poetic Myth (1948), definendola come la più grande rivelazione della sua vita. Questo studio monumentale sulle dee delle religioni arcaiche, diventerà un riferimento molto importante per Carrington[40]. L’affermazione del monoteismo patriarcale, a suo avviso, non ha soltanto cambiato il genere della presenza divina, ma ha privato tutto l’universo delle divinità femminili. Per Leonora la donna è infatti stata costretta, nelle società patriarcali, a rifiutare la sua natura animale, a rinnegarla, denegando così anche la propria natura divina quale era adorata nelle civiltà primitive e pre-patriarcali, in cui ad esempio era istituito il culto della Grande Madre. La natura animale della donna è intimamente legata al suo status di creatrice in quanto è declinazione singola della Dea Madre, come creatrice universale. Il mondo femminile per Carrington, deve perciò ritrovare il proprio contatto trascendente con le forze universali. È questo che ispira l’arte, spesso definita ginocentrica, di Leonora Carrington[41]. Tutta la sua opera può essere vista pertanto come un apprendistato di facoltà visionarie, una iniziazione ai modi della percezione simbolica ed esoterica finalizzato a rivelare la preminenza del principio femminile nascosto dietro il velo delle icone patriarcali. Rinnovando il contatto con la natura, la donna di Carrington diventa alchimista, sacerdotessa, druidessa ma anche surrealista potremmo dire.

A partire dagli anni ’50 l’opera di Leonora si incentra proprio sulla resurrezione della figura archetipica della Grande Madre o Dea Bianca e sulla rivelazione dell’esistenza di un universo matriarcale come quello che popola molte delle sue tele. In tal senso molto esplicativo è il ciclo dedicato alla dea Tuatha dè Danaan, la Divina Danaan, la divinità femminile di Sidhe, il popolo delle Colline della tradizione celtica, tanto decantata da Carrington[42]. Nella tela Sidhe, the White People of Tuatha dé Danaan (1954) un gruppo di figure bianche iridescenti dall’aria spettrale, sono riunite attorno ad un grande mensa. Sulla tavola spiccano un pentolone, frutti ed erbe. Una figura stante sembra promanare una strana energia luminosa dalle mani, mentre per la stanza si aggirano animali emblematici, come un gallo ed un gatto. Carrington propone in un’ambientazione dall’apparenza domestica rassicurante – un convivio di donne che preparano un piatto – tutta una simbologia che richiama i riti magici, rinviando ad operazioni alchemiche presiedute da entità femminili. La figura in piedi infatti ha una mimica sacerdotale, agisce come un officiante.

Remedios Varo dal canto suo, studia approfonditamente le teorie del filosofo Gurdjieff nelle cui opere – come Incontri con uomini straordinari o Racconti di Belzebù ai suoi nipoti, definite come esoterismo cristiano – fonde la dottrina sufi con temi e simboli di altre religioni. Queste dottrine vengono portate per la prima volta all’attenzione di Varo da Eva Sulzer, amica di Alice Rahon e Wolfgang Paalen. La Sulzer, nella sua intensa ricerca spirituale, frequentava regolarmente il gruppo di Gurdijeff in Messico, in un esercizio costante per l’autoconsapevolezza[43]. Varo, proprio come Carrington, è assai lontana da qualsiasi tipo di fanatismo o adesione acritica a sette e non si unirà mai al gruppo, pur essendo assai affascinata delle teorie di Gurdjieff e studiandole approfonditamente.
Il mistico armeno avanza una teoria non distante dalle speculazioni surrealiste di Breton e compagni affermando che la vita dell’uomo è come uno stato di veglia ai limiti del sonno e del sogno e per trascendere questo stato e raggiungere la consapevolezza, è essenziale compiere un percorso dentro di sé. Gurdjieff coniuga l’autoanalisi allo studio del mondo circostante come mezzo di accrescimento spirituale. Questa prospettiva si riflette ampiamente nell’approccio alla pittura di Remedios Varo, sia nei soggetti che nella tecnica certosina utilizzata. In Varo è pregnante il tema della ricerca di sé, della conquista della consapevolezza e dell’illuminazione, che si ripresenta in maniera insistita nelle diverse opere. In La llamada (1961), una figuretta femminile avanza con sguardo assente, circondata da un’aura fiammante. In mano regge un’ampollina di vetro mentre al collo ha un piccolo mortaio alchemico. Sembra sorda e indifferente alle figure addormentate che sporgono dai muri che la circondano, completamente in balia di un’energia che porrebbe derivare dalla luce della luna che splende nel cielo.
Il più importante insegnamento di Gurdjeff però rimane quello della sintesi perfetta tra microcosmo e macrocosmo, che è uno dei dati più lampanti dell’opera dell’artista spagnola, come osservato da Beatriz Varo[44]. Remedios fa propria la convinzione secondo la quale ogni essere vivente, anche il più piccolo, ogni entità vegetale o minerale, contribuisce con la sua esistenza alla stabilità del cosmo tutto, alla creazione e alla conservazione del mondo, in uno stretto rapporto di reciprocità e sinergia. Lo scopo dell’uomo sulla terra, la finalità della sua esistenza, secondo il mistico armeno, è portare energia necessaria per l’evoluzione dell’universo. Allo stesso tempo però l’universo stesso riverbera nelle piccole cose. È proprio questa idea di creazione che anima le sue opere. Varo traduce i concetti proposti da Gurdjieff in opere come Música solar (1955), dove una figura femminile avvolta in un mantello che è un manto erboso, suona con un archetto dei raggi solari; in corrispondenza del cono di luce prodotto, prendono vita dei fiori. Come a dire che attraverso l’energia cosmica l’uomo può creare; ma un’energia cosmica di cui egli stesso è costituito. Anche in Varo, la fascinazione per le tradizioni esoteriche, per il misticismo e l’alchimia, è coniugata al potere creativo della donna. L’immagine forse più emblematica e rappresentativa in tal senso ci appare nell’olio su masonite già citato, dal titolo Armonia (Autorretrato sugerente) del 1956. In un ambiente che ricorda uno studiolo medievale, una figura dai tratti androgini, ma che potremo identificare come femminile, è assorta in un lavoro alchemico. Con l’aiuto di uno spirito che si protende dalla parete, dispone su di un pentagramma degli elementi vari – solidi, piante, cristalli, carta, foglie, fiori. Come i Pitagorici – che ricercavano l’armonia tra matematica, musica e natura – questo strano compositore si sforza di dare un ordine attraverso la sintesi di tutti gli elementi, generando una melodia perfetta, metafora dell’armonia universale.

Come si è fin qui argomentato, Remedios Varo e Leonora Carrington hanno condotto nel corso della loro vita, una ricerca – artistica, spirituale ed intellettuale – in cui sono diventati centrali il processo di trasformazione dell’alchimia e dell’occulto, il potere creativo delle donne e la relazione delle stesse con la natura. Questo le ha portate a ricostruire un universo al femminile, come dei modelli creativi che sono ben evidenti nella loro produzione pittorica.
La visione di Carrington rispetto alla natura divina della donna, il recupero della sua dimensione magica – secondo quanto teorizzato da Graves in The White Goddess – le consente uno statuto peculiare di creatrice. Strega, maga, fattucchiera, guaritrice che sia, Carrington mette in scena una donna che si è reimpossessata del suo ruolo creativo, il quale si compie attraverso la magia e l’alchimia. Come sottolineato da Urzula Szulakowska, in Carrington la donna usurpa il ruolo di magus e se ne appropria[45]. In tal modo l’artista britannica propone un modello creativo ben definito, rielaborando un cliché sul femminile. Allo stesso modo Remedios Varo delinea un modello creativo non dissimile – partendo dalle teorizzazione del mistico Gurdjieff – che ha sempre l’occulto e l’esoterico come riferimento. Strega, sacerdotessa, dea – come in Carrington – alchimista, maga o divinatrice – come in Varo – è la donna che è posta al centro di una mitologia pensata ex-novo a partire da un luogo comune assai frequentato dai surrealisti uomini. Ecco che le donne diventano protagoniste ed attrici di un atto di mitopoiesi – proprio come suggerito da Estella Lauter nel suo studio Women as Mythmakers (1984) – contrapponendo archetipi femminili rivitalizzati agli stereotipi ed ai luoghi comuni sul femminile[46]. Le donne, scrive Lauter, possono adottare una strategia di deliberata identificazione con l’Altro, con l’alterità, aderendo specialmente a quegli aspetti della femminilità che sono considerati più marginali e tabù, e procedere a quello che definisce come spostamento (displacement) ovvero alla ri-costruzione in prima persona delle visione dell’‘altra metà’, attraverso la creazione – in una trama ben nota, quella patriarcale fallocentrica potremmo dire – di nuovi archetipi femminili. Varo e Carrington attraverso e loro opere, re-introducono la donna nel mito collettivo.

Come emerso da questa breve e non esaustiva ricostruzione della loro vita e della loro opera, contando solo sulle proprie forze Remedios Varo e Leonora Carrington sono riuscite brillantemente in quell’impresa che, ripensando agli scritti di Luce Irigaray, consiste nella capacità di inscriversi nel discorso maschile, impossessandosi tanto dei mezzi che dei temi, sovvertendolo dall’interno, praticando delle falle, mettendo in scacco i più comuni costrutti inerenti il femminile ed al contempo rivelando una visione propria, autonoma ma non per questo necessariamente in contrasto con il segno dell’uomo. Riuscendo così ad articolare il femminile all’interno di un discorso patriarcale, fallocentrico, recuperando il proprio luogo in esso ma senza mantenere l’indifferenza sessuale. E proprio questa prospettiva, insieme al particolare sodalizio che le ha legate, fa di queste due pittrici scrittrici un caso emblematico tra le surrealiste di seconda generazione.

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* Il presente saggio prende le mosse dalla mia tesi di laurea specialistica in Storia dell’Arte, dal titolo Leonora Carrington e Remedios Varo: due artiste surrealiste tra Europa e Messico, Università degli Studi di Trieste, Dipartimento di Studi Umanistici, a.a. 2012-2013, relatore prof.ssa Nicoletta Zanni.

1 «Vi sono in Messico due streghe stregate: non hanno mai ascoltato voci d’elogio o di biasimo, di scuole o di partiti e molte volte hanno riso del padrone senza faccia. Indifferenti alla morale sociale, all’estetica e al prezzo, Leonora Carrington e Remedios Varo attraversano la nostra città con un’aria di indicibile e ineffabile leggerezza. Dove andranno? Dove le chiama l’immaginazione e la passione» [T. d. A.].

2 Cfr. J. Moorhead, Leonora Carrington, in Surreal Friends. Leonora Carrington, Remedios Varo and Kati Horna, catalogo della mostra (Pallant House Gallery 19 giugno – 12 settembre 2010), a cura di S. Van Raay, J. Moorhead, T. Arcq, Lund Humphries, Farnham 2010, p. 36. Si veda inoltre G. Ingarao, Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento. Dal sogno surrealista alla magia del Messico, Mimesis, Sesto San Giovanni 2014.

3 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey. The Art and Life of Remedios Varo, Virago, London 1988, p. 26.

4 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington. Surrealism, Alchemy and Art, Lund Humphries, Farnham 2010, p. 25.

5 Cfr. E. De Diego, Remedios Varo, Fundación Cultural Mapfre, Madrid 2007, p. 52.

6 La donna è, fin dalle prime fasi del movimento surrealista, la vestale di un progetto di trasformazione sociale, posta al centro dell’estetica del gruppo, in un vero e proprio paradigma. Modello ed esempio per gli aderenti al movimento sono la folle, l’isterica, la donna-bambina, la ribelle, considerate da Breton e compagni come perfette incarnazioni di quell’alterità ritenuta vincente per scardinare la realtà borghese precostituita. Ma se nessun altro movimento – contemporaneo e non – ha mai dato così tanta importanza al femminile, tanto da assurgerne a vero centro propulsore, a questo posto d’elezione garantito alla donna nella teoria, sembrano non corrispondere fatti concreti. Non una sola donna è, di fatto, tra i firmatari dei manifesti programmatici del gruppo. Quando alcune di esse compaiono nelle gloriose riviste – da “Littérature” a “Minotaure” – o nei saggi dei fondatori, gli accenni sono puntualmente ingenerosi, stereotipati, riduttivi. Si pensi ad esempio alla menzione che Breton fa di Frida Kahlo nel suo Il surrealismo e la pittura definendola «bomba infiocchettata». Il resto sono silhouettes, ombre, eteree figure incorporee, apparizioni sull’emulsione fotografica. Un’immagine piatta ed iconica, controversa, ci appare dalla pur ampia mole di testi redatti dagli aderenti al movimento. Se nei loro testi poetici Desnos, Eluard, Aragon, Breton – degni eredi dei poeti romantici o dello stilnovismo toscano – le esaltano, nelle pitture di Dalí, Magritte, Masson, nei collage di Ernst o nelle fotografie di Man Ray e Hans Bellmer si sprigiona invece una violenza verso il corpo della donna, ridotto a feticcio, disarticolato, reificato. L’immagine che emerge da questi testi è comunque una sola: quella di una donna come oggetto del desiderio altrui. La storia ufficiale del movimento surrealista può apparire come una storia tutta al maschile. Una storia di uomini, del loro immaginario, delle loro ossessioni.

7 Si veda a tal proposito J. Roche, Max et Leonora. Récit d’investigation, Le temps qu’il fait, Cognac 1997.

8 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 18.

9 Ivi, p. 34.

10 Cfr. M. Cottonet-Hage, The Body Subversive: Corporeal Imagery in Carrington, Prassinos and Mansour, in Surrealism and Women, a cura di M.A. Caws, MITT Press, Cambridge 1991, p. 78.

11 Si veda in tal proposito e riguardo al sodalizio amicale e creativo tra Leonora Carrington, Max Ernst e Leonor Fini a Saint-Martine-d’Ardéche W. Chadwick, D’un jour à l’autre. A Tale of Love, War and Friendship, in “Papers of Surrealism”, Issue 9, Summer 2011. Citazione tratta da http://www.surrealismcentre.ac.uk/papersofsurrealism/journal9/acrobat_files/Whitney%20Chadwick.pdf.

12 Cfr. S.R. Suleiman, Risking Who One Is: Encounters With Contemporary Art and Literature, Harvard University Press, Cambridge (Mass) 1994, pp. 89-121.

13 In merito alla “cattività marsigliese” del gruppo surrealista si veda M. Sawin, Surrealism in Exile: and the Beginning of the New York School, MITT Press, Cambridge (Mass) 1995, pp. 104-147.

14 Per un approfondimento sulle tendenze dell’arte messicana nei primi decenni del Ventesimo secolo, si vedano: E. Lucie-Smith, Latin American Art of the 20th Century, Thames and Hudson, London 1993; I. Rodriguez-Prampolini, El surrealismo y el arte fantástico de Mexico, Universidad Nacional Autonoma de México, México 1993; H. MacKinley, Mexican Painters. Rivera, Orozco and Siqueiros and Other Artists of the Social Realist School, Dover Publ, New York (NY) 1989; M. Sartori, Arte latinoamericana contemporanea. Dal 1825 ai giorni nostri, Jaca book, Milano 2003.

15 Per un’adeguata ricostruzione della vicenda del pittore Wolfgang Paalen in Messico e della rivista Dyn si veda A. Leddy, D. Cowell, Farewell to Surrealism. The Dyn Circle in Mexico, Getty Research Institute, Los Angeles 2013.

16 Cfr. S. Van Raay, Surreal Friends, in Surreal friends..., p. 13.

17 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, 1988, p. 119.

18 Ibid.

19 M. Warner, Leonora Carrington’s Spirit Bestiaryor the Art of Playing Make-Believe, in Leonora Carrington: Paintings, Drawings and Scultures, 1940-1990, catalogo della mostra (Serpentine Gallery 11 dicembre – 26 gennaio 1992), a cura di A. Schlieker, Serpentine Gallery, London 1991, p. 16.

20 Cfr. T. Arcq, Mirror of the Marvellous, in Leonora Carrington: Paintings…, 1991, p. 101.

21 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, p. 147 e sgg.

22 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington..., p. 70.

23 Cfr. M. Warner, Leonora Carrington’s Spirit Bestiary; or the Art of Playing Make-Belief, in Leonora Carrington. Paintings…, p. 19.

24 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey..., p. 196.

25 Cfr. M. Warner, Leonora Carrington’s Spirit Bestiary; or the Art of Playing Make-Belief, in Leonora Carrington. Paintings…, p. 14.

26 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, pp. 205 e sgg.

27 Cfr. W. Chadwick, Pilgrimage to the Stars. Leonora Carrington and the Occult Tradition, in Leonora Carrington. Paintings…, p. 18.

28 G.M.M. Colvile, Beauty and/Is the Beast: Animal Symbology in the Work of Leonora Carrington, Remedios Varo and Leonor Fini, in “Dada/Surrealism”, 18, 1990, pp. 159-181: p. 163.

29 Cfr. W. Chadwick, Women Artists and the Surrealist Movement, Thames and Hudson, New York 1997, p. 202.

30 L.R. Robinson, Sex, Class and Culture, Muthuen, London 1978, p. 41.

31 C. Garcia, Remedios Varo, peintre surréaliste. Création au féminin: hybridations et métamorphoses, L’Harmattan, Paris 2007, p. 126.

32 Ivi, pp. 128-129.

33 Cfr. E. De Diego, Remedios Varo…, p. 114.

34 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 82.

35 C. Classen,The Colours of Angels: Cosmology, Gender and the Aesthetics, Routledge, London 1998, p. 133.

36 Affascinato dal Rosarium philosophorum e dalle sue allusioni a unione, sesso, nascita e morte, Breton si avvale della mitologia della tradizione rosacruciana per ribadire ancora una volta la propria convinzione della necessità di superamento di un sistema patriarcale che deve essere rimpiazzato dai valori della coscienza femminile. Riprendendo Eliphas Levi, Breton ritiene che le donne abbiano una speciale connessione con le forze irrazionali e con la natura. Le loro qualità intuitive e i loro tratti isterici, possono servire da stimolo alla creatività maschile. Il tema dell’alchimia diventa quindi parte integrante dell’estetica surrealista, nella sua fenomenologia basata su amore-desiderio-donna. In tal senso essi si inscrivono nel discorso alchemico storico che si è sempre basato sul concetto del femminile come magico, alieno, selvaggio, instabile e incontrollato. Per un approfondimento si veda N. Choucha, Surrealism & the Occult, Mandrake of Oxford, Oxford 2010.

37 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 62.

38 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, 1988, p. 90.

39 Ivi, p. 164.

40 Nel suo famoso testo, Robert Graves ipotizza l’esistenza di un’unica divinità femminile, una Dea Bianca, che era alla base di società matriarcali quali sarebbero state quelle euro-asiatiche arcaiche. Tale ipotesi è sviluppata proprio a partire dallo studio di miti e leggende celtiche dell’Irlanda e del Galles, tanto cari alla Carrington, con ampi riferimenti all’alfabeto runico, alla poesia bardica e ai druidi. The White Goddess rappresenta inoltre il primo testo a esplorare una spiritualità antica tutta centrata su una divinità al femminile. Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 79.

41 Cfr. W. Chadwick, Pilgrimage to the Stars, in Leonora Carrington. Paintings…, p. 33.

42 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 80.

43 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, p. 172.

44 B. Varo, Remedios Varo: en el cientro del microcosmo, Fondo de Cultura Economica, Mexico 1994, pp. 111-113.

45 Cfr. U. Szulakowska, Alchemy in Contemporary Art, Ashgate, Burlington 2011, p. 93.

46 Cfr. E. Lauter, Women as Mythmakers. Poetry and Visual Art by Twenty Century Women, Indiana University Press, Bloomington 1984, p. 9.

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Temi di Critica - numero 10
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