La riaffermazione dell’iconografia di San Sossio in ambito napoletano, a partire dal Seicento[1], transita inizialmente attraverso la raffigurazione delle scene della vita di San Gennaro. Seguendo tale traccia è possibile individuare immagini del santo nei diversi contesti che vedono protagonista il patrono di Napoli. Fungono da momenti cardine, pertanto, gli episodi che vedono San Gennaro condotto al martirio, o dinanzi alle belve nell’anfiteatro, o soggetto a decapitazione insieme ai suoi compagni. Rispetto a questi ultimi due episodi, risultano indicative le due lastre d’argento poste nel 1609 alla base del busto reliquiario di età angioina (realizzato dagli orafi di corte Maestro Etienne Godefroy, Milet d’Auxerre e Guillaume de Verdelay; Napoli, Museo del Tesoro di San Gennaro), che costituiscono un riferimento cardine, anche per ragioni di devozione, al quale si ricollegheranno i pittori per le successive interpretazioni, ma soprattutto Lorenzo Vaccaro nel suo bassorilievo in marmo per la chiesa di San Gennaro alla Solfatara a Pozzuoli. L’opera relativa alla scena del martirio, che risulta documentata al 1697[2] ed eseguita su commissione del cardinale Cantelmo, arcivescovo di Napoli, viene pertanto a porsi al culmine delle esperienze maturate all’interno del secolo e sigla il determinante passaggio dallo schematismo controriformato alla visione tardobarocca, legata alle suggestioni del Solimena. Dal confronto con la lastra argentea, di stampo tardocinquecentesco, emergono notevoli varianti, indicative del profondo cambio di rotta operato dal noto scultore napoletano. Se in ambedue è possibile registrare la presenza sullo sfondo dei seguaci (tra i quali San Sossio), le note maggiormente caratterizzanti sono date dall’eliminazione della mitra sul capo di San Gennaro nel momento del martirio e dall’intervento operativo del martirizzatore che gli recide il capo, secondo un rituale che riattualizza il Martirio di san Giovanni Battista del Caravaggio nella Cattedrale de La Valletta attraverso un’accentuazione naturalistica[3]. L’impianto chiaroscurale, inoltre, che acutizza la drammaticità della visione in primo piano, conferma la «franchezza» espressa dall’artista in quell’occasione, secondo quanto sottolineato dal De Dominici[4].
Volendo pertanto rivolgere attenzione alle scene che contemplano ambedue i santi al loro interno (San Gennaro e San Sossio), andrà ripresa senz’altro la traccia segnata inizialmente dal Pacelli[5] e poi dal Leone De Castris[6] in merito al percorso dell’iconografia di San Gennaro per l’ambito cronologico seicentesco, sia sotto il profilo del riferimento agli artisti, sia in merito ai momenti principali che ne segnarono la riaffermazione, quali l’eruzione del Vesuvio del 1631 e la peste del 1656. Una partenza d’obbligo risulta pertanto il riferimento a Battistello Caracciolo, il quale, in parallelo alla decorazione della cappella dedicata al santo patrono nel Duomo di Napoli, realizzò gli affreschi e le tele per la cappella eponima della Certosa di San Martino. Esaminando i bozzetti per le scene della volta, attualmente al Museo di San Martino, almeno in tre di essi risulta evidente la presenza del diacono di Miseno: sia nella scena che vede il gruppo dei prigionieri legato al carro di Timoteo, sia in quella dove compaiono a giudizio, sia in quella in cui sono presenti nell’anfiteatro. Confrontando i citati bozzetti con gli affreschi, realizzati tra il 1632 e il 35, risultano evidenti alcuni passaggi nodali, in quanto Battistello nella fase preparatoria sceglie un timbro chiaroscurale di forte intensità, sì da caratterizzare in maniera incisiva i volti, addensando le ombre nelle pieghe della pelle, in modo da far risaltare la sofferenza patita. Nella trasposizione della scena ad affresco, l’intento appare quello di conciliare l’effetto della lezione emiliana con gli esempi dello Stanzione, per cui, attraverso una luminosità chiara e distesa, si consegue un risultato di alleggerimento dei toni naturalistici, funzionale a sottolineare l’esemplarità del martirio e la conseguente sottomissione del santo e del suo seguito.
Alle tele laterali della medesima cappella della Certosa viene invece affidato il compito di dare risalto all’atrocità dei martiri, per cui nella scena del martirio finale, che vede San Sossio illuminato di riflesso in secondo piano, il sondaggio luministico dell’atmosfera notturna, da cui affiorano presenze abbaglianti, accentua la visione della decollazione e del conseguente fiotto di sangue che sgorga dal collo del primo martire decapitato, lasciando in evidenza l’espressione dei volti dei martiri disposti in successione.
L’esperienza battistelliana fissa pertanto i termini interpretativi destinati a lasciare il segno nelle successive interpretazioni maturate in area napoletana, rivolte a sottolineare l’atrocità del martirio.
Alla considerazione di tali esiti da parte dei maggiori protagonisti della scena pittorica napoletana, si contrappone nettamente la visione classicistica introdotta dal Domenichino, in forza dell’autorevole tradizione carraccesca, il quale tra il 1632 e il 40 intervenne ad affresco, e in parte su rame, nell’ambito della decorazione della Cappella del Tesoro. Momenti in cui si registra la comune presenza dei due santi risultano quelli relativi alle raffigurazioni ad affresco con San Gennaro che abbraccia San Sossio e San Gennaro e compagni nell’Anfiteatro di Pozzuoli, oltre che il rame finale con l’esecuzione del santo patrono. Quest’ultima scena, che dal punto di vista stilistico racchiude il messaggio finale dell’artista, trova nella figura del carnefice l’elemento di divisione tra i due santi, che interviene quasi a scandire il ritmo degli eventi in successione. Proprio il filtro disegnativo viene a rafforzare la differente condizione dei santi: mentre San Gennaro, preso per i capelli, è condizionato nei suoi movimenti, San Sossio è colto nel suo abbandono estatico ed esemplato sulle tipologie del Reni. L’estrema pulizia formale, che valorizza il risalto cromatico, rende percepibili nei primi piani i preziosismi materici e l’accurata definizione delle forme regolari.
Sempre al Domenichino è stato riferito di recente un disegno[7], presente negli ambienti attigui alla Cappella del Tesoro, che risulta preparatorio per una composizione di ampie dimensioni e che intende registrare la fase immediatamente precedente la decollazione di San Gennaro e del suo seguito, dove però va osservato che il santo, bendato, ha un momento di incertezza, in quanto è colto piuttosto in bilico, come se perdesse l’equilibrio, per cui non assume il tono remissivo, sviluppato in altre composizioni relative al medesimo soggetto. In un complesso figurativo, nel quale predominano elementi di compostezza, di simmetria e di ordine complessivo, oltre che di raffinata eleganza, riguardo agli addobbi dei cavalli e agli abiti che rivestono le armature dei soldati, gli unici elementi discordanti, che alterano l’atmosfera statica di fondo, appaiono sia la figura del protagonista, che i piccoli angeli in alto, in caduta libera verso il basso. Elementi questi che già di per sé, senza entrare nel merito delle componenti stilistiche[8], inducono ad una interpretazione problematica del soggetto.
Prima di passare alla sequenza di scene del martirio, che vedono sempre presente San Sossio in raffigurazioni ampiamente scenografiche, va considerato il rame di Leonaert Bramer [9], dove, pur in assenza del riferimento a San Gennaro, è stata ipotizzata la presenza dei suoi “compagni”, siglata da una cupa atmosfera al cui interno si registra una insolita condizione di attesa, tipica della linea interpretativa del pittore olandese (documentato a Roma nel 1627), del quale in collezione Roomer a Napoli, secondo il Capaccio, risultavano presenti ben quaranta dipinti[10].
Una particolare attenzione merita, poi, la tela di Artemisia Gentileschi (Museo di Capodimonte), realizzata tra il 1635 e il 37, che vede San Sossio assistere nell’anfiteatro al Miracolo di San Gennaro che ammansisce le belve. Nell’opera, che fece parte del gruppo di dipinti commissionati dal vescovo di Pozzuoli Martín de León Cárdenas e che testimonia la piena affermazione della pittrice in ambito napoletano, anche a seguito del conferimento dell’incarico per la tela del Casón del Buen Retiro[11], «sopravvivono nessi con l’attività di Artemisia anteriore al periodo napoletano nel nitore dei bianchi delle vesti sacerdotali e nella corposità materica della dalmatica rossoviolaceo del diacono Sossio inginocchiato dinanzi al vescovo»[12].
Sempre per il Duomo di Pozzuoli, e precisamente per l’altare maggiore, Agostino Beltrano realizzò nel 1636 la Decollazione di San Gennaro , ponendo alle spalle del santo il gruppo dei compagni, disposti a semicerchio e in ginocchio. Va osservato come la figura del carnefice che fa ruotare la scimitarra diverrà ricorrente nelle scene di martirio, che troveranno seguito da Micco Spadaro a Solimena: «A Pozzuoli anzi, nel quadro più antico (‘paesaggio’ di ruderi architettonici a parte, ispirato alle vedute di un Viviano Codazzi) l’atteggiarsi ad accademica monumentalità di alcuni tra i personaggi principali – il carnefice ad esempio, tutt’altro che brutale o ferocemente “bestiale”, com’era nella tradizione caravaggesca, ma atteggiato in una posa eroica da antico guerriero – mostra di nuovo un’attenzione non episodica al classicismo ‘romano’, tra Poussin e Lanfranco, che nel 1635 eseguiva proprio nel duomo di Pozzuoli affreschi oggi perduti»[13].
Su un diverso registro appaiono strutturati i personaggi all’interno di un’altra composizione del Beltrano[14], dove al martirio del santo protagonista sta per seguire quello di San Sossio. Ad un medesimo ambito andrà riferita anche la tela di collezione privata[15], che intende celebrare questo secondo martirio e fa ancora leva sull’incalzante presenza del carnefice.
Anche Paolo Finoglio, nella tela destinata alla chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Coversano, ebbe modo di intervenire in merito al tema iconografico del martirio finale di San Gennaro, sulla scorta delle esperienze stilistiche e iconografiche maturate in occasione della decorazione del Duomo di Pozzuoli, alla quale aveva partecipato insieme ai due artisti precedentemente citati. Diversamente da quanto prodotto in tale circostanza, con il dipinto raffigurante San Pietro che consacra vescovo Sant’Aspreno, ancorato alla rivisitazione naturalistica di Battistello, la tela di Conversano presenta elementi innovativi dal punto di vista cromatico, che intervengono nel sondaggio luministico a rivelare le proprietà degli oggetti e la preziosità dei tessuti, ancora memori della lezione di Ippolito Borghese. Dal punto di vista iconografico il mutamento di prospettiva, siglato dalla fase in cui viene ultimata la preparazione del martire e quindi antecedente la decapitazione (compresa l’apposizione della benda sugli occhi), gioca a favore di una inattesa riconsiderazione di San Sossio, il quale trova una collocazione autonoma al centro della scena ed è colto nel medesimo atteggiamento (anche se in posizione invertita) del San Domenico, realizzato negli stessi anni per la cappella eponima della medesima chiesa, del quale condivide la posa «statuaria»[16]. Nel San Gennaro che ammansisce le belve, di formato ridotto, non concordemente attribuito al Finoglio[17], riemerge la figura del diacono alle sue spalle, interpretato sempre in chiave estatica e pertanto restituito alla sua funzione di comprimario, in alternativa all’esito della Gentileschi a Pozzuoli. Proprio questa interpretazione autonoma conforta nel ritenere tale soluzione ideata dal Finoglio.
Sempre nella prima metà del secolo diviene ricorrente il riferimento al martirio di San Gennaro e del suo seguito in un ambito spazialmente dilatato per accogliere gruppi di armati e di spettatori, che trova conclusione nelle fumose rocce della solfatara. Per tale serie di opere il modello di riferimento dovette essere il dipinto realizzato da Aniello Falcone per Gasparo Romer:
[…] gli dipinse in tela di otto palmi per traverso il Martirio di S. Gennaro, così bene ideato, e dipinto, che ne meritò straordinaria lode, imperciocchè in esso vedeasi sì gran quantità di figure, cavalli, soldati, ed altro, ch’era uno stupore, avendovi effigiato al naturale il luogo della Solfatara, dove il Santo con suoi compagni fu decollato. […] Solo il quadro descritto del Martirio di S. Gennaro, e compagni, ei volle ritenere appresso di se, per essere cosa molto singolare in pittura. Di esso fa menzione il Sandrart […][18].
La proposta di identificazione di tale dipinto con una tela di collezione privata a Napoli[19] non trova adeguata conferma sotto il profilo iconografico, data la presenza nei primi piani di un solo cavallo. Non sono inoltre riconducibili al Falcone né la sigla apposta sul retro a quest’ultimo, né l’eccessiva ricercatezza delle vesti dei martiri. In tale dipinto il protagonista è piuttosto Sossio, collocato al centro della scena e colto nell’atto della decapitazione, dato che a San Gennaro è offerto un ruolo non primario. Un più sicuro riferimento all’opera indicata dalle fonti si riscontra, invece, nella tela del Pio Monte della Misericordia, finora assegnata a Niccolò De Simone, al cui interno risultano presenti numerosi cavalli in diverse pose, che testimoniano peculiarità tipiche del Falcone, come la sua decisa impronta naturalistica, quale emerge soprattutto dal rilievo assunto dalle lucide armature. In tale composizione, che trova più opportuna collocazione nell’ambito della collaborazione con Carlo Coppola, San Gennaro ha un ruolo primario, legato al culto del sangue, mentre San Sossio, di poco arretrato e bendato, è in attesa del colpo fatale. A quest’ultimo santo rivolge particolare attenzione Niccolò De Simone, nella tela del Museo Nazionale di San Martino[20], dove è collocato di spalle e con il capo rasato, mentre prega in ginocchio dinanzi al corpo ormai tronco di San Gennaro. L’opera, caratterizzata da un maggiore affollamento delle figure che emergono dal fondo, è siglata da un’atmosfera incandescente, sostenuta in forza di una materia sanguigna diffusa per l’intera composizione, che altera le vivide espressioni facciali, imponendo un timbro fortemente caratterizzante al dipinto.
Più legato alle soluzioni estratte dall’esempio del Falcone, anche per il ricorso alla quadriga sullo sfondo, appare il Coppola nelle successive rielaborazioni tematiche, testimoniate da due composizioni di collezione privata[21], dove procede ad una codificazione del messaggio, rivolto a ridare centralità a San Gennaro, oltre che a sottolinearne la presenza, facendo ricorso ad un lussuoso manto vescovile. La scelta poi del momento che precede la decapitazione non lascia spazio a momenti sanguinari, quanto piuttosto ad un armonioso controllo formale, memore degli esiti dello Stanzione.
Percorsi alternativi a tali esiti si individuano sia nel Maestro dei Martiri, di cui sono state rese note numerose versioni del medesimo tema (Duomo, San Paolo Maggiore, Marianella e due in collezioni private)[22], contraddistinte da una spiccata ampiezza spaziale, che vanifica le presenze, sia nelle soluzioni adottate da Scipione Compagni nelle tele dei Musei di Nantes, Perigueux, Vienna, oltre che di collezione privata[23], dove le rovine monumentali danno solennità alle scene, contribuendo a neutralizzare i toni macabri e a trasporre l’episodio in una dimensione irreale. Mentre il primo artista estremizza la componente sanguinaria, in quanto ancora memore degli esempi del passato, legati ad una visione di stampo controriformato rivisitata in chiave naturalistica, Scipione Compagni lega il singolare abbinamento di rovine monumentali e piccole figure disseminate nel paesaggio alla lezione di François De Nomé (Monsù Desiderio). In ambedue le tele (oggi in Francia) al San Gennaro decapitato corrisponde la sequenza dei suoi compagni, che nell’esemplare di Perigueux offre risalto a San Sossio, soprattutto per la sua integrità corporea.
L’esempio del De Nomé risulta vincolante, anche se depurato dal fantasmagorico luminismo in chiave notturna, che ritroviamo nella tela di Binningen (collezione R. Dreyfus)[24], dove è indubitabile l’identificazione con il Martirio di San Gennaro e del suo seguito, anche per la presenza in primo piano del vaso e della donna che si prodigherà a raccogliere il sangue; e poi in quella di collezione Della Vecchia a Napoli[25], dove predomina una sovrabbondante concentrazione di architetture fantastiche sui termini nodali della rappresentazione. Un più luminoso sondaggio paesaggistico caratterizza il dipinto del Ringling Museum of Fine Art di Sarasota[26], realizzato intorno al 1621, nel quale la sequenza degli abiti bianchi orienta verso il luogo del martirio, collocato sulla destra, dove sono percepibili sul capo di San Gennaro sia la mitra che la benda. Anche nella tela di Raleigh (Northon Carolina Museum of Art)[27] si registra il medesimo andamento della composizione da sinistra verso destra, con un’ampia panoramica della solfatara e la presenza di soldati romani alternati ad uomini abbigliati secondo la moda dell’epoca: originale appare la sostituzione dei cavalli del carro di Draconzio con il gruppo dei seguaci di San Gennaro tenuti insieme da un cordone.
Certamente la serie di suggestioni determinate dagli esiti di Monsù Desiderio, di Scipione Compagni e Cornelio Brusco furono alla base della reinterpretazione in chiave barocca operata da Micco Spadaro in risposta alle tendenze classicizzanti che erano venute prevalendo in ambito napoletano, soprattutto con Carlo Coppola e Andrea de Lione. Una testimonianza basilare è fornita dalle tele di collezione privata a Napoli, in una delle quali, siglata[28], il martirio di San Sossio risulta operato in precedenza rispetto a quello del santo patrono, mentre nell’altra il medesimo santo è colto nel momento della decapitazione, che segue quella di San Gennaro, espressa in termini di estrema crudezza, anche per lo scorrimento del sangue sulla spada del carnefice[29]. Non è stato possibile identificare il dipinto al quale si riferisce il De Dominici, quando cita il «bel quadro del Martirio di san Gennaro, con la veduta al naturale della Solfatara, che possiede il principe di Avellino»[30], mentre la seconda delle due opere ora citate è stata messa in relazione alla tela venduta nel 1670 dal pittore a Giuseppe Pandolfo[31].
In linea di continuità con il fluido pittoricismo dello Spadaro si pone il Martirio di San Gennaro del Giordano per la chiesa romana dello Spirito Santo dei Napoletani (1702-1703)[32] , il cui bozzetto (Londra, National Gallery), già in collezione Ruffo[33], conferma la collocazione del santo in una posizione soprelevata, alla quale corrisponde in basso la distribuzione dei corpi decapitati dei compagni. A tale soluzione si richiama anche il dipinto di Giacomo Del Po del Museo Duca di Martina a Napoli[34], dove è palese l’interscambio con le scelte cromatiche del Peresi, nel vibrante luminismo che accompagna gli squillanti effetti dei rossi, specie in relazione al fluire del sangue dei martiri in primo piano.
Con tali esempi dovette confrontarsi Francesco Solimena nel formulare la sua proposta iconografica per il Martirio di San Sossio, ricordato dal De Dominici[35] e destinato alla zona centrale del soffitto della navata della chiesa di Frattamaggiore, dedicata al santo di Miseno. Attualmente non abbiamo la possibilità di confermare tale attribuzione, data la distruzione della tela a seguito dell’incendio del 1945, che coinvolse anche gli altri dipinti del soffitto, raffiguranti la Predica del santo (dove era presente tra gli ascoltatori anche il committente, il parroco Tommaso Pio De Angelis)[36] e San Sossio esposto alle fiere nell’anfiteatro di Pozzuoli, nonché quelli del transetto (San Sossio e l’angelo, San Sossio e la Vergine)[37], assegnati all’ambito del Giordano. Tuttavia, circa la datazione del dipinto va senz’altro considerato quale anno limite il 1703, data la richiesta espressa dai responsabili della chiesa dello Spirito Santo di Sant’Antimo, committenti del Martirio di Sant’Antimo a Nicola Malinconico[38], che il «quadro debbia essere in conformità e del modo istesso che sta fatto il quadro dell’intempiatura della parrocchiale chiesa di Frattamaggiore ed in conformità del lavoro di quella…»[39]. In effetti il collegamento con la tela del Malinconico (autore per il soffitto della medesima chiesa di Sant’Antimo di una Incoronazione della Vergine, 1708)[40], lascia subentrare il dubbio che le tele di ambedue le chiese fossero state realizzate dal Malinconico, dato che nel contratto non viene esplicitato il riferimento ad un diverso autore della tela di Frattamaggiore. Al momento, anche se non possiamo basarci che sulla testimonianza delle fonti e su riproduzioni fotografiche antecedenti l’evento distruttivo[41], dobbiamo considerare che proprio dal confronto con le foto riprodotte in sede locale emerge con chiarezza che Malinconico per la tela di Sant’Antimo operò una sintesi tra le prime due tele che decoravano la navata della chiesa sansossiana di Frattamaggiore. Passando pertanto all’esame del bozzetto del Martirio di San Sossio attualmente presente nella medesima Basilica, che il Bologna, pur giudicando copia dal bozzetto originario, ha posto in relazione ad una ripresa di interessi del Solimena verso il Preti[42], maturata tra il 1701 e il 1702, dobbiamo considerare la possibilità che si tratti di un primo abbozzo di Nicola Malinconico per la tela centrale del soffitto. La piccola tela, che probabilmente recupera un’idea originale del Solimena, affidata probabilmente ad una semplice stesura grafica, lascia percepire, proprio attraverso l’impronta tenebristica di supeficie, come sia la struttura, che le componenti cromatiche siano strettamente legate all’esperienza cassinese del Solimena, impegnato alla fine del secolo, nel Martirio di San Placido (noto attraverso il bozzetto del Museo di Budapest)[43], ma anche nella Decollazione di San Giovanni Battista, nota attraverso il disegno di Darmstadt (Landesmuseums)[44]. Sebbene in abbozzo, lo schema del dipinto consente in primo luogo di constatare una netta inversione dei ruoli dei due santi principali dell’eccidio della Solfatara, con lo scatto di San Sossio a protagonista nella scena della decapitazione, dal momento che il santo di Miseno, riconoscibile dalla fiammella sul capo, è posto al centro della scena, mentre sullo sfondo, in atto di procedere verso il medesimo luogo, è collocato San Gennaro, in posizione arretrata. A conferma dell’ipotesi di attribuzione dell’opera al Malinconico interviene utilmente un bozzetto, acquisito di recente dal Museo di Montecassino, che consente di considerare la scena nella sua definitiva composizione, ampliata ai lati con la figura di un soldato con corazza dorata e due cavalieri sulla destra, mentre sulla sinistra sono state aggiunte due figure di anziani e un uomo con barba, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, che induce a pensare ad un autoritratto del pittore. Anche nella parte superiore risulta l’aggiunta di due angeli tra le nubi. Attraverso tale recupero si intende fornire un decisivo elemento di chiarificazione in merito all’intervento che segnò la fase culminante della decorazione del soffitto della chiesa di Frattamaggiore, nel momento in cui il Solimena dovette rinunciare all’incarico per i consueti motivi conflittuali con il più giovane artista[45].
Nel medesimo Museo si conservano altre due tele, di recente acquisizione, con il Martirio di San Lorenzo e il Martirio di Santo Stefano, che spettano alla fine degli anni ’90 e si inseriscono nel percorso di allineamento del Malinconico sul tenebrismo solimeniano.
Successivamente anche a Giuseppe Simonelli, allievo del Giordano[46], venne offerta l’occasione di interpretare il tema del Martirio di San Sossio nella tela, firmata, dell’altare maggiore della chiesa eponima di Somma Vesuviana (consacrata nel 1712 dal cardinale Vincenzo Maria Orsini), dove affrescò anche, sulla lunetta del portale d’ingresso, la Gloria del santo , anch’esso collocabile agli inizi del Settecento, in quanto in linea con le tele realizzate per l’Annunziata di Aversa (1702-1703). L’artista, seguendo un processo di verticalizzazione, legato ad uno schema ascensionale, distribuisce l’evento su tre piani, nei quali, partendo dal basso, colloca in successione il corpo decapitato di San Gennaro, cui segue la scena della decapitazione di San Sossio, per culminare nell’angelo che regge la palma, allineato al trono dove è posto il giudice Draconzio.
L’influenza del Simonelli si registra inoltre nella tela di un suo discepolo, Gennaro Abbate[47], il quale dovette essere a conoscenza della tela del soffitto di Frattamaggiore, dal momento che nel Martirio di San Gennaro per la cappella eponima al Gesù Vecchio carica di una più decisa impronta chiaroscurale il volto del carnefice. In tale composizione San Sossio viene posto sul margine sinistro ed è riconoscibile dalla fiammella che appare sul capo, nonostante la posa laterale. Un processo di idealizzazione, connesso ad una accurata selezione disegnativa, sigla invece la soluzione adottata da Giovan Battista Lama nel suo Martirio di San Gennaro per la chiesa eponima di Vettica Maggiore (Praiano)[48], dove l’immagine di San Sossio affiora sullo sfondo a sinistra, in lontananza, circoscritta tra la gamba del carnefice e la custodia insanguinata della spada. La tela del Lama testimonia la fase di passaggio dell’artista dall’ambito del Giordano, al quale si riferiscono sia le figure sullo sfondo che la definizione del paesaggio avvolto in densi vapori dorati, a quello del De Matteis, ricordato dal De Dominici[49].
Mentre con la tematica sansossiana venivano cimentandosi molti allievi del Solimena, da parte degli specialisti di pittura di paesaggio, agli inizi del Settecento, si individua un tentativo di ripresa della lezione seicentesca, rivolta all’inserimento della scena sacra in un paesaggio d’invenzione. Così Gaetano Martoriello, nella tela del Museo di San Martino, riporta l’attenzione sulla definizione del paesaggio sullo sfondo, riducendo a brevi pennellate la presenza figurativa del martire decapitato e del suo seguito.
Tra i primi allievi del Solimena ad introdurre riferimenti al santo di Miseno troviamo Andrea d’Aste, nella Madonna con Bambino tra San Gennaro e San Sossio per la chiesa del Corpo di Cristo a San Sossio di Serino (1704)[50], realizzata nello stesso anno della tela di Santo Spirito ad Atri e con la stessa impostazione compositiva, recuperando tra l’altro la figura di san Gennaro dall’esemplare solimenesco di Milwaukee (Art Center)[51].
Anche Nicola Maria Rossi ebbe modo di intervenire in merito a tale tematica, riallacciandosi in parte all’interpretazione battistelliana, ma evidenziando i rilievi anatomici appresi presso l’Accademia del Solimena, in occasione del San Gennaro condotto al martirio per Palazzo Gaetani a Piedimonte Matese: «dove l’episodio ‘eroico’ del martirio del santo diventa argomento per la descrizione di un fatto di ‘cronaca’, malgrado il tentativo di rendere le figure dei ‘carnefici’ con l’intensità tipica del Solimena»[52]. Tale opera, degli inizi degli anni trenta, va identificata con la tela, già in asta presso Blindarte (Napoli, 11/12/2008, lotto 64), dove San Sossio, al centro della composizione, appare compresso tra il manigoldo in atto di spingerlo e la figura colonnare di San Gennaro, il cui sguardo è rivolto verso l’alto.
In anticipo rispetto a tale soluzione, in quanto collocabile nella seconda metà degli anni venti, troviamo il dipinto di Santa Maria di Montecalvario di Domenico Antonio Vaccaro[53], il quale si avvale dell’uso dei grigi per frenare l’emergenza delle tinte, nel momento in cui delinea una netta contrapposizione tra il corpo decapitato di San Sossio, disteso in primo piano e quello di San Gennaro in piedi, che il carnefice aiuta a liberarsi degli abiti più solenni, secondo modi e ritmi che richiamano il teatro metastasiano.
Un ritorno alla tematica sansossiana da parte del Solimena è evidente anche nella scena, oggi a Rohrau, commissionatagli da Aloys Thomas Harrach,viceré di Napoli dal 1728: «Per questo viceré fece in tela di 4 e 5 palmi un San Gennaro nella prigione, visitato da’ santi Proculo e Sossio martiri che gli bacian la mano»[54]. San Sossio è riconoscibile alle spalle del santo, in quanto su di lui un angelo solleva la fiamma identificativa. Del dipinto, che risulta inviato da Napoli a Vienna nel 1731[55], e il cui schema venne riutilizzato per il frontespizio del volume del padre carmelitano Girolamo Maria di Sant’Anna, Istoria della vita, virtù e miracoli di San Gennaro (1733)[56], è stato reso noto un disegno (Londra, Courtauld Institute Galleries, Witt Collection), che testimonia una delle fasi di elaborazione del progetto grafico[57]. Va osservato che in tale contesto, diversamente da quanto accade nel dipinto, la figura di San Gennaro è rappresentata in piedi, mentre impugna il pastorale con la sinistra e offre la destra alla devozione di due soli santi, in assenza delle belve, che compariranno in un secondo momento, per richiamare l’attenzione sull’ambiente descritto, relativo all’anfiteatro. La fiamma sollevata in alto, pertanto, appare sul capo del giovane santo inginocchiato.
Successivamente gli interventi di Francesco De Mura in merito alla specifica iconografia di San Sossio possono essere circoscritti a due importanti momenti della sua produzione pittorica. Il primo è relativo alla fase di decorazione della chiesa benedettina dei Santi Severino e Sossio (1740), e in particolare agli affreschi della controfacciata: «Allato al finestrone vi sono le figure di san Sossio e san Severino, dipinte ne’ spicoli laterali…»[58]. Questa preziosa informazione ha permesso di collegare a tale esito il bozzetto del Pio Monte della Misericordia, con la Gloria di San Sossio[59], che non ha trovato adeguata identificazione nel Causa[60], né giusta collocazione cronologica nello Spinosa[61], che lo ha messo in relazione al più tardo ciclo di trenta tele con papi benedettini, presente nella medesima chiesa. Attraverso tale raffigurazione il santo di Miseno, con la fiamma sul capo (in ricordo della visione avuta da San Gennaro) riacquista la sua autonomia dal contesto gennariano, sulla scorta di quanto già avvenuto, ad opera del Simonelli, sulla facciata della chiesa eponima di Somma Vesuviana.
Il secondo intervento si riferisce alla tela (distrutta), eseguita nel 1758 per l’altare maggiore del Santuario di Frattamaggiore[62], dove il santo era presente, insieme a Santa Giuliana, ai piedi della Madonna con Bambino, in una composizione che trova adeguato parallelo in quella realizzata nello stesso anno per la cappella napoletana del Palazzo del Monte Manso di Scala, che seguì alla decorazione della cappella dell’Assunta per la Certosa di San Martino (1757). Alla realizzazione del citato dipinto, rivolto alla celebrazione dei santi patroni di Fratta, fa riferimento un documento di pagamento del 30 ottobre 1759 al falegname Giuseppe Iaconangelo, per «un telaro di legname di pioppo per il quadro di palmi sedici per sedici, formato nella chiesa parrocchiale di detto casale di Fratta Maggiore da Francesco De Mura» (Archivio Storico Banco di Napoli, Banco del Popolo, giorn. cassa matr. 1542, p. 572)[63].
In una fase immediatamente successivavenne realizzata anche un’altra tela del De Mura, raffigurante la Trinità, anch’essa perduta, che sormontava il suddetto dipinto. Il bozzetto va senz’altro identificato con la tela presente nei depositi di Palazzo Barberini a Roma, in quantosul retro vi è indicato «Macchia di un quadro sopra l’altare maggiore della parrocchiale chiesa di Frattamaggiore. Francesco de Mura P. Marzo An. 1763»[64]. Il tenero impasto che interviene nella definizione delle pur limitate presenze all’interno della composizione, conferma la continuità del suo metro operativo, spinto ad accogliere le più moderne proposte di ambito europeo e a conciliarle con le esperienze giovanili, al fine di neutralizzare definitivamente la componente chiaroscurale. La tela si viene a collocare negli anni in cui il pittore intese riprendere i rapporti con la corte dei Savoia e in particolare con Carlo Emanuele III, da cui scaturì la commissione delle otto tele allegoriche per Palazzo Chiablese a Torino[65].
In conclusione ritengo che questa breve sintesi iconografica abbia permesso di recuperare la continuità di una presenza significativa, ma a lungo passata sotto silenzio per dare maggiore risalto al patrono napoletano, peraltro investito in maniera crescente di ruoli primari sia in ambito miracolistico, che in eventi promossi in difesa del popolo napoletano.
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Il presente lavoro, che ha inteso dare una prima sistemazione critica al percorso dell’iconografia di San Sossio professori Francesco Abbate, Donato Salvatore, Almerinda Di Benedetto), organizzata per conto della negli anni della maggiore affermazione della pittura napoletana in età moderna, è stato sviluppato a seguito della partecipazione alla seconda giornata di studi dell’evento Dalla croce al martirio: la testimonianza del diacono Sossio, tenutasi presso la Sala consiliare del Comune di Frattamaggiore il 7 maggio 2013 (alla quale hanno partecipato il vescovo di Aversa Angelo Spinillo e i Parrocchia di San Sossio dal dott. Antonello Ricco, che ha curato anche i volumi: Il Museo Sansossiano e la sua città. Guida breve, Frattamaggiore, 2013; Museo Sansossiano. Frattamaggiore, Napoli, 2013.
1 Cfr. R. Lattuada, Il Barocco a Napoli e in Campania, Società Editrice Napoletana, Napoli 1988; S. Causa, La strategia dell’attenzione. Pittori a Napoli nel primo Seicento, Dante & Descartes, Napoli 2007.
2 G.B. D’addosio, Documenti inediti di artisti napoletani del XVI e XVII secolo, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, 1918, p. 154.
3 G. Rispoli, A proposito dello “Sgozzamento” del Battista di Malta, in Caravaggio tra arte e scienza, a cura di V. Pacelli, G. Forgione, Paparo, Napoli 2012, pp. 49-55.
4 B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, Ricciardi, Napoli 1742-1745, III, p. 471.
5 V. Pacelli, L’iconografia di S. Gennaro dalle origini al Settecento, in “Campania Sacra”, 1989, 20, pp. 401-475.
6 P. Leone De Castris, San Gennaro e l’arte napoletana, in San Gennaro tra Fede, Arte e Mito, catalogo della mostra (Napoli, dicembre 1997- aprile 1998), a cura di P. Leone De Castris, de Rosa, Napoli 1997, pp. 49-91.
7 P. Leone de castris, San Gennaro…, pp. 172-173.
8 Cfr. G. Porzio, Pittura e devozione nella Napoli del Seicento. Ricerche su Giuseppe Piscopo, in Ricerche sull’arte a Napoli in età moderna, Arte’m, Napoli 2013, p. 102.
9 W. Prohaska, in Micco Spadaro. Napoli ai tempi di Masaniello, catalogo della mostra (Napoli, 20 aprile - 30 giugno 2002), Electa Napoli, Napoli 2002, p. 174.
10 G. C. Capaccio, Il Forastiero, Roncagliolo, Napoli 1634, pp. 863-864, cfr. anche R. Ruotolo, Mercanti-Collezionisti fiamminghi a Napoli. Gaspare Roomer e i Vandeneynden, Scarpati, Massa Lubrense 1982, pp. 5-12.
11 R. Lattuada, Artemisia a Napoli, Napoli e Artemisia, in Orazio e Artemisia Gentileschi, catalogo della mostra (Roma, 20 ottobre 2001 - 20 gennaio 2002) a cura di K. Christiansen, J. W. Mann, Skira, Milano 2001, p. 380.
12 N. Barbone Pugliese, in Paolo Finoglio e il suo tempo, catalogo della mostra (Conversano, 18 aprile - 30 settembre 2000), Electa Napoli, Napoli 2000, p. 173.
13 F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il secolo d’oro, Donzelli, Roma 2002, p. 77.
14 N. Spinosa, La pittura napoletana del ‘600, Longanesi, Milano 1984, tav. 42; L. Ambrosio, in Micco Spadaro…, p. 172.
15 N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli: da Caravaggio a Massimo Stanzione, Arte’m, Napoli 2010, p. 202-278.
16 M. D’Elia, in Mostra d’Arte in Puglia dal Tardoantico al Rococò, catalogo della mostra (Bari, dicembre 1964), Roma 1964, p. 148.
17 V. Pacelli, L’iconografia di S. Gennaro…, p. 415, fig. 25.
18 B. De Dominici, Vite…, III, p. 74. Nell’edizione a cura di F. Sricchia Santoro, A. Zezza, viene indicato da V. Farina (I, p. 132) il testo di riferimento (Academia nobilissimae Artis Pictoriae, 1683, CXXI, p. 191): «Inter alia autem tabulam quandam pinxit multis imaginibus refartam, in qua decollationem Januarii neapolitanor. Patroni magna cum laude exhibuit. Quod opus Neapoli ad huc apud Gasparum Romerum mercato rem Belgam in palatio ejus magnifico, cum aliis artificis hujus operi bus spectare licet».
19 Cfr. F. Bologna, in Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli, catalogo della mostra (Napoli, 9 novembre - 19 gennaio 1992), Electa Napoli, Napoli 1991, pp. 155, 158, 314-315; nonché G. Sestieri, B. Daprà, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro paesaggista e ‘cronista’ napoletano, JandiSapi, Milano-Roma 1994, p. 170; B. Daprà, in San Gennaro tra Fede, Arte e Mito..., p. 148; N. Spinosa, Pittura del Seicento..., p. 244. Cfr. inoltre S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Electa Napoli, Napoli 2000.
20 B. Daprà, San Gennaro tra Fede, Arte e Mito…, pp. 152-153.
21 V. Pacelli, Pittura del ‘600 nelle collezioni napoletane, Grimaldi, Napoli 2001, p. 94, fig. 146; P. Leone De Castris, San Gennaro…, p. 71, fig. 46.
22 Ibid., pp. 71-72.
23 Ibid., p. 71; N. Spinosa, Pittura del Seicento…, pp. 202-276.
24 M.R. Nappi, François De Nomé e Didier Barra, Jandi-Sapi, Milano-Roma 1991, pp. 96-101.
25 Ibid., p. 119/A58.
26 Ibid., p. 147/A77.
27 Ibid., pp. 159-160/A83.
28 Cfr. B. Daprà, in Micco Spadaro…, p. 139.
29 B. daprà, in San Gennaro…, pp. 150-151.
30 B. De Dominici, Vite…, III, p. 199.
31 Cfr. B. Daprà, in Micco Spadaro…, pp. 169-170.
32 Cfr. O. Ferrari, G. Scavizzi, Luca Giordano, Electa Napoli, Napoli 1992, I, p. 357/A702.
33 Cfr. G. Wiedmann, Luca Giordano e Tommaso Ruffo a Roma, in “Ricerche sul ‘600 napoletano”, 1991, pp. 263-269.
34 F. Petrelli, Giacomo del Po, Decollazione di San Gennaro, in San Gennaro…, p. 154.
35 B. De Dominici, Vite…, III, p. 593.
36 Cfr. P. Ferro, Frattamaggiore Sacra, Tip. Cirillo, Frattamaggiore 1974, p. 134: dove viene ripresa la memoria ottocentesca di F. Ferro, contenuta nel manoscritto conservato presso la Biblioteca dell’Istituto di Studi Atellani.
37 Cfr. D. Marchese, Guida al complesso basilicale di San Sossio levita e martire, in Museo Sansossiano. Frattamaggiore, Di Mauro, Sorrento 2013, p. 39.
38 Cfr. C. Di Giuseppe, Nicola Malinconico a Sant’Antimo, in “Rassegna storica dei Comuni”, 2008, n. 150-151, pp. 66-70.
39 Cfr. A. Ricco, In deposito dal territorio: note sulla movimentazione delle opere d’arte in parrochia, in Museo Sansossiano…, p. 94: dove viene fatto riferimento al contratto stipulato in data 24 gennaio 1703 dal notaio G.M. Di Donato (Archivio di Stato di Napoli, Fondo Notai del ‘600, scheda 671/IX, c. 5r).
40 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani del ‘700. Nuovi documenti, Liguori, Napoli 1994, pp. 21, 76-77 (Appendice documentaria di U. Fiore).
41 Cfr. F. Pezzella, Note d’archivio sul perduto patrimonio artistico della chiesa di San Sossio di Frattamaggiore in seguito all’incendio del 1945, in “Rassegna storica dei Comuni”, 2003, n. 118-119, pp. 73-74, dove è riportato il commento espresso da O. Ferrari in occasione della schedatura dell’opera da parte della Soprintendenza: «Il colore vivace e impastato, il modellato risentito, l’impostazione tradizionale delle figure e le caratteristiche tiponomie fanno ritenere quest’opera di stretta orbita solimenesca, nei primi decenni del sec. XVIII. Un’inconsueta fluidità compositiva e, soprattutto la non alta qualità, non permettono di attribuire il dipinto al Maestro stesso».
42 Cfr. F. Bologna, Francesco Solimena, L’Arte Tipografica, Napoli 1958, p. 285.
43 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani del primo Settecento. Fonti e documenti, Liguori, Napoli 1997, pp. 22-24.
44 J. Simane, Neapolitanische Barockzeichnungen in der Graphischen Sammlungdes Hessischen Landesmuseums Darmstadt, catalogo della mostra (Darmstadt, 18 dicembre 1994 - 19 febbraio 1995), Landesmuseums Darmstadt, Darmstadt 1994, pp. 97-98.
45 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani…, 1997, pp. 112-121.
46 Ibid., pp. 103-108.
47 Ibid., pp. 108-109.
48 M.A. Pavone, Presenze napoletane tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, in La Costa di Amalfi nel secolo XVII, atti del convegno di studi (Amalfi, 1-4 aprile 1998), Centro di cultura e storia amalfitana, Amalfi 2003, p. 346, fig. 27.
49 Cfr. B. De Dominici, Vite…, III, p. 451; nonché M.A. Pavone, Pittori napoletani…, 1997, pp. 212-214.
50 Cfr. M.A. Pavone, Riconsiderando Andrea d’Aste, in “Prospettiva”, 40, 1985, p. 38; S. Carotenuto, Pittori napoletani del Sei e Settecento nel territorio di Serino, Paparo, Napoli 2008, pp. 115-116.
51 Cfr. N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento. Dal Barocco all’Arcadia, Electa Napoli, Napoli 1986, p. 106.
52 Cfr. C. Siracusano, Nicola Maria Rossi e la cultura artistica napoletana del primo Settecento, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’arte medievale e moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina”, 4, 1980, pp. 51-52: «Nello stesso arco di tempo intorno al ’32 il Rossi è impegnato in una serie di importanti commissioni per varie chiese e per il palazzo Gaetani, a Piedimonte d’Alife […]. Si tratta […] di altre cinque tele aventi per soggetto La decollazione di S. Gennaro, un’altra Natività, un S. Francesco di Paola, La decollazione di S. Marcellino e infine un Arcangelo, tutte facenti parte della collezione del marchese Gaetani». In proposito si veda inoltre: R. Marocco, Memorie storiche di Piedimonte d’Alife, La Bodoniana, Piedimonte d’Alife 1926, p. 202; A. Barbiero, Arte e Storia nel Palazzo Ducale di Piedimonte d’Alife, Banca Capasso Antonio, Piedimonte Matese 2000, pp. 40-44.
53 Cfr. N. Spinosa, in Settecento napoletano. Sulle ali dell’aquila imperiale 1707-1734, catalogo della mostra (Vienna, 10 dicembre 1993 - 20 febbraio 1994 – Napoli, 19 marzo - 24 luglio 1994), Electa Napoli, Napoli 1994, pp. 284-285.
54 B. De Dominici, Vite…, III, p. 603.
55 Cfr. H. Benedikt, Das Königreich Neapel unter Kaiser Karl VI. Eine Darstellung auf Grund bisher unbekannter Dokumente aus den österreichischen Archiven, Manz, Wien-Leipzig 1927, p. 614.
56 Cfr. W. Prohaska, in Settecento napoletano…, pp. 270-271.
57 Cfr. R. Muzii, in Settecento napoletano…, p. 341.
58 B. De Dominici, Vite…, III, p. 699.
59 Cfr. G. D’Alessio, Francesco De Mura pittore napoletano, Università degli Studi di Napoli, Facoltà di Lettere e Filosofia, tesi di laurea, relatore Giovanni Previtali, a.a. 1986-87, pp. 197, 239.
60 R. Causa, Opere d’arte nel Pio Monte della Misericordia, Di Mauro, Cava de’ Tirreni 1970, pp. 112-113; cfr. inoltre L. Gazzara, Note e documenti inediti per lo studio delle collezioni della Quadreria del Pio Monte della Misericordia, in “Napoli Nobilissima”, maggio-giugno 2008, p. 175, n. 138.
61 N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento…, p. 160.
62 Cfr. S. Capasso, Frattamaggiore. Storia, chiese e monumenti, uomini illustri, documenti, Studio di propaganda editoriale, Napoli 1944, pp. 149-150, nonché F. Pezzella, Note d’archivio…, p. 74; D. Marchese, Museo Sansossiano Frattamaggiore, Di Mauro, Sorrento 2013, p. 39.
63 G. D’Alessio, Francesco De Mura…, p. 329.
64 Ibid., pp. 329-330.
65 G. D’Alessio, Nuove osservazioni sulle committenze reali per Francesco De Mura tra Napoli, Torino e Madrid, in “Prospettiva”, 69, 1993, pp. 78-80.