Ogni opera
d’arte esibisce i sintomi di una qualche
affezione...
Sintomi
fisici, giacché non diversamente dal
resto dei viventi esse seguono il
decadimento della materia di cui sono
composte, e talora questo disfacimento
resiste ai tentativi di porvi rimedio,
fosse pure la più innovativa tecnica di
restauro; e anche segni immateriali,
poiché nella loro forma è racchiusa la
sostanza psichica e spirituale di chi le
ha concepite. Si direbbe che nemmeno la
più “apollinea” fra le creazioni
artistiche, nemmeno la più “impersonale”
sia del tutto immune dai segni
caratteristici dell’artefice, da ciò che
in minore o maggiore misura vi ha
trasferito il suo “fare”. L’aveva
intuito, sebbene con una presa di
posizione paradossale, Gilles Deleuze in
quella specie di testamento
intellettuale che è Critique et
Clinique[1]
a proposito della letteratura (il
discorso potrebbe evidentemente
estendersi all’ambito del visivo) la
quale, per riacquistare una qualche
efficacia rappresentativa o ampliare gli
orizzonti a mondi possibili, dovrebbe
essere in grado di condurre la lingua al
delirio[2].
Di più ancora in Présentation de
Sacher Masoch[3]
in cui la tesi di fondo è che l’artefice
(in questo caso lo scrittore austriaco
“inventore” della eponima devianza) sia
in realtà un grande sintomatologo, e che
i sintomi che esibisce l’opera debbano
essere intesi come «segni [che]
rimandano a modi di vita, a possibilità
di esistenza, […] sintomi di una vita
rigogliosa o sfinita»[4].
L’oggetto artistico, dunque, “soffre”
come un organismo; di più: soffre dei
medesimi sintomi di chi l’ha reso
visibile. A fortiori se il
medium rappresentativo è incarnato
dall’artista stesso.
Quando, nel
1974, Lea Vergine pubblicava Il corpo
come linguaggio[5]
la body art contava – almeno
ufficialmente – pochi anni di vita.
Almeno ufficialmente, poiché – come
notava l’autrice stessa – le sue radici
erano antiche[6].
Senza risalire a epoche antecedenti, o
sconfinare nei territori dell’etnologia
o della storia delle religioni, già
nell’ambito dell’Espressionismo, del
Dadaismo, del Surrealismo, il corpo era
stato assunto a strumento espressivo
capace di veicolare tutta una serie di
stati psichici ed emozionali, non di
rado patologici. Solo tuttavia con la
liberazione dei costumi e, soprattutto,
con il discredito in cui – nei vari
livelli sociale, culturale, economico –
era precipitata la nozione tradizionale
di arte, la body art ha potuto
affermarsi come frontiera estrema
dell’arte, prima dell’inevitabile
baratro. Si aggiunga a ciò il fatto che
mezzo secolo di psicanalisi, come
scoperchiando un vaso di Pandora, aveva
liberato forze fin allora arcane, furie
che adesso bisognava ostentare perché
l’artista stesso non ne fosse la prima
vittima. Perciò non è senza significato
il fatto che Lea Vergine s’interroghi
«se di “arte” si possa ancora parlare»[7]
a proposito della body art,
un’arte nata nel solco stesso
dell’ideologia borghese e che alla
borghesia apertamente s’opponeva come
antagonista.
Di fatto la
performance, che della body
è l’epifania, è essa stessa transeunte,
simbolo di una forma artistica il cui
statuto riposa nella irripetibilità: in
nessun luogo come in essa l’hic et
nunc trova la sua più compiuta
esemplificazione.
L’esibizione
non si dà se non nel momento in cui essa
è ormai consegnata alla morte, né i
frammenti fotografici, le riproduzioni
video, finanche i grafici – che pure
costituiscono il necessario supporto
alla sua documentazione – possono
efficacemente surrogare la sua carica
espressiva. La body art vuole che
l’oggetto artistico perisca nella
materializzazione stessa del fenomeno.
Essa esige che la solitudine
dell’artista, la sua timidezza
esasperata in un feroce esibizionismo,
siano ricomposte nella propensione al
voyeurismo di chi ne fruisce. Un
“contratto” avrebbe forse affermato lo
stesso Deleuze, fra opera-artista e
spettatore fondato sulla propensione di
quest’ultimo – antica come l’uomo – al
sadismo. Le radici di queste
considerazioni sono lontane: si potrebbe
ascendere persino a Du Bos e alle
Réflections critiques sur la poésie et
sur la peinture (1719), uno dei
testi capitali attraverso i quali
l’estetica s’introduce alla modernità:
«Si accorre in massa per vedere uno dei
più raccapriccianti spettacoli che gli
uomini possano guardare; intendo dire il
supplizio di un altro uomo che subisce
il rigore della legge sul patibolo e che
muore a causa di orribili tormenti: […]
l’attrattiva dell’emozione, per molte
persone, è più forte delle riflessioni e
dei consigli dell’esperienza»[8].
Un’opera
d’arte tradizionale esiste
indipendentemente dalla presenza
dell’osservatore. Per definizione, anzi,
un capolavoro dell’antichità, un
polittico gotico, un testo esemplare del
Rinascimento devono (o
dovrebbero) sopravvivere al di là
del tempo, al di là del contesto di cui
sono espressione. E dunque, per la sua
fragilità, più un’opera è antica, più
alla sua conservazione è nociva la
presenza del fruitore, più il suo
respiro ne sgretola la composizione
chimica, ne attacca la struttura fisica.
Per questo, nei musei, la prossemica
della fruizione ha scavato uno iato
sempre più profondo tra oggetto e
soggetto. Il tempo attuale ha rovesciato
quello che Herder aveva teorizzato allo
scadere del Settecento: «Una statua mi
può abbracciare, può farmi
inginocchiare, fare che io diventi il
suo amico e compagno di gioco, essa e
presente, è qui»[9].
Tramontata la tattilità, la possibilità
d’esperire attraverso il senso la
materia dell’oggetto artistico (toccare
una statua, ovvero la superficie
accidentata di un quadro), è crollata la
specificità di ciascuna delle arti: le
opere sono tornate nel sancta
sanctorum del museo, destinate a una
visione esclusivamente a distanza.
Un’opera di
body art, al contrario, è
condivisione. «L’uomo – scrive Lea
Vergine – è ossessionato dalla necessità
di agire in funzione dell’altro,
ossessionato dalla necessità di
mostrarsi per poter essere»[10].
Così l’esibizione mette in scena, come
in un gabinetto psicanalitico, ogni
sorta di pulsione inconscia cosicché
l’artista mostri allo spettatore ciò che
egli stesso è, ne metta a nudo – con
l’atto di denudarsi materialmente –
tutte le sue infermità. Nella body
il linguaggio della critica ha abdicato
alla terminologia medica. In taluni casi
persino a quello della criminologia.
Sadismo e masochismo, nevrosi,
propensioni distruttive, paranoia,
isteria, culto dell’osceno, ostentazione
di funzioni biologiche fin allora
relegate nell’ambito del privato,
autoerotismo: tutto è passibile di
rappresentazione sulla scena della
performance, tutto ciò che possa
scuotere il presunto equilibrio dello
spettatore.
Lea Vergine
allude più volte, nel breve giro delle
pagine dell’introduzione, a Sade. Che la
body, prim’ancora che nei
progenitori d’inizio Novecento, avesse
nel Divino Marchese il suo
antesignano[11]?
È, ovviamente, un’esagerazione… Eppure
in molte pagine dello scrittore
settecentesco, che sappiamo peraltro
riscoperto proprio nel seno del
Surrealismo e dai surrealisti idolatrato
per la sua carica eversiva[12],
la costruzione del racconto è condotta
come fosse la descrizione di una
performance. I libertini di Sade
sono artisti del corpo e con il corpo.
Nel corpo dell’altro, oltraggiato,
vilipeso, spesso persino mangiato, essi
figurano il proprio per darsi esistenza.
Solo nella sofferenza della vittima essi
possono affermare con rabbiosa
determinazione la propria libertà, pur
se ogni atto rappresenta un ulteriore
restringimento delle catene della
natura. Le brutalità ch’essi commettono
su soggetti spesso descritti nelle forme
più seducenti della bellezza, tutta la
gamma della degradazione attraverso cui
discendono, le macchine di tortura che
inventano e le composizioni erotiche che
realizzano: tutto ha luogo nella
manipolazione del corpo, nel rituale del
sacrificio, nella convulsione orgiastica
che fa rivivere gli strati primitivi
dell’esperienza, ere lontanissime eppure
non mai sepolte[13].
Così, quanto
Sade aveva immaginato nei suoi romanzi
rivive sulla scena della body, in
Hermann Nitsch ad esempio: «Siamo sempre
più attratti dalla nostra propria
esperienza. – scrive l’artista nel
presentare Performance 1965
nell’antologia di testi raccolti da Lea
Vergine – Ogni opera d’arte non è altro
che la mistica dell’essere. L’estetica
che ci spinge fino all’orrore.
L’estetica dell’orrore»[14].
Nell’Azionismo viennese, che in
quel momento rappresentava forse la più
estrema epifania della body art,
il recupero di pratiche ancestrali, la
simulazione di sacrifici, la messa in
scena di azioni violente nelle quali lo
spettro mono-cromatico è rappresentato
dal rosso, sono altrettanti moventi per
un possibile sfogo catartico dello
spettatore[15].
Quello che Aristotele aveva teorizzato
oltre due millenni prima a proposito
della tragedia, a proposito dei
sentimenti di terrore e dolore con i
quali l’astante s’identifica nell’azione[16],
nel Teatro delle orge e dei misteri
ora tornava attuale. Sbigottito al
cospetto dell’azione violenta, e
incapace di reagire affinché la
catastrofe sia evitata, egli accetta
quanto avviene sulla scena, quand’anche
questo rappresenta il raccapriccio di un
corpo mutilato, lo squartamento di un
animale sacrificale o il ribrezzo d’una
pratica auto-aggressiva: la frenesia
orgiastica, l’esaltazione galliambica
del rito riportano alla luce ciò che la
coscienza aveva tentato di soffocare.
Rompere il meccanismo
dell’auto-preservazione, su cui la
teoria del Sublime a partire da Burke
aveva affondato i suoi plinti[17]:
così la performance violenta si
propone di disarticolare il dispositivo
della rimozione, di modo che la memoria
di crimini di cui tutti siamo stati
complici riemerga tormentosa: «Qui si
canta la perversa malinconia del nulla –
scrive Gianfranco Baruchello a proposito
di Perforce 1968 – ci si
spartiscono le colpe della catastrofe»[18].
L’arte ora non può essere nulla se non
pubblica autoaccusa. «Credo che niente
abbia senso se non viene sacrificato,
distrutto, smembrato, bruciato,
trafitto, tormentato, molestato,
torturato, massacrato, divorato,
lacerato, tagliato, impiccato,
pugnalato, distrutto o annientato.
Dobbiamo batterci per distruggere
l’umanità, per distruggere l’arte…»[19]:
è una frase che parrebbe tolta di peso
da La Nouvelle Justine o da Le
centoventi giornate di Sodoma di
Sade, romanzi entro i quali a ogni piè
sospinto compaiono simili sentenze; è
invece la dichiarazione di poetica di
Otto Muehl a proposito di
Degradazione di una Venere, azione
del 1963 in cui – con scoperto
riferimento allo scrittore francese –
una donna viene gettata su un mucchio di
rifiuti e il suo corpo dipinto e
vilipeso con materie ignobili.
Nell’arte del
corpo, sia pure con esasperazioni che
non di rado digradavano nel ridicolo, si
realizzava quel meccanismo che –
nell’ambito dell’antropologia criminale
– un secolo prima Lombroso aveva
registrato sotto la formula della
“regressione
atavica”[20].
Come il criminale (Lombroso credeva che
i delinquenti nascessero tali, come
organismi geneticamente tarati) nel suo
agire riporta all’attualità
comportamenti caratteristici delle
società primitive, che si riflettono
finanche nel suo aspetto “australe”, nel
suo corpo marchiato dalle stigmate della
degenerazione, così l’artista sprigiona
nella performance il delirio di
comportamenti pre-razionali, la ferinità
repressa da millenni di convenzioni,
l’aggressività distruttiva che –
diversamente – esploderebbe nel delitto.
Nella body dunque insiste un
palese dualismo: l’attività estetica da
una parte, che sublima
l’irrappresentabile e degrada il sacro;
il piacere regressivo, dall’altro.
Quello stesso «piacere intellettuale
della regressione»[21]
di cui Horkheimer e Adorno hanno parlato
a proposito della Juliette di
Sade, che fa rivivere modi d’agire che,
in realtà, non hanno mai smesso di
condurre un’esistenza nascosta.
Comportamenti in cui naturale e proibito
divengono in ultimo sinonimi. Ernst
Kris, in ordine ai rapporti tra arte e
psicanalisi, scrive che lo sbocco delle
emozioni rimosse consente all’io di
assicurare o di ristabilire un controllo
su esigenze istintuali censurate[22].
L’arte assurge così al ruolo di
possibile valvola di sfogo, diviene
teatro sul quale mettere
in scena le
contraddizioni, abbattere i tabù,
scuotere l’equilibrio omeostatico del
riguardante. Le automutilazioni e la
teatralizzazione del suicidio di
Schwarzkogler, i tagli sulla pelle e le
punture di Gina Pane, i morsi sui propri
arti (usati poi come altrettanti
“timbri”) e il pubblico autoerotismo di
Vito Acconci, più recentemente i segni
“graffiati” sul corpo da Marina
Abramović e le sconcertanti
Suspension di Stelarc, se da un lato
desacralizzano il concetto stesso di
corpo, l’idea cristiana della sua
intangibilità in quanto oggetto
“indisponibile”, conducendo al limite
del sopportabile il dolore fisico e la
stessa fruizione della pièce,
dall’altro esibiscono un nuovo concetto
di mimesis entro il corpo stesso
dell’arte. Nella sua declinazione
estremizzante, la body art ha
inteso riprodurre nell’atto della
performance gli effetti di una
condizione psicopatologica. La
performance si è talora configurata
nella epifania dell’isterico. Ma qual è
il nesso che tiene insieme arte e
isteria, nel particolare dominio della
body, e soprattutto nella sua
accezione più scandalosa?
Sin dai primi
studi ottocenteschi, l’affezione
isterica era stata descritta come la
capacità patologica da parte
dell’organismo di riprodurre, di
imitare senza apparente causa
organica, tutte le altre malattie[23].
Nel corpo dell’isterica, e in special
modo nella sua epidermide, gli studiosi
inoltre notavano una quasi totale
anestesia: anche le pratiche
apparentemente più dolorose, come il
trapassarne la pelle da parte a parte
con uno spillone, il bucarne il seno o
il ventre, nel corso degli esperimenti
di laboratorio non procuravano nel
paziente alcuna registrabile reazione
algesica.
Georges Didi-Huberman, che alla
questione dell’incarnazione nelle arti
visive ha intitolato un testo esemplare[24],
nel capitolo dedicato al tema del
corpo-cliché ha affrontato il motivo
della dermografia a partire dalle
testimonianze mediche di Georges
Dujardin-Beaumetz, di Toussainte
Barthélémy, di Élie Châtelain, tutte
risalenti agli ultimi anni del XIX
secolo. In un ambito nosologico a metà
tra la neurologia e la dermatologia, gli
studiosi in questione avevano notato –
nel corso di numerose sedute
terapeutiche – che la pelle di alcuni
soggetti affetti da patologia isterica,
quanto perdeva in senso (nella
capacità in altre parole di avvertire il
dolore) riacquistava in sensibilità:
bastava che l’epidermide fosse sfiorata
con le dita o con altro strumento a
punta arrotondata, perché ne rimanesse
un segno, uno stigma, quasi si
trattasse di una tela, di un foglio di
carta o meglio, di una pellicola
fotografica. I segni corporei
presentavano, nei soggetti sottoposti al
trattamento, alcune costanti: il tratto
si tingeva dapprima di rosso, poi il
rosso trascolorava fino al bianco, e
nella sua metamorfosi finale passava
dalla profondità – attraverso la
superficie – fino al rilievo. Nella
forma del “grande dermografismo” il
tratto sporgente giungeva persino a
rilevarsi di sei millimetri, quasi in
una forma di “ponfo figurato”.
Didi-Huberman ha notato come la
inusitatezza del fenomeno avesse
scatenato nei medici una vera e propria
mania descrittiva: il linguaggio medico
(con un’operazione che pare l’uguale e
il contrario rispetto alla critica della
body art) mutuava il suo
armamentario da quello delle arti
figurative in un letterale
esercizio ecfrastico[25].
Quasi si trattasse di un nuovo
materiale, di un nuovo supporto
espressivo, i medici testavano sul corpo
isterico la permanenza del sintomo, che
poteva variare da pochi minuti a diversi
giorni.
La mutevolezza del segno si esprimeva
anche nella sua diversa cromia
simultaneamente presente sulla pelle,
cosicché in alcuni pazienti – in una
variante del fenomeno che ancor più
eccitava la curiosità e la propensione
estetica degli studiosi – i grammata
risultavano contemporaneamente bianchi e
rossi, incavati e rilevati. E così
l’estremo dell’esperimento dermografico
consiste in un’opera-zione in tutto
artistica: nel 1891 Élie Châtelain
“firma” il corpo di una delle sue
pazienti affinché la foto che ritrae
l’esperimento sia consegnata al museo
della clinica[26].
Un’operazione sconcertante, a ben
guardare. Tanto più sconcertante, in
quanto pare anticipare – di settant’anni
– le analoghe performance di
Piero Manzoni: le “firme” che tra il
1960 e il ‘61 l’artista cremonese pone
sul corpo delle sue modelle,
trasformandole per ciò stesso in
sculture viventi, corredate peraltro di
documenti di autenticità e di talloncini
che ne indicano la data di scadenza,
contribuiscono a ridisegnare il
tradizionale concetto di arte in
un’ultima variazione biologica del
ready made[27].
Viene così a istaurarsi un curioso gioco
di rimandi tra il corpo clinico e il
corpo artistico: l’isteria trasforma il
corpo in medium rappresentativo, capace
di trattenere i segni che v’imprime il
medico e di restituirli “dal di dentro”
come sintomi di una latente affezione, e
insieme come simulacri del segno
artistico.
L’arte, d’altro canto, nella
performance della body mima
non di rado l’isteria, e nel corpo – nel
gradiente che va dal semplice segno
grafico al cruento infierire perché vi
restino ferite esposte – riproduce i
prodromi della malattia del mondo. «La
sintomatologia è sempre un problema
d’arte» scrive Deleuze, citato per altro
dalla stessa Vergine. Nella body
il sintomo è sempre un atto estetico: si
tratti della sagoma di una stella che
lacera la carne attorno all’ombelico di
Marina Abramović, delle iscrizioni
auto-degradanti ottenute con la stessa
tecnica da Regina José Galindo o della
malattia che divora Hannah Wilke,
esibita nella performance Intra Venus;
o ancora della cruenta messa in scena di
uno stupro sfoggiata da Ana Mendieta, e
del dissanguamento cui giunge Franko B.:
i segni del corpo diventano denuncia, le
piaghe – per usare ancora una volta
un’espressione di Didi-Huberman, a
proposito delle ferite al costato di
Cristo nella pittura di Carlo Crivelli –
“urlano” laddove l’artista resta muto di
fronte allo scempio di sé. Nella
colonia penale di Kafka una
macchina-carnefice scrive sul corpo del
condannato la sentenza capitale per una
colpa che egli non conosce, e il
condannato – dalla ferita che il
meccanismo gli imprime con artistica e
feroce eleganza – solo nell’ultimo
istante della sua vita viene a sapere
ciò che l’arte ha impresso sulla sua
pelle. Verso la fine del racconto,
però, il meccanismo smette di
funzionare, il segno diventa solo un
colpo di grazia incapace di veicolare
alcun significato. È un po’ la metafora
della body, sia pure astratta dal
suo contesto: l’arte è insieme
conoscenza e condanna, i segni del corpo
sono prima di tutto le spie di un sapere
perseguito oltre il limite del dolore,
oltre il quale è solo la semplice
provocazione.
Che senso
hanno dunque, più recentemente rispetto
alle prime esperienze della body,
l’orecchio impiantato sull’avambraccio
di Stelarc, un vero e proprio terzo
organo dell’udito, o le protesi al
silicone che Madame Orlan[28]
già a partire dalla fine degli anni
Ottanta si fa introdurre nel viso? «Io
ho sempre lavorato sul mio corpo come se
fosse una materia da plasmare come io
desideravo
[1] 
G.
Deleuze,
Critique
et
Clinique,
Collection
“Paradoxe”,
Les
Éditions
de
Minuit,
Paris
1993;
trad. it.
a cura
di A.
Panaro,
Critica
e
Clinica,
Raffaello
Cortina,
Roma
1996.
[2] 
Ibid.,
p. 16.
[3] 
Id.,
Présentation
de
Sacher
Masoch.
Le
froid et
le cruel,
Les
Éditions
de Minuit,
Paris
1967;
trad. it.
a cura
di G. De
Col, Il
freddo e
il
crudele,
SE,
Milano
1991.
[4] 
Id.,
Gilles
Deleuze.
Segni ed
eventi.
Intervista
di
Raymond
Bellour
e
François
Ewald,
in Il
secolo
deleuziano,
a cura
di S.
Vaccaro,
Mimesis,
Milano
1997, p.
116.
[5] 
L.
Vergine,
Body
art e
storie
simili.
Il corpo
come
linguaggio,
Prearo
Editore,
Milano
1976;
nuova
ed.
Skira,
Ginevra-Milano
1976.
[6] 
Ibid.,
p. 12:
«Le
radici
di tutto
questo
sono
antiche;
ma
volendo
riferirsi
a
vicende
del
nostro
stesso
secolo,
non si
possono
certo
escludere
in primo
luogo
quell’Espressionismo
che
ribolliva
al di là
del
Reno, né
il
Dadaismo,
il
Surrealismo
o Artaud
col suo
Teatro
della
Crudeltà
(si
guardi
alle
foto di
Egon
Schiele,
all’acconciatura
e alla
tonsura
di
Marcel
Duchamp
e, più
vicini a
noi,
agli
stessi
interventi
di Piero
Manzoni
e Yves
Klein…)».
[7] 
Ibid.,
p. 7.
[8] 
J.-B. Du
Bos,
Réflections
critiques
sur la
poésie
et sur
la
peinture
(1719);
ed. it.
Riflessioni
critiche
sulla
poesia e
la
pittura,
a cura
di M.
Mazzocut-Mis,
P.
Vincenzi,
con
prefazione
di E.
Franzini,
Aesthetica,
Palermo
2005, p.
40.
[9] 
J.G.
Herder,
Der
Plastik
(1778);
trad.
it.
Plastica,
a cura
di S.
Tedesco
e D. Di
Maio,
Aesthetica,
Palermo
2010, p.
39.
[10]
L.
Vergine,
Il
corpo
come
linguaggio…,
p. 8.
[11]
Per le
implicazioni
“estetiche”
delle
teorie
sadiane
in
ordine
ad arte
e
crimine,
mi
permetto
di
rimandare
a F. P.
Campione,
Per
un’estetica
del
crimine:
da Sade
a
Lombroso,
in
Premio
Nuova
Estetica,
“Aesthetica
Preprint
-
Supplementa”,
23,
aprile
2009,
pp.
65-90.
[12]
Tra gli
artefici
della
riscoperta
de Sade
agli
inizi
del XX
secolo,
oltre a
Guillaume
Apollinaire
(che ne
1909
aveva
curato
l’edizione
de
L’Oeuvre
du
marquis
de Sade
nella
collana
“Les
Maitres
de l’Amour”,
coniando
la
formula
fortunata
di
Divino
Marchese),
è
necessario
rammentare
almeno
Andrè
Breton.
Nel
Secondo
Manifesto
del
Surrealismo,
lo
scrittore
francese
aveva di
fatto
identificato
Sade
quale
progenitore
del
Movimento
per la
sua
volontà
di
abbattere
il tabù
della
morale
tradizionale.
Per la
rivalutazione
di Sade
in seno
al
Surrealismo,
cfr. I.
Margoni
(a cura
di),
Breton e
il
Surrealismo,
Mondadori,
Milano
1976, p.
468.
[13]
Per
queste
considerazioni,
è utile
consultare
M.
Mazzocut-Mis,
Rappresentare
il
limite,
in Ead.,
Il
senso
del
limite.
Il
dolore,
l’eccesso,
l’osceno,
Le
Monnier,
Firenze-Milano
2009,
pp.
134-81,
soprattutto
§ V.
[14]
L.
Vergine,
Body
art e
storie
simili…,
p. 176.
[15]
Per
questi
aspetti
è utile
consultare
A.
Julius,
Trasgressioni.
I colpi
proibiti
dell’arte,
Bruno
Mondadori,
Milano
2003 (si
veda
soprattutto
il
paragrafo
intitolato
La
violazione
dei tabù,
pp.
143-87).
[16]
Aristotele,
Poetica,
1448b
10:
«Prova
ne è
quel che
accade
in
pratica,
giacché
cose che
vediamo
con
disgusto
le
guardiamo
invece
con
piacere
nelle
immagini
quanto
più
siano
rese con
esattezza,
come ad
esempio
le forme
delle
bestie
più
ripugnanti
e dei
cadaveri»;
1453b
5-10:
«Quanto
poi a
quelli
che per
mezzo
della
messa in
scena
procurano
non il
terrore,
ma ciò
che è
soltanto
mostruoso,
questi
non
hanno
niente a
che fare
con la
tragedia».
[17]
E.
Burke,
A
Philosophical
Inquiry
into the
Origin
of Our
Ideas of
The
Sublime
and
Beautiful,
1757-1759;
ed. it.
Inchiesta
sul
Bello e
il
Sublime,
a cura
di G.
Sertoli,
G.
Miglietta,
Palermo
2006,
pp.
70-71:
«Le
passioni
che
riguardano
l’autopreservazione
si
riferiscono
per lo
più al
dolore
e al
pericolo.
Le idee
di
dolore,
malattia,
morte,
riempiono
la mente
di forti
emozioni
di
orrore;
ma le
idee di
vita
e di
salute,
sebbene
ci
mettano
in grado
di
provare
piacere,
non
producono
col
semplice
godimento
altrettanta
impressione.
Le
passioni
quindi
che
riguardano
la
preservazione
dell’individuo
si
riferiscono
principalmente
al
dolore o
al
pericolosee
sono le
più
forti di
tutte le
passioni».
[18]
L.
Vergine,
Body
art e
storie
simili…,
p. 38.
[19]
The
Artist’s
Body,
a cura
di T.
Warr,
con un
saggio
di A.
Jones,
Phaidon,
London
2000, p.
92.
[20]
C.
Lombroso,
L’uomo
delinquente,
Hoepli,
Milano
1876, p.
XV.
[21]
M.
Horkheimer,
Th. W.
Adorno,
Excursus
II.
Juliette,
o
illuminismo
e morale
(1944),
in Id.,
Dialettica
dell’illuminismo,
trad. it.
a cura
di R.
Solmi
con
introduz.
di C.
Galli,
Torino,
Einaudi,
20064,
pp.
87-125,
qui p.
100
(cit.
leggermente
adattata).
[22]
E. Kris,
Ricerche
psicoanalitiche
sull’arte
(1952),
trad. it.
a cura
di E.
Fachinelli,
Einaudi,
Torino
1988, p.
54.
[23]
Tale
definizione
era
stata
formulta
da Paul
Briquet
nella
sua
opera
considerata
fondativa
della
patologia
isterica,
il
Traité
clinique
et
thérapeutique
de l’hystérie,
Baillière,
Paris
1859,
pp. 161
e sgg.
[24]
G.
Didi-Huberman,
L’image
ouverte.
Motifs
de l’incarnation
dans les
arts
visuels,
Gallimard,
Paris
2007;
trad. it.
a cura
di M.
Grazioli,
L’immagine
aperta.
Motivi
dell’incarnazione
nelle
arti
visive,
Bruno
Mondadori,
Milano
2008. Il
capitolo
in
questione
(pp.
211-37)
è
intitolato
Il
sangue,
il
senso,
la
sentenza.
Una
breve
storia
del
“corpo-cliché”.
[25]
Ibid.,
p. 217.
[26]
É.
ChÂtelain,
Pseudo-urticaire
dermographique,
in
“Journal
des
maladies
cutanées
et
syphilitiques»,
III,
1891,
pp.
547-55
(ivi,
pp. 222
e 291,
n. 47).
[27]
Per
questo
particolare
aspetto
della
“produzione”
di Piero
Manzoni,
cfr. G.
Celant,
Piero
Manzoni.
Catalogo
generale,
Prearo,
Milano
1975, p.
56; cfr.
anche E.
Grazioli,
Piero
Manzoni,
Bollati
Boringhieri,
Milano
2007,
pp.
113-17 (Le
sculture
viventi).
[28]
Per
Madame
Orlan (Mireille
Suzanne
Francette
Porte,
Saint-Étienne,
1947), è
utile
consultare
in
ultimo
Orlan.
A Hybrid
Body of
Artworks,
a cura
di S.
Donger,
S.
Sheperd,
Routledge
Editions,
London
2010.
Il
sito
http://www.orlan.net/
offre
una
panoramica
continuamente
aggiornata
della
sua
produzione
artistica.
[29]
L’intervista,
rilasciata
il 10
maggio
1999, è
consultabile
su
http://www.repubblica.it/online/internet/
Media-
mente/orlan/orlan.html
[30]
Per
questi
aspetti,
cfr. R.
Marchesini,
Post-Human.
Verso
nuovi
modelli
di
esistenza,
Bollati
Boringhieri,
Milano
2002.