Tra gli “episodi” raccontati da Michael Baxandall nel suo libro postumo di memorie, Episodes. A Memory Book[1], ve ne è uno a cui si deve sostanzialmente l’importante contributo dell’autore alla storia e alla critica d’arte del nostro tempo. Mi riferisco al momento in cui, dopo aver conseguito l’English Tripos al Downing College di Cambridge (1954)[2], egli decide di non proseguire la formazione letteraria per dedicarsi allo studio delle arti visive. I fatti che corredano questo snodo decisivo meritano un’attenzione speciale, in quanto rivelano le possibili origini di alcuni tratti caratteristici dell’opera successiva dello studioso. In particolare, ci occuperemo in questa sede del suo profondo interesse per la ricezione visiva dell’opera d’arte. Un esempio significativo, in questo senso, è offerto dalle memorie relative al 1955-56, anno che Baxandall trascorre in Italia grazie a una borsa di studio ottenuta dopo l’iscrizione al Courtauld Institute come studente esterno in storia dell’arte. In esse l’incontro giovanile con la pittura italiana è descritto come un momento fondante in cui, posto di fronte all’opera, Baxandall si interroga per la prima volta sul valore di ciò che descriverà come «the raw visual feel of the pictures», ovvero la “grezza” sensazione visiva delle immagini, «and the immediate sense of human quality and mood»[3].
Nel presente contributo si intende ricostruire come il precoce interesse dello studioso per quel particolare genere di esperienza, che è l’osservazione dell’opera, prenda corpo attraverso alcuni passaggi della sua formazione. In primo luogo si analizzeranno gli apporti che, in questo senso, gli provengono dalla critica letteraria e in particolare da F.R. Leavis[4]. A testimonianza di questo insegnamento vi sono alcune carte appartenenti al fondo Baxandall: quattro pagine dattiloscritte, intitolate Leavis on critical theory (1953)[5], in cui Baxandall cerca di distillare un pensiero critico attraverso i termini usati correntemente dal maestro. Questo “breve glossario”, come è descritto nelle memorie, acquista un’importanza fondamentale alla luce delle riflessioni che accompagnarono la fine degli studi a Cambridge:
Supposing one had tried to do a Leavis on visual art, on pictures and sculptures and so on, what would it have been like? I was occasionally thinking about this at that time[6].
Attraverso un confronto mirato tra le voci del glossario e alcuni luoghi selezionati dell’opera di Leavis, si cercherà di comprendere come tale lezione sia stata assimilata da Baxandall nel momento del passaggio alla storia e alla critica d’arte. Non si analizzeranno, quindi, integralmente gli sviluppi che l’intenzione di “fare un Leavis nelle arti visive” può assumere nell’opera successiva dello studioso; né, è bene specificare, si pretende di rendere giustizia alla complessità e all’originalità della critica leavisiana. L’autore comparirà piuttosto in questa sede come singolare rappresentante di una pratica analitica con cui viene comunemente identificata la Scuola di Cambridge[7]: il cosiddetto close reading. Si sonderà, dunque, il modo in cui la “lettura ravvicinata” e attenta del testo venga concretamente e specificamente praticata da Leavis all’interno di brani di critica in atto (practical criticism[8]). In questo modo sarà forse possibile avvicinarsi allo “specifico di Leavis” nell’esperienza di Baxandall, ricordato nelle memorie, come segue:
Perhaps it should still be stated clearly that “close reading” was not what was specific to Leavis, though he did it or something like it. What were specific to Leavis, in my experience, were a temperament and a set of stances and a set of values. The stances were something between implicitly principled positions and postures from which one could effectively launch oneself, and they were embodied in certain critical performances by himself or others. The values were established in exemplary pieces of literature, often good sections out of a mixed whole, read in his way[9].
Se tali critical performances costituiscono il tratto distintivo di Leavis secondo il racconto di Baxandall, nel glossario il discorso a esse sotteso interseca parzialmente quello di I.A. Richards[10] e la critica non accademica di T.S. Eliot[11]. Non si cercherà, dunque, in questa sede, di separare le voci dei singoli autori, ma si ricostruirà, piuttosto, la sintesi personale che Baxandall può averne tratto. Tale acquisizione, come vedremo, si rivelerà fondamentale nel momento in cui il giovane studioso dirotterà la propria attenzione sui “testi visivi”. Ciò che egli cercherà nelle sue prime letture di argomento storico-artistico sarà, appunto, l’“osservazione ravvicinata” delle immagini.
Nel quadro della formazione critico-letteraria di Baxandall, e della sua transizione alle arti visive, si inserisce poi un’altra circostanza che vorrei prendere in considerazione: l’ambizione giovanile di diventare un romanziere.
In my last year at Cambridge I had decided, or at least discovered the firm intention, not to commit to a trade or profession for ten years: I was twenty and could have till thirty before settling […] One ambition I had was to write novels. To find out if I could write novels would take time, not just for writing, but for living: I was aware I lacked experience of life, out of which good novels are known to be written […]. The ambition was not realized because I did not have real narrative vitality, but it underlay a zigzag self direction in the next half-dozen years[12].
Sebbene Baxandall non scriva alcun romanzo negli anni immediatamente successivi a Cambridge, egli continuerà a coltivare questo suo proposito, che porterà alla pubblicazione postuma (2010) di A Grasp of Kaspar, romanzo poliziesco di ispirazione autobiografica[13]. La parziale sovrapposizione di finzione e autobiografia è suggerita, già a una prima lettura, dall’impianto narrativo del libro. Le vicende di A Grasp of Kaspar portano infatti il protagonista ad attraversare a ritroso gli stessi luoghi della peregrinazione giovanile (perambulation) raccontata da Baxandall nelle memorie, che lo vede in Italia nel 1955-56 e a Monaco nel 1957-58, con una tappa intermedia in Svizzera (1956-57), dove insegna presso l’Institut auf dem Rosenberg di San Gallo. Tra le bozze e le carte preparatorie per il libro, datate complessivamente dal 1955 al 2005, si trova un quaderno[14] catalogato come diario personale dell’anno italiano. Le annotazioni registrano impressioni e attività relative al periodo trascorso al Collegio Borromeo di Pavia e presentano una certa somiglianza con alcuni brani del romanzo, soprattutto con le descrizioni degli ambienti e dei paesaggi attraversati durante il suo soggiorno. Queste sovrapposizioni fanno pensare che vi possa essere una stretta correlazione tra il quaderno e il romanzo. Una prima ipotesi è che le note giovanili siano state registrate originariamente come materiale da utilizzare per la scrittura; alternativamente, Baxandall potrebbe esservi tornato al momento della stesura di A Grasp of Kaspar[15]. Qualunque sia la relazione che intercorre tra il manoscritto e il libro, tali annotazioni presentano un vivido interesse rispetto al nostro argomento, in quanto denotano in chi scrive una acuta attenzione nel registrare l’esperienza visiva dei luoghi e degli ambienti descritti, soprattutto dal punto di vista delle qualità atmosferiche che li pervadono. In esse, come si argomenterà in seguito, si può intravedere un’ulteriore e diversa manifestazione di quella “sensazione visiva grezza” che a queste date informa lo sguardo del giovane studioso sull’opera d’arte.
Avendo fin qui tratteggiato le tappe del presente discorso, pare opportuno tornare ai fatti, partendo dal momento in cui Baxandall fa il suo ingresso al Downing College di Cambridge.
L’ammissione alla «Downing English School» avviene in seguito a un colloquio con Leavis: si tratta probabilmente del primo incontro con un autore che, da lì in avanti, diventerà un modello imprescindibile[16]. Egli si trova così immerso in un campo di studi poco familiare[17], con la difficoltà di doversi confrontare con un maestro non incline alle indicazioni esplicite di metodo. In verità, in tal senso, Leavis da tempo preparava un testo rimasto incompiuto.
It took me time to adjust to Leavis’s unwillingness to describe procedures and criteria in general terms: I would have liked an explicit method with precepts and procédés, and would have given much for the ghostly book “Authority and Method” he never finished – though the bits of it that emerged later in essays make it clear that this would not have been the sort of neat driver’s manual I thought I wanted[18].
Nonostante il manuale non abbia mai visto la luce, tra il 1945 e il 1952 appaiono su “Scrutiny”[19] tre articoli, aventi come sottotitolo comune “Notes in the analysis of poetry”[20], frutto della riflessione metacritica di Leavis[21]. Essi confluiscono successivamente nella sezione “Judgment and Analysis”[22] di The Living Principle: English as a discipline of thought(1975). L’impianto generale dei tre saggi conferma l’osservazione di Baxandall per cui sarebbe stato inutile aspettarsi un’esposizione in termini generali delle procedure e dei criteri della critica: essi sono infatti offerti sotto forma di dimostrazioni pratiche o come commenti finali all’esegesi del testo. Leavis procede, cioè, attraverso l’analisi concreta e dettagliata di versi o brani di prosa, scelti in quanto esemplificativi di aspetti di interesse generale: «the method of exploration by concrete analysis – analysis of judiciously assorted instances»[23]. Il metodo rispecchia la struttura tipica dei suoi seminari, descritta da Baxandall nelle memorie:
He taught us through seminars conducted around cyclostyled reading sheets with anything from a couple to half-a-dozen text extracts on them; the texts, verse or prose, were unidentified (though not always unrecognized) and the group attributed them to authors or moments, on the basis of legitimate kinds of point drawn from alert reading. This stage was a sort of high connoisseurship. Then Leavis would expand on a more general issue the texts on the sheet were calculated to raise: impersonality, movement, or whatever it might be[24].
Impersonality e movement rientrano tra le questioni generali che non possono avere una formulazione astratta, ma che emergono dall’analisi di brani assortiti di prosa o poesia. Esse si impongono a una lettura attenta del testo e ne determinano la valutazione critica. Ne consegue che per comprendere la lezione di Leavis sarà necessario confrontarsi, almeno parzialmente, con i versi da cui emergono le questioni fondamentali del suo pensiero. Il nostro punto di vista privilegiato, in tutto ciò, è rappresentato dal glossario, che riassume la “teoria critica di Leavis” in quattro voci: standards, moral judgment, art and morality e impersonality. Non intendo in questa sede analizzare interamente il contenuto del dattiloscritto, quanto trarne alcune osservazioni a proposito della funzione attribuita da Leavis alla critica, dalla quale dipende strettamente l’analisi dei testi. A questo proposito, si farà riferimento a un secondo gruppo di scritti leavisiani, pubblicati tra il 1953 e il 1965[25]; sulla base della loro stretta somiglianza con gli argomenti del glossario, anche le ultime pubblicazioni possono essere lette come stralci della sopramenzionata riflessione metodologica.
Tra le funzioni che Leavis attribuisce alla critica, ve ne sono due di carattere essenziale, tra loro strettamente connesse. La prima è contribuire a formare la sensibilità pubblica al fine di mantenere vivo l’interesse collettivo per la letteratura[26]; parte di questo compito consiste nel giustificare e mantenere aggiornati gli standard di giudizio[27]. La seconda è dare un fondamento a tale interesse per la letteratura, che per Leavis è di tipo “morale”. L’aggettivo descrive la funzione più importante della poesia, che egli, adattando la formula di Matthew Arnold[28] contenuta nel saggio The study of poetry(1880), definisce come «criticism of life». L’espressione serve a connettere i concetti di “arte” e “morale” e a motivare l’importanza della letteratura per la “vita”.
It is when we feel that the radical kind of criteria are notably challenged that the term “moral” comes up; it comes up because they are challenged […] significant art challenges us in the most disturbing and inescapable way to a radical pondering, a new profound realization, of the grounds of our most important determination and choices. Which is what Arnold meant by saying […] that literature is to be judged as “criticism of life [29].
Quanto riportato ha delle immediate conseguenze sul piano dell’analisi del testo, come si può leggere nel glossario: «Analysis is a process of re-creation. Involving discipline in relevance»[30]. Quello di rilevanza è un criterio cui Baxandall attribuisce un’importanza fondamentale nel bilancio retrospettivo della lezione del maestro[31]. Esso emerge in un articolo del 1953 – The responsible critic: or the function of criticism at any time – in cui Leavis, rispondendo alle osservazioni di F.W. Bateson circa lo scarso rigore scientifico di “Scrutiny”, affronta la questione della “responsabilità” della critica. Secondo Bateson, le analisi di Leavis erano caratterizzate da un’eccessiva disinvoltura nell’esprimere giudizi di valore, non supportati da un’adeguata considerazione del contesto storico e letterario cui il testo appartiene. A questa critica “irresponsabile”, egli oppone una più affidabile “lettura contestuale” o “storica” dell’opera (“contextual reading”), metodo rappresentato dalla rivista, da lui diretta, “Essays in criticism”. La polemica offre a Leavis l’occasione per affermare un presupposto essenziale della sua posizione critica: irresponsabile è lo studioso che rifiuta un confronto diretto e personale con la poesia, preferendo una più rassicurante “lettura storica”, il cui effetto è quello di allontanare il testo dal lettore e di nasconderne il significato umano dietro circostanze esteriori. Una lettura sensibile, al contrario, non mancherà certo di riconoscere «the period peculiarities of idiom, linguistic usage, convention, and so on […]»[32] e altri aspetti necessari alla comprensione della poesia come prodotto storico; l’“intelligenza” critica, tuttavia, si manifesterà proprio nella selezione accurata delle informazioni rilevanti,vale a dire che restituiscono la vitalitàdel testo poetico nel presente. Il criterio di rilevanza è così posto a fondamento dell’attività critico-letteraria, nel momento in cui essa è consapevole di aver a che fare con il risultato di un lavoro creativo.
The critic, by way of his discipline for relevance in dealing with created work, is concerned with life[33].
Una ricostruzione esatta del contesto storico, non solo non è possibile, ma può inficiare la comprensione della rilevanza della poesia per la vita: «How does one set to work to arrive at this final inclusive context, the establishment of which puts the poem back in “its original historical setting”, so that “the human experience in it begins to be realized and re-enacted by the reader?”»[34]. La domanda, evidentemente retorica, non può trovare una risposta positiva, poiché l’esperienza umana che il lettore realizza e ricrea si trova all’interno del testo, non al di fuori. La conoscenza del contesto storico è dunque necessaria solo nella misura in cui affina la comprensione delle qualità linguistiche e delle convenzioni stilistiche; ma non è in questo tipo di informazioni che si esaurisce il valore di una poesia.
Chiarito così quale sia secondo Leavis il compito della critica, e la sua responsabilità nei confronti della letteratura, passiamo a considerare un tema centrale nel pensiero dell’autore, l’impersonalità, che compare come lemma conclusivo del glossario di Baxandall. Nell’affrontare la questione ci porremo il duplice obiettivo di comprendere perché l’impersonalità del testo ne riveli il valore morale e come essa si manifesti concretamente nel linguaggio poetico.
In Thought and emotional quality (1945), Leavis confronta coppie di poesie dal punto di vista espressivo, dimostrando come l’emozione possa essere esibita in modo diretto, oppure possa svilupparsi in modo impersonale, ovvero attraverso una situazione presentata all’interno del testo con distacco. Alcuni esempi possono forse aiutare a capire la differenza tra i due tipi di poesia. Confrontando alcuni versi di Wordsworth[35] e Tennyson[36], Leavis dimostra come soltanto nel primo autore l’effetto emotivo sia reso tramite il ricorso all’impersonalità, ovvero sia affidato alla struttura del testo e alle situazioni concrete che essa presenta. Egli si concentra, in particolare, su quello che accade trale stanze.
The emotional power is generated between the two stanzas, or between the states represented by the stanzas: “she was, she is not” – the statement seems almost bare and simple as that. But the statement is concrete, and once the reading has been completed the whole poem is seen to be a complex organization, charged with a subtle life. In retrospect the first stanza takes on new significance: “A slumber did my spirit seal;/I had no human fears”- the full force of that “human” comes out: the conditions of the human situation are inescapable and there is a certain hubris in the security of the forgetful bliss. Again, the “human” enhances the ironic force of “thing” in the next line: “She seemed a thing that could not feel/The touch of earthly years”. In the second stanza she is a thing – a thing that, along with the rocks and stones and trees […] cannot in reality feel the touch of earthly years and enjoys a real immunity from death[37].
Wordsworth “oggettiva” l’emozione personale in una situazione concreta, creata dalla struttura temporale della poesia («she was, she is not»), la quale ha un’esistenza indipendente dalla presenza del poeta e può essere percorsa mentalmente ed emotivamente dal lettore. In Tennyson, al contrario, l’emozione non è realizzata nel testo, ma fluisce in superficie, come un lamento uniforme che si impone alla lettura[38]: l’emozione è esibita sulla pagina - «the emotion seems to be out there on the page» - ed è priva di “sostanza poetica”. Ora, l’impersonalità della poesia di Wordsworth ne decreta la superiorità nel momento in cui l’analisi del testo, in Leavis, cede il passo ad una sua valutazione critica, che comporta l’attribuzione di un valore “morale”: la poesia di Tennyson è inferiore a quella di Wordsworth, non soltanto per i suoi aspetti formali, ma per l’atteggiamento e il comportamento che incarna.
“Inferior in kind” – by what standards? Here we come to the point at which literary criticism, as it must, enters overtly into questions of emotional hygiene and moral value – more generally (there seems no other adequate phrase), of spiritual health[39].
«As it must» dà la misura della componente morale nella critica di Leavis: l’analisi del testo, nel rispetto dei suoi propri fini, valica inevitabilmente il confine di un giudizio sull’atteggiamento incarnato dalla poesia. Una riposta critica appropriata alla poesia è, dunque, quella che si rapporta con l’ethos veicolato dal testo. Tutto ciò è condensato da Baxandall nel glossario, laddove egli chiarisce la natura “morale” dei criteri che presiedono al giudizio critico.
Moral judgements. The criteria of a value judgment: One cannot distinguish between moral and critical considerations. The critic should not necessarily base his moral-critical judgments on any particular ethic; he offers them with the same appeal for agreement as in other critical judgements, an appeal to the moral-critical sense-response of the reader. Moral as a word is used in criticism for emphasis on relevance to “criticism of life”. Significant art challenges (moral) habit and with acquaintance changes it. Failure to challenge it implies pejorative judgement. (Then the points of reference, the standards by which we judge, are nothing more than our sense of life, the contemporary sensibility) [40].
Tornando agli esempi, si è già detto come Wordsworth comunichi la sua esperienza con un tale distacco che sfiora effetti ironici su un tema drammatico come la perdita degli affetti; e come, per contrasto, Tennyson si abbandoni a un esibito sentimentalismo. Nel giudicare la prima poesia come superiore alla seconda, Leavis sta contemporaneamente prendendo posizione rispetto all’atteggiamento rappresentato dai due testi. Il giudizio critico chiama in causa la sensibilità morale del lettore e comporta un’assunzione di “responsabilità” che Baxandall ricorda di aver sperimentato personalmente.
Here [ovvero nel giudizio critico-morale] a person was in an exposed position with Leavis. The famous pattern of exchange – “This is so, isn’t it? Yes, but…” – involved a reciprocal declaration of identity, tacit in one’s own case, of course, but stark and agonistic: it was his human response or yours. In fact, it was him or you…A critical crux – an inability genuinely to share his feeling about a text – might be a moment in learning to read but it might be an irreducible difference in that judgment about life. This exposure was exciting[41].
Al momento di tracciare un bilancio a posteriori della lezione del maestro, Baxandall parlerà nelle memorie di una convinzione maturata in lui per cui in arte gli aspetti “tecnici” e quelli morali non possano essere isolati gli uni dagli altri[42].
In conclusione alla discussione sugli aspetti appena trattati, vorrei far notare come nella voce del glossario, citata poco sopra, si affermi che il giudizio critico-morale non possa fondarsi su alcuna convinzione etica particolare. In altre parole, la critica non deve cadere in ciò che, alla voce Art and Morality, è definito come moralistic fallacy. Tra i moralisti è interessante notare di passaggio la presenza di uno degli autori a cui Baxandall si rivolge nel momento della “transizione alle arti visive”: John Ruskin. In particolare egli ricorda di aver letto con interesse le Seven lamps of architecture(1848; 1880) «for the confidence with which it locates plain values immanent in art»[43]. Nel glossario, l’autore compare tuttavia in una posizione liminare, ovvero in veste di rappresentante di un versante particolare della “fallacia moralistica”:
The moralistic fallacy: Ruskin shows one side of it in the didactic (which is in itself not one) fallacy – the idea that moral content must be explicit…not just enacted[44].
A Ruskin viene affiancato, sotto questo punto di vista, il Tolstoj di What is art? (1897). È interessante notare come il riferimento bibliografico contestualmente indicato per il trattamento del problema, ovvero i Principles of literary criticismdi Richards (1924), offra un preciso termine di confronto per comprendere l’intera voce e, soprattutto, una proposta di soluzione al moralismo nella critica. Pare opportuno soffermarsi brevemente sul pensiero di Richards, per far emergere come il concetto di impersonalità possa essere collegato a quello di immaginazione.
Nel capitolo “Art e morals”, l’autore si sofferma sulla manifestazione del valore morale nelle opere d’arte:
What value is and which experiences are most valuable will never be understood so long as we think in terms of those large abstractions, the virtues and the vices […] Instead of recognizing that value lies in the “minute particulars” of response and attitude, we have tried to find it in conformity to abstract prescriptions and general rules of conduct. The artist is an expert in the “minute particulars” and qua artist pays little or no attention to generalizations which he finds in actual practice are too crude to discriminate between what is valuable and the reverse[45].
Cercando manifestazioni dirette di norme generali di comportamento, il “moralista”, secondo Richards, perde di vista dove risieda il valore dell’arte; Ruskin, cade parzialmente in questo “errore”:
The extent to which the arts and their place in the whole scheme of human affairs have been misunderstood, by Critics, Moralists, Educators, Aestheticians […] is somewhat difficult to explain. Often those who most misunderstand have been perfect in their taste and ability to respond, Ruskin for example[46].
Più severo è il giudizio su Tolstoj. Partendo dal presupposto che il valore dell’opera risieda nel suo contenuto, l’autore russo elegge a giudice delle arti la “coscienza religiosa” dell’età cui l’opera appartiene; è essa, infatti, a garantire la massima comprensione del significato della vita, il quale risiede nell’unione universale degli uomini. Secondo Richards: «Tolstoj […] denied the value of all human endeavours except those which tend directly to the union of men […] All other things are of value only in so far as they tend to promote this, and art shares the general subordination»[47].
Directly è la spia per comprendere l’intero problema e, insieme, un primo suggerimento circa la sua soluzione. Tutto ciò è riportato da Baxandall nel glossario:
There is also Tolstoi, who is the moralistic fallacy and in whom the word “directly” is the key […] The answer to Tolstoi’s “directly” is in Shelley – “The chief agent of moral good is the imagination, and poetry ministers to the end by acting on the cause”[48].
La citazione interna al brano riportato è estratta da un passo di Shelley(Defence of poetry, 1821). Lo stesso testo è citato da Richards come correttivo alle tesi di Tolstoj, in quanto vi si trova, non solo un più ampio e più completo senso dei valori, ma anche una concezione più sottile della funzione morale della poesia. Come nota Elio Chinol nella sua introduzione all’edizione italiana dei Principles: «secondo il Richards la poesia non adempie ad una funzione morale impartendo principi morali e canoni di condotta, ma allargando la sfera della sensibilità umana, maturando una maggiore comprensione dell’esperienza e delle possibilità della vita»[49]. Per spiegare in che modo avvenga tale allargamento della “sfera della sensibilità umana”, Richards ricorre a Shelley:
Ma la poesia opera in maniera più divina [rispetto alla “scienza etica”]. Essa risveglia e allarga la mente stessa facendone il ricettacolo di mille sconosciute combinazioni di pensieri. Tutto ciò che rafforza e purifica gli affetti, che allarga l’immaginazione e anima i sensi, è utile…Il grande segreto della morale è l’amore, o un uscire dalla nostra natura e un identificarci con il bello che esiste in pensieri, azioni e persone fuori di noi. Un uomo, per essere molto buono, deve immaginare intensamente e comprensivamente, deve immaginare se stesso nella situazione di un altro e di molti altri: i dolori e le gioie dei suoi simili devono diventare suoi. Il grande strumento del bene morale è l’immaginazione; e la poesia contribuisce all’effetto agendo sulla causa […]La poesia rafforza la facoltà che è lo strumento della vita morale dell’uomo nello stesso modo in cui l’esercizio rafforza un organo[50].
Attraverso il punto di vista di Shelley, cui Richards si allinea, la questione della funzione morale della poesia viene sottratta alla contrapposizione tra autonomia ed eteronomia dell’arte. La dicotomia tra estetismo e moralismo è infatti superata, laddove si afferma che la funzione morale non minaccia il valore specifico dell’arte: la poesia non è abbassata a mezzo per un fine morale a essa esterno, perché tale fine è affidato all’azione che essa esercita sulle possibilità immaginative del lettore.
Particolarmente interessante, a questo punto, è la relazione tra il concetto di immaginazione, emerso attraverso Richards, e quello di impersonalità sotteso alla critica leavisiana. Quest’ultimo è, infatti, lo strumento necessario affinché la poesia possa suscitare l’immaginazione del lettore, offrendogli la possibilità di riviere e ricreare l’esperienza in essa racchiusa. Riprendiamo dunque l’analisi degli aspetti tecnici del linguaggio poetico in Leavis, focalizzando l’attenzione sull’idea di poesia come mezzoche comunica un’esperienza facendo appello all’immaginazione e svolgendo, al contempo, una funzione morale. L’esercizio credo possa aiutare a identificare le specificità del linguaggio poetico su cui Baxandall allena la propria ricettività, al punto da volerne poi trovare degli equivalenti all’interno dei testi visivi.
Tornando alla voce impersonality del glossario – «Impersonality.Impersonal: not direct address from the poet; self effacement, disinterestedness, detachment»[51] – troviamo un riferimento bibliografico che ci può aiutare in questa direzione: «Eliot’s Tradition and the Individual Talent (reaction against Romantic confusion of autobiography and art)»[52]. Nel famoso saggio del 1917, Eliot descrive il modo in cui opera la mente del poeta, paragonandola a un filo di platino che, immerso in un ambiente di ossigeno e biossido di zolfo, agisce come catalizzatore di una reazione chimica. Il poeta è necessario alla nascita della poesia come il catalizzatore lo è affinché i reagenti si trasformino in composti, ma, al pari del filo di platino, non deve lasciare traccia di sé nel risultato finale. Come il filo è immerso nei gas, così il poeta, in quanto individuo, è immerso nelle passioni che sono il suo materiale poetico. La sua mente «is in fact a receptacle for seizing and storing up numberless feelings, phrases, images, which remain there until all the particles which can unite to form a new compound are present together»[53]. Questo composto è il testo poetico, al cui interno l’autore avrà trasferito e trasfigurato la propria esperienza in una complessa organizzazione di parole.
The poet has, not a personality to express, but a particular medium, which is only a medium and not a personality, in which impressions and experiences combine in peculiar and unexpected ways. Impressions and experiences that are important for the man may take no place in the poetry, and those which become important in the poetry may play quite a negligible part in the man, the personality[54].
Ecco, dunque, la presa di posizione contro la confusione tra autobiografia e arte riportata da Baxandall e insieme l’idea di una spersonalizzazione dell’esperienza nel medium. Richiamando il confronto tra Wordsworth e Tennyson visto sopra, la differenze rilevate da Leavis possono ora essere descritte attraverso le parole di Eliot: «For it is not the “greatness”, the intensity of the emotions, the components, but the intensity of the artistic process, the pressure, so to speak, under which the fusion takes place, that counts»[55]. Ciò che più ci interessa in Eliot è la rilevanza che viene data al medium come risultato della trasformazione poetica di materiali desunti dall’esperienza (“sensazioni, frasi, immagini”). Concentriamoci perciò su tale “processo artistico” – la trasformazione dell’esperienza in linguaggio poetico – e introduciamo un nodo problematico che si nasconde dietro le analisi del verso, ovvero ciò che Leavis chiama «visualist fallacy in criticism»[56].
Siamo di fronte a un possibile errore della critica, ovvero quello di ritenere che la qualità specifica del linguaggio poetico sia di natura squisitamente visiva, risieda cioè nella capacità di evocare immagini. Esso deriva dalla comune abitudine a considerare la visione chiara e distinta come modello di “oggettività”, dunque come ciò che nella nostra esperienza interiore offre una naturale analogia con il pensiero logico. L’attribuzione di qualità visive al pensiero è fonte di errori nella critica letteraria, laddove essa ingenera una predisposizione a considerare gli elementi “particolari” (oggettivanti) della poesia come immagini visive. Di contro, Leavis riporta prepotentemente l’attenzione sul tessuto verbale del testo, il quale agisce sul lettore primariamente attraverso una complessa organizzazione di parole, in cui gli effetti di suono interagiscono con il significato letterale. Le immagini visive hanno certamente un ruolo in questa interazione, ma sono da considerarsi come un tipo possibile di diversi effetti locali che concorrono al risultato finale; non rappresentano, dunque, la qualità essenziale del linguaggio poetico. La vitalità della poesia come medium dipende, infatti, dalla compresenza di movimento – definito come «that vital organization which makes collections of words poetry» – e immaginazione, da cui scaturiscono effetti sinestetici. Analizzando alcuni versi di Keats[57], ad esempio, Leavis rileva come il poeta combini elementi visivi, sonori e di significato in un composto che descrive come un’“immagine tattile” («a tactual image»). In questo caso, il mezzo poetico produce nel lettore un’esperienza di tipo sensoriale che è descritta di seguito in termini generali.
So elsewhere, in reading poetry, one responds as if one were making a given kind of movement or a given kind of effort: the imagery the analyst is concerned with isn’t (to reiterate the point) merely, or even mainly, visual […] For images comes somewhere between full concrete actuality and merely “talking about” as poems do – their status, their existence is of the same order; the image is, in this respect, the type of the poem. In reading a successful poem it is as if […] one were living the particular action, situation or piece of life[58].
As if (come se) – è la formula che ci aiuta a comprendere come la poesia, con le qualità di suono e movimento che le sono propri, possa simulare una situazione realmente vissuta, un pezzo di esperienza. In questo senso, essa sta a metà tra l’esperienza reale e il semplice talking about, ovvero il riferimento a qualcosa che non si è concretamente esperito[59]. È qui all’opera un’idea di poesia come analogical enactment, una sorta di immedesimazione attivata dalla recitazione del verso:
a pervasive action of the verse – or action in the reader as he follows the verse: as he takes the meaning, re-creates the organization, responds to the play of sense-movement against the verse structure, makes the succession of efforts necessary to pronounce the organized words, he performs in various modes a continuous analogical enactment[60].
Ne consegue che la completa ricezione della poesia richiede una particolare sensibilità nella comprensione dei suoi aspetti formali, in particolare quelli che attivano l’immaginazione sensoriale appena descritta. Siamo così giunti a isolare alcune caratteristiche specifiche del medium da cui dipende il grado di concretezza e “realizzazione”, dunque di “impersonalità”, del testo. Esse ci interessano in particolar modo perché si può presumere che siano le stesse su cui Baxandall allena la propria sensibilità critica e di cui egli cercherà degli equivalenti al momento del passaggio alle arti visive. Come si ricorderà, infatti, il quesito principale che segna la formazione è come trasporre sui testi visivi una prassi analitica appresa a contatto con i testi letterari («to do a Leavis on visual art»)[61]. Di seguito vorrei proporre delle possibili e parziali risposte a tale interrogativo, mostrando alcuni punti di tangenza tra la critica di Cambridge vista sin qui e la storia dell’arte, in particolare attraverso la figura di Bernard Berenson. Come si vedrà, l’autore rientra nell’orizzonte di letture di Baxandall nel periodo preso in esame[62].
Nel 1930 esce The Italian Painters of the Renaissance, in cui sono raccoltii quattro libri sui pittori rinascimentali italiani, pubblicati da Berenson in una prima versione tra il 1894 e il 1897. Nel libro dedicato ai pittori fiorentini, l’autore affronta il problema fondamentale della “pittura di figura”, ovvero la rappresentazione della terza dimensione. Egli osserva come la sola vista non sia sufficiente a fornire un senso preciso della forma delle cose e come, fin dall’infanzia, impariamo ad associare le nostre impressioni visive alle sensazioni tattili e a quelle muscolari che provengono dal movimento del corpo nello spazio. Solo attraverso questo processo, percepiamo la profondità spaziale e la forma tridimensionale degli oggetti: «every time our eyes recognize reality, we are, as a matter of fact, giving tactile values to retinal impressions»[63]. A fronte di questa evidenza, la pittura, nel suo tentativo di offrire un’immagine convincente della realtà nelle due dimensioni, deve essere in grado di risvegliare il nostro senso tattile:
I must have the illusion of being able to touch a figure, I must have the illusion of varying muscular sensations inside my palm and fingers corresponding to the various projections of this figure, before I shall take it for granted as real, and let it affect me lastingly[64].
L’essenziale nella pittura di figura risiede, dunque, nella capacità di simulare le sensazioni del tatto, di «stimolare l’immaginazione tattile». Maestro in quest’arte è, ovviamente, Giotto, capostipite dei pittori fiorentini. Il piacere provato davanti ai dipinti di Giotto, secondo Berenson, non dipende soltanto dalla somiglianza delle sue figure con la realtà, bensì dal fatto che “li sentiamo intensamente reali” grazie alla sensazione creata dall’attivazione simultanea del senso della vista e del tatto. Si tratta di un piacere “genuinamente artistico” che investe i modi della rappresentazione, ovvero il livello della “decorazione”, distinto da Berenson dal soggetto rappresentato (“illustrazione”). Esso differisce inoltre dal piacere prodotto dall’illusionismo mimetico: i “valori tattili” hanno il fine di accrescere la nostra capacità vitale, provocando una sensazione più intensa rispetto a quella della realtà stessa. La “forma pittorica”, infatti, presta agli oggetti un “più alto coefficiente di realtà”, che esalta i comuni processi psichici. Alcuni esempi potranno forse aiutare a chiarire questi concetti.
Ciò che separa le tavole di Cimabue e di Giotto agli Uffizi, dal punto di vista della resa pittorica del soggetto, è una differenza che Berenson chiama di “realizzazione”. Per sentire le figure di Cimabue come se fossero reali «we have had to make many times the effort that the actual objects would have required, and in consequence our feeling of capacity has not only not been confirmed, but actually put in question». Di fronte alle immagini vitali di Giotto, invece, la nostra immaginazione tattile è subito attivata: «Our palms and fingers accompany our eyes much more quickly than in presence of real objects, the sensation varying constantly with the various projections represented, as of face, torso, knees; confirming in every way our feeling of capacity for coping with things – for life, in short»[65]. Ne consegue che le figure giottesche, ad esempio le allegorie agli Scrovegni, non vadano lette come simboli, in quanto realizzanoil significato spirituale all’interno di forme visibili (tratti e attitudini): «No need to label them: as long as these vices exist, for so long has Giotto extracted and presented their visible significance»[66]. Ulteriori aspetti dell’immaginazione tattile emergono nelle descrizioni degli affreschi masacceschi in Santa Maria del Carmine a Firenze:
Dust-bitten and ruined though his Brancacci Chapel frescoes now are, I never see them without the strongest stimulation of my tactile consciousness. I feel that I could touch every figure, that it would yield a definite resistance to my touch, that I should have to expend thus much effort to displace it, that I could walk around it[67].
Le figure di Masaccio suscitano un’immaginaria sensazione di sforzo data dalla resistenza fisica che il loro peso opporrebbe al tentativo di smuoverle, così come la “sensazione ideata” del nostro movimento attorno ai loro volumi nello spazio. Si tratta di tipi fisici che anche in questo caso incarnano valori spirituali: «How quickly a race like this would possess itself of the earth, and brook no rivals but the forces of nature! Whatever they do – simply because it is they – is impressive and important, and every movement, every gesture, is world-changing». Altro esempio di atteggiamenti realizzati nelle figure di Masaccio, è fornito da Berenson attraverso la puntuale descrizione della Cacciata: «Masaccio’s Adam and Eve stride away from Eden heartbroken with shame and grief, hearing, perhaps, but not seeing, the angel hovering high overhead who directs their exiled footsteps»[68]. In poche righe, l’autore ci restituisce con precisione il sentimento della vergogna, infondendo nelle figure dei due peccatori un senso fisico di paralisi.
Mi pare che, in tutto ciò, vi sia una significativa somiglianza con l’analisi leavisiana della poesia come simulazione della realtà, ovvero come mezzo in grado di stimolare delle reazioni di tipo sinestetico (tactual image) e un senso fisico di azione attraverso la lettura e la recitazione del testo (analogical enactment). I concetti di immaginazione tattile (tactile imagination) e di sensazioni ideate (ideated sensation of touch and movement), esposti sopra, offrono delle possibilità analoghe nella ricezione del testo visivo. In effetti, come si è detto, gli Italian Paintersrientrano tra le letture di Baxandall nel momento in cui inizia a profilarsi la sua “conversione” alle arti visive; queste comprendono anche Meaning in the visual arts di Erwin Panosfky, la cui prima edizione esce nel 1955. Se il primo testo riceve un giudizio molto freddo, il secondo è accolto con entusiasmo e viene ricordato da Baxandall come un punto di inizio del suo interesse per la storia dell’arte[69]. Ciò che apprezzò particolarmente in Panofsky era la precisione con cui l’autore “osservava da vicino” le immagini, sebbene non vi riconosca il tratto della critica di Cambridge. A confronto con l’iconologia panofskiana, i concetti di Berenson emersi precedentemente costituiscono, a mio avviso, degli strumenti più puntuali per descrivere la relazione diretta dell’osservatore con il piano formale dell’immagine («the raw visual feel») e presentano una forte somiglianza con il close reading praticato da Leavis. Si può avanzare un’ipotesi di spiegazione per la diversa reazione di Baxandall ai due autori e per lo scarso successo riscosso da Berenson. Ciò di cui egli sembra essere in cerca è una lettura dell’immagine che connetta direttamente qualità visive e valori di ordine sociale o culturale: «What I wanted was a short cut directly between visual properties and social values»[70]. È possibile che la chiarezza e sistematicità di Panofsky rispondessero più efficacemente a tale esigenza. Mi riferisco, ad esempio, al saggio Iconografia e iconologia[71], in cui l’autore scompone il contenuto dell’immagine in tre strati (soggetto primario o naturale, soggetto secondario o convenzionale, e significato intrinseco o contenuto), cui corrispondono tre diversi livelli di lettura. Non mi pare, tuttavia, che i due discorsi debbano escludersi reciprocamente. Credo, invece, che le interpretazioni più erratiche di Berenson possano essere cautamente avvicinate all’interesse giovanile di Baxandall per l’osservazione ravvicinata delle immagini. Esse, inoltre, non sono incompatibili con alcuni sviluppi successivi della storia dell’arte baxandalliana. Si pensi alle indagini sulle abitudini e le abilità dell’occhio quattrocentesco[72]. Interrogandosi sulla presenza di un padiglione nella Madonna del parto di Piero della Francesca e sul fatto che quel tipo di forma era utilizzata negli esercizi di misurazione, contenuti nei manuali di matematica commerciale; o ancora, mettendo in relazione la descrizione geometrica dei volumi con l’uso quotidiano dei barili come strumenti per valutare la quantità delle merci; in tutti questi casi, a mio avviso, Baxandall stabilisce una continuità percettiva tra l’immagine e la realtà, e chiama in causa la possibilità di immaginare sensazioni di tipo tattile o di movimento associate alla visione. Suscitando «l’occhio del misuratore», ad esempio, Piero sfrutta il senso della vista «nelle sua speciale qualità di immediatezza e di forza», al fine di avvicinare fisicamente lo spettatore al soggetto della rappresentazione: «La precisa e spontanea valutazione che il fruitore dà del padiglione è ciò che gli consente di passare dalla sua dimensione quotidiana al mistero della immacolata concezione della Vergine»[73]. Il padiglione, in altre parole, è l’espediente pittorico che consente di concretizzare, di rendere vicino e reale per lo spettatore, un contenuto spirituale[74]. In tutto ciò è doveroso specificare che il discorso sulle abilità visive, che Baxandall svolge nel famoso testo del 1972, riguarda gli “stili cognitivi” o “conoscitivi” quattrocenteschi. Esso presuppone, cioè, una forte componente di attività intellettuale, e un grado variabile di condizionamento culturale, interni alla percezione visiva. Questo aspetto non mi sembra tuttavia incompatibile, da un punto di vista psicologico, con le reazioni di tipo più immediato di cui si è parlato finora; i due livelli della percezione possono infatti essere presenti simultaneamente nella comprensione dell’immagine[75].
Questo tipo di reazioni agli stimoli offerti dalla pittura è descritto anche nei già citati Principles of Literary Criticism di Richards, testo in cui Baxandall può aver presumibilmente trovato ulteriori suggerimenti su come applicare la “lettura ravvicinata” del testo alle arti visive. Riprendiamo dunque in considerazione l’opera del critico letterario, cercando di mostrare la vicinanza tra la sua teoria estetica e le “sensazioni ideate” di Berenson. Sotto questo punto di vista, essa presenta un vantaggio fondamentale, in quanto l’autore dedica alla pittura una parte della sua riflessione.
Oggetto della critica, secondo Richards, sono quelle esperienze che si verificano ogni qualvolta si apre un libro, si guarda un quadro o si ascolta della musica. Il primo requisito del buon critico è il seguente: «He must be an adept at experiencing, without eccentricities, the state of mind relevant to the work of art he is judging»[76]. Egli necessita allora della psicologia generale, per analizzare l’esperienza dell’opera d’arte, e di una teoria del valore, per giudicarla. Concentriamoci sul primo aspetto. Punto di partenza di Richards è la critica all’idea di esperienza estetica come qualcosa di unico e separato dalla vita quotidiana; di contro, egli stabilisce una relazione di continuità tra esperienza delle opere d’arte ed esperienza ordinaria.
When we look at a picture, or read a poem, or listen to music, we are not doing something quite unlike what we were doing on our way to the Gallery or when we dressed in the morning. The fashion in which the experience is caused in us is different, and as a rule the experience is more complex and, if we are successful, more unified. But our activity is not of a fundamentally different kind[77].
La differenza non è cioè sostanziale, ma sta nell’organizzazione dell’esperienza riprodotta in un’opera d’arte, che è inoltre condizione necessaria alla sua comunicazione[78]. Quest’ultimo punto è affrontato da Richards all’interno di una teoria psicologica che prende le mosse dalla constatazione della separazione delle menti: poiché non vi può essere trasmissione della stessa esperienza tra due individui, la comunicazione avviene quando una mente agisce sull’ambiente circostante, in modo che un’altra possa avere un’esperienza simile alla prima e in parte causata da essa. Ora, per far rivivere un’esperienza, non basta nominarla; è necessario creare una situazione in cui si verifichino impulsi simili a quelli della situazione originaria. La prima condizione di questa riviviscenza è il controllo dell’immaginazione del fruitore nella direzione desiderata dall’artista, affinché essa non sia lasciata agli elementi accidentali della ripetizione soggettiva. Richards distingue, a questo proposito, tra “immaginazione ripetitiva”, che ripete cioè l’esperienza passata individuale, e “immaginazione formativa”, per la quale l’elemento presente – gli stimoli forniti dall’opera – è tanto importante quanto l’esperienza soggettiva passata. «As a basis for every art, therefore, will be found a type of impulse which is extraordinarily uniform, which fixes the framework, as it were, within which the rest of the response develops»[79]. Tali “impulsi uniformi” sono quelli forniti dalle qualità formali delle opere:
In poetry, rhythm metre and tune or cadence; in music, rhythm pitch timber and tune; in painting, form and colour; in sculpture volume and stress; in all the arts, what are usually called the formal elements are the stimuli, simple or complex, which can be most depended upon to produce uniform responses […] What communication requires is responses which are uniform, sufficiently varied, and capable of being set off by stimuli which are physically manageable. These three requisites explain why the number of the arts is limited and why formal elements have such importance. They are the skeleton or scaffolding upon or within which the further impulses involved in the communication are supported. They supply the present dependable part of the experience by which the rest, the more erratic, ambiguous part of the imaginative development, is controlled[80].
L’esperienza poetica è successivamente sezionata da Richards nelle sue componenti psicologiche fondamentali, ovvero le reazioni agli impulsi appena descritti. Esse vanno dal livello più elementare delle sensazioni visive e delle “immagini associate” («auditory images – the sound of the words in the mind’s ear – and the image of articulation – the feel in the lips, mouth, and throat, of what the words would be like to speak»[81]), a quello più complesso degli atteggiamenti (attitudes): azioni immaginarie o “incipienti”.
This aspect of experiences as filled with incipient promptings, lightly stimulated tendencies to acts of one kind or another, faint preliminary preparations for doing this or that, has been constantly overlooked by criticism. Yet in terms of attitudes, the resolution, inter-animation, and balancing of impulses […] that all the most valuable effects of poetry must be described[82].
Gli atteggiamenti di Richards possono essere letti come la traduzione, in termini più strettamente psicologici, dell’analogical enactment di Leavis: anch’essi sono infatti strettamente legati agli effetti di suono e di movimento che la poesia impone alla lettura. Il comune riferimento a un’attività immaginativa, che accompagna la percezione sensoriale dell’opera, risulta inoltre un significativo punto di tangenza con le “sensazioni ideate” berensoniane. Vediamo dunque come Richards proponga di applicare l’analisi psicologica all’esperienza visiva della pittura.
La comparazione tra le arti è resa possibile dal fatto che, per quanto diverse dal punto di vista del medium, poesia, pittura, scultura e musica – per i citare i generi artistici presi in considerazione da Richards – agiscono in modo simile sul fruitore.
The fundamental features of the experiences of reading poetry and of appreciating pictures, the features upon which their value depends, are alike. The means by which they brought about are unlike, but closely analogous critical and technical problems arise, as we have seen, for each[83].
La visione di un quadro è dunque scomposta da Richards in tre livelli, corrispondenti a tre stadi successivi della percezione delle sue qualità formali e tonali. Il livello inferiore è costituito dalla percezione della superficie dipinta, ovvero delle qualità materiche dell’opera; quello intermedio è l’immagine registrata dalla retina, ancora priva di significato; infine, si ha la percezione dello “spazio pittorico”. È solo a questo terzo stadio che la sensazione visiva si accresce di ulteriori “immagini”, elementi aggiuntivi, che possiamo pensare essere dovuti all’attivazione dell’immaginazione. Ne sono esempi le “immagini cinestesiche” (kinaesthetic imagery, dovute a sopravvivenze di movimenti oculari), “immagini tattili” («tactile images giving the appearance of texture to surfaces», relative alle qualità materiche delle superfici rappresentate), o ancora “immagini muscolari” («muscular images giving hardness, stiffness, soedness, flexibility and so on to the volumes imagined», che conferiscono consistenza fisica ai volumi rappresentati sulla base della nostra esperienza passata). Quanto al comportamento del colore sui tre livelli, Richards ne mette in luce tanto i caratteri spaziali e formali (ovvero il modo in cui il colore interagisce con il disegno nella determinazione delle forme e dello spazio pittorico)[84], quanto i più complessi valori di tipo emotivo, dovuti cioè alle reazioni organiche suscitate nell’osservatore.
Le conclusioni di Richards circa l’apporto della psicologia alla critica delle arti visive sono estremamente importanti per il presente discorso. L’autore denuncia infatti il cattivo stato della critica coeva, che oscilla tra la posizione estetizzante di chi guarda alla forma come un fine in sé e quella di chi attribuisce alle opere un valore puramente “illustrativo”, coincidente cioè con il contenuto della rappresentazione. Per converso, Richards invoca una critica in grado di comprendere e giudicare gli aspetti formali, per il tipo di esperienza complessa e stratificata che essi provocano nell’osservatore. Queste riflessioni possono essersi riverberate nella formazione del pensiero critico di Baxandall. Non è da escludere infatti che, in base alla conoscenza dei Principles testimoniata nel glossario, egli possa aver scorto in Richards un primissimo suggerimento, maggiormente chiaro dal punto di vista metodologico rispetto alle osservazioni corsive di Berenson, su come trasporre ai testi visivi una prassi analitica appresa sul testo letterario. La psicologia della percezione, d’altra parte, sarà uno degli strumenti privilegiati da Baxandall nell’analisi dell’esperienza dell’opera d’arte, soprattutto dopo il suo incontro con la figura di maestro che segnerà la fase storico-artistica della sua formazione: Ernst H. Gombrich[85]. Lo scopo del presente contributo ci impone, tuttavia, di fermarci ben prima dell’incontro con Gombrich, attestabile intorno al 1959-60, e di tornare al momento in cui, conclusi gli studi a Cambridge, Baxandall ottiene un finanziamento per trascorrere un periodo di studi in Italia.
Alla luce di quanto emerso rispetto alla formazione critico-letteraria, si intendono rintracciare nel periodo italiano alcune manifestazioni di una particolare sensibilità ricettiva verso le opere d’arte, allenata, in prima istanza, attraverso la “critica pratica” della poesia. Il glossario dei termini tecnici di Leavis, analizzato in prima istanza, ha dischiuso un pensiero critico focalizzato sull’esperienza del testo letterario; in esso si tratteggia l’inestricabilità tra le componenti formali dell’opera, comprese attraverso l’esercizio di una facoltà immaginativa o di immedesimazione, e una risposta di tipo personale e morale. L’esperienza dell’opera d’arte diventerà in sé un motivo di interesse centrale negli studi di Baxandall, come traspare dalle pubblicazioni maggiori degli anni Settanta - Giotto and the Orators (1971) e Painting and Experience in Fifteenth century Italy (1972) – in cui essa diventa oggetto d’indagine storico-culturale. Una prima traccia di tale interesse è rinvenibile, seppur in una fase embrionale, nel periodo qui in esame e del quale rimangono testimonianze nelle memorie e nel quaderno presentato in apertura. In esse, il tema dell’esperienza estetica assume una connotazione fortemente personale, in quanto affiora dal racconto memorialistico dell’incontro con le opere d’arte. Un medesimo sguardo sarà riconoscibile nell’osservazione dell’ambiente e del paesaggio italiano, soprattutto, come si è detto, per quanto riguarda le sue qualità atmosferiche. Anche in questo caso un tema che si era delineato attraverso gli studi di critica letteraria (Richards), quello della continuità tra esperienza ordinaria ed esperienza estetica, diviene, prima ancora che oggetto di studio, una situazione concretamente esperita.
Siamo dunque nell’autunno del 1955 quando Baxandall arriva a Pavia con l’intento di frequentare i corsi universitari durante l’inverno, e di visitare il resto del paese all’arrivo della primavera. La borsa di studio comprendeva l’alloggio presso il Collegio Borromeo, al tempo diretto da don Cesare Angelini e frequentato da un’ottantina di studenti. Tra le persone a lui più care, Baxandall ricorda Dane Martin Berg, scrittore e traduttore danese, con il quale condivide alcune riflessioni in merito all’attività letteraria; l’argomento doveva di certo rivestire un interesse particolare per il giovane studioso, che aveva carezzato l’idea di diventare un romanziere.
I was struck by how often these were questions about the precision of our memory of common experience. For instance, in hot summer woodlands would a short shower of rain bring out the scents or suppress them for a time? You might say, if the writer does not immediately know, better leave it out […] But it interested me that the realization of a novel should depend so much on writer’s and readers’ common unstrained access to organized observation of the everyday: that this should be, so to speak, a medium[86].
Un’attenzione analoga verso i dettagli dell’esperienza quotidiana la si può ritrovare sfogliando le pagine del quaderno italiano, presentato in apertura. In esso Baxandall annota principalmente particolari relativi alla sua percezione dei luoghi frequentati durante il soggiorno pavese, come dimostrano i frammenti di cui propongo la seguente trascrizione:
Immaculate conception and mist. Out of…cinema and into the back streets. The mist lifts in the bright, crowded narrower streets but not in the back ones. Noise of those folding flexible blinds being pulled down, after a woman had looked out of the solitary bright window high up in one of the houses. One of those cowed, furtive cats looks up to see, and then goes off, too fast to be walking comfortably but not running – just the usual fear uneasiness. The duomo e the great cupola disappearing up into the mist; one is not quite sure where it disappears exactly as the dark of the cupola gradually turns into the less dark of the mist and darkness. The empty market square, no stalls, no cars, no people, only the newspaper kiosk with dirty yellow light, browny-yellow light, and the little window closet. The woman outside the crowded noisy men’s bar, trying to see in, but not daring to enter to see if her husband is there. Then the young communists, 15 upwards but not much, coming out of the local headquarters, which is in an old…brick building – formerly Broletto? – one beard and generally a slightly naive flavour of emancipation e decorous non-conformity. A “much better type” than the street wanderers, more intelligent and eager to think and be among ideas – as many girls as men. The street-wandering young yobs. Hair so carefully brushed behind and oiled. Aimless, of course, and self-conscious, whistling e shouting at girls […] Some as in Cambridge, but probably less U.S. crazy – its Italian light music they sing. The older poorer men in their rather tall hats and black short cloaks wrapped several times round – as when all the country people came to market on wednesdays; but only the older, less progressive ones. Pity.
I suppose this fog has settled down all over the Po plain – North to Milan and the industrial circle, perhaps even to the lakes and foothills, South to the Appenines, East to the Adriatic west to the Alps Meritimes, rubbing out everything as far as heaven is concerned, and pressing life down to a few feet above ground level so that its [it’s] all on one slim plane. I wonder if one could get above it in a building, a tower.
Later. Between 9 e 10 the fog dispersed. Looking out it was clear except for one patch…or cloud, in the centre of the town, which was made luminous by the lights in the streets in it, so that it was a lighter grey than the clear sky[87].
Traspare da queste annotazioni una spiccata sensibilità nei confronti dell’ambiente e delle condizioni atmosferiche, che ricorre quasi identica, sia nel libro di memorie, che nel romanzo postumo A Grasp of Kaspar. In particolare, l’insistita attenzione nei confronti della nebbia, diviene elemento costante nella descrizione del paesaggio lombardo.
That year the Lombard autumn soon gave way to winter, in fact, a period of snow and ice and coarser fog. Pavia, a town of brick and towers […] was mysterious, perhaps even poetic in this fog[88].
Ed ecco la nebbia di Pavia raccontata in terza persona in A Grasp of Kaspar:
Lombard fog was subtler than the fat mist of St. Gallen, not misplaced cloud but an expiration of the plain. Where it had made Milan a nineteenth century city, it turned these old brick houses and towers into something purely medieval[89].
Così nel romanzo si ritrova anche la nebbia che ricopre la valle del Po, incontrata più sopra nelle note del quaderno:
At Como […] the autostrada began, but so did the Po valley fog and as he (Briggs) drove to Milan it was already dusk – making the town a great theatrical set for a grim realist opera[90].
Vi è un punto di questa convergenza tra appunti giovanili, memorie e romanzo su cui vorrei porre l’accento. Nei frammenti riportati, Baxandall si sofferma ripetutamente sulle condizioni atmosferiche (mist, fog) in cui avviene l’incontro con i luoghi descritti. Queste osservazioni ci inducono a pensare che, a queste date, l’Italia non rappresenti soltanto il luogo di un nascente interesse per le arti visive, ma al contempo un ambiente in sé degno di interesse visivo e, in questo senso, ricco di possibilità. Esse denotano insomma un tipo di attenzione analoga a quella riversata sulle opere d’arte e descritta da Baxandall come «the raw visual feel». Quando A Grasp of Kaspar prenderà vita, le vicende ambientate nei luoghi della peregrinazione giovanile saranno intrise di questa stessa “qualità visiva”[91].
Nel quaderno non si trovano, invece, annotazioni e appunti che permettano di individuare i singoli monumenti e le opere d’arte visitati. Eppure, è proprio al periodo italiano che Baxandall fa risalire la sua decisione di diventare uno studioso di arti visive:
Half way through the previous year in Italy I had realized that for me – novelist or not – art would be a thing to study, but for that I should need money. I also felt I should need German. It seemed rational to invest a year in acquiring both by teaching in Switzerland[92].
Questa circostanza può essere messa in relazione alle visite a diverse città italiane che Baxandall intraprende a partire dal marzo del 1956. La prima meta è Venezia, cui seguono centri minori del Veneto, della Lombardia e delle Marche, per poi proseguire alla volta di Roma e Firenze. Si tratta di vere e proprie esplorazioni capillari di intere regioni, guidate dalla lettura di Development of the Italian Schools of Paintingdi Raymond Van Marle (1923-38).
I lived frugally – lunch in a diary, often, and perhaps a room in a widow’s house learned of at the bus station. Small-town bus station were a social amenity and I found the world of dusty blue buses going to remote small places very romantic indeed. On the whole evening were solitary and spent on my notes, maps and timetables, and presumably some sort of aesthetic digestion. I now found these trips mysterious and yet I am also sure they were foundational for me. I had travelled in Italy before – a long-vacation trip with two Cambridge friends in a landrover – but not in this way. I now quartered regions and combed cities with lists of what I wanted to see[93].
L’esperienza fondante dell’incontro con le opere d’arte è così ricordata:
When I found the piece I wanted I just looked at it and waited for enlightenment. Or rather I attended my own response. It seems to me strange now that I should have had such confidence in sustained direct address to so much art. I had practically no knowledge or information about it, since I read so little […] But this encounters either set or met problems that engaged me for years after. Did one need to conceptualise about the character of these objects in order to get a grasp of them? Probably, but with what concepts? Their concepts? Was knowledge of the historical frame – art history but also cultural history – properly to be sought as a condition of their understanding? Surely: their strangeness was hair-raising and insisted on questions about their circumstances. What then was the standing of the raw visual feel of the pictures and the immediate sense of human quality and mood?[94]
Nella citazione è possibile rinvenire un tipo di atteggiamento critico in cui si avverte l’eco della lezione di Cambridge. Come negli insegnamenti di Leavis si richiedeva una reazione “morale” alla lettura del testo, così Baxandall si pone di fronte alla materia visiva cercando di ri-creare e rivivere un atteggiamento e una disposizione d’animo, incarnati nelle forme e nei colori che sottopone all’esame autoptico. Allo stesso tempo, le parole riportate dimostrano la consapevolezza della distanza che separa l’osservatore attuale dal contesto originario dell’opera, la quale impone di correggere la sensazione immediata, ponendola in una prospettiva storico-culturale. In altre parole, assistiamo alla presa di coscienza del fatto che l’occhio ha una sua storicità e che la comprensione di quegli oggetti estranei, che sono le opere d’arte, non possa prescindere dallo studio delle “circostanze”, che in esse furono registrate e trasfigurate. È noto che Baxandall dedicherà buona parte della sua attività successiva alla ricerca lenticolare delle esperienze quotidiane di cui le opere d’arte sono i documenti visibili. Ciò che preme sottolineare è che il suo interesse per tali circostanze sarà costantemente improntata dalla disciplina, trasmessagli da Leavis, per la rilevanza («discipline in relevance») della conoscenza storica ai fini della critica[95].
In effetti, nell’opera matura dello storico e critico d’arte, il momento del primo incontro con l’opera non viene spogliato di una sua propria funzione conoscitiva, né viene interamente soppiantato dalla ricerca storico-culturale. Credo invece che la relazione tra i due piani del discorso possa di diritto rientrare tra quei problemi che hanno impegnato la riflessione di Baxandall del lungo periodo. Un possibile punto di approdo è rappresentato dalla definizione di ciò che egli intende per critica: «il pensare e dire sui quadri alcune cose adatte ad affinare le possibilità di legittimo godimento che possiamo trarre da essi»[96], dove la legittimità è data dalla misura in cui l’esperienza dell’“osservatore”, estraneo alla cultura cui l’opera appartiene, si avvicina a quella del “partecipante”[97]. L’analisi del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca, che conclude Patterns of Intention(1985), ne è una dimostrazione. Vorrei tuttavia terminare il presente contributo, concentrandomi su un altro testo dedicato a Piero e più vicino al periodo qui esaminato. Si tratta della breve monografia pubblicata nel 1966 all’interno della collana The Masters. In essa si possono separare le due sensibilità che animano lo studioso.
Il saggio presenta sinteticamente lo stile dell’artista nei termini quattrocenteschi di delineazione, commensuratio e colore: la linea è funzionale a descrivere la forma esatta della figura e ad affermarne solidamente la posizione nello spazio; le variazioni di tono e l’uso modellante della luce concorrono a questo stesso effetto. Baxandall passa dunque in rassegna le qualità matematiche della pittura di Piero, concentrandosi sui particolari in cui vede all’opera la descrizione geometrica della realtà; in particolare, individua nella rappresentazione dei cappelli di uomini illustri sotto forma di solidi regolari (ad esempio nel ciclo della Leggenda della Vera Croce)un momento di divertimento privato, degli “scherzi geometrici”. Per scongiurare il pericolo che l’opera di Piero venga letta come un’arida applicazione di regole matematiche, l’autore integra infine un’analisi della luce in cui gli aspetti tecnici si tingono di sfumature atmosferiche; l’effetto prodotto dalla luce bianca e dall’illuminazione laterale sull’osservatore è descritto come «the atmosphere of bright early morning before rain»[98]. Questa qualità della luce pittorica è ulteriormente sottolineata nel momento in cui Baxandall sposta l’attenzione dagli effetti luministici locali alla luce diffusa che pervade le immagini; luce che è qui intesa come «the medium in which things exist»: «Piero in effect floats his figures and buildings and trees in white light, warming the severity of his linear space and softening the somewhat rigid effect of his geometrical plan»[99]. Il risultato di questa “immersione” delle figure e degli oggetti nella luce risponde, secondo Baxandall, a un gusto quattrocentesco che avrebbe rifiutato l’effetto troppo deciso e rigido, derivante dalla combinazione di volumi geometrici e contrasti marcati.
Fino a questo punto, possiamo constatare come l’“occhio di Baxandall” si sovrapponga all’“occhio del periodo”. Nella conclusione del testo, invece, ci imbattiamo in un punto in cui i due tipi di percezione possono essere più facilmente separati. Nel tentativo di descrivere l’intensità della risposta personale che le immagini dell’artista suscitano nell’osservatore, Baxandall ricorre infatti ad equazioni tra aspetti formali ed emotivi, appellandosi a una facoltà che può essere forse ricondotta alle forme di immaginazione o immedesimazione viste sopra. L’autore esprime in questi termini la sensazione comunicatagli dai virtuosismi di Piero, in particolare, dalla cura che l’artista dedica all’equilibrio delle sue figure.
If one looks at any group of real people in movement, few will be exactly in balance: even the actions of walking or opening a door involve moments out of balance, of a kind we have learned to assess entirely without thinking. Piero’s figures are not like this; their centre of gravity is always where, according to the laws of statics, it should be. Paradoxically, the effect of their balance is to remind us of the possibility of precariousness and vulnerability. Piero’s figures have something of the conscious balance of very young children learning to walk, and we respond to them with a little of the same attentiveness and even tenderness[100].
L’analisi delle sofisticate qualità tecniche di Piero lascia spazio alla ricca gamma di risposte emotive che le sue immagini sono in grado di suscitare nell’osservatore, ad esempio, l’apprensione con cui si possono guardare i bambini che imparano a camminare. Questo tipo di risposta, per quanto “impropria” o lontana dalle “intenzioni” dell’artista, non deve essere messa a tacere[101]. Essa costituisce infatti un tassello fondamentale, ma soprattutto ineliminabile, nella comprensione dei fenomeni artistici. Ed è esattamente questa la principale convinzione critica che Baxandall ricorda di aver maturato durante gli anni di Cambridge.
The main critical conviction I had developed independently at Cambridge was the very general one that it was no use denying or excluding elements in our response to a work, as inappropriate or improper […] They were intrinsic to one’s own energy. They probably would not be suppressed anyway[102].
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1 M. Baxandall, Episodes. A Memory Book, Frances Lincoln, London 2010. Nel libro Baxandall racconta la propria vicenda personale e di studioso, coprendo un periodo che va dall’infanzia all’inizio della sua prima attività didattica al Warburg Institute (1965).
2 Le tappe della formazione sono precisate in un curriculum vitae redatto nell’ottobre del 1980 e conservato tra i Baxandall Papers: Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/1/12.
3 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 86.
4 Per studi completi sulla figura e la critica di Frank Raymond Leavis si rimanda a: R.P. Bilan, The literary criticism of F.R. Leavis, Cambridge University Press, Cambridge 1979; I. Mackillop, F.R. Leavis: A Life in Criticism, Allan Lane, The Penguin Press, London 1993; G. Singh, F.R. Leavis: a literary biography, Duckworth, London 1995.
5 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1.
6 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 71. “To do a Leavis on visual art”: the place of F.R. Leavis in Michael Baxandall’s intellectual formation è il titolo del contributo del Professore Jules Lubbock agli atti (di prossima pubblicazione) della conferenza Visual interests. The intellectual legacy of Michael Baxandall, tenutasi al Warburg Institute il 24 e 25 maggio 2012. Il saggio, di cui ho potuto leggere una bozza fornitami gentilmente dall’autore, fornisce un’ampia ricostruzione del portato di Leavis sulla formazione intellettuale di Baxandall, ripercorrendo le tappe che da Cambridge conducono lo studioso alle prime importanti pubblicazioni degli anni Settanta. Il presente contributo si concentrerà miratamene su un aspetto specifico della formazione critico-letteraria, vale a dire l’assimilazione di una particolare sensibilità critica, cercandone successivamente gli influssi nel primo approccio di Baxandall allo studio delle arti visive, soprattutto per quanto concerne il momento dell’osservazione dell’opera.
7 Cfr. G. Cianci, La Scuola di Cambridge. La critica letteraria di I.A. Richards – W. Empson – F.R. Leavis, Adriatica Editrice, Bari 1970, pp. 9-28.
8 Con “practical criticism” Leavis definisce «the analysis of prose and verse». Cfr. F.R. Leavis, D. Thompson, Culture and environment. The training of critical awareness(1933), Chatto & Windus, London 1962, p. 6. Practical criticismè inoltre il titolo di un famoso testo di Richards, nato da un esperimento didattico, tenuto dall’autore nel 1925 all’interno di un ciclo di lezioni cui Leavis assistette. Esso era incentrato sull’analisi dei giudizi dati dagli allievi a gruppi di poesie selezionate e presentate loro da Richards a questo scopo. (I.A. Richards, Practical criticism. A study of literary judgment, Routledge & Kegan Paul, London 1929). Alla luce della frequentazione tra i due autori, “practical criticism” assume anche in Leavis la connotazione di una risposta personale e soggettiva che accompagna l’analisi della poesia. Cfr. I. Mackillop, F.R. Leavis…, 1993, p. 74 e segg.
9 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 65. Il corsivo è della scrivente.
10 Su Richards si vedano I.A. Richards and his critics: selected reviews and critical articles, a cura di J. Constable, Routledge, London 2001; J. Needham, The completest mode: I.A. Richards and continuity of English literary criticism, Edinburgh University Press, Edinburgh 1992.
11 È bene precisare che nel glossario Eliot è citato per l’attività critica, mentre non se ne considera l’opera poetica. Il testo cui si farà principalmente riferimento è Tradition and the individual talent (1917), pubblicato in T.S. Eliot, The sacred wood. Essays on poetry and criticism(1920), Butler & Tanner, London 1976, pp. 47-59. Sulla figura di Eliot come critico si vedano T.S. Eliot. Critical Assessments, a cura di G. Clarke, vol. IV, The Criticism and General Essays, Christopher Helm, London 1990.Quanto alla fortuna del concetto eliotiano di “tradizione” si veda T.S. Eliot and the concept of tradition, a cura di G. Cianci, J. Harding, Cambridge University Press, Cambridge 2007. Per uno studio comparato del metodo critico in Leavis, Richards e Eliot si rimanda invece a P. Mccallum, Literature and method: towards a critique of I.A. Richards, T.S. Eliot and F.R. Leavis,Gill and MacMillan, Dublin 1983.
12 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 73.
13 M. Baxandall, A Grasp of Kaspar, Frances Lincoln, London 2010. Trama: A Grasp of Kaspar è un romanzo poliziesco il cui protagonista è uno storico di nome Briggs che, nell’autunno del 1956 a Monaco, viene incaricato di fare indagini sui vertici di un’industria tessile del sud della Germania, e in particolare di mettersi sulle tracce di un certo Kaspar. Le ricerche portano Briggs in Svizzera, a San Gallo, dove vi è un distaccamento dell’industria tedesca. Scoperto in possesso di informazioni segrete a proposito di riserve d’oro dei nazisti, egli prosegue l’indagine a Pavia, dove, tra il ’44 e il ’45, tale Kaspar prestò servizio presso un’unità dell’esercito tedesco. Dimessosi dall’incarico di investigatore e ormai mosso solo dalla curiosità di storico, Briggs persevera nella sua missione, volta ora a scoprire il crimine di guerra di cui Kaspar è sospettato. La soluzione finale del mistero sarà molto lontana dalle sue ipotesi. Il libro, improntato sul parallelismo tra l’attività dell’investigatore e quella dello studioso, è attraversato da una riflessione generale sul problema della verità storica.
14 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/4/1.
15 L’ipotesi che le note contenute nel quaderno siano memorie stese durante la composizione del romanzo è meno convincente; la precisione e l’immediatezza con cui Baxandall riporta le attività svolte durante il soggiorno italiano, così come le impressioni ricevute, suggeriscono che il quaderno sia stato iniziato all’altezza del periodo trascorso in Italia.
16 In un’intervista rilasciata a Allan Langdale il 3 febbraio 1994, Baxandall dichiara: «When I am writing he’s still one of the people peering over my shoulder, trying to keep me honest». Cfr. G.A. langdale, Art history and intellectual history: Michael Baxandall’s work between 1963 and 1985, University of California at Santa Barbara, PhD, 1995, UMI Microform, 1955, p. 335.In una lettera a Ian MacKillop, datata 11 luglio 1991, Baxandall scrive: «I am sure he had a deeper effect on me than any other teacher I had; I would say that two others, art historians, had the same order of intellectual effect, but Leavis’s was also what I have to call moral, for want of more focused term». Cfr. I. Mackillop, F.R.Leavis…, 1993, p. 9.
17 Per la formazione superiore di Baxandall, incentrata prevalentemente sullo studio delle lingue classiche, si veda Baxandall, Episodes…, 2010, pp. 62-63.
18 Ivi, p. 65.
19 “Scrutiny” è la rivista di critica letteraria fondata da Leavis nel 1932 e pubblicata fino al 1953. Una selezione di articoli a cura dello stesso Leavis viene ripubblicata in due volumi, cui si farà qui riferimento: F.R. Leavis, A selection from Scrutiny. Compiled by F.R. Leavis, Cambridge University Press, Cambridge 1968. Per la storia delle origini e della fortuna della rivista si rimanda a I. Mackillop, F.R. Leavis…, 1993, p. 143 e segg. e p. 279 e segg.
20 I primi due, dal titolo Thought and emotional qualitye Imagery and movement compaiono nel 1945 sul “Scrutiny”, vol. XIII; il terzo, Reality and sincerity, appare nel 1952 sul vol. XIX della stessa rivista. Qui si farà riferimento alla loro riedizione in F.R. Leavis, A selection from Scrutiny, vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge 1968, pp. 211-248, dove sono riuniti all’interno della sezione “Judgment and Analysis: notes in the analysis of poetry”.
21 A proposito della relazione tra gli articoli e “Authority and Method” si veda I. Mackillop, F.R. Leavis…, 1993, p. 182 e segg.
22 R. Hayman mette in relazione la stessa di articoli con un altro libro in preparazione a metà degli anni Quaranta dal titolo “Judgment and Analysis” e anch’esso incompiuto. Cfr. R. Hayman, Leavis, Heinemann, London 1976, p. 89.
23 Leavis, A selection…, 1968, p. 214.
24 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 66. Il corsivo è della scrivente.
25 The responsible critic: or the function of criticism at any time, in “Scrutiny”, vol. XIX, 1953; Valuation in criticism, in “Orbis Litterarum”, XXI, 1966; Standards of Criticism, lezione tenuta alla York University, probabilmente nel 1965. Qui si farà riferimento alla loro riedizione in F.L. Leavis, G. Singh, Valuation in criticism and other essays, Cambridge University Press, Cambridge 1986.
26 «The critic helps to form the contemporary sensibility. And the contemporary sensibility is “there” in a responsive educated public, which is the presence in the total community, in our civilization, of literature as a power – if it is one». Leavis, Singh, Valuation…, 1986, p. 247. Per uno studio sulla stretta relazione tra critica letteraria e critica sociale in Leavis si veda A. Samson, F.R. Leavis, Harvester Wheatsheaf, New York 1992.
27 Per il trattamento della questione degli standard si rimanda a Leavis, Singh, Valuation…, 1986p. 246 e segg.
28 A proposito della relazione tra poesia e morale in Arnold e Leavis si rimanda a V. Buckley, Poetry and Morality. Studies on the Criticism of Matthew Arnold, T.S. Eliot and F.R. Leavis,Chatto & Windus, London 1968. Per un giudizio complessivo di Leavis rispetto alla critica arnoldiana si veda F.R. Leavis, Arnold as critic, in “Scrutiny”, Vol. VII, 1938, ripubblicato in leavis, A selection…, 1968, pp. 258-267.
29 Leavis, Singh, Valuation…, 1986,p. 281.
30 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1. Il corsivo è della scrivente.
31 «For instance I am sure it is due to Leavis that I regularly worry about relevance – about whether some thought about an object, veridical though it may be, is likely to sharpen or just encumber its vitality». Baxandall, Episodes…, 2010, p. 70.
32 Leavis, Singh, Valuation…, 1986, p. 185.
33 Ivi, p. 200.
34 Ivi, p. 196.
35 A slumber did my spirit seal;/I had no human fears:/ She seemed a thing that could not feel/ The touch of earthly years.//No motion has she now, no force;/She neither hears nor sees;/ Roll’d round in earth’s diurnal course,/ With rocks, and stones, and trees.
36 Break, break, break,/ Oh thy cold gray stones, O sea!/ And I would that my tongue could utter/ The thoughts that arise in me.//O well for the fisherman’s boy,/ That he shouts with his sister at play!/ O well for the sailor lad,/ That he sings in his boat on the bay!//And the stately ships go on/ To their haven under the hill;/ But O for the touch of a vanishe’d hand,/ And the sound of a voice that is still!//Break, break, break,/ At the foot of thy crags, O sea!/ But the tender grace of a day that is dead/ Will never come back to me.
37 Leavis, A selection…, 1968, p. 212.
38 Ciò che più di ogni altra cosa può dimostrare efficacemente la differenza tra le due poesie, in questo caso, è la lettura ad alta voce che ne rivela immediatamente le qualità di tono e movimento: «If we read the poem aloud, the emotion, in full force from the opening, asserts itself in the plangency of tone and movement that is compelled upon us». Leavis, A selection…, 1968, p. 213 Per la concezione leavisiana della lettura ad alta voce come strumento critico a tutti gli effetti, spesso più potente della penna e talvolta in anticipo su di essa, si rimanda al saggio Reading out poetry (1972) contenuto in Leavis, Singh, Valuation…, 1986, pp. 253-275. L’importanza della recitazione del testo e il ruolo attivo che essa svolge all’interno della critica di Leavis è ricordato da Baxandall nelle memorie: «I felt that behind almost all his best criticism there was an extraordinary actor sustaining at once distinct stylized voices […] He must himself have habitually read like this, I think, sitting silent with a book, voices competing or twining in his mind. It was clearly part of his extreme sensitivity to movement in language […] In an odd way the intensity of his moral response to literature seemed driven partly by the same impulse. If you act out text, character, author and reader you are going to find yourself having to inhabit people you will have strong feelings about having had to be – “judgments about life” indeed». Baxandall, Episodes…, 2010, p. 69.
39 Leavis, A selection…, 1968, p. 214. Il corsivo è della scrivente.
40 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1.
41 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 69. A proposito del giudizio critico come scambio collettivo di opinioni qualificate nella formula «Yes, but…» si veda Leavis, Valuation…, 1986, pp. 277-278.
42 «For instance, I am sure it is due to Leavis […] that I also feel that in art the technical and the moral fuse into one, and that to try and isolate either is likely to be frustrating and may turn destructive». Baxandall, Episodes…, 2010, p. 70.
43 Ivi, p. 72.
44 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1.
45 I.A. richards, Principles of literary criticism, Routledge & KeganPaul, London 1970, p. 46-47.
46 Ivi, p. 22.
47 Ivi, p. 50.
48 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1.
49 Si veda l’introduzione di E. Chinol a I.A. richards, I Fondamenti della critica letteraria, Einaudi, Torino 1961, p. XV.
50 Ibid. Come si può notare, la frase che riporto in corsivo è la stessa citata nel glossario di Baxandall.
51 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1. Delle quattro voci che costituiscono il glossario, questa è l’unica riportata da Baxandall nelle memorie. Cfr. Baxandall, Episodes…, 2010, p. 66.
52 Richards, I fondamenti…,1961, p. XV.
53 Eliot, The sacred wood…, 1976, p.55.
54 Ivi,p. 56.
55 Ivi,p. 55.
56 Imagery and movement (1945), in leavis, A selection…, 1968, p. 228: «The seeing elements of our inner experience as clearly defined objects involves, of itself, something we naturally call “thought”. And it will be noted by the way how inevitably we sleep into the visual analogy, the type and model of objectivity being the thing seen (there are bearing here on the visualist fallacy in criticism)».
57 Riporto di seguito i versi di Keats, estratti da Ode on melancholy: «Then glut thy sorrow on a morning rose,/ Or on the rainbow of the salt sand-wave/ Or on the wealth of globed peonies». E questa è l’analisi di Leavis:«The “globed” gives the sensation of the hand voluptuously cupping a peony, and it might be argued that this effect can be explained in terms of the isolated word. But actually it will be found that “globed” seems to be with so rich a palpability what it says, to enact in the pronouncing so gloating a self-enclosure, because of the general co-operation of the context. Most obviously, without the preceding “glut”, the meaning of which strongly reinforces the suggestive value of the alliterated beginning of “globed”, this latter word would lose a very great deal of its luxurious palpability». L’effetto di palpabilità che la parola “globed” acquista, nel contesto in cui è inserita, è descritto come un’immagine tattile, la cui azione sul lettore non è quella di richiamare semplicemente un’immagine visiva ma di fargli sentire l’azione concreta di racchiudere il fiore tra le mani: «The palpability of the “globed” – the word doesn’t merely describe, or refer to, the sensation, but gives a tactual image. It is as if one were actually cupping the peony with one’s hand». Leavis, A selection…, 1968, p. 235.
58 Ibid.
59 Cfr. Reality and Sincerity (1952) in Leavis, A selection…, 1968, p. 252. L’espressione “talking about” vi è usata (in senso negativo) per descrivere un tipo di poesia che parla di emozioni e sentimenti senza ricrearli poeticamente; è come se il poeta si atteggiasse in un sentimento che non ha esperito e che, di conseguenza, non è in grado di ricreare attraverso la poesia.
60 Ivi, p. 237. Il corsivo è della scrivente.
61 A proposito dello scarto “linguistico” che separa la critica letteraria dalla critica artistica, Baxandall scrive nelle memorie: «An overriding difference is that literature registers consciousness of life and the world in the same medium as the critic uses: language. Literary criticism is verbal behaviour all the way, object and subject. There are all sorts of qualifications to be made, about literary language being distinct from critical language […] but the fact remains that visual art is behaviour in shapes and colours, and […] art criticism’s language is in a different relation to visual art». Baxandall, Episodes…, 2010, pp. 71-72
62 Cfr. Substance, sensation and perception. Michael Baxandall interviewed by Richard Cándida Smith, Art History Oral Documentation Project, Getty Research Institute for the History of Art and Humanities, The J. Paul Getty Trust, 1998, p. 21, http://archives.getty.edu:30008/getty_images/digitalresources/spcoll/
gri_940109_baxandall_transcript.pdf.
63 B. Berenson, Italian painters of the Renaissance, Vol. II Florentine and Central Italian Schools, Phaidon, London 1968, p. 2. Per studi recenti su Berenson si veda Bernard Berenson: formation and heritage, a cura di J. Connors, l.A. Waldmann, Villa I Tatti, The Harvard University Centre for Renaissance Studies, Florence 2014.
64 Berenson, Italian painters…, 1968, p. 2.
65 Ivi,p. 6.
66 Ivi,p. 8.
67 Ivi,p. 14.
68 Ivi,p. 15.
69 Cfr. Substance, sensation and perception…, 1998, p. 21.
70 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 72.
71 Pubblicato originariamente come Introduzione a E. Panofsky, Studies in Iconology: Humanistic Themes in the Art of Renaissance,Oxford University Press, New York 1939, pp. 3-31.
72 M. Baxandall, Painting and Experience in Fifteenth Century Italy. A primer in the social history of pictorial style, Oxford University Press, 1972; trad. it. Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Rinascimento, Einaudi, Torino 2000.
73 Baxandall, Pittura ed esperienze…, 2000, pp. 87-88.
74 All’“occhio morale” (moral eye), ovvero ai possibili significati teologici dei motivi e delle qualità pittoriche dello stile quattrocentesco, è dedicato l’ultimo paragrafo del capitolo sull’occhio del Quattrocento (The period eye). Cfr. ivi, p. 95 e segg.
75 Uno schema dei livelli della percezione visiva, con particolare riferimento alla distinzione tra reazioni innate e uniformi (livello fisiologico) e abilità interpretative acquisite attraverso l’esperienza (livello cognitivo), è offerto da Baxandall in apertura al capitolo sull’“Occhio del Quattrocento”. Cfr. ivi, pp. 41-43. Con riferimento alle scienze cognitive, Baxandall distinguerà successivamente in Ombre e lumi processi percettivi discendenti e ascendenti. Nei primi prevale la componente cognitiva della percezione, per cui la forma nota dell’oggetto (conservata nella memoria visiva) si impone sullo stimolo visivo (ovvero, su un campo variabile di valori luminosi); nei secondi, invece, lo schema di ombra e luce prevale sulle nostre pre-conoscenze relative all’oggetto e si impone all’attenzione visiva. Cfr. M. Baxandall, Shadows and Enlightenment,Yale University Press, New Haven 1995; trad. it. Ombre e lumi, Einaudi, Torino 2003, pp. 60-65.
76 Richards, Principles…, 1970, p. 87.
77 Ivi,p. 10.
78 Ivi,p. 59: «The world of poetry has in no sense any different reality from the rest of the world and it has no special laws and no other-worldly peculiarities. It is made up of experiences of exactly the same kinds as those that come to us in other ways. Every poem, however, is a strictly limited piece of experience, a piece which breaks up more or less easily if alien elements intrude. It is more highly and more delicately organized than ordinary experiences of the street or of the hillside; it is fragile. Further it is communicable. It may be experienced by many different minds with only slight variations. That this should be possible is one of the conditions of its organization».
79 Ivi,p. 150.
80 Ivi,pp. 150-151.
81 Ivi,p. 91.
82 Ivi,p. 86.
83 Ivi,p. 122.
84 Richards fa riferimento al comportamento del rosso e del blu rispetto alla percezione dello spazio (il rosso protende, il blu si ritira). Baxandall farà uso di osservazioni analoghe per spiegare il comportamento percettivo della teiera e del tavolo nell’analisi della Donna che prende il tè di Chardin. Cfr. M. Baxandall, Patterns of Intention. On the Historical Explanation of Pictures, Yale University Press, New Haven 1985; trad. it. Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Einaudi, Torino 2000, p. 118 e segg. La coincidenza può servire a rafforzare l’idea che Baxandall possa aver trovato in Richards un possibile primissimo suggerimento per l’utilizzo della psicologia come strumento per lo studio delle arti visive. La figura che può fungere idealmente da tramite in questo caso è E.H. Gombrich, il quale fornisce peraltro una sua lettura della poetica di Richards in E.H. Gombrich, The Necessity of Tradition. An Interpretation of the Poetics of I.A. Richards, in Tributes. Interpreters of our cultural tradition, Phaidon, Oxford 1984; trad. it. La necessità della tradizione, in Custodi della memoria, Feltrinelli, Milano 1985.
85 Nel 1959-60 Gombrich sostituisce Gertrud Bing come supervisore delle ricerche di Baxandall al Warburg Institute. Il testo di Gombrich che segna per Baxandall l’inizio di un interesse esplicito per la psicologia della rappresentazione è Arte e Illusione (1960). Cfr. A. Langdale, Art history and intellectual history…, 1995, p. 345.
86 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 77.
87 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/4/1. I corsivi sono della scrivente.
88 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 85.
89 Baxandall, A Grasp…, 2010,p. 88.
90 Ivi,p. 86.
91 In A Grasp of Kaspar il ricorso insistito alla descrizione della nebbia, e alle situazioni di scarsa visibilità che essa determina, può anche essere letto come metafora del mistero che si infittisce con lo sviluppo della trama e che impedisce una chiara comprensione (grasp, appunto) delle vicende.
92 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 91.
93 Ivi, p. 86.
94 Ibid.
95 Si veda, a questo proposito il terzo dei criteri con cui Baxandall propone di verificare l’attendibilità della spiegazione storica dei quadri in Forme dell’intenzione, vale a dire la «necessità (o fecondità) a fini critici»: «Non si introducono nella spiegazione elementi di tipo inferenziale se non arricchiscono l’esperienza del quadro come oggetto di interesse visivo». Cfr. Baxandall, Forme dell’intenzione…, 1985, p. 175.
96 Ivi, 7.
97 “Osservatore” e “partecipante” sono i termini con cui Baxandall distingue, rispettivamente, la posizione dello storico culturale, che guarda il suo oggetto di studio dall’esterno, e di colui che fa parte e vive all’interno di una data cultura. Cfr. ivi, pp. 159-163.
98 M. Baxandall, Piero della Francesca,The Masters (No. 60), Purnell & Sons, Paulton 1966, p. 4.
99 Ibid.
100 Ivi,p. 6.
101 Ho trovato conferma di questo aspetto nel già citato saggio di Lubbock (“To do a Leavis on visual art”: the place of F.R. Leavis in Michael Baxandall’s intellectual formation). L’autore, che di Baxandall fu allievo, riporta la questione nei termini utilizzati dallo studioso nelle sue lezioni della fine degli anni Sessanta; la relazione diretta dello spettatore odierno con l’opera è descritta come “anacronistica” e allo stesso tempo irrinunciabile: non è infatti possibile, né desiderabile, rispondere all’opera esclusivamente secondo i parametri di un osservatore ad essa coevo.
102 M. Baxandall, Episodes…, 2010, p. 87.